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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 27 gennaio 2017

Londra: sempre più turbolenza

Brexit: Alta Corte e incerto futuro Regno Unito
Lorenzo Colantoni
26/01/2017
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I mesi d’incertezza sulla Brexit, valsi al premier britannico il soprannome di Theresa May-be, potrebbero essere giunti alla fine.

Il sostegno alla Brexit e l’attacco all’Europa di Donald Trump, nell’intervista con Michael Dove del 15 gennaio, e il discorso della May del 17 gennaio hanno infatti rilanciato la discussione su quello che sarà il piano del governo britannico per l’attivazione dell’articolo 50 e l’inizio dei negoziati con l’Unione europea, Ue.

Tralasciando i toni accesi sulla hard Brexit promessa da Theresa May, lo schema di Downing Street è tutt’altro che chiaro - forse inesistente. È quindi la sentenza dell’Alta Corte britannica del 24 gennaio sul ruolo del Parlamento nel processo di attivazione a fornire elementi chiave per comprendere quali saranno i prossimi passi per la Brexit.

Una situazione che imporrà alla May di presentare il suo piano in concreto e forse a scendere a compromessi rispetto all’aggressiva posizione del suo discorso e a non sottovalutare il ruolo della Scozia.

Il contenuto della sentenza
Nell’immediato post-referendum sulla Brexit, un’imprenditrice britannica, Gina Miller, fece appello all’Alta Corte per contestare l’autorità del governo ad attivare l’articolo 50 e di fatto avviare i negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Ue, senza avere prima ottenuto l’approvazione dal Parlamento.

L’obiettivo del governo era quello di utilizzare la cosiddetta royal prerogative, un insieme di poteri della Corona (ma in pratica utilizzati dall’esecutivo) che permettono di prendere decisioni su temi quali i trattati internazionali e la commutazione di sentenze giuridiche, senza la necessità di consultare Westminster.

Una prerogativa che però l’Alta Corte nel dicembre 2016 e la Suprema Corte a gennaio hanno sostenuto non essere di fatto applicabile ai Trattati di adesione all’Unione.

L’appello alla prima sentenza è stato infatti respinto in quanto l’uscita dall’Ue provocherebbe una variazione nelle fonti di diritto britanniche, eliminando tutta la componente di provenienza europea, e nei diritti dei cittadini della Gran Bretagna. “La legge del Regno Unito richiede che questi cambiamenti siano messi in atto da una legislazione emanata dal Parlamento”, ha sostenuto la corte. La palla passa così ora al Parlamento di Westminster

Quale Brexit? 
È molto difficile, forse impossibile, che la sentenza possa provocare un’inversione di marcia del Regno Unito e di fatto una rinuncia alla Brexit. Pone però il governo di fronte a numerosi interrogativi, probabilmente smussando quell’idea di hard Brexit che la May aveva proposto, forse più come minaccia verso l’Ue che come piano concreto.

Difficile infatti immaginare che il Labour prenda l’impopolare decisione di andare contro la volontà popolare espressa dal referendum; e che soprattutto lo faccia il suo leader, quel Jeremy Corbyn che si era spesso opposto all’Ue in passato e che aveva difeso con poca convizione l’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione durante la campagna Remain.

Se un’opposizione alla Brexit in sé è quindi poco probabile, e pure poco probabile che il Parlamento lasci passare il piano della May interamente. Il risultato più probabile sarà un’accesa discussione sul tipo di Brexit da portare avanti.

Questo ribalta l’idea del primo ministro britannico, che proponeva nel suo discorso solo un’autorizzazione finale da parte del Parlamento, cioè dopo l’attivazione dell’articolo 50, l’inizio e la conclusione dei negoziati.

La May, ora, dovrà invece scontrarsi con i laburisti, che pur non opponendosi alla Brexit, potrebbero andare contro la visione del governo per recuperare la propria popolarità ormai ai minimi storici, capitalizzando anche sugli altri problemi che affliggono i conservatori.

Da non sottovalutare poi i cosiddetti “Tories ribelli”, i parlamentari che hanno contrastato in queste settimane l’idea della May sulla Brexit e che sono particolarmente contrari all’uscita dal mercato unico annunciata nel discorso del 17 gennaio.

Le incognite: il whitepaper della Brexit e la Scozia
L’esposizione alla discussione parlamentare e la pressione interna ed esterna al partito conservatore costringeranno così Theresa May ad una definizione dettagliata del suo piano per la Brexit: ha già dichiarato che pubblicherà un White Paper del governo sul processo di uscita, che era stato insistentemente richiesto da numerosi parlamentari nei mesi passati.

Questa soluzione rende però il governo doppiamente vulnerabile: un piano lungo e dettagliato lo esporrà a maggiori attacchi e a una discussione parlamentare più complessa. Un piano breve, con un singolo articolo (cosiddetto single clause bill), rischierebbe invece di non essere valido e di portare ad ulteriori appelli all’Alta Corte.

L’incognita più grande rimane però il ruolo della Scozia. La corte ha infatti dichiarato che non esiste obbligo da parte del governo britannico di consultare i parlamenti regionali di Scozia, Irlanda del Nord e Galles.

Questa parte della sentenza mette così il Paese di fronte a scelte complesse; se il discorso della May era stato preso come uno schiaffo dal primo ministro scozzese Nichola Sturgeon, che aveva visto la sua proposta di collaborazione per una soft Brexit completamente ignorata, la sentenza rischia ora di relegare la Nazione a un ruolo di minoranza nel processo.

Dovendo difendere però gli interessi della popolazione scozzese che ha votato esplicitamente per restare nell’Unione, e quelli del suo partito storicamente europeista, l’Snp, le scelte in mano alla Sturgeon sono così due. La prima è quella di sfruttare i 56 seggi al parlamento britannico (al terzo posto dopo Tories e Labour), attirando a sé Tories e Labour ribelli per prendere la guida dell’opposizione al governo, almeno riguardo alla Brexit.

L’altra è quella di mettere in atto la minaccia di un secondo referendum per l’indipendenza scozzese dopo quello dell’ottobre 2014, e che stavolta potrebbe avere un risultato nettamente differente.

Un’opzione decisamente probabile, nonostante le posizioni spesso unioniste della Sturgeon, vista la dichiarazione fatta dal pm scozzese subito dopo la sentenza: “[La sentenza] fa nascere questioni fondamentali a proposito e oltre quella dell’appartenenza all’Ue. È felice la Scozia che il nostro futuro sia dettato da un governo di Westminster sempre più a destra, ma che ha solo un parlamentare qui, o è meglio prendere il nostro futuro nelle nostre mani? Diventa sempre più chiaro che questa è una scelta che la Scozia deve fare”.

Una decisione che influenzerà la Brexit, il Regno Unito e tutta l’Ue.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI (Twitter@colanlo).

giovedì 26 gennaio 2017

Londra: un anglosfera difficile da immaginare

Gb vs Ue
Brexit: May, le parole e la musica
Riccardo Perissich
22/01/2017
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Annunciando all’assemblea del suo partito che dopo Brexit la Gran Bretagna avrebbe ripreso il pieno controllo dell’immigrazione e si sarebbe svincolata dalla giurisdizione della Corte di Giustizia europea, il primo ministro britannico Theresa May aveva già implicitamente arbitrato in favore di una hard Brexit.

Tuttavia restavano sufficienti ambiguità perché molti continuassero a sperare che il divorzio sarebbe stato meno traumatico. Ora l’incertezza è levata e il discorso del 17 gennaio ha introdotto un’utile chiarezza. La May ha scelto l’ideologia: stare fuori non solo dal mercato unico, ma anche dall’unione doganale. Out means out. Negozieremo quindi un accordo comerciale. Stranamente, la City non è stata nominata nel discorso, ma possiamo essere certi che il problema emergerà con forza nel negoziato.

L’obiettivo di un accordo commerciale è normalmente di eliminare ostacoli esistenti. Questa volta, partiamo da una situazione di ostacoli zero, o quasi. Poiché le motivazioni della Brexit sono politiche per non dire ideologiche, ma dal punto di vista economico il mercato unico beneficia a tutti, l’obiettivo dovrebbe essere di ridurre al minimo l’introduzione di nuovi ostacoli.

Non dovrà quindi essere molto arduo negoziare con successo sui dazi e le procedure doganali. Anche le regole sui prodotti e i servizi, che rappresentano oggi il cuore dei negoziati commerciali fra Paesi sviluppati, sono attualmente largamente comuni. Tuttavia, mentre i dazi si negoziano una volta per tutte, le regole sono destinate a variare nel tempo.

Da sudditanza legale a sudditanza di fatto
Dal momento in cui la Gran Bretagna e l’Unione europea, Ue, avranno recuperato la piena sovranità nella definizione delle regole, si tratterà di evitare che la distanza si allarghi troppo.

La cosa è di capitale importanza per i servizi finanziari e per le industrie, come quella automobilistica, che sono organizzate per filiere di approvvigionamento complesse che devono funzionare senza intoppi e in modo continuo: buona parte dei componenti per l’industria automobilistica britannica, che tra l’altro è completamente in mani europee e giapponesi, vengono dal Continente e queste filiere non si cambiano facilmente.

Nel negoziato si cercherà quindi di stabilire criteri di equivalenza, come si è tentato di fare nell’accordo con il Canada e in quello per ora abortito con gli Usa. Tuttavia tali criteri saranno necessariamente aleatori e sottoposti al rischio di decisioni politiche divergenti.

L’Ue è il mercato verso cui è destinata la metà delle esportazioni britanniche; si presenteranno quindi numerosi casi in cui il Regno Unito dovrà scegliere fra mantenere o adattarsi alle regole europee, oppure perdere dei benefici in termini di accesso. In sostanza si saranno liberati di una sudditanza legale per cadere in una sudditanza di fatto. Certo, la Gran Bretagna negozierà accordi con altri paesi a cominciare dagli Usa, ma per molto tempo nulla potrà sostituire l’Ue.

Un Paese in Europa, ma non dell’Europa
Il discorso di Teresa May contiene altri punti interessanti, in generale costruttivi e ben argomentati. Alcuni sono rivolti all’interno e riguardano il tentativo di rassicurare parte della sua opinione pubblica come la Scozia e l’Irlanda del Nord, oppure i lavoratori che possono temere di perdere la protezione offerta attualmente dalla regole europee.

Ha toccato in termini costruttivi anche la prospettiva di dare assicurazioni ai cittadini, rispettivamente Ue e britannici, attualmente residenti da una parte e dall’altra della futura frontiera. La stessa cosa per i programmi di ricerca a cui i britannici partecipano attualmente, di grande importanza per le loro università ma anche per noi.

Infine l’impegno a continuare la stretta collaborazione nella sicurezza e nella difesa; impegno stranamente presentato come una concessione, quando è palesemente nell’interesse comune e deriva dalla appartenenza alla Nato prima ancora che all’Ue.

May dichiara comunque che è nell’interesse del Regno Unito che l’Ue non si disintegri, anzi si rafforzi. Tutto ciò ricorda il Winston Churchill del discorso dell’Aja: un paese che è “in Europa, ma non dell’Europa.” Quando Churchill pronunciò quelle parole la Gran Bretagna era però ancora al centro di un vasto impero, mentre il continente era in macerie.

I tempi del divorzio e della convivenza
La Gran Bretagna vorrebbe che l’accordo futuro sia negoziato contemporaneamente alle condizioni del divorzio. La posizione dell’Ue è che le due cose sono distinte e successive. La richiesta britannica ha un senso dal punto di vista interno. Se passerà troppo tempo fra la definizione del divorzio e quella del nuovo regime, sarà necessario un lungo periodo transitorio che sarebbe in pratica un prolongamento dello status quo: non facile da spiegare a un’opinione pubblica a cui è stata promessa una rapida libertà dal giogo europeo. Ciò è comunque irrealista per motivi pratici, anche se sarebbe nell’interesse di tutti accorciare i tempi.

Tutto ciò è serio ben argomentato. A un certo punto del discorso la musica, cioè la retorica, prende il sopravvento sulle parole. Un vibrante passaggio in cui si proclama che dopo Brexit la Gran Bretgna ritroverà la sua grandezza riecheggia le composizioni un po’ pompiere di Elgar: ma lo si può capire. Un Paese sensibile al patriottismo e che sta per intraprendere un viaggio molto incerto ha bisogno di essere rincuorato.

Toni perentori e minacce non credibili
Nell’ultima parte gli archi e gli ottoni cominciano a suonare fuori tempo e lo spartito sembra composto dall’ineffabile Boris Johnson. Ci viene in effetti detto in termini perentori che la Gran Bretagna non accetterà ricatti e che se noi non volessimo negoziare in modo costruttivo ci sarebbero conseguenze gravi. Quali? La Gran Bretagna potrebbe scegliere di adottare una politica fiscale e industriale ultra competitiva e diventare una sorta di Singapore d’Europa.

La minacia non è molto credibile. La Gran Bretagna ha già ora da alcuni punti di vista un regime fiscale molto favorevole e, se volesse, nessuno le impedirebbe di allineare le sue imposte sulle società al livello irlandese. È però molto difficile gestire una Singapore di 60 milioni di abitanti che in più si prefigge di negoziare accordi di libero scambio con mezzo mondo e che si presenta come uno dei principali campioni della lotta ai paradisi fiscali.

Ma c’è di più. La spinta originaria per la Brexit viene da quella parte del partito conservatore che, oltre alla questione della sovranità, considera l’Ue troppo dirigista e protezionista e potrebbe sentirsi a suo agio in una Singapore europea.

Tuttavia il referendum è stato vinto con l’apporto decisivo di vasti settori di elettorato popolare contrario alla globalizzazione. Teresa May lo ha ben capito e si è discostata dalla linea molto liberale dei precedenti governi conservatori: Singapore e uno dei migliori welfare europei non sembrano molto compatibili.

Rivedere la tassazione delle società nell’era della globalizzazione è un problema che abbiamo tutti, a cominciare dagli Usa, ma non c’entra con Brexit. C’è in tutto questo una fastidiosa traccia della convinzione di aver in mano le carte migliori e di poter facilmente dividere gli europei: un’arroganza che negli ultimi quarant’anni non ha mai pagato.

Ci sono pochi dubbi che l’Ue negozierà in modo costruttivo perché ciò è nel nostro interesse; a patto che non voglia dire mantenere tutti i vantaggi del mercato unico avendone rifiutato i vincoli.

Tuttavia la Gran Bretagna dovrà sapere che nell’anno tormentato che si apre l’Ue avrà priorità più impellenti. Fermare, a partire da Parigi, l’ondata populista. Mantenere l’unità dei 27. Consolidare la crescita e la governance dell’eurozona. Trovare una migliore risposta al problema dell’immigrazione. Riprendere in mano il problema della nostra difesa e sicurezza.

Ciò non vuol dire che non prenderemo la Brexit sul serio, ma che ogni elemento del negoziato sarà valutato anche alla luce delle priorità che ho menzionato.

Infine, dovremo tutti fare i conti con i cambiamenti nei rapporti transatlantici che sicuramente deriveranno dall’ascesa di Trump. La Gran Bretagna, nostante la promessa di nuove relazioni speciali, su molte questioni difficili (per esempio l’avvenire della Nato, la Russia e l’Iran), ha posizioni più vicine al Continente che non al nuovo presidente. La prospettiva dell’emergere di una nuova “anglosfera” sembra quanto meno azzardata.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

Londra: avanti con ostinazione

Gb vs Ue
Brexit: May, hard e ad ogni costo!
Eleonora Poli
19/01/2017
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Definita dalle voci euroscettiche del Paese come un semplice taglio netto dalle obsolete e “non democratiche” istituzioni europee, la Brexit sembra tuttavia un processo molto più complesso.

Per soddisfare i “leavers” che si erano espressi nel referendum di giugno contro l’appartenenza all’Unione europea, Ue, la Gran Bretagna dovrebbe conservare il proprio accesso al mercato unico, cessare la supremazia delle direttive europee sul Paese, controllare il libero movimento dei lavoratori ed essere in grado di implementare, senza più alcun vincolo da parte di Bruxelles, accordi di libero scambio con Paesi extra-europei.

Queste sono tutte condizioni che, se prese nel complesso, sono inaccettabili alla maggior parte dei Paesi dell’Ue. Per concedere l’accesso al mercato unico alla Gran Bretagna, vengono infatti richieste dai più garanzie sul libero movimento e pieno accesso al mercato del lavoro britannico ai cittadini europei.

Gianfranco Uber, www.gianfrancouber.eu, http://www.cartoonmovement.com

La Brexit non sarà per nulla soft
Al fine di chiarire la posizione britannica, nel suo atteso discorso di Lancaster House, il premier Theresa May ha quindi definito le priorità nei futuri negoziati con l’Ue.

Dalle sue parole, sembra che l’idea di una “soft Brexit”, che di fatto non è mai stata considerata apertamente dal governo di Londra, sia stata scartata. In effetti, una “soft Brexit” avrebbe sì permesso alla Gran Bretagna di rimanere parte del mercato unico con un accordo speciale all’interno dell’Area economica europea (Eea); ma il Regno Unito avrebbe dovuto accettare, come nel caso della Norvegia, la supremazia delle leggi europee su quelle nazionali, il libero movimento dei lavoratori e sarebbe di fatto rimasta legata all’Ue senza poterne influenzare il processo decisionale.

Per cancellare ogni possibile dubbio sul fatto che un strategia “soft” non è nemmeno considerabile, la May ha dichiarato che oltre sei mesi fa i cittadini britannici si sono espressi a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Ue per aprirsi al resto del mondo. Questo rimane il piano del governo dunque, anche a costo di perdere l’accesso al mercato unico, mettendo a repentaglio almeno nel breve periodo la stabilità economica britannica.

Sembra dunque che, una volta invocato l’articolo 50, la Gran Bretagna si presenterà al tavolo negoziale europeo con una proposta di “hard Brexit”, mettendo fine ai legami politici ed istituzionali che legano il Paese al vecchio continente con la conseguente reintroduzione di frontiere e controlli doganali. Precluso così l’accesso al mercato unico, i rapporti commerciali con i Paesi Ue saranno disciplinanti dai principi fissati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto).

Le prospettive dei mercati globali
È indubbio che la Gran Bretagna ne risentirebbe economicamente. Nell’agosto del 2016 l’Ue era il mercato di riferimento più importante per il commercio britannico. Se è vero che, così come dichiarato più volte dalla May e dal ministro degli Esteri Boris Johnson, la Gran Bretagna potrebbe, in un secondo momento, tentare di intavolare un accordo di libero scambio con l’Ue, questo richiederebbe tempo e potrebbe essere discusso solo dopo la conclusione dell’iter negoziale.

Inoltre, vista la lunga trafila tra Ue e Canada per concludere il recente Comprehensive Economic Trade Agreement (Ceta), è difficile prevedere l’esito di un accordo analogo tra il Regno Unito e i restanti Paesi membri.

Allo stesso tempo, considerando l’ostilità manifestata dal neo-eletto presidente Usa Donald Trump ad accordi di libero scambio, è difficile pensare che Londra potrà ottenere un accesso privilegiato al mercato americano.

In questo frangente, il Regno Unito potrebbe perdere la propria attrattività economica ed è per questo motivo che la May ha ipotizzato la possibilità di modificare il modello economico britannico introducendo un regime fiscale che favorisca le imprese. Di certo questa prospettiva, che minerà la competitività dei Paesi membri, non piace ai Governi europei e renderà i negoziati ancora più difficili.

La sentenza della Corte Suprema
Per il 48% dei cittadini britannici a favore della permanenza nell’Unione non tutto sembra perduto. L’attesa sentenza della Corte Suprema, sulla necessità o meno per il Parlamento britannico di discutere e approvare il piano Brexit prima che il governo possa invocare l’articolo 50, potrebbe ritardare l’inizio dei negoziati.

Il primo ministro aveva infatti dichiarato la volontà del suo governo di attivare l’articolo 50 alla fine di marzo 2017, così da consentire un’uscita della Gran Bretagna dall’Ue per la primavera del 2019. Tuttavia, tali tempistiche potrebbero dilungarsi se il Parlamento sarà chiamato a votare il piano per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Al momento, la maggioranza dei conservatori in Parlamento, così come l’euroscettico Ukip, che però ha solo un seggio, sicuramente appoggeranno il governo nella decisione di procedere con una “hard Brexit”.

Con i suoi 231 seggi, il Partito Laburista invece non è particolarmente pro-europeo, ma potrebbe sollevare delle obiezioni. Il leader del partito, Jeremy Corbyn, ha più volte dichiarato che non ostacolerà il processo di Brexit così come voluto dalla maggioranza dei cittadini britannici, ma chiederà un piano di uscita che non danneggi la società e che protegga i lavoratori britannici e quelli europei in ugual maniera.

Allo stesso modo, i parlamentari del Partito nazionale scozzese (54 seggi), che devono rispettare la maggioranza pro-membership dei cittadini scozzesi, reclameranno maggiore potere per la Scozia nel definire i termini negoziali della Brexit.

Infatti, nel caso in cui la visione scozzese sulla Brexit non sia rispettata, la Scozia potrebbe decidere di organizzare un altro referendum sull’indipendenza del Paese. Al momento, dal punto di vista sia economico che politico, non è certamente nell’interesse scozzese l’idea di lasciare la Gran Bretagna. Tuttavia, la Brexit rappresenta una buona opportunità per ottenere più potere decisionale da Londra.

Se è vero che Brexit non significa solo Brexit ma molto probabilmente “hard Brexit”, la sentenza della Corte Suprema e la possibilità per il Parlamento di intervenire sul piano del Governo potrebbe di fatto rallentarne il processo, ritardando l’attivazione dell’articolo 50 e forse ammorbidendo alcune posizioni.

I pro-europei non possono però cantare vittoria. Questo scenario, oltre ad indebolire il mandato del Governo, renderà il già difficile futuro processo negoziale con l’Ue più lungo ed intricato, causando una generale instabilità di cui l’Europa tutta potrebbe risentire.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.

mercoledì 25 gennaio 2017

Brexit: la nuova stagione del 2017

Brexit
L’addio di Londra all’Ue secondo Shakespeare
Robert Cooper
14/01/2017
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Nella tragedia Troilo e Cressida, l’Ulisse di Shakespeare dice “Abolite quell’ordine, mettete fuoritono quella corda, e sentirete quale stonatura seguirà”. Per “ordine” Shakespeare intende quello sociale, basato su rango e diritto di nascita, che costituiva una struttura di potere consolidata nell’Inghilterra elisabettiana.

Lo stesso ragionamento si applica oggi all’Europa: per quarant’anni abbiamo vissuto in un sistema basato sul diritto e sulla cooperazione che ha portato ordine nel mondo senza legge delle relazioni internazionali. Che cosa accade se viene meno? Al momento non lo sappiamo, ma possiamo già percepire quella ‘stonatura’ nell’aria.

Del controverso significato di “Brexit
La Gran Bretagna è ancora un membro dell’Unione europea, Ue, ma al momento è completamente assorbita da se stessa. Abbiamo superato la fase del “Brexit vuol dire Brexit”, ma non sappiamo ancora che cosa voglia veramente dire. Siamo fuori dal mercato unico, ma all’interno dell’unione doganale, o viceversa? Qualcuno asserisce che la questione più importante è l’immigrazione; ma un coro di capitani d’industria replica che gli immigrati sono vitali per il business.

In Irlanda la questione riguarda il confine; in Scozia, potrebbe essere quella di un altro referendum. Nelle strade si attaccano gli stranieri. Sulla stampa, il potere giudiziario. E poiché non c’è possibilità che l’uscita venga negoziata nel giro di due anni, c’è chi adesso parla di un accordo provvisorio, nonostante gli accordi ad interim, notoriamente, durino per sempre. In Gran Bretagna è pura cacofonia.

Nel frattempo il resto d’Europa va avanti con la sua vita, preoccupandosi delle sue economie domestiche, delle sue elezioni, dell’euro e dei rifugiati. Se qualcuno ha il tempo di ricordarsi della Brexit è probabilmente per pensare a quale seccatura sia e sperare che la Gran Bretagna passi oltre.

Il lato positivo è che, guardando al caos in cui versa il Regno Unito, nessuno nel continente oserebbe pensare di ripetere l’esperimento. L’altra reazione più diffusa nell’Europa continentale è lo stupore: che la Gran Bretagna, dalla reputazione di Paese pragmatico, non ideologizzato e molto competente nel badare ai propri interessi, possa imboccare un percorso che appaia folle.

Voto di una notte di mezza estate
Il giorno successivo al referendum, Google Uk ha registrato un picco di ricerche di utenti per la domanda “Cos’è l’Unione europea?”. Wikipedia a riguardo non aiuta molto; e la campagna referendaria ha aiutato ancora meno.

La vera risposta è questa: l’Unione europea è un’unione di stati sovrani che hanno scelto di organizzarsi in una comunità basata sul diritto e sulla cooperazione. “Sovrani” è un termine frainteso in Gran Bretagna. E in particolare che la Corte di Giustizia europea sia contraria alla sovranità nazionale.

Nel mercato unico il Consiglio - ovvero gli stati membri che lo costituiscono - concorda collettivamente le misure: un unico set di regole per tutti equivale a meno burocrazia. Nella giustzia e negli affari interni vi sono regole comuni in alcune aree come l’estradizione, vitale per la sicurezza nazionale. È dunque ragionevole avere una corte comune che interpreti le regole che siano scritte in comune. Ma siamo ancora stati sovrani. La corte costituzionale tedesca riafferma questo principio accettando i trattati, la GB lasciando l’Unione.

I bisbetici, domati
Il quadro della cooperazione e del diritto è così importante proprio perché stiamo parlando di stati sovrani - che non sono sottoposti ad alcuna legge, in senso stretto, e a nessuna autorità. La macchina europea è complicata e la sua copertura ampia, ma gli effetti sono positivi, poiché gli stati europei sono coinvolti in un processo di negoziazione permanente gli uni con gli altri.

La maggior parte del lavoro è svolta per consenso; e quando vi sono differenze negli interessi di fondo o nelle politiche da adottare, è necessario dover “assemblare” gruppi di stati che la pensino allo stesso modo per poter ottenere l’approvazione di un regolamento, o per bloccarne uno indesiderato.

E non si saprà mai di quale appoggio si potrebbe avere bisogno. Ne sono stato testimone nel corso di un memorabile Consiglio europeo. GB e Germania avevano toni piuttosto duri tra loro, sulla questione irachena, ma sulla questione dell’applicazione quote latte erano fianco a fianco.

La morale della storia è che il sistema di negoziazioni permanenti è anche un sistema di amicizie obbligate. Per quanto si possa essere in disaccordo oggi su di una materia, domani si potrebbe aver bisogno di lavorare congiuntamente su di un’altra. Non ci si può permettere di accapigliarsi in maniera definitiva. Questo vale per tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri: è una delle ragioni per cui l’Ue si è mostrata essere un tetto sicuro sia per gli stati piccoli che per quelli grandi e potenti.

Molto rumore per nulla?
Durante il referendum entrambi gli schieramenti hanno speso troppo tempo sull’elemento (spesso fittizio, drammatizzato), dei costi e benefici economici della partecipazione. Mancando proprio il punto nevralgico dell’Unione, che sin dai suoi esordi è sempre stata anche politica. La gestione condivisa del mercato non riguarda solo l’incrementare la prosperità, riguarda anche il migliorare le relazioni fra gli Stati Membri. Che grazie all’Unione, sono ancorate nel diritto e nell’amicizia, non alle leggi del potere.

Ora, noi inglesi abbiamo deciso di esercitare la nostra sovranità respingendo il sistema di diritti e obbligazioni legali dell’Unione, di negoziazione permanente e di amicizia obbligata, tornando al vecchio mondo basato sul potere.

Shakesperare descrive la situazione. La citazione in apertura di questo articolo continua così “ed ogni cosa si dissolverà nella mera battaglia” - vale a dire, una volta che fuori si sia consolidato l’ordine costituito, civile, l’attitudine naturale degli stati sovrani a combattersi tornerà prepotentemente sulla scena.

Quarant’anni di amicizia lo hanno fatto dimenticare a tutti; è per questo che i supporter della Brexit sono così leggeri quando parlano di negoziati commerciali. Quando non c’è legge, conta solo il potere. E possiamo percepirne l’inizio tra Gran Bretagna e Ue.

Shakespeare ci dice dove tutto va a parare. “Tutto si assomma allora nel potere assoluto, ed il potere s’assomma alla sua volta nel volere, e questo in insaziabile ingordigia; e l’ingordigia, lupo universale, forte di questo duplice sostegno, del potere e volere, fatalmente farà dell’universo la sua preda fino così a divorar se stessa”(1).

(1) Traduzione di Goffredo Raponi del Troilo e Cressida. Per il progetto Manunzio dell’associazione Liber Liber. http://178.32.143.54/bibliola/056f3589a0e5c05d3fcd941bff78226d.pdf.

Traduzione dell’articolo di Mariateresa Amatulli
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Sir Robert Cooper è un diplomatico inglese e Special Advisor della Commissione Europea. Membro dell’European Council on Foreign Relations, ha lavorato nelle ambasciate britanniche di Tokyo e Bonn.
 

mercoledì 4 gennaio 2017

Parlamento europeo: elezioni

Ue, valzer di poltrone
Pe: derby italiano con incognita belga
Giampiero Gramaglia
02/01/2017
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È quasi un derby italiano, l’elezione del nuovo presidente del Parlamento europeo: la partita si giocherà martedì 17 gennaio, a Strasburgo.

I due maggiori gruppi dell’Assemblea di Strasburgo, cioè i popolari e i socialisti e democratici, hanno infatti candidato due italiani di grande esperienza europea alla successione di Martin Schulz, socialdemocratico tedesco, che lascerà il posto tenuto per cinque anni - un record: la rotazione delle presidenze era sempre avvenuta ogni due anni e mezzo.

Gianni Pittella, 58 anni, Pd, lucano, capogruppo dei Socialisti e Democratici, e già vice-presidente del Parlamento europeo, sfida Antonio Tajani, 63 anni, Fi, romano, attuale vice-presidente vicario del Parlamento europeo, già vice-presidente della Commissione europea e responsabile dal 2008 al 2014, prima dei trasporti e poi dell’industria. La designazione di Tajani è stata accolta dal suo rivale con un cavalleresco “Vinca il più europeista”.

Che, però, fra i due rischierebbe d’essere il candidato liberale, l’ex premier belga Guy Verhofstadt, forse il più federalista degli attuali leader politici europei, che porta avanti una linea combattiva, all’insegna de “è ora di combattere i compari di Putin, Erdogan e Trump”, cioè i leader populisti che s’atteggiano a ‘uomini forti’. Esprime un candidato italiano anche la sinistra euro-critica: è Eleonora Forenza.

Il tramonto della Grande Coalizione europea
Schulz lascia il Parlamento perché punta a guidare i socialdemocratici tedeschi nella sfida politica di settembre ad Angela Merkel ed al suo binomio Cdu-Csu: una missione quasi impossibile, perché i socialdemocratici stanno subendo più dei cristiano-sociali il logoramento della Grande Coalizione al potere a Berlino dal 2013.

Nel suo testamento politico, Schulz, candidato dei socialisti europei alla presidenza della Commissione europea nel 2014, constata che la cooperazione tra popolari e socialisti nel Parlamento europeo non è più auspicata e chiede voce in capitolo per gli eurodeputati nel negoziato sulla Brexit, “altrimenti - avverte - vi saranno conseguenze”.

Nell’Assemblea di Strasburgo, c’è dunque aria di rottura della coalizione tra popolari e socialisti che, da anni, gestisce dibattiti e decisioni. Uno degli obiettivi era contrastare l’avanzata euro-scettica, la cui onda è diventata marea nelle elezioni del 2014. Ma la mancanza di dialettica politica nei dibattiti europei ha contribuito ad offuscare l’immagine del Parlamento e ne ha intaccato credibilità e influenza.

Pittella ha un programma che vuole essere di discontinuità rispetto al clima di Grande Coalizione targato Schulz (ma la leader dei verdi europei, l’italiana Monica Frassoni, non vede come Pittella possa significare discontinuità). Tajani, che per ottenere la nomination dei popolari ha dovuto battere l’irlandese Mairead McGuinnes, il francese Alain Lamassoure e lo sloveno Lojze Peterle, intende essere “il presidente del consenso”.

Equilibri di potere in bilico
Se la scelta dovesse cadere su un popolare, cioè su Tajani, l’equilibrio delle presidenze che contano nell’Unione sarebbe alterato e altri giochi potrebbero riaprirsi. Attualmente, infatti, il presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, e quello del Consiglio europeo - il polacco Donald Tusk - appartengono entrambi alla famiglia politica europea popolare: se anche il presidente del Parlamento europeo lo fosse, i socialisti reclamerebbero una delle altre due cariche, mentre i popolari nel loro vertice di metà dicembre hanno rivendicato tutti e tre i posti.

Il gioco delle presidenze che contano in Europa è poi completato dall’Eurogruppo, attualmente guidato dall’olandese Jeroen Dijsselbloem, socialista - ma di fatica a percepirlo. Al presidente della Banca centrale europea Mario Draghi non viene invece attribuito colore politico.

Se Juncker appare inattaccabile, Tusk, che non è in sintonia con il suo governo, è più fragile. Ma Elmar Brok, presidente della Commissione Esteri del Parlamento europeo, forse l’eurodeputato più vicino alla Merkel, riavvolge il nastro della storia: "Il posto del presidente di Tusk non è a rischio. La storia dell'equilibrio ai vertici delle istituzioni è un'invenzione. C'è un accordo che prevede che nella seconda metà della legislatura la presidenza dell’Assemblea sia del Ppe … Avevamo proposto nel 2014 ai socialisti la presidenza del Consiglio europeo: potevano averla con Enrico Letta oppure con la leader danese Helle Thorning-Schmidt, ma Matteo Renzi preferì avere Federica Mogherini come Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. È stata una scelta loro”.

Se non ci saranno intese nei prossimi giorni, nessun candidato passerà nelle prime tre votazioni, quando ci vuole la maggioranza assoluta dei votanti: dei 751 eurodeputati, i popolari ne hanno 216, i socialisti 190, i conservatori 75, i liberali 70, 52 la sinistra euro-critica, 50 i verdi, 45 e 38 i due gruppi euro-scettici - in uno c’è il Movimento 5 Stelle, nell’altro la Lega. Al quarto scrutinio, vince chi ha più voti.

Mai un italiano presidente del Parlamento eletto
Un valzer delle poltrone non sarebbe il viatico migliore, per l’Unione europea che ha davanti a sé un anno tormentato - la definizione è del New York Times -: il diffuso scontento rispetto all’establishment politico peserà l’anno prossimo sulle elezioni in Olanda, Francia e Germania (e pure su quelle italiane, se dovessero farsi).

Crescita economica lenta e disoccupazione, sentimento d’insicurezza e preoccupazione per il flusso dei migranti sono i maggiori temi prevedibili delle prossime campagne elettorali, tutti ovunque conditi da un diffuso sentimento anti-europeo.

E se ancora il New York Times s’interroga su quanto sia lontana l’Europa da una svolta a destra, il Financial Times vede planare sull’Unione “la minaccia dell’Italia”. The Guardian trae una ragione di speranza dalle presidenziali austriache del 4 dicembre, dove l’europeista verde Alexander van der Bellen battè il nazionalista euro-scettico e xenofobo Norbert Hofer: “è l’effetto Trump al contrario”.

Da quando viene eletto a suffragio universale, cioè dal 1979, il Parlamento europeo non ha mai avuto un presidente italiano: l’ultimo presidente italiano dell’Assemblea di Strasburgo è stato Emilio Colombo, in carica dal 1977 al 1979, ultimo presidente dell’Assemblea non eletta.

Gaetano Martino ne fu il primo presidente dal ’72 al ’74, Mario Scelba la guidò dal ’79 all’ ’81. Agli albori dell’integrazione, negli Anni Cinquanta, Alcide De Gasperi e Giuseppe Pella presiedettero l’Assemblea comune europea, un’antenata del Parlamento europeo.

Nelle legislature del Parlamento eletto a suffragio universale - siamo all’ottava -, il presidente è sempre stato avvicendato ogni due anni e mezzo, con l’unica eccezione di Schulz che ha fatto cinque anni, due mandati consecutivi a cavallo di due legislature: quattro i tedeschi, tre i francesi, tre gli spagnoli, un britannico, un irlandese, un olandese, un polacco, 12 uomini e due donne, entrambe francesi, Simone Veil, la prima, e Nicole Fontaine.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.