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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 29 settembre 2014

Francia: nuova offensiva nel Sahel

Domenica 12 luglio, il Ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha ufficializzato la decisione del Governo di lanciare una nuova operazione antiterrorismo nella fascia del Sahel in sostituzione della missione Serval, avviata nel gennaio 2013 per supportare l’Esercito del Mali nella lotta all’insorgenza jihadista nel nord del Paese. La nuova missione, denominata “Operazione Barkhane”, intende costituire uno strumento di più ampio contrasto al terrorismo e all’instabilità regionale e potrà contare su un notevole dispiegamento di uomini e mezzi (3000 soldati, 200 blindati, 20 elicotteri, 10 aerei da trasporto tattico, 6 caccia e 3 droni da ricognizione) in partenariato con i Paesi della regione. Infatti, i militari francesi, che opereranno dalle basi di Niamey in Niger e N’Djamena in Ciad, affiancheranno gli Eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Risulta particolarmente rilevante come, nonostante il quartier generale del “operazione Barkhane”! sia stato istituito a N’Djamena, l’Eliseo abbia mantenuto la maggioranza delle proprie forze (1000 soldati) a Gao, nel nord del Mali, dando un forte segnale di continuità nel sostegno militare e politico a Bamako, soprattutto in vista dell’accordo militare tra i due Paesi che potrebbe concedere a Parigi la base settentrionale di Tessalit, punto strategico di controllo per l’Africa nord-occidentale. In questa prospettiva, il rinnovato impegno francese potrebbe essere volto a riconfermare il suo ruolo centrale nello scacchiere africano e a dissipare le critiche interne riguardo al disinteresse della classe dirigente nei confronti delle ex-colonie e della minaccia terroristica fuori dai confini nazionali. A questo proposito, un intervento ad ampio spettro per stabilizzare la fascia sahelo-sahariana si è reso necessario soprattutto alla luce degli effetti della crisi maliana del 2012. Infatti, benché in maniera latente, l’insorgenza dei Tuareg e delle organizzazioni ! jihadiste affiliate ad Al-Qaeda continua ad andare avanti, come testimoniato dai recenti attacchi suicidi a Gao e Kidal. In questo senso, i costanti rischi di radicalizzazione salafita dei gruppi ribelli rappresenta una seria minaccia per la sicurezza dell’intera regione, già affetta dai fenomeni dei traffici illeciti e della criminalità organizzata difficilmente arginabili dai governi locali.

Fonte CESI News letters 152

martedì 23 settembre 2014

La debolezza dell'Europa: la frammentazione degli Stati e il rischio di medievalizzazione

Referendum in Scozia
Regno dis-Unito?
David Ellwood
16/09/2014
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L’intensità della partecipazione popolare al referendum sull’indipendenza scozzese è mostrata dalla percentuale di persone che si è iscritta alle liste per partecipare al voto: il 97%. Il già caldo dibattito è diventato scottante il 7 settembre, quando un sondaggio ha mostrato il sorpasso degli indipendentisti sul fronte degli unionisti.

Il potere politico a Westminster si è finalmente svegliato: il rischio che il vecchio, glorioso Regno Unito potesse sciogliersi da un giorno all’altro è diventato improvvisamente una minaccia immensa. Per Lord Robertson, scozzese, laburista, ex- segretario generale della Nato, sarebbe un ‘cataclisma’.

Se Salmond polverizza le previsioni di Cameron
Due fattori contingenti hanno prodotto questa situazione. Nel 2011 il Partito nazionale scozzese (Snp) ha ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni al Parlamento scozzese.

Il sistema elettorale misto inventato nell’occasione della rinascita di questo parlamento nel 1999 avrebbe dovuto rendere impossibile un risultato del genere. Il trionfo del leader nazionalista Alex Salmond, che si è impegnato formalmente nella campagna elettorale ad indire un referendum sull’indipendenza, ha invece reso quasi inevitabile la prova che ora incombe.

Ma nel sottoporre a Londra la sua richiesta formale di consultazione popolare, Salmond aveva lasciato aperto la possibilità di una terza opzione oltre il secco “si’ o ‘no’, cioè una radicale spinta verso la devolution dei poteri dello stato di Westminster a favore della Scozia.

Il primo ministro inglese David Cameron ha però respinto questa ‘terza via’, convinto che il ‘no’ avrebbe trionfato facilmente e la presunzione scozzese sarebbe stata umiliata dagli elettori. La campagna di Salmond, il più abile operatore politico del Regno, ha invece polverizzato questa illusione.

Le origini dell’onda separatista
In realtà l’onda separatista che sostiene il ‘sì’ è profonda e popolare. Anche se dovesse vincere il ‘no’, questa non si spegnerebbe. Solo un establishment politico e mediatico così concentrato su se stesso come quello londinese ha potuto non accorgersene fino all’ultimo momento.

Come generale reazione alle forze scatenate dalla globalizzazione, il separatismo è di moda nel mondo, non solo in Europa. La Londra che negli anni della Thatcher ha inventato la liberalizzazione dei mercati finanziari, il meccanismo scatenante della globalizzazione, non ha voluto rendersi conto che per questa rivoluzione ci sarebbe stato un prezzo da pagare in casa propria.

Più che ogni parte della Regno, gli scozzesi non hanno accettato l’idea del libero mercato come dogma, del ‘privato=bene, pubblico=male’ applicato a ogni possibile funzione pubblica, una tendenza che loro hanno associato con il thatcherismo in tutte le sue forme.

Il declino del laburismo versione Tony Blair - così affascinato dai successi da lady di ferro - ha lasciato ampio spazio politico al Snp, che in realtà si presenta assai simile al vecchio laburismo: statalista, welfarista, verticistica. Un laburismo senza sindacati o passato operaio, inter-classista. E come il laburismo vecchio e nuovo, condivide l’allergia alle idee. Un rifiuto sì delle ideologie, ma anche di qualsiasi discussione concettuale o di cultura politica.

Il risultato si è visto nell’intensissimo, ma poverissimo dibattito della campagna elettorale referendaria che si è concentrato sul destino delle pensioni, dei posti di lavoro, del sistema sanitario, della moneta e del petrolio del Mare del nord.

Nessuna discussione ha toccato il rapporto stato-mercato, la globalizzazione, l’Europa, la geopolitica e la struttura di un’economia in cui dominano banche e imprese finanziari, comprese la Royal Bank of Scotland e la Bank of Scotland - che tanto hanno contribuito alla grande crisi del 2008.

La strategia della paura 
Alla fine, sono scesi in campo anche i grandi delle banche, delle compagnie di assicurazione, delle grandi catene dei supermercati che si sono uniti nel mettere in guardia gli scozzesi contro i rischi di fuga dei capitali e delle imprese medesime, dei probabili aumenti dei prezzi, dell’impossibilità per un piccolo paese di chiedere il divorzio pur mantenendo tutti i vantaggi del matrimonio, compreso il conto insieme in banca. Il fronte del ‘sì’ ha parlato di ‘una strategia della paura’.

Intanto il governo di Londra, con le spalle al muro, ha cominciato a parlare più precisamente dei poteri che potrebbe spostare verso Edimburgo dopo il voto. Questo discorso si è sentito solo dopo la deposizione dei primi voti, quelli espressi per posta.

Vittoria di Pirro degli unionisti
Il progetto dell’indipendenza probabilmente non trionferà. Quella del no, sarà però una vittoria di Pirro. Devasterà il partito laburista - che si è scisso in Scozia sulla questione separatista - indebolirà la coalizione conservatrice-liberali a Westminster, e rafforzerà l’ascesa dell’Ukip, il partito populista che vuole l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

I separatisti non hanno però espresso una classe dirigente capace di portare avanti per anni un negoziato di divorzio complicatissimo con un avversario agguerrito, e allo stesso tempo ricostruire l’economia e il sistema finanziario, dotandosi di un sistema di difesa alternativo, un ruolo nell’Unione europea e nella Nato. Non sembrano rendersi conto che il mondo delle relazioni internazionali è brutalmente gerarchico e che le piccole nazioni vengono progressivamente marginalizzate e provincializzate.

Il confronto ha aperto una discussione più generale sul funzionamento della democrazia in Gran Bretagna a livello locale. Questo è il frutto più positivo della vicenda. Per il resto, anni di sussulti e confusione sembrano attendere il disorientato elettore delle isole britanniche, così allergico a discussioni politiche di prospettiva.

David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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lunedì 22 settembre 2014

Mogherini: prontezza e coraggio

Mogherini Alto Rappresentante
Iniziativa politica e riforme istituzionali
Gianni Bonvicini
01/09/2014
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Nella conferenza stampa di debutto come nuova Alto Rappresentante dell’Unione europea (Ue), Federica Mogherini ha subito riconosciuto che il compito che l’aspetta è “immane”.

Ed in effetti ha tutte le ragioni per essere preoccupata, sia per quanto riguarda l’incarico in sé, sia per la drammaticità dell’arco di crisi che minaccia l’Unione da Est a Sud.

I poteri e il peso dei veti nazionali
L’incarico innanzitutto. A leggere le carte, o meglio il Trattato di Lisbona, l’Alto Rappresentante, come è ormai noto a tutti, ha compiti tutt’altro che secondari.

È a capo della politica estera dell’Ue, presiede il Consiglio Affari esteri (eccezione rispetto alle presidenze a turno semestrali degli altri Consigli), è Vicepresidente della Commissione e coordina i commissari con portafogli economici esterni e, per finire, “comanda” le missioni civili e militari nel mondo e presiede l’Agenzia europea di Difesa.

Insomma, una specie di ministro degli Esteri e della Difesa messi assieme. In termini di poteri formali fa quasi concorrenza al Presidente della Commissione e, come lui, ha a propria disposizione un servizio “diplomatico” autonomo di oltre tremila addetti, con un bilancio dedicato.

Ma allora dove sta la supposta ininfluenza di questo incarico? In effetti l’inghippo esiste e si riassume nella necessità di fatto di raggiungere l’accordo di tutti i 28 paesi membri per potere agire e prendere iniziative in nome dell’Ue.

Continua cioè a sussistere quel diritto di veto, che non vale per altre materie comunitarie: nel campo della politica estera, dalla piccola Lettonia alla Gran Bretagna, ciascun paese può bloccare tutto e tutti, invocando un interesse nazionale vitale.

Basta anche qui leggere il Trattato di Lisbona: al punto 2, ultimo comma, dell’art. 31, che prevede per le azioni comuni il ricorso automatico al voto a maggioranza qualificata, si recita infatti che per vitali motivi di politica nazionale un paese membro può bloccare la decisione. Vecchio retaggio delle resistenze nazionali a rendere davvero integrata la politica estera.

È quindi evidente che l’Alto Rappresentante si trovi costantemente in una posizione subordinata rispetto a tutti i paesi, piccoli o grandi che siano. A perderne è la credibilità ed efficacia della politica estera europea.

È necessario un grande disegno
Sul piano sostanziale poi, non vi è dubbio che i temi della politica estera e di sicurezza diventino di giorno in giorno più pressanti e l’Ue non potrà sopravvivere a lungo se si limiterà ad integrare economia e moneta e non punterà a diventare anche un attore internazionale a tutto tondo.

Va quindi colta la sfida, sotto la pressione delle crisi esterne all’Ue, di rendere più “comunitaria” anche la politica estera, sfida che è nelle corde psicologiche di Matteo Renzi e, immaginiamo, di Federica Mogherini.

Per di più, l’Italia ha l’impellente necessità di spingere l’Unione ad occuparsi direttamente del Mediterraneo e del Medio Oriente, dove la situazione è ormai esplosiva e si intravvedono i segnali di quella che Papa Francesco definisce una Terza Guerra Mondiale per capitoli successivi.

È evidente che anche il fronte Est, Ucraina in testa, sono di vitale importanza per l’Ue: ma non vi è dubbio che da parte europea si noti ancora una notevole riluttanza ad occuparsi della sponda Sud. Lo si vede in modo evidente nel campo dell’immigrazione.

Prontezza e coraggio
Di qui le ragioni della carta Mogherini, segno anche di un rinnovamento generazionale e di classe politica, giocata dal nostro premier con audacia contro il parere dei più.

Ma proprio per questo, adesso, la nostra nuova Alto Rappresentante dovrà dare il meglio di sé: agire con rapidità, costruirsi le necessarie alleanze all’interno dell’Ue, utilizzare al meglio il servizio diplomatico e il modesto bilancio a disposizione (330 milioni di euro all’anno, un’inezia), intuire per tempo l’insorgere delle crisi e anticipare i leader europei nell’azione. Infine, occuparsi anche di politica di difesa e dello sviluppo di strumenti militari comuni.

Insomma, fare esattamente l’opposto della Baronessa Catherine Ashton, che l’ha preceduta in questo incarico, scomparendo tuttavia nel gorgo delle crisi ucraine e dello Stato Islamico.

Ce la farà Federica Mogherini? Ha avuto il coraggio di accettare un incarico “impossibile”, ma dovrà dimostrare, oltre al coraggio, una visione strategica degli interessi vitali dell’Unione nel mondo.

Allo stesso tempo, per rendere credibile il suo compito, non potrà sottrarsi dal sollevare anche la questione di una parziale revisione del Trattato per eliminare il diritto di veto. Politiche, quindi, ma anche riforme istituzionali: più o meno la stessa agenda che Renzi cerca di far passare in Italia.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.
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Comunità Europea: una politica estera forse più incisiva

Mogherini Alto Rappresentante
Una nomina ricca di potenzialità
Jean-Pierre Darnis
01/09/2014
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È stata una logica intergovernativa e di equilibrio fra le forze politiche europee che ha prevalso nella nomina di Federica Mogherini come Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione europea (Ue).

Il governo Renzi ha saputo manovrare con abilità ed è riuscito ad andare fino in fondo, superando opposizioni e resistenze non trascurabili. Si è trattato indubbiamente di un’operazione politica andata a buon fine grazie soprattutto alla Presidenza del Consiglio.

In questo quadro non va sottovalutata la personalità di Federica Mogherini, una donna giovane e seria, che risponde bene al desiderio di rinnovamento della politica italiana ed europea.

La Mogherini può infatti vantare buoni studi in campo internazionale e una lunga esperienza nella politica internazionale del Partito Democratico e. Né va sottovalutata la sua pur breve esperienza alla Farnesina.

Una visione molto italiana
Bisogna ricordare che la crisi ucraina è esplosa in concomitanza con la nomina del governo Renzi: Federica Mogherini si è subito trovata a dover gestire una grave crisi diplomatica, a cui si sono aggiunti altri focolai, come la Siria, l’Iraq, la striscia di Gaza e la Libia.

La posizione della Mogherini sulla crisi ucraina è stata spesso criticata dai falchi europei, perché ritenuta troppo tenera nei confronti di Mosca. Tuttavia, Mogherini non ha fatto altro che esprimere una constituency italiana molto attenta a mantenere i canali diplomatici con Mosca in nome del realismo interno (i molteplici interessi economici italiani) e di una visione ampia del quadro di sicurezza nel Medioriente nel quale la Russia è considerata un interlocutore imprescindibile, in particolare per i rapporti con la Siria e l’Iran.

Si tratta di una posizione di apertura cui si sono attenuti anche i precedenti governi. Va inoltre considerato che l’Italia, anche per motivi legati alla sua costituzione, è tradizionalmente restia all’uso della forza.

Un ruolo in rapida crescita
Federica Mogherini ha poi usato il turno di presidenza italiana dell’Unione con grande attivismo diplomatico, al punto da far riunire un Consiglio Ue il giorno di ferragosto per adottare una posizione comune sull’invio di armi ai curdi iracheni.

La dichiarazione comune, che accoglie in modo positivo la fornitura di armi da parte di alcuni stati membri, è stata un imprimatur europeo a decisioni nazionali piuttosto che una decisione unica.

Successivamente Federica Mogherini è riuscita, insieme alla collega della Difesa Roberta Pinotti, a gestire la decisione italiana relativa all’invio delle armi in seguito ad un voto delle Commissioni Difesa e Esteri del parlamento riunitesi pochi giorni dopo.

Nel dibattito in parlamento, ha saputo rappresentare con trasparenza ed equilibrio la posizione italiana in materia di difesa, rispettando in tal modo la natura parlamentare della democrazia italiana e permettendo anche ai pacifisti di esprimersi.

La decisione di inviare armi ai curdi mette l’Italia sullo stesso piano di Francia e Regno Unito. Il mandato della Mogherini agli Esteri è andato quindi crescendo.

Molti sono quelli che rimproverano al futuro Alto Rappresentante la sua poca esperienza, ma un’osservazione attenta mostra un percorso in netta crescita, situazione ben diversa da quella dell’attuale alto rappresentante, Catherine Ashton, quando fu nominata.

La nomina di un ministro degli esteri giovane e in grande consonanza con l’attuale maggioranza rappresenta anche un’ulteriore opportunità per l’Italia: la Mogherini non è un “grande vecchio” che viene premiato dopo una lunga carriera nazionale con un posto a Bruxelles.

Ha una carriera di fronte a sé, e rimarrà senz’altro attiva nel gioco politico italiano. Questo ne fa potenzialmente un interlocutore privilegiato per la politica nazionale, in grado di portare l’agenda italiana in Europa e assicurarne una maggiore europeizzazione.

Un futuro di mediazioni
La politica estera italiana, che insiste sulla diplomazia e sulla prevenzione, rappresenta spesso un denominatore comune accettabile dall’insieme degli stati membri, nonostante non sia sempre stata valorizzata al meglio, vittima a volte di una relativa instabilità o debolezza degli esecutivi.

Un Alto Rappresentante italiano che rimarrà in carica per cinque anni può servire da utile punto di riferimento alla politica estera italiana, già di per sé euro-compatibile.

Si possono produrre sinergie con altri stati membri, data anche la specifica sensibilità dell’Italia per i problemi della sponda sud e del Mediterraneo.

Certamente, l’Alto Rappresentante ha poteri limitati e non può essere attualmente paragonato a un vero e proprio leader in grado da solo di imporre decisioni politico-militari di rilievo, rimanendo i governi nazionali gelosamente custodi delle loro prerogative sovrane.

Se considerate nell’ambito di un ruolo diplomatico, le capacità di dialogo di Federica Mogherini, nonché la sua presenza nell’insieme di dossier rilevanti, possono certamente alzare il livello di rappresentanza dell’Unione, con ovvio beneficio anche per l’Italia.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e vice direttore dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
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NATO: altri venti anni di vita

Summit di South Wales 
L’Alleanza Atlantica pensa al suo futuro a South Wales
Mario Arpino
30/08/2014
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Il vertice Nato di Newport - che tra gli addetti ai lavori va ormai sotto il nome di South Wales Summit - è alle porte. Dal 4 al 5 settembre l’Alleanza riunirà per il suo 25° vertice plenario i Capi di stato e di governo dei 28 paesi membri.

In realtà le dimensioni saranno molto più ampie, essendo invitati tutti i partner Nato e tutti i paesi che hanno fornito un contributo in Afghanistan. Avrà regolarmente luogo anche il vertice Nato-Ucraina, mentre quello Nato-Russia - come già concordato tra i ministri nella riunione preparatoria - al momento resta ancora sospeso.

Ma non è da escludere che la “diplomazia segreta” ci riservi qualche gradita sorpresa. Saranno quindi presenti una sessantina di massime cariche. Il premier inglese David Cameron, che con il segretario generale uscente Rasmussen - appositamente prorogato - fungerà da padrone di casa, ha annunciato orgoglioso che “… sarà la più alta concentrazione di leader mondiali che abbia mai avuto luogo in Gran Bretagna”.

Investire nella Difesa
Di questo vertice sinora in Italia non se ne è quasi parlato, presi come siamo dagli affanni del “nostro” semestre europeo. Eppure, potrebbero esserci richiesti impegni cruciali. Tra l’altro, si parlerà di migliorare le sinergie tra Nato e Unione europea (Ue). Nell’attuale posizione dovremo esprimerci positivamente e in concreto, sebbene sia arcinoto come in Italia la politica preferisca lasciare accuratamente sotto traccia ogni evento che abbia connessione con armi e cose militari.

Tra i vari argomenti, infatti, c’è anche la discussione di un Piano di prontezza operativa (readiness plan) che - lo ha ricordato Rasmussen al presidente Usa Barack Obama nei recenti colloqui alla Casa Bianca - richiederà ulteriori risorse. In buona sostanza, ai 28 verrà richiesto l’impegno di invertire la rotta in termini di investimenti nella Difesa.

In qualche modo, dovremo dare una qualche assicurazione anche noi: l’impegno richiesto sarà dell’ordine del 2% del Pil, mentre noi spendiamo per la Difesa circa l’0,8% , con tentativi in atto di ulteriore erosione.

Il tema del summit è “Il futuro della Nato”, ma è ovvio che i due argomenti che si ruberanno la scena saranno il nuovo rapporto con la Russia e le problematiche connesse al ritiro della missione Isaf dall’Afghanistan, inclusa la fase di addestramento e supporto post-2015.

Al momento non c’è una reale identità di vedute e si prevede che gli sherpa dovranno applicarsi in un duro esercizio per redigere qualcosa che sia allo stesso tempo incisivo, accettabile e politicamente decente.

C’è poi in agenda la guerra cibernetica, ma dopo le recenti ed irrisolte tensioni tra Usa e Germania se ne parlerà sottotono.

Rapporto Nato-Russia
Ai summit, almeno nei principi, tutto è già concordato. Ma, con i dovuti riguardi, questa volta sarà bene leggere il comunicato finale con perspicace attenzione in tutte le sue sfumature. Saranno tante. Per l’argomento Russia, ci saranno da tenere a bada le insofferenze dei paesi Nato dell’est che temono per la loro sicurezza e chiedono azioni risolutive.

Questo andrà contemperato con i timori di chi, pur deplorando, teme di compromettere troppo le relazioni, pregiudicando così il proprio bilancio energetico. Gli Stati Uniti - ma ormai abbiamo capito che questo è l’atteggiamento obamiano - oscillano tra minacce verbali e incertezza reale, lasciando un po’ tutti in posizione di attesa. In effetti, non ci siamo ancora svezzati e fatichiamo a fare a meno della loro leadership.

Afghanistan dopo Isaf
In Afghanistan, la situazione post-elettorale non ha fatto chiarezza: l’accordo per le basi e quello per le immunità non sono stati firmati, impedendo, almeno sino a oggi, decisioni esecutive. Alcuni nicchiano, ma l’impegno sarà di procedere comunque con la pianificazione e questo, rimanendo nel campo dei propositi, non dovrebbe creare eccessivi punti di attrito.

Le aspettative di questo vertice sono molte, ma è bene non crederci troppo. In fondo, tutti i vertici sono un po’ deludenti. In una situazione così fluida, solo il Galles può davvero permettersi aspettative concrete. La stima del volume di affari per lo sviluppo dell’economia regionale, soprattutto in termini di pubblicità per il turismo, oggi è già l’argomento di maggiore evidenza sulla stampa locale.

Ma un prezzo da pagare c’è: Pippa Bartolotti (nome italiano, ma cittadinanza britannica), storica leader del Wales Green Party, si propone di porre sotto assedio il Celtic Manor Resort, la prestigiosa sede del summit. Ci riuscirà? Per ora, ha già annunciato l’arrivo da ogni dove di un variopinto esercito di 20 mila pacifisti, tutti doc.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Ucraina: trovare una soluzione alternativa alla guerra

Ucraina e Russia, prove di dialogo
Ultima chance per Mosca e Kiev
Giovanna De Maio
28/08/2014
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“Le sorti del mondo e dell’Europa si decidono a Minsk oggi”, così ha esordito il presidente ucraino Petro Poroshenko a Minsk, stringendo la mano al suo omologo russo Vladimir Putin, in occasione del vertice sull’unione doganale (Russia, Bielorussia, Kazakhstan).

Intanto l’est dell’Ucraina versa nel caos più completo. Blindati russi carichi, sulla carta, di aiuti umanitari, hanno varcato il confine tra i due Paesi e hanno fatto gridare all’invasore, mentre dieci paracadutisti russi avrebbero sconfinato “per errore” e sono stati catturati a sud di Donetsk.

Tra gli ospiti del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, anche l’alto rappresentante per la politica estera europea Catherine Ashton, e i commissari europei per il commercio e per l’energia, a significare l’importanza delle questioni da discutere. Sul tavolo delle trattative, dunque, non solo la disperata ricerca di una soluzione alla tragedia umanitaria dell’est ucraino, ma anche i futuri sviluppi commerciali e l’approvvigionamento energetico.

Il fronte economico
Secondo le preoccupate stime di Putin, l’accordo Ue-Ucraina costerà a Mosca oltre 2 miliardi di euro, pertanto si renderanno necessarie delle misure per tutelare l’ economia e il mercato del lavoro russi.

Se da un lato l’Ue ha promesso 500 milioni di euro per la ricostruzione della regione del Donbass, quella più colpita dagli scontri, dall’altro ha preventivamente scongiurato l’imposizione di ulteriori sanzioni per la Russia, e le ragioni appaiono chiare. Bruxelles ha deciso di colpire il settore finanziario e della difesa; la Russia, che per anni è stata il maggiore importatore di cibo, prodotti agricoli e materie prime, ha risposto con la messa al bando dei prodotti europei.

Le previsioni delle ripercussioni di queste misure sul Pil russo e sul potere di acquisto dei cittadini non sono confortanti. Analogamente l’Europa, in questa delicatissima contingenza economica, di certo non può permettersi di perdere uno dei maggiori partner commerciali e soprattutto energetici. Se Kiev decidesse di bloccare il transito del gas russo verso l’Europa, anche l’Ue dovrebbe rinegoziare con Gazprom i contratti di fornitura.

L’atteggiamento conciliante del presidente russo ha contribuito alla riapertura delle trattative sul prezzo del gas con Kiev, bloccate da giugno, e alla ricerca di una soluzione per uno spazio economico da Lisbona a Vladivostok, che implichi la compatibilità tra l’accordo di associazione con l’Ue e la collaborazione con l’unione euroasiatica.

Nel 2013 il 23,8% delle esportazioni ucraine si è diretto verso la Russia, pertanto, nel calcolo dei costi-benefici dell’accordo di associazione, vanno considerate anche le perdite che deriverebbero da un ulteriore raffreddamento nei rapporti con Mosca.

Uscire con dignità - e la Nato lancia la sfida
Tutti gli attori della crisi ucraina vogliono uscirne con dignità - afferma Petro Poroshenko - che propone varie exit strategy, nessuna delle quali, però, prescinde dalla stabilizzazione del confine con la Russia, sorvegliato dagli osservatori internazionali dell’Osce, e il rilascio degli ostaggi.

Putin e Poroshenko concordano sulla necessità di fermare il bagno di sangue e di inviare aiuti umanitari, ma l’intromissione della Nato non faciliterà le cose.

Il segretario dell’alleanza, Andres Fogh Rasmussen, ha annunciato l’adozione di un Readiness Action Plan volto a fornire una reazione rapida a eventuali attacchi all’Europa orientale, oltre che al potenziamento della base di Stitchen in Polonia. Aggiungendo altra carne al fuoco, durante il prossimo vertice Nato di Newport (Galles), Rasmussen incontrerà Poroshenko per discutere un programma di modernizzazione della difesa ucraina.

Atteggiamenti bellicosi di questo tipo non contribuiscono a una soluzione pacifica della crisi, anzi rischiano di ostacolare il difficile cammino diplomatico che s’interpone tra i due Paesi che passa necessariamente per la stabilizzazione del confine, per la ridefinizione degli accordi commerciali e soprattutto per le riforme costituzionali che possano tenere in considerazione le specificità delle regioni orientali.

Per quanto Poroshenko sia al momento in grado di rappresentare la maggioranza della popolazione ucraina, il pugno di ferro nelle regioni di confine potrebbe minare l’unità del Paese, la cui situazione economica è disastrosa. Le elezioni anticipate che si terranno in ottobre potrebbero portare al potere una coalizione di partiti che continuerà con la dialettica antirussa, e il rischio di una destabilizzazione politica nel momento post-elettorale non è da escludere.

Una via d’uscita sembra difficilmente prospettabile senza compromessi da entrambi i lati, come potrebbero essere il provvisorio accantonamento della questione della Crimea, e un cambio di atteggiamento di Mosca nei confronti di Kiev che, in un modo o nell’altro, è riuscita a dimostrare la volontà di affrancarsi dal tracciato ex-sovietico.

Il vertice di Minsk deve tuttavia far riflettere. Probabilmente se fossero stati evitati alcuni errori diplomatici, come il non aver coinvolto sin dall’inizio la Russia nelle negoziazioni per l’accordo di associazione, forse a Minsk tutto sarebbe stato più tranquillo e si sarebbe potuto parlare soltanto di Unione doganale.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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I primi passi di un Presidente non certo amato

Commissione europea
La ricetta di Juncker
Riccardo Perissich
12/09/2014
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Il nuovo presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker era atteso alla prova in un clima non favorevole: rottame del passato con una preoccupante propensione alla bottiglia, inaccettabile colpo di mano del Parlamento europeo, fantoccio di Angela e altro ancora.

Il risultato può sorprendere. Malgrado il malumore iniziale, i governi hanno fornito al neo-presidente dei nomi di peso, per la maggior parte politici di primo piano che rispecchiano bene il panorama politico europeo.

Con questa materia prima tra le mani, Juncker aveva due sfide: distribuire i portafogli e organizzare il collegio.

La squadra di Juncker
Sulla prima, anche i più scettici devono ammettere che il risultato è un’operazione abbastanza abile che risponde, oltre all’equilibrio fra nazionalità e colore politico, alla primordiale necessità di allocare le responsabilità a persone che per origine, formazione e convinzione hanno interesse a riuscire nel compito assegnato. La svedese Cecilia Malmstrom al commercio, la danese Margrethe Vestager alla concorrenza e il greco Dimitris Avramopulos all’immigrazione sono esempi pertinenti.

Il sapiente, per alcuni bizantino, equilibrio dei portafogli economici riflette con precisione gli interessi e le correnti di pensiero che agitano l’Europa. Non piacerà né ai falchi del rigore né ai fanatici del “cambiare verso”; è invece una soluzione realistica per un Europa che al massimo può (e deve) correggere la direzione e la velocità di crociera.

Ho sempre pensato che affidare al francese Pierre Moscovici il difficile compito di dialogare con Parigi sarebbe stata una mossa abile, ma che allo stesso tempo non era possibile lasciargli la mano completamente libera.

La stessa decisione di affidare all’inglese Jonathan Hill i mercati finanziari, oltre a essere un necessario gesto nei confronti della Gran Bretagna, può anche condurre a una correzione di rotta rispetto a una regolamentazione finora troppo attenta agli interessi delle banche continentali. Ciò a patto (ed è un grosso interrogativo) che il nuovo Commissario sia cosciente che il suo ruolo non è quello di semplice emissario del governo britannico.

Una commissione di cluster 
La seconda sfida era molto più ardua. A norma di trattato, la Commissione è un organo collegiale. Gli ultimi allargamenti ne hanno aumentato a dismisura il numero dei membri mentre quello delle competenze vere non è cresciuto di molto. La soluzione sarebbe stata di ridurre drasticamente il numero dei Commissari. Non è stato fatto per motivi noti.

Il risultato è un collegio sempre più incoerente e frammentato, incapace di esprimere una strategia d’insieme. Ciò ha condotto anche alla patologica esplosione d’iniziative velleitarie e spesso contraddittorie, per lo più prive di risultati concreti, che hanno invece creato aspettative deluse e timori irrazionali, entrambi ingiustificati.

Al contempo sono anche aumentati i poteri del Presidente; tuttavia i successori di Jacques Delors, per debolezza o disinteresse, si sono occupati più della loro immagine personale che del funzionamento del collegio. L’organizzazione proposta da Juncker tenta di mettere fine a questa situazione.

Poiché la malattia non è nuova, non è la prima volta che si tenta di istituire “gruppi di commissari”. Il risultato è sempre stato deludente perché i singoli non hanno mai accettato condizionamenti. Questa volta l’impegno sembra diverso. Juncker ha presentato la nuova organizzazione come il cardine di un disegno strategico e su ciò, per usare un italianismo, “si gioca la faccia”. Le lettere d’incarico che hanno accompagnato la designazione dei nuovi vice-presidenti configurano un coerente programma di governo.

Ovviamente la partita è aperta ed è impossibile fare previsioni. Molto si giocherà sul funzionamento del “cluster” economico e su quello delle relazioni internazionali sotto la responsabilità rispettivamente dell’olandese Frans Timmermans e di Federica Mogherini. Per quanto riguarda quest’ultima, fa bene a trasferire la sua sede operativa negli uffici della Commissione; premessa per por fine a una frammentazione assurda.

Organizzazione a matrici
Forse sarebbe stato bene avere un commissario per il Mediterraneo, ma avere unificato la politica di vicinato e l’allargamento è una buona cosa. Sulla carta i vice-presidenti detengono il principale potere, ma sarebbe un errore sottovalutare l’importanza del rapporto diretto che esiste fra i singoli Commissari e le direzioni generali che da loro dipendono.

Ciò che si configura si può apparentare a un’organizzazione matriciale; chiunque abbia esperienza di strutture complesse, pubbliche o private, sa quanto sia difficile separare la responsabilità funzionale da quella gerarchica. Alla fine, tutto dipenderà dalla leadership di Juncker e dal concreto gioco delle personalità.

Quelli che, come chi scrive, hanno approvato il metodo seguito per la designazione di Juncker speravano che potesse rappresentare un fattore per accrescere la legittimità politica della Commissione agli occhi dell’opinione pubblica. La composizione prevalentemente politica del collegio rafforza questo elemento.

La nuova organizzazione, se funzionerà, dovrebbe permettere di dissipare o almeno ridurre la percezione di frammentazione, burocrazia e incoerenza del passato. Per un’Europa che ha disperatamente bisogno di buone notizie, non è poco.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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Ancora difficoltà in economia

Banca centrale europea
Se Draghi porta la svolta a Francoforte
Lorenzo Bini Smaghi
12/09/2014
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Spingendo ulteriormente al ribasso i differenziali d’interesse sui titoli di stato e facendo deprezzare il cambio dell’euro, i mercati hanno reagito positivamente all’annuncio di Mario Draghi.

Il 4 settembre, il presidente della Banca centrale europea, Bce, ha reso nota l’intenzione della Banca di acquistare titoli privati per immettere maggiore liquidità nel sistema finanziario al fine di contrastare i rischi di deflazione.

Salute precaria per l’economia europea
La decisione della Bce riflette alcune importanti considerazioni.

Innanzitutto, le preoccupazioni riguardo lo stato di salute dell’economia europea sono aumentate. Già i dati pubblicati nel corso dell’estate avevano fatto emergere un rallentamento della crescita, non solo in Francia e in Italia, ma anche nelle economie più solide come quella tedesca.

Inoltre, il continuo calo dell’inflazione ha accentuato il rischio di una dinamica negativa dei prezzi, che nel caso si radicasse nelle aspettative degli operatori sarebbe poi molto difficile da invertire.

Peraltro, le aspettative di inflazione, calcolate sulla base di indicatori finanziari, hanno registrato un rapido deterioramento nel corso dell’estate, scendendo per la prima volta sotto la soglia del 2%.

Limiti dell’operazione di finanziamento del sistema bancario
In secondo luogo, le indicazioni provenienti dai mercati finanziari hanno fatto emergere il rischio che le misure annunciate prima dell’estate non avrebbero prodotto l’effetto desiderato.

L’operazione di finanziamento del sistema bancario, legato agli impieghi erogati al settore reale - il cosiddetto Tltro - presenta infatti caratteristiche molto simili alle operazioni precedenti, la cui efficacia dipende, in ultima istanza, dalla domanda da parte delle controparti bancarie.

Tuttavia, in una fase di rallentamento economico e di assestamento dei bilanci bancari in vista delle valutazioni che vengono effettuate dalla stessa Bce sull’adeguatezza del capitale, l’incentivo delle banche a chiedere nuovi finanziamenti rimane limitato. L’effetto della nuova misura rischia pertanto di essere contenuta nell’attuale contesto economico.

In questo caso, si rischierebbe di accentuare la tendenza alla riduzione della dimensione del bilancio della Bce, in atto dal 2012, per circa un trilione di euro. Per un certo periodo tale contrazione poteva essere spiegata come una minor dipendenza del sistema bancario, soprattutto nella periferia dell’area dell’euro, dal rifinanziamento diretto dalla Bce e un maggior ricorso al mercato interbancario.

Tuttavia, il calo continuo delle attività della Banca centrale ha messo in evidenza i limiti dello strumento fin qui usato per erogare liquidità.

Acquistando direttamente titoli sul mercato, la Bce modifica la composizione dell’attivo delle istituzioni finanziarie, aumentandone la liquidità detenuta con rendimento praticamente nullo.

In questo modo le istituzioni finanziarie sono incentivate a reinvestire tale liquidità in altre attività finanziarie, magari a tasso d’interesse più elevato, o a erogare nuovo credito. Questo tipo di intervento, usato già da altre banche centrali nei paesi avanzati, consente di ridurre i tassi d’interesse sui titoli più rischiosi e favorisce il credito emesso anche attraverso il canale non bancario.

Quali titoli acquistare?
La Bce ha annunciato che acquisterà titoli privati, di buona qualità. In altre parole, sono esclusi per ora i titoli di stato. Ancora non è chiaro quali titoli saranno acquistati, né la quantità.

Tuttavia Draghi ha fatto capire che l’obiettivo sarebbe quello di far tornare la base monetaria sui livelli del 2012, il che comporterebbe operazioni di acquisto per circa 1 trilione di euro. In ottobre, verranno date maggiori informazioni sul tipo di titoli che verranno acquistati.

Data la struttura del mercato finanziario europeo, la quantità di titoli privati disponibile sul mercato potrebbe non essere sufficiente per realizzare un tale incremento di liquidità. Cosa potrebbe succedere in quel caso?

Questa incertezza ha spinto alcuni membri del Comitato direttivo a chiedere che la decisione venisse rimandata a ottobre, quando saranno forniti maggiori elementi sulla tipologia di titoli da acquistare.

Si sarebbe capito allora se ci sono titoli privati a sufficienza e l’obiettivo quantitativo sarebbe stato definito su tale base. Ciò avrebbe così consentito di escludere in modo più chiaro la possibilità di acquistare titoli pubblici, come desiderano alcuni membri del Comitato direttivo della Bce.

Secondo questa tesi, infatti, l’acquisto di titoli di stato fa varcare alla politica monetaria la soglia che la separa dalla politica fiscale, con il rischio che, nel caso di ristrutturazione del debito, si generi una perdita per la Bce e di conseguenza una redistribuzione di risorse tra i suoi azionisti, ossia tra i vari paesi membri dell’unione monetaria.

Annunciando già da ora l’intenzione di acquistare titoli privati e indicando l’obiettivo di riportare la dimensione del bilancio della banca centrale sui livelli del 2012, viene lasciata aperta la possibilità di intervenire anche in titoli pubblici, se ciò si rivelasse necessario.

Il mercato ha interpretato molto positivamente questa opzione, anticipandone gli effetti e provocando un ulteriore calo dei rendimenti dei titoli pubblici e degli spread.

D’alta parte, la Bce non ha altra scelta. Il suo mandato, criticato da molti in passato, prevede un obiettivo principale, cioè la stabilità dei prezzi, definita come un tasso d’inflazione inferiore ma prossimo al 2%.

Con un dato ben inferiore all’1% e in calo negli ultimi mesi, la Bce rischia di essere criticata per non fare tutto il necessario per raggiungere il proprio mandato. Anche se la politica monetaria da sola non basta per riportare l’economia europea su un sentiero di crescita sostenibile, non raggiungere l’obiettivo di stabilità dei prezzi aumenta il rischio di avvitamento dell’economia europea, che peggiora l’occupazione e rende ancor più difficile la sostenibilità delle finanze pubbliche.

Discorso di Jackson Hole
Nel suo discorso di Jackson Hole, a fine agosto, Draghi aveva anticipato gli elementi principali di questa strategia, ma aveva anche chiarito che da sola la politica monetaria non basta. Sono necessarie anche politiche strutturali per aumentare il potenziale di crescita economico, soprattutto nei paesi che hanno perso competitività, e un aumento della domanda aggregata attraverso un migliore coordinamento delle politiche di bilancio.

Tuttavia, le politiche di bilancio rimangono competenza dei parlamenti e governi nazionali e possono difficilmente essere coordinate, anche per la differenza delle posizioni iniziali, e le riforme strutturali richiedono tempo e sono politicamente difficili da realizzare. Solo la politica monetaria ha ancora ampio spazio di manovra e può agire rapidamente. È ciò che avverrà nei prossimi mesi.

Lorenzo Bini Smaghi è presidente Snam e senior visiting fellow dello IAI.
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NATO. I DUE LIVELLI DI PARTECIPAZIONE

Summit di South Wales
Verso una Nato a due velocità
Vincenzo Camporini
08/09/2014
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Si è consumato ancora una volta il consueto rituale del vertice Nato, con risultati che non hanno sorpreso nessuno. Le conclusioni che si leggono nel comunicato finale erano largamente prevedibili, viste anche le anticipazioni che erano state abbondantemente fatte circolare.

Ai tempi della guerra fredda questi appuntamenti erano assai meno frequenti e segnavano momenti topici della vita dell'Alleanza: si tenevano quando era necessario prendere vere decisioni e non avevano una funzione rituale.

Oggi hanno cadenza pressoché annuale e sembrano avere il solo scopo di una riunione di club. Le decisioni vengono concordate in altre sedi, in formati bilaterali o multilaterali, quasi sempre senza coinvolgere tutti i membri della Nato, spesso utilizzando i moderni mezzi di cominicazione a distanza.

A che cosa servono allora queste riunioni, peraltro assai costose per le esauste casse dei paesi ospitanti (per un evento del genere non si stanziano meno di 12 milioni di euro)?

Dalla coesione alla frattura
Credo che oggi si punti più al valore simbolico, alla riaffermazione pubblica ed esplicita di una coesione interna e di una solidarietà che ai tempi della guerra fredda erano date per scontate e che a nessuno sarebbe venuto in mente di mettere in discussione. E così le cose rimasero anche dopo la caduta del muro di Berlino perfino quando i motivi di dissenso erano evidenti.

Basti pensare alla decisione di avviare le operazioni aeree contro la Serbia di Slobodan Milosevic, le divergenze vennero superate senza difficoltà, ricorrendo alla figura dell'astensione costruttiva, con cui la Grecia, pur profondamente contraria all'intervento, evitò che la questione assumesse un carattere divisivo.

Le regole del gioco cambiarono nel 2003, con la decisione di Bush jr. di invadere l'Iraq e la frattura non si è più ricomposta, con linee divisorie a volte variabili: "vecchia Europa e nuova Europa", nordici e mediterranei, gli interventisti in Libia (qualcuno, come noi, trascinato contro voglia) e quelli che si sono tirati indietro.

Chi disse che era la missione a dettare la coalizione forse non si era reso conto di avere minato alla base la stessa ragion d'essere dell'Alleanza, che è politica prima di essere militare.

La Nato è un luogo ideale in cui si discute, certo con il ruolo determinante giocato dal maggiore azionista, ma in cui è possibile giungere a conclusioni condivise, magari a denti stretti, come quando a Bucarest nell'aprile 2008 un gruppo di europei, di cui faceva parte anche l'Italia, impedì a fatica la formulazione di un formale invito appunto ad Ucraina e Georgia.

Forza di reazione rapida nell’Est Europa 
Ma veniamo all'evento di queste giornate e commentiamo alcune delle decisioni prese: sulla questione ucraina non si può nascondere una evidente divergenza tra chi spinge per sanzioni più dure e chi si muove con maggiore prudenza. Non è sorprendente che fra i primi ci siano i paesi che meno verrebbero danneggiati dalle prevedibili reazioni di Mosca.

Merita una riflessione particolare la decisione di costituire una forza di reazione rapida per reagire con immediatezza a eventuali minacce da est: la Nato già dispone di strutture militari in elevato stato di allerta, basti citare la Nato response force (Nrf), la forza di risposta rapida dell’Alleanza, cui partecipano con rotazione annuale unità di tutti i membri dell'Alleanza.

Perché allora una nuova iniziativa, peraltro limitata solo ad alcuni "willing and able"? La risposta è "per una reazione piu rapida e immediata", con ciò insinuando il sospetto che gli sforzi per la Nrf siano sostanzialmente inutili. Ma a mio avviso c'è un aspetto politico assai preoccupante.

Rischio crisi per l’Alleanza
Negli anni '70 già esisteva una forza analoga a quella approvata nei giorni scorsi, si trattava della Forza mobile del comando alleato in Europa, la Amf, cui non contribuivano tutti i membri (l'Italia partecipava con gli alpini del Susa e con i caccia-ricognitori del 28° gruppo), ma la cosa non era considerata rilevante, perché la coesione dell'Alleanza non era mai stata messa in discussione.

Al contrario, la costituzione oggi, nell'attuale clima politico strategico, di una forza analoga, che non coinvolga tutti i membri, crea potenzialmente una Nato a due velocità, con il rischio non solamente teorico che in una futura situazione di crisi, il suo impiego venga deciso non con la rigorosa applicazione del principio del consenso, ma per la sola volontà dei partecipanti: uno scenario che in un certo senso sancirebbe la fine dell'Alleanza.

Non credo che oggi sia questo il desiderio e la volontà dei nostri decisori politici, ma questi dovranno attivamente vigilare che le regole alla base delle procedure decisionali non vengano stravolte ed è bene che i nostri leader ne siano pienamente consapevoli.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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LA NATO VERSO UNA NUOVA IDENTITA'

ummit di South Wales 
Il salvagente della Nato alla sua missione 
Stefano Silvestri
09/09/2014
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Col passare del tempo i comunicati finali del consiglio Nato sono diventati sempre più lunghi e sempre meno incisivi. Quello che ha concluso il vertice in Galles contiene ben 113 punti e forse avrebbe potuto essere anche più lungo, ma alcune conclusioni sono contenute in altri documenti di contorno.

Se il tentativo era quello di dimostrare la rilevanza e la capacità di reazione dell’Alleanza di fronte alle crisi, in particolare nei confronti della Russia e della crisi in Ucraina (punti da 16 a 30, o 31, se includiamo le crisi nel Caucaso), e nei confronti del Medio Oriente e Nord Africa (punti da 32 a 39), l’obiettivo è stato mancato completamente.

L’Alleanza non ha preso alcuna decisione di rilievo, a parte quella di appoggiare gli sforzi di singoli paesi membri o di altre organizzazioni, dall’Ue all’Onu o all’Osce.

Alleanza difensiva
In compenso, il vertice ha cercato di salvare la missione di base, la ragion d’essere dell’Alleanza, e cioè la garanzia collettiva di autodifesa, sia accrescendo molto modestamente la presenza militare alleata nei paesi della frontiera orientale (aprendo probabilmente un inutilissimo contenzioso con la Russia), sia rafforzando le forze di pronto intervento con unità di intervento prontissimo, tutte da vedere e da creare, sperasi prontamente.

Sempre a tale scopo, ha ribadito l’utilità delle difese antimissile (altra prevista arrabbiatura di Mosca, di scarsissima utilità per il confronto Est-Ovest), ripetendo le vecchie formule sulla dissuasione nucleare, senza innovazione, malgrado la notizia che Mosca starebbe violando il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Inf).

Al punto 53 la Nato, dopo aver detto che praticamente non ha più contatti con Mosca (punto 22), invita la Russia a preservare il funzionamento di questo trattato. Se il presidente Vladimir Putin ci fa la grazia.

In questo contesto, per fortuna, non si parla di un possibile ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza, ma si ribadisce tale prospettiva per la Georgia (punto 93): altra brillante operazione diplomatica, assolutamente priva di contrappesi o autolimitazioni.

Obiettivo 2% per la spesa militare 
Ci sono anche momenti di involontaria comicità, come ad esempio sulla rilevanza degli attacchi cibernetici nel quadro del ricorso all’art.5 del Trattato di Washington, e cioè della difesa collettiva. Si dice infatti, udite udite, che il Consiglio deciderà “caso per caso” (punto 72). Lapalissiano.

Ma almeno finanzieremo la Difesa come necessario? Di ciò si occupa un lunghissimo punto 14, la cui sintesi è che gli alleati concordano sul “puntare verso l’obiettivo del 2% (del Pil di spesa militare) entro la prossima decade”. Cioè, fra dieci anni potrebbero non aver affatto raggiunto un tale obiettivo.

Italia nella coalizione anti Is
L’Alleanza Atlantica non è realmente minacciata da un nemico alle porte, e la lunghezza e l’inconsistenza di questo comunicato ne è la riprova. In compenso però questa non è una buona ragione per cumulare errori su errori e ignorare i compiti e le responsabilità reali che dovremo affrontare. La risposta sembra essere che lo faranno per noi alcuni gruppetti di alleati, a volte informandoci e a volte no.

L’Italia si è inserita nel gruppetto di testa che dovrebbe, come ha detto ieri il presidente statunitense Barack Obama, “degradare e distruggere” le forze islamiste dell’Is.

Forse dovremmo occuparci anche della Libia. La Nato ci guarderà con simpatia e loderà i nostri sforzi nel prossimo chilometrico comunicato.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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martedì 16 settembre 2014

Commissione: le traversie d'agosto

Commissione europea
Juncker ha i nomi, deve fare il puzzle
Adriano Metz
05/08/2014
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Una gita ad Atene per abituarsi ai problemi che l’attendono: Jean-Claude Juncker, presidente eletto della Commissione europea, ha inaugurato ieri un giro delle capitali con in tasca la lista quasi completa dei membri designati del suo esecutivo.

La cui composizione resta, però, un rebus: vari paesi danno opzioni multiple, l’attribuzione dei portafogli è un puzzle, le donne sono poche, il fattore Mogherini pesa - nella corsa al posto di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, almeno quattro sono i candidati più o meno espliciti.

Vertice delle nomine bis
L’attribuzione dei portafogli avverrà nelle prossime settimane. Juncker ha in mente un commissario per l’immigrazione e vorrebbe scorporare gli attuali ‘mega-portafogli’ dell’Economia - in crescita e disciplina di bilancio - e del Mercato interno - in mercato interno e servizi finanziari.

La lista - vedi scheda - sarà modificabile fino a settembre, perché Juncker la finalizzerà e la renderà pubblica solo dopo il Vertice delle Nomine bis del 30 agosto, che, fallita la riunione del 16 luglio, dovrà designare l’Alto Rappresentante e il presidente del Consiglio europeo.

Gli stati hanno quindi modo e tempo, volendolo, di cambiare candidato. Anche per questo, alcuni non hanno annunciato la propria scelta e altri hanno proposto più d’un candidato.

Mogherini candidata come Alto rappresentante
L’ipotesi del cambio di cavallo riguarda pure l’Italia: il ministro degli Esteri Federica Mogherini è stato candidato come Alto rappresentante. Se non dovesse ottenere il posto, potrebbe non restare lei l’elemento italiano della Commissione Juncker. Col rischio che, a quel punto, ci tocchi, come portafoglio, il Personale.

La designazione dell’Italia è stata una delle ultime a giungere, poco prima della scadenza. Nella lettera al presidente eletto, Matteo Renzi scrive: "Caro Presidente, … il governo italiano ha deciso di designare Federica Mogherini … come candidato al ruolo di Alto rappresentante e vicepresidente della Commissione". Formula anomala, perché la designazione dell’Alto rappresentante tocca ai capi di stato e/o di governo dei 28, mentre la ripartizione dei portafogli della Commissione spetta a Juncker.

Che, sul profilo di Mogherini, ha le sue riserve, mostrate anche in un’intervista al quotidiano lussemburghese ‘Le Quotidien’ dove dice che "l'Italia è sempre stata molto vicina alla Russia: non possiamo dimenticare che uno dei grandi alleati di Putin in Occidente è stato Berlusconi".

Il presidente eletto prosegue: "Rimproverare una tendenza diplomatica che viene dalla storia non mi pare un argomento valido" contro Mogherini: "ma allo stesso tempo bisogna sapere prendere le misure del trauma che, dopo gli eventi in Ucraina, esiste nei paesi dell'est e del centro Europa".

Juncker non esprime preferenze per l’uno o l’altro candidato, ma auspica che ai paesi dell'Est e del Centro Europa vada uno dei posti da decidere al Vertice del 30 agosto, o l’Alto rappresentante o il presidente del Consiglio europeo.

Fra le ipotesi citate, c’è quella di Donald Tusk, premier polacco, al posto di Herman Van Rompuy, il che aprirebbe la strada di Mogherini al posto di Alto rappresentante. Mentre pare arenato il tentativo dei popolari tedeschi di lanciare la socialista francese Elisabeth Guigou in funzione anti-Mogherini (già ci avevano provato a metà luglio, sostenendo Enrico Letta per il ‘dopo Van Rompuy’).

Incontro D’Alema-Juncker
Per il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi, l’Italia non ha “alcun piano B": Mogherini "ha tutte le qualità per essere un ottimo alto rappresentante. Sinceramente, non capisco le critiche attorno al suo nome per una presunta mancanza di esperienza: si occupa da 20 anni di politica internazionale, ha iniziato giovanissima ad occuparsene per il nostro partito". E ancora: "Quando si parla di nuova partenza per l'Europa, è difficile farla solo con politici uomini di alta esperienza".

Un riferimento al contatto fra Juncker e il presidente Feps Massimo D’Alema, svoltosi il 21 luglio e durato una ventina di minuti: “Un colloquio cordiale tra due personalità che si conoscono da tempo per esaminare la situazione e le prospettive delle istituzioni europee”, era la versione della Feps, Fondazione europea di studi per il progresso.

Dell'incontro, era stato informato il presidente del Consiglio, che non per questo ne sarà stato più felice. Al punto da verificare, secondo Il Fatto Quotidiano, con Gianni Pittella, capogruppo S&D, l’appoggio a D’Alema fra i socialisti europei: “Zero”, sarebbe stata la risposta.

Alla mezzanotte del 31 luglio, all’appello delle designazioni mancavano solo il Belgio che non ha governo al momento (s’attende una decisione per metà agosto) e la Bulgaria, dove la situazione è analoga (lì, però, la commissaria uscente Kristalina Georgieva viene data in pole position).

Un caso a parte quello della Slovenia, dove la premier uscente Alenka Bratusek, dopo avere perso le elezioni, ha designato se stessa e altri due suoi alleati, senza un’intesa con chi potrebbe sostituirla alla guida del governo.

Nodo di genere per la Commissione Juncker
C’è, infine, il nodo di genere: oltre a Mogherini, sono state candidate esplicitamente altre due donne, Cecilia Malmstrom dalla Svezia e Vera Jourova dalla Repubblica ceca; e donne potrebbero pure arrivare dalla Bulgaria, la Danimarca, la Slovenia; e altre sono state proposte da alcuni governi come alternative alla prima scelta.

Nella Commissione Barroso c'erano nove donne. Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz dice che se questo numero non sarà eguagliato o superato dall'esecutivo Juncker, l’Assemblea di Strasburgo non darà il suo ok. Causa penuria di donne, la squadra di Juncker potrebbe dunque avere un parto travagliato.

Adriano Metz è giornalista freelance.  
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Ucraina: La Russia e la preparazione della Nato

a nuova dottrina del Cremlino
Putin pronto allo scontro, e l’Occidente?
Stefano Silvestri
02/08/2014
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In questi giorni si gioca il futuro dei rapporti Est Ovest. La Russia di Vladimir Putin è messa sotto pressione, e sembra propensa a rispondere in modo duro. Le conseguenze potrebbero essere pericolose per la sicurezza e l’unità politica dell’Europa.

L’Occidente vorrebbe aprire un dialogo, ma non sembra aver trovato il modo per portare il Presidente russo ad accettare una trattativa che egli vede, almeno per ora, tutta a suo sfavore.

Il ritorno della "Guerra fredda"
Il risultato di questo dialogo tra sordi potrebbe essere un nuovo difficile periodo di “Guerra Fredda”, giocato sulla pelle degli ucraini, dei georgiani e delle altre repubbliche ex-sovietiche, e portatore di nuove tensioni in Medio Oriente e in Asia.

Già dal Vertice Atlantico di Chicago era chiaro che la Russia non si fidava più dell’Occidente e la successiva interruzione dei colloqui con la Nato sulla difesa antimissile ne è stata una riprova.

Il primo forte segnale negativo è arrivato con il conflitto in Georgia, sull’Ossezia meridionale e l’Abhazia. L’appoggio di Mosca al regime di Bashar al-Assad, in Siria, ha confermato l’allargarsi delle divergenze politiche.

Ma è stata infine la crisi ucraina e l’annessione della Crimea ad elevare il tono dello scontro e a portare al varo di sanzioni, che ora sono state significativamente inasprite.

A fine luglio tre altri episodi hanno agitato le acque: l’abbattimento di un aereo di linea malese da parte delle milizie filo-russe in Ucraina (accompagnato dal rifiuto russo di riconoscere l’evidenza e da un inasprirsi del conflitto con Kiev), la condanna di Mosca nell’arbitrato internazionale sulla questione Yukos (che ha definito del tutto illegale il percorso politico-giudiziario che ha permesso a Putin di espropriare quella compagnia e richiede a Mosca il pagamento di oltre 50 miliardi di dollari) e una lettera di Barack Obama a Putin che accusa la Russia di violare il Trattato sul bando dei missili a medio raggio (INF), firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987.

Putin continua ad opporre un rifiuto totale ad ogni tipo di accusa. Di più, egli sembra ormai convinto che questo accumulo di questioni abbia lo scopo di minare il suo governo e di rovesciare il regime presidenziale russo.

Anche quando sembra riconoscere l’esistenza di un problema, come nel caso della sperimentazione dei nuovi missili di crociera in violazione de del Trattato INF, lo fa in modo polemico ed aggressivo, sostenendo che il trattato è ingiustamente discriminatorio nei confronti della Russia e che era stato un errore sottoscriverlo.

La nuova dottrina politica di Putin
Come uscire da questa situazione, che rischia di trasformarsi in una trappola pericolosa, in primo luogo per i paesi europei? La via delle sanzioni economiche che stiamo percorrendo non sembra, almeno per ora, tanto efficace da convincere Putin alla trattativa.

Le misure varate dall’Ue e dagli Usa possono certamente imporre alcuni gravosi costi alla Russia, ma sono ancora ben lontane da quelle molto più complete e rigide imposte all’Iran. Al contrario esse sembrano destinate a confermare i sospetti di Putin.

La nuova dottrina politica di Putin è stata recentemente analizzata, sul Moscow Times, dal parlamentare liberale Vladimir Ryzhkov, sulla base del discorso pronunciato dal presidente russo alla Duma il 18 marzo scorso, per proporre l’annessione della Crimea.

È possibile riassumerla in sette punti.

Uno: “l’Occidente continua a perseguire una politica di contenimento della Russia, come al tempo della Guerra Fredda” e ciò obbliga la Russia a reagire di conseguenza.
Due: “la Russia non si considera più parte della civiltà europea” e questo perché rigetta sia la dottrina comunista che quella pseudo-democratica.
Tre: “il diritto internazionale non corrisponde più ad un sistema di regole, né è un punto fisso di riferimento (…) Il diritto internazionale è stato ridotto ad un menù di scelte diverse tra le quali ogni potenza è libera di scegliere quella che corrisponde ai suoi interessi (…) la Russia è oggi una potenza tale da avere il diritto ad esercitare due pesi e due misure, esattamente come gli Usa”.
Quattro: “la nuova dottrina si applica all’intero territorio dell’ex-Unione Sovietica”, e concede quindi alla Russia il diritto di negare, in questo spazio, l’allargamento sia della Nato che dell’Ue.
Cinque: “una grande potenza può interferire negli affari interni di piccoli paesi” qualora siano in gioco i suoi interessi politici o militari.
Sei: “Organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite svolgono oggi un ruolo molto minore”.
Sette: “la nuova dottrina si basa sui nuovi equilibri di potenza globali (…) mentre l’influenza militare ed economica dell’Occidente è in rapida diminuzione, le potenze emergenti in Asia e in Africa guadagnano (…) il mondo diverrà molto instabile e il numero dei conflitti militari è destinato a crescere”. In conclusione, mentre la Russia punterà a costituire una sorta di Unione Eurasiatica, Putin si aspetta la possibile rinascita di una Guerra Fredda con l’Occidente e comunque sconta l’avvento di più aspri confronti.

L’Europa e gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse ad avere un buon rapporto di collaborazione con la Russia, sia per ragioni di sicurezza energetica che per la stabilizzazione del Medio Oriente, e in particolare della Siria e dell’Iran.

Inoltre nessuno ha interesse ad accrescere la conflittualità internazionale, in particolare in un momento estremamente delicato di evoluzione della presenza e del ruolo internazionale della Cina.

Tuttavia è anche chiaro come sia necessario convincere Putin a scegliere una strada più aperta e collaborativa. È ben difficile che un tale obiettivo si possa raggiungere con le buone parole o con il tipo di sanzioni sin qui decretato.

Putin verrà a patti con Occidente?
È necessario prendere la Russia di Putin sul serio, sulla base di quello essa dice e fa, e non sulla base delle nostre speranze. In altri termini, è necessario convincere Putin della impossibilità di intimidire e dividere l’Occidente nonché della necessità di venire a patti.

La situazione attuale presenta qualche analogia con quella si delineò durante la Guerra Fredda, alla fine degli anni ’70, quando l’Urss puntò massicciamente allo sviluppo di armi nucleari a medio raggio dirette contro l’Europa, nella speranza di indebolire e dividere la Nato.

La forte risposta di allora, con il dispiegamento degli euromissili, mise in crisi la strategia sovietica e portò alla conclusione di importanti accordi di disarmo quali l’INF e quello sulle forze convenzionali in Europa, che prepararono il terreno per la fine della Guerra Fredda. Oggi la risposta deve essere della stessa intensità.

L’evoluzione strategica e tecnologica di questi anni consente fortunatamente di evitare un nuovo riarmo nucleare, ma dovrebbe puntare allo sviluppo e al dispiegamento, in Europa, di importanti mezzi convenzionali capaci di colpire in profondità, con alto grado di certezza e di precisione, il territorio russo, in un adattamento continentale del “prompt global strike” americano. Naturalmente tali sviluppi dovrebbero essere accompagnati dall’offerta di aprire seri negoziati per il controllo e la riduzione degli armamenti.

È una strategia costosa in termini di bilancio, che quindi dovrebbe essere concordata a livello europeo, oltre che atlantico, così da consentire la necessaria mobilitazione di capitali. Ma in questo caso l’interesse strategico dovrebbe fare premio sull’austerità economica, a condizione che scelte e investimenti siano concordati preventivamente.

Siamo di fronte a scelte difficili e delicate, ma da esse dipende il nostro stesso futuro di paesi liberi e democratici.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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Ucraina: un intervento di Vincenzo Camporini

Crisi Ucraina
Rassicurare, non punzecchiare, Mosca
Vincenzo Camporini
29/07/2014
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A parte sussulti provocati da tragici eventi, come l’abbattimento del volo MH17, la partita con la Russia per il destino dell’Ucraina sta correndo sui binari della più piatta prevedibilità con le defatiganti discussioni su come punire il presidente Vladimir Putin.

A condire il dibattito sono le diatribe su chi abbia la coscienza meno sporca in tema di forniture militari varie, a partire dalle ormai famose due navi multiruolo classe Mistral.

Ogni staterello europeo appare strenuamente impegnato nella difesa del proprio particulare e non s’intravvede all’orizzonte alcuna elaborazione di una politica originale che abbia la possibilità di risultare vincente rispetto alla purtroppo prevedibile china di un incancrenirsi di conflittualità.

Complesso dell’accerchiamento russo 
Al momento ci troviamo in un gioco a somma zero: se Mosca guadagna un vantaggio tattico, ciò avviene alle spese in primis dell’Ucraina che non vede termine alle turbolenze e alle violenze sul campo. Queste si riflettono poi nelle turbolenze politiche all’interno del parlamento, ma certo anche dell’Europa, che nell’attuale temperie economico-finanziaria non si può certo permettere ulteriori elementi di freno alla fragile, se c’è, ripresa.

E nell’eventualità, che peraltro sembra assai remota, di un successo delle pressioni su Mosca, la percezione russa sarebbe di una sconfitta, accentuando all’inverosimile, e in modo assai pericoloso, il complesso di accerchiamento tipico della psicologia russa.

Peraltro, al momento, il primo scenario appare assai più probabile, con il consolidamento di una posizione di stallo molto favorevole per la politica di Mosca, con un’Ucraina agitata da disordini senza sbocco e quindi impossibilitata a virate strategiche verso Occidente.

L’Occidente appare in ogni caso estremamente restio ad assumere un impegno diretto che vada al di là di sanzioni poco più che simboliche, con grande disappunto statunitense.

Ricordi di guerra fredda
Al riguardo vale la pena fare qualche riflessione sulle conseguenze che l’attuale congiuntura può avere sul rapporto transatlantico. Per il presidente statunitense Barack Obama, la crisi Ucraina rappresenta una ghiotta opportunità per rialzare a livello interno le proprie quotazioni in tema di politica estera.

Nell’immaginario collettivo statunitense, anche in vasti ambienti dell’intellighenzia politica, la Russia rimane un avversario pericoloso, di cui bisogna diffidare e da tenere costantemente sotto controllo, senza perdere la minima occasione per rammentargli che ha perso la guerra fredda.

In questo quadro, l’atteggiamento dei paesi europei, singolarmente e nel loro complesso, può facilmente indurre Washington nella tentazione di approfondire un distacco già avviato con il ‘pivot to Asia’.

Peraltro, gli interessi Usa nell’area, venuta meno la dipendenza energetica, si possono in estrema sintesi ridurre a due: la protezione delle posizioni delle grandi imprese petrolifere statunitensi nella regione e il sostegno a Israele (pur con tutti i mal di pancia causati dalla condotta dell’attuale dirigenza politica dello stato ebraico).

Da qui la tentazione di lasciare che gli europei se la sbrighino da soli, con un pericoloso allentamento del vincolo transatlantico, che costituirebbe un altro successo, questa volta strategico, per Mosca.

Ruolo Italia in Ue
Occorre quindi un vero salto di qualità, abbandonando la politica delle punzecchiature verso Mosca (le sanzioni finora adottate e anche quelle adombrate non vanno al di là di un’efficacia poco più che simbolica) ed avviando un processo politico concordato che conduca ad un reale coinvolgimento della Russia nella gestione degli affari europei.

Bisogna rompere la secolare corazza di diffidenza che impedisce alla dirigenza moscovita di fidarsi degli occidentali e per far ciò è indispensabile che l’Unione europea nel suo complesso elabori rapidamente una piattaforma concreta e condivisa per un sistema di sicurezza che dia sufficienti garanzie a tutti i possibili attori che i loro interessi vitali saranno salvaguardati, che le minoranze non verranno vessate - si trovino in Ucraina o in Romania o in Estonia - che non ci sono tentazioni espansionistiche né da parte russa, né da parte occidentale e che qualsiasi problema verrà affrontato in un’ottica inclusiva, in modo che dall’attuale ‘lose-lose’ si passi ad un duraturo ‘win-win’.

Per giungere a questo risultato serve una leadership forte e, in attesa della nomina del/la futuro/a Mr/Mrs Pesc - ovvero l’Alto rappresentante che si occupa della politica estera europea - si apre una finestra di opportunità per la presidenza semestrale italiana.

Smettiamola dunque con atteggiamenti di rimessa: è il momento per l’Italia di assumere un’iniziativa forte e determinata in modo da coagulare una convincente posizione europea e se l’Unione sarà capace di ciò anche Washington dovrà prenderne atto e non ci potrà più mandare a quel paese, come accaduto, proprio in tema di Ucraina, non molto tempo fa.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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Europa: la nuova architettura istituzionale

Istituzioni europee
Una Commissione a geometria variabile
Antonio Missiroli
30/07/2014
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Disegnare il telaio della sua nuova Commissione senza preoccuparsi troppo di chi mettere ai posti di guida. Il neo-eletto presidente Jean-Claude Juncker ha ancora qualche settimana per dedicarsi a questa missione.

L’incertezza stessa che persiste su chi sarà il prossimo Alto rappresentante per la politica estera (e suo vice) potrebbe incoraggiare una riflessione meno personalizzata e più orientata a trovare una soluzione funzionale efficace ai problemi che hanno afflitto l’azione esterna dell’Unione europea (Ue) dopo Lisbona - e che il presidente - eletto della Commissione ha dichiarato di voler affrontare e, sperabilmente, risolvere.

Squadre di commissari
Fra questi, l’assetto interno del collegio rappresenta un’assoluta priorità. L’esperienza della scorsa legislatura è stata piuttosto deludente in termini di coordinamento e collegialità fra i suoi membri con competenze dirette nell’ambito delle relazioni esterne.

La creazione formale di un ‘gruppo’ di commissari - presieduto da Catherine Ashton e, all’occorrenza, dallo stesso Josè Barroso - non ha avuto alcun seguito significativo, e i conflitti ‘territoriali’ fra Commissione e il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) non sono certo mancati.

D’altra parte, la natura sempre più ibrida e complessa delle crisi a cui l’Ue è stata esposta in questi ultimi anni avrebbe richiesto - e continuerà a richiedere - una volontà e una capacità di azione concertata da parte di tutti, tanto all’interno del collegio che fra i vari servizi (Seae compreso).

Alcuni passi incoraggianti sono stati compiuti di recente, a livello operativo, su cybersecurity, Ucraina e sicurezza marittima - ma molto resta ancora da fare. Soprattutto, i segnali devono venire dall’alto.

Più che (ri)creare gruppi o assetti interni più o meno rigidi, e magari controversi, potrebbe ad esempio valere la pena di immaginare un modus operandi del collegio più flessibile - per ‘squadre’ di commissari coordinate da un vice-presidente (per le relazioni esterne, in linea di principio, dall’Alto rappresentante) e autorizzate a operare come vere e proprie task forces su certe crisi o dossiers complessi - come una serie di ellissi mobili e sovrapposte, piuttosto che di piramidi chiuse o silos prestabiliti.

È evidente che, accanto ai portafogli più tradizionali legati all’azione esterna (sviluppo, aiuti umanitari, in parte allargamento), appare sempre più difficile non associarvi commercio (tanto più ora che le sanzioni sono divenute uno strumento centrale della politica estera e di sicurezza comune), clima (anche in vista della Conferenza internazionale di Parigi dell’anno prossimo), o il settore legato a migrazioni, visti e asilo.

Mentre stabilire e mantenere gerarchie formali all’interno del collegio creerebbe problemi di varia natura, una struttura più agile e a tempo - con adeguate deleghe di competenze e conseguente revisione dei regolamenti finanziari - permetterebbe forse di ottenere migliori risultati con minori attriti.

Azione esterna dell’Ue
Qualcosa potrebbe essere ritoccato anche nella sfera ‘relazioni esterne’ del collegio. L’esperienza degli ultimi dieci anni ha dimostrato, ad esempio, che il mandato che associava allargamento e vicinato ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti.

Con 27 portafogli da assegnare ad altrettanti commissari, l’inevitabile frammentazione andrebbe forse vista, allora, come un’opportunità per favorire una certa specializzazione.

E la politica di vicinato va comunque rivisitata: l’ambizione di mantenere un approccio unico dal Marocco alla Bielorussia è stata demolita dai fatti (e non ha certo impedito la nascita dell’Unione per il Mediterraneo e il lancio del Partenariato orientale) ancor prima di doversi confrontare con la primavera araba o la crisi ucraina.

Dunque perché non ricavarne più portafogli? Accanto all’allargamento, che assumerà del resto contorni sempre più ‘interni’ e di lungo termine legati all’incorporazione dell’acquis da parte degli attuali candidati, ci sarebbe infatti spazio per due commissari - uno per il vicinato meridionale e uno per quello orientale, in senso lato - operanti entrambi sotto la supervisione dell’Alto rappresentante (e autorizzati, come Juncker stesso ha lasciato capire, a operare come suoi vice quando necessario) ma in grado anche di collaborare con le altre Direzioni generali della Commissione, in modo da focalizzare l’azione comune e darle più visibilità anche personale.

Difesa europea
Infine, la difesa - già in cima all’agenda Ue l’anno scorso e destinata a ritornarvi l’anno prossimo. Diversi dossiers legati alla politica di sicurezza e difesa comune sono attualmente trattati dalla Commissione in compartimenti separati all’interno di diverse Direzioni generali, per lo più come sotto-sezioni di altre politiche comuni, che si tratti di concorrenza e mercato interno, industria, ricerca, cyber o altro.

Se è vero che la Commissione non ha competenze dirette nel settore (salvo in materia di mercato interno), è anche vero che questa dispersione non giova né alla Commissione né alla politica di sicurezza e difesa comune.

Perché allora non concentrare sotto la responsabilità di un nuovo commissario (o, perchè no, dello stesso Alto rappresentante, che avrebbe così un ‘suo’ portafoglio all’interno del collegio) le importanti risorse e capacità esistenti, dando così più coerenza e visibilità all’azione comunitaria? Forse un piccolo passo per la Commissione ma, potenzialmente, un gigantesco balzo per l’azione esterna dell’Unione.

Antonio Missiroli è Direttore dell'European Union Institute for Security Studies.
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