Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 24 febbraio 2017

Unione Europea: il coraggio dell'azione

#Eu60 Re-founding Europe
Assumersi la responsabilità di proporre
Gianni Bonvicini
24/02/2017
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Sessant’anni e li dimostra tutti, verrebbe da dire. Il prossimo anniversario dei Trattati di Roma (1957) non cade davvero in un periodo positivo per l’Unione europea, Ue. Inutile dilungarsi sugli acciacchi interni e sulle sfide esterne del momento. La vera questione sul tappeto è come tirarsi fuori da questa palude e in che modo riprendere il cammino verso “un’unione sempre più stretta” come recita il preambolo del Trattato di Lisbona.

Lo IAI, che nel proprio Dna spinelliano da sempre considera l’Ue come uno dei più straordinari e problematici eventi del dopoguerra, ha avviato da alcuni mesi un’ampia riflessione dal titolo “EU60. Re-founding Europe. The Responsibility to Propose”.

L’iniziativa è stata presa in accordo con il Ministero degli Esteri in collaborazione con il Centro Studi sul Federalismo (CSF) di Torino e con il sostegno della Compagnia di San Paolo. Sul sito dello IAI appaiono contributi di nostri colleghi di istituti dei sei Paesi fondatori (di qui la “Responsibility to Propose”) e di altri due centri europei (CEPS e EPC di Bruxelles).

Approfondire le ‘integrazioni differenziate’
La direzione che si è deciso di prendere è quella di approfondire le cosiddette “integrazioni differenziate” per tamponare il fenomeno delle “exit” e trovare delle forme di integrazione, previste dai trattati (non è tempo di revisione degli stessi), che permettano ad alcuni Paesi di procedere con più decisione, senza dovere aspettare che tutti i 27 sopravvissuti alla Brexit si mettano d’accordo.

Ma se questo può essere lo strumento, forse scontato ma di difficilissima attuazione, è davvero difficile oggi presentarsi all’opinione pubblica a “vendere” un meccanismo un po’ barocco e certamente privo di attrattiva. La primissima cosa da fare sarà perciò quella di tentare di rovesciare la narrativa oggi prevalente intorno all’Ue. Sarebbe bene, in altre parole, ri-spiegare ai nostri cittadini quale è la finalità di questa grande avventura che oggi compie 60 anni.

La sete di pace e i rischi per la pace
Forse è bene ricordare ancora che è stata la sete di pace in Europa a dare il via ai grandi progetti politici di allora. E che oggi la pace non è proprio un fatto scontato: basta dare un’occhiata nei nostri dintorni per capire che le occasione per riprendere qualche forma di conflitto nel nostro continente non sono poi così teoriche.

Il cammino sulla strada dell’integrazione ha poi aggiunto altre ragioni importanti per procedere assieme: la diffusione del welfare nei nostri Paesi, la tutela dei diritti personali, la libertà di movimento e di mercato, il mantenimento della democrazia, tanto per citare alcune finalità generali.

Più in particolare, tuttavia, il cuore di tutti questi obiettivi è stata l’adozione di un principio di multilateralismo nelle relazioni fra i Paesi dell’Unione, respingendo la vecchia (e oggi rinascente) teoria dell’equilibrio fra le potenze per gestire le relazioni internazionali.

No a relazioni basate sulla forza dei singoli Stati
Questi valori e questo principio costituiscono l’identità profonda su cui si regge l’Ue e che oggi, in periodo di diffuso policentrismo, mantengono ancora il significato di rifiuto di relazioni basate sulla forza dei singoli Stati. È evidente tuttavia che questa straordinaria identità europea debba poi alimentarsi di fatti concreti e quindi di politiche che vengano percepite dai cittadini come effetto positivo dello stare assieme. Valori, quindi, ma anche politiche.

Qui entrano perciò in gioco le quattro aree in cui si debbono sviluppare le azioni comuni: un’economia che ci dia qualche speranza di nuova crescita dopo la crisi non ancora completamente riassorbita del 2008 e allo stesso tempo salvaguardi il mercato interno; la sicurezza interna ed esterna nella lotta e prevenzione del terrorismo; un soprassalto di creatività e solidarietà nel gestire l’immigrazione; una maggiore capacità a confrontarci insieme con i grandi attori internazionali, dalla Russia alla Cina, ma anche gli Sati Uniti.

Quattro aree per azioni comuni
Solo a questo punto possono entrare in gioco le “integrazioni differenziate”, perché è abbastanza evidente che non tutti vogliano o possano aderire ad una eventuale difesa europea, come non tutti partecipano alla moneta unica. I vari documenti prodotti dal nostro gruppo di studio approfondiscono le modalità di integrazioni differenziate nei vari campi, ma con alcuni caveat importanti.

Innanzitutto va respinto il concetto che è emerso dalle le recenti dichiarazioni (forse male espresse) di Angela Merkel sulla doppia velocità. Le integrazioni differenziate non hanno nulla da spartire con quel concetto che di fatto intende dividere l’Unione. Anzi, va ribadito che le integrazioni differenziate rappresentano un vantaggio per i Paesi aderenti tanto da rendere troppo costoso uscirvi; ma soprattutto che il gruppo rimarrà unito e non vi saranno differenziazioni nella differenziazione.

Il secondo problema da affrontare è come si governano tre o quattro diversi gruppi integrati (es. il gruppo Euro con quello eventuale sulla difesa e con un altro su Schengen). Va quindi definito sia il ruolo della Commissione che del Consiglio europeo. In aggiunta si potrebbe porre la questione dei Paesi che partecipano a tutti i gruppi (il cosiddetto core) e la cui collocazione rispetto agli altri dovrà essere in qualche modo riconosciuta. Infine va aggiunto un altro problema, davvero grande, che si riassume nel controllo democratico sull’azione di questi diversi gruppi.

Gli interrogativi e la mancanza di alternative
Insomma le stesse integrazioni differenziate, pur previste dai trattati, pongono una serie di interrogativi di non facile lettura soprattutto per un normale cittadino. Eppure altre strade non se ne vedono. Quello che più preoccupa è tuttavia il silenzio dei leader politici e di governo europei su questi temi. Tutti occupati a combattere gli euroscettici che tentano di detronizzarli.

Invece di adottare strategie che rovescino la facile narrativa dei nazionalisti passano il loro tempo ad inseguirli, utilizzando argomentazioni di sapore vagamente euroscettico, ma evidentemente molto meno credibili di quelle espresse dai loro avversari.

Basti vedere lo svolgimento della campagna elettorale in Olanda dove il premier Mark Rutte scimmiotta, senza convincere, il nazionalista Geert Wilders. In questo modo si indebolisce ulteriormente il cammino verso una maggiore integrazione.

Di qui il nostro appello alla Responsabilità di Proporre in un tempo in cui fare ragionamenti un po’ meno scontati sembra particolarmente difficile, soprattutto in un’Europa che vede ben pochi leader impegnati a sostenere le ragioni più che mai profonde e necessarie di una crescente integrazione. Speriamo che il 25 marzo vada oltre una semplice cerimonia e fissi una nuova roadmap per il futuro dell’Ue.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

martedì 21 febbraio 2017

Franca: verso le elezioni generali

Francia
Parigi, presidenziali a rischio coabitazione
Jean-Pierre Darnis
20/02/2017
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Le presidenziali francesi della prossima primavera si annunciano come uniche nella storia politica d’Oltralpe. Per la prima volta, l’estrema destra del Front National sembra essere nettamente in vantaggio al primo turno, traducendo a livello nazionale i numerosi consensi che aveva già ricevuto in occasione delle elezioni regionali dello scorso anno. Marine Le Pen, candidata del Front, dovrebbe quindi riuscire a qualificarsi senza troppe difficoltà per il ballottaggio fra i due candidati più votati.

Questo scenario modifica in modo sostanziale la prassi politica della Quinta repubblica francese, basata fino ad oggi sull’alternanza fra centrodestra e centrosinistra. I due campi in competizione, pur non raggiungendo mai la maggioranza assoluta, venivano infatti tradizionalmente premiati dal sistema maggioritario a doppio turno, che eliminava le piccole formazioni facendo emergere in maniera netta uno o l’altro partito, tanto alle politiche quanto alle presidenziali.

La frammentazione del voto francese constatata nelle ultime consultazioni - con la solidificazione di un terzo polo (il Front National) e l’emergenza potenziale di un quarto (il movimento centrista “En Marche” di Emmanuel Macron) - rende disfunzionale un sistema che non facilita le coalizioni e che, nel contesto attuale, rischia di premiare in modo artificioso delle formazioni con un consenso molto relativo. Va ricordato, ad esempio, che nell’attuale legislatura il Front National (primo partito in termini di suffragi espressi nelle regionali del 2016) ha appena due deputati e un senatore.

La parentopoli di Fillon
A fine novembre, l’ampia vittoria di François Fillon alle primarie del centrodestra sembrava aver ristabilito lo scenario classico: dopo Hollande, si preparava l’alternanza all’Eliseo con la destra governativa dei Républicains, in grado di aggregare consensi arginando il Front National a destra e Macron al centro. La successiva e sofferta designazione del massimalista Benoît Hamon alle primarie socialiste aveva poi segnato le sorti di un partito ormai incapace di attrarre il voto centrista, fondamentale per la conquista della presidenza.

Nell’insieme, il panorama era caratterizzato da un rinnovamento del personale politico, con l’esclusione sia dell’attuale presidente della Repubblica, François Hollande, che aveva fatto un passo indietro non ricandidandosi, sia del suo predecessore, Nicolas Sarkozy, arrivato terzo alle primarie dei Républicains. Esponenti politici rigettati per stanchezza nei confronti del potere e perché percepiti come figure discutibili, anche da un punto di vista etico, in grado di spingere l’elettorato verso un voto di protesta a favore dell’estrema destra, nel caso di una loro presenza al secondo turno delle elezioni.

A fine gennaio, un’inchiesta pubblicata dal settimanale “Le Canard Enchainé” ha fatto poi emergere l’ipotesi di un impiego fittizio quale assistente parlamentare per la moglie di Fillon, Penelope; elemento poi ripreso dalle procure. Da questo momento in poi, la candidatura di Fillon è stata azzoppata.

L’ex premier aveva costruito la sua campagna durante le primarie proprio su una rivendicazione etica, riuscendo anche a mobilitare attorno a sé il voto cattolico, di solito piuttosto guardingo in termini morali. Adesso grida al complotto mediatico, mentre solo pochi mesi fa denunciava il fatto che i media prestavano troppa poca attenzione agli aspetti etici della vita politica. Nel campo dei Républicains è in atto una paralisi intorno al nome di Fillon: tutti si sono accorti delle difficoltà della campagna, ma non si riesce a trovare un candidato per il cambio in corsa, tanto sono forti le rivalità fra i vari pretendenti.

Socialisti frondisti, Macron ne approfitta
A sinistra la vittoria di Hamon rappresenta uno scenario bizzarro. Hamon fa parte dei “frondeurs”, quel gruppo di deputati socialisti dissidenti che, molto critici nei confronti della politica economica e sociale portata avanti dai governi Ayrault e Valls, chiedevano una decisa sterzata a sinistra. Hamon, con una carriera nelle periferie, si fa portavoce anche di un discorso relativamente aperto nei confronti dei musulmani e mette sul tavolo la proposta di un reddito universale.

Queste posizioni hanno un contenuto ideologico che apre uno spazio maggiore a destra dei socialisti, slittamento di cui dovrebbe approfittare Macron. Per il leader di “En Marche”, già ministro delle Finanze del governo Valls, i pianeti sembrano allinearsi: l’indebolimento di Fillon e lo spostamento a sinistra dell’asse socialista rafforzano infatti la sua candidatura al centro dello scacchiere politico. Senza contare, tra l’altro, che una fetta “governativa” dei socialisti ha già iniziato a convergere sulla sua candidatura, e che alcuni moderati del centrodestra si dichiarano pronti a votare per lui in caso di ballottaggio con la Le Pen.

Macron sconta però debolezze di fondo, come la difficoltà di esprimere un programma - operazione rischiosa per il suo campo -, ma soprattutto il fatto di non avere un partito alle spalle, il che crea un problema per le elezioni legislative che seguiranno le presidenziali.

Legislative, rompicapo per la governabilità 
La situazione per le presidenziali è quindi volatile. Nel caso di un secondo turno Le Pen/Fillon, Le Pen/Macron o Le Pen/Hamon, nessuno dei candidati ha la vittoria in tasca. Marine Le Pen dovrebbe raggiungere percentuali elevate al primo turno - anche attorno al 30% -, ma potrebbe poi avere difficoltà ad allargare i consensi al ballottaggio.

Fillon, Macron e Hamon potrebbero aggirarsi tutti attorno al 20 %, chi più, chi meno. Il primo potrebbe successivamente raggruppare attorno a sé un “fronte repubblicano” di opposizione alla Le Pen. Su questo scenario pesano però forti interrogativi tanto sulle capacità di ciascuno di aumentare i consensi, quanto sul rischio astensionismo da parte di un elettorato diffidente rispetto ad alcune personalità sia per motivi ideologici, ma anche e soprattutto etici.

Infine, dopo la vittoria di uno di questi quattro candidati, le successive legislative sembrano tutt’altro che scontate. Si delinea uno scenario di frammentazione delle forze politiche difficile da gestire nel contesto maggioritario, e quindi un rischio di coabitazione fra presidenza e governo che può prendere le forme più varie. Anche quella di una presidenza Front National con un governo di coalizione fra Républicains, “En Marche” e socialisti. Scenario che porterebbe a ulteriori complessità con ovvie ripercussioni europee.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e direttore del Programma di ricerca su sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).

lunedì 20 febbraio 2017

GERMANIA: l'austerità sotto la lente

Ue-Usa
Protezionismo à la Trump: ricetta anti-austerità tedesca
Simone Romano
13/02/2017
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I veri conoscitori del nuovo presidente americano e della sua personalità non si sono certo fatti stupire dalla prontezza con cui Donald Trump ha tenuto fede alla sua promessa di ritirare gli Stati Uniti dal Trans Pacific Partnership (Tpp).

L’inasprimento dei rapporti commerciali con le economie a bassi salari da cui provengono molte delle merci importante dagli Usa è sempre stato uno dei punti nodali nella sua offensiva volta a favorire le imprese statunitensi che producono sul territorio nazionale e danno lavoro ai cittadini americani.

Molti però pensavano che questo non implicasse un peggioramento dei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Unione europea, Ue. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Peter Navarro, appena nominato alla guida del Consiglio nazionale sul Commercio della Casa Bianca, hanno messo in dubbio questa visione ottimistica: il professore dell’Università della California si è espresso duramente contro la Germania e l’Euro, descritto come “un implicito marco tedesco svalutato volutamente per favorire le esportazioni”.

Le tesi di Navarro: realistiche o esagerate?
Le parole di Navarro hanno suscitato dure reazioni da parte del governo tedesco e da parte di alcun esponenti europei quali il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem.

Allo stesso tempo, va riconosciuto come nelle dichiarazioni del consigliere di Trump riecheggiano molte delle argomentazioni usate da diversi Paesi membri dell’Eurozona (e, più recentemente, dalla stessa Commissione europea) per chiedere alla Germania un comportamento diverso nella gestione della propria politica fiscale.

Certamente non si può accusare la Germania di aver spinto o supportato Mario Draghi nel mettere in atto le politiche iper-espansive di questi anni. Anzi, l’establishment tedesco si è schierato più volte pubblicamente contro le mosse della Banca centrale europea, Bce, ritenute dannose per i risparmiatori tedeschi e pericolose per gli squilibri e le bolle finanziarie che potrebbero favorire.

Tuttavia, seppure la Germania non abbia mai sostenuto le misure monetarie alla base del deprezzamento nominale dell’Euro, lo Stato mitteleuropeo è senza dubbio quello che ne ha tratto maggior vantaggio, anche grazie al netto deprezzamento del suo cambio reale.

Le ragioni del surplus tedesco
Le ragioni dello sproporzionato surplus tedesco vanno cercate nei primi anni 2000, quando quello che veniva definito “il grande malato d’Europa” intraprese una riforma radicale del mercato del lavoro, la riforma Hartz, che portò a una marcata riduzione del tasso di crescita del costo del lavoro in Germania rispetto agli partner europei.

Questa dinamica negli anni ha aumentato sensibilmente la competitività delle imprese tedesche. Non si può certo imputare come una colpa alla Germania il successo di una strategia politica difficile e dolorosa. Tuttavia, se lo stato governato da Angela Merkel avesse avuto una propria moneta, si sarebbe assistito a un apprezzamento nominale della stessa causato dalla crescente domanda per le merci tedesche. Ma, a causa dell’appartenenza della Germania alla moneta unica europea, ciò non è accaduto, permettendole di continuare ad avere avanzi commerciali record per molto tempo.

La Germania dal canto suo ha sempre visto il suo surplus commerciale come un merito e un segno di forza della sua economia. Non ci si può quindi realisticamente aspettare che il governo tedesco metta in atto politiche volte a ridurlo, andando così contro il suo interesse nazionale.

Va notato però che questo avanzo della bilancia dei pagamenti si accompagna all’avanzo dei conti pubblici, rafforzando le dinamiche contrarie alla crescita dei prezzi. Il risultato è che questo “twin surplus” continua a favorire la competitività delle imprese tedesche, anche a scapito del rapido depauperamento dello stock di capitale fisico (soprattutto infrastrutturale) dello Stato federale tedesco.

Trump e Renzi, due leve diverse
L’Italia, soprattutto durante il governo Renzi, è assurta al ruolo di rappresentante del malcontento europeo contro le politiche tedesche. Non potendo costringere la Germania a vedere i danni che il suo surplus commerciale ha arrecato ai Paesi del Sud Europa, l’invito, raccolto recentemente anche dalla Commissione, era quello di mettere in atto delle politiche economiche che si rivelassero sì più congeniali agli altri membri dell’Eurozona, ma che primariamente non fossero contrarie ai suoi interessi nazionali.

Ciò si concretizzava nello spingere la Germania a una politica di investimenti pubblici che, date le condizioni attuali, non solo non appesantisse la dinamica del debito tedesco, ma migliorasse la produttività del lavoro nel lungo termine, ravvivando anche l’anemica domanda interna.

Ciò, a sua volta, spingerebbe al rialzo i salari tedeschi, diminuendo la competitività tedesca attraverso un apprezzamento del suo cambio reale. Inoltre, l’aumento della domanda aggregata della maggiore economia europea avrebbe effetti positivi sull’economie dei maggiori partner europei attraverso gli effetti di spillover.

Tuttavia, sino ad ora, la Germania ha respinto senza troppo fatica ogni offensiva, venisse essa dal governo italiano o dalla Commissione europea. Ora però queste argomentazioni sono state raccolte da un Paese che può vantare un peso totalmente diverso in termini di interesse nazioale tedesco, essendo in assoluto il più importante mercato di sbocco delle merci tedesche.

Nelle prime settimane da presidente in esercizio, Trump ha dimostrato come, se ritiene che un Paese stia avendo un atteggiamento dannoso nei confronti dell’economia statunitense, non si faccia scrupoli nell'osteggiarlo.

La minaccia di uno spregiudicato protezionismo à la Trump verso le merci tedesche e europee costituisce certamente un’eventualità non molto probabile, ma tuttavia in grado di scuotere maggiormente l’establishment tedesco dato il suo potenziale impatto sugli interessi nazionali.

Sarà forse Trump il fattore in grado di spingere finalmente la Germania verso un cambiamento delle politiche economiche? Per rispondere bisognerà attendere il risultato elettorale e la formazione del nuovo esecutivo federale. Nel frattempo però prepariamoci a un G7 a presidenza italiana e a un G20 a presidenza tedesca decisamente interessanti.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.

lunedì 13 febbraio 2017

Bucarest: il popolo si ribella

Europa
Romania, la piazza ferma il governo
Mihaela Iordache
06/02/2017
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Quasi 500.000 persone sono scese nelle strade della Romania nella serata di domenica per protestare contro il governo. Questo nonostante l’esecutivo a guida socialdemocratica, in carica da appena un mese, avesse fatto poche ore prima un passo indietro, ritirando - dopo cinque giorni di manifestazioni -, l’ordinanza d’urgenza che, tra le altre cose, depenalizzava l’abuso d’ufficio.

Nella capitale, oltre 250.000 persone si sono radunate in piazza Victoriei, davanti alla sede governo, chiedendo le dimissioni del primo ministro Sorin Grindeanu.

Manifestazioni di piazza così ampie non si vedevano dai giorni della rivoluzione romena del 1989, quando cadde il regime comunista di Nicolae Ceaușescu e quando la gente chiedeva, dopo anni di autoritarismo, la libertà. A 27 anni distanza, i romeni scendono di nuovo in piazza, dopo le elezioni politiche del dicembre scorso, stavolta per difendere la lotta alla corruzione.

“Giù le mani dal dipartimento nazionale anti-corruzione”, aveva ribadito nei giorni scorsi anche il capo dello Stato Klaus Iohannis. La corruzione dilagante è, infatti, una delle maggiori cause della povertà della Romania.

Il passo indietro
Sotto la pressione della piazza, il primo ministro Grindeanu ha ritirato, domenica pomeriggio, la controversa ordinanza che modificava il codice penale e incoraggiava, a detta dei manifestanti, comportamenti corruttivi: dopo l'ordinanza d'urgenza venivano di fatto considerati di rilevanza penale solo i fatti di corruzione il cui danno superava i 44.000 euro.

Una legge ad personam, sottolineavano i critici del governo, fatta su misura per il presidente del partito socialdemocratico (Psd) Liviu Dragnea, attualmente sotto processo e proprio per questo impossibilitato ad assumere egli stesso la carica di primo ministro dopo il voto di due mesi fa.

Ma Dragnea è comunque considerato colui che di fatto imposta la politica dell'attuale governo, una sorta di premier de facto. Il diretto interessato respinge tutte le accuse al mittente e si dice preoccupato per la pace sociale del Paese.

Il governo, invece, ha da parte sua invitato i partiti e la società civile a dialogare in merito alle proposte di legge inviate dall'esecutivo in Parlamento, tra le quali una legge d'amnistia, che per l'opposizione sarebbe un altro strumento per liberare molti politici corrotti.

La marcia indietro è probabile sia avvenuta non solo per la pressione della piazza ma anche per quelle arrivate dalla Commissione europea e da molti paesi partner della Romania in seno all’Ue ma anche nella Nato.

L'annullamento dell'ordinanza è già stato pubblicato in Gazzetta ufficiale; ma rimane una grande ambiguità: il governo - formato dai socialdemocratici e dai liberaldemocratici del presidente del Senato Calin Popescu Tăriceanu - ha in fatti elaborato al tempo stesso un progetto di legge di riforma del codice penale che sarà aperto al dibattito pubblico per trenta giorni.

La proposta di legge va ad aggiungersi ad una serie di altre iniziative di riforma della giustizia che sono in attesa di essere vagliate dall'assemblea di Bucarest.

Crisi istituzionale
La Romania è però, ormai, divisa. Ed è quanto mai necessario un nuovo e vero dialogo istituzionale. Il partito socialdemocratico ha sì vinto le elezioni di dicembre con circa il 45% dei voti, ma la maggioranza schiacciante è tuttavia mitigata dalla bassa affluenza alle urne, attorno al 40% degli aventi diritto: un minimo storico per le elezioni democratiche successive al 1989.

I socialdemocratici chiedono ora che venga rispettato l’esito del voto, e che venga loro permesso di governare, accusando la minoranza di voler rovesciare il potere legittimo.

A breve, il governo - che gode di un’ampia maggioranza parlamentare - dovrà infatti fare i conti anche con una mozione di sfiducia avviata dall’opposizione. Ma sono da notare anche le prime defezioni in seno alla stessa maggioranza: alcuni membri del Psd hanno preso le distanze dalla politica del governo circa le misure che riguardano la giustizia.

Come ai tempi di Ceaușescu
La partecipazione alle manifestazioni di piazza è stata molto variegata e si sono viste anche tante famiglie con bambini. Nella serata di domenica, dopo il dietrofront del governo Grindeanu, a Timișoara - la città simbolo della rivoluzione dell’89 - ma anche a Cluj, Iași, Sibiu e ovviamente nella capitale Bucarest la folla cantava in coro l’inno nazionale: "Risvegliati romeno!”.

In segno di solidarietà ci sono state proteste dei romeni anche a Londra, New York, Roma e Sofia (nella capitale bulgara alcuni cittadini hanno manifestato davanti all’ambasciata del Paese vicino).

Nel frattempo, a Bucarest, si è registrata anche una reazione alla protesta, con circa un migliaio di sostenitori del Psd radunati davanti a Palazzo Cotroceni, sede della presidenza, per manifestare contro le prese di posizione del presidente della Repubblica Iohannis, che intanto si prepara a intervenire davanti alle Camere riunite per ribadire l’importanza del contrasto alla corruzione.

Mihaela Iordache è corrispondente da Bucarest per Osservatorio Balcani e Caucaso.

Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso.

venerdì 10 febbraio 2017

Gran Bretagna: cercare nuove relazioni dopo la frittata della brexiti

Gb tra Usa e Turchia
Brexit: May cerca partnership e chiude un occhio
Bianca Benvenuti
05/02/2017
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La premier britannica Theresa May ha stretto un accordo con il presidente della Repubblica turca Recep Tayyip Erdogan per la costruzione di 250 jet da combattimento per l’aviazione turca: 100 milioni di sterline il fondo destinato al finanziamento di questo primo passo per rinvigorire la partnership strategica tra i due Paesi.

Theresa May è atterrata in Turchia con un volo diretto da Washington, dove nei giorni precedenti aveva incontrato il neo-presidente Usa Donald Trump. Il viaggio è stata la prima occasione concreta per dimostrare il potere di contrattazione bilaterale del Regno Unito in vista della Brexit.

Nuove partnership strategiche
In particolare, la May è alla ricerca di accordi commerciali bilaterali con il fine di rafforzare la posizione britannica nei confronti di Bruxelles. Il premier è stato opportunisticamente il primo capo di governo ad incontrare Trump dopo l'insediamento alla presidenza, e anche il primo leader europeo a recarsi in Turchia dopo il colpo di stato tentato dello scorso luglio. Fatti simbolici che tradiscono l’urgenza del governo britannico di stringere nuove relazioni di amicizia.

Al suo arrivo ad Ankara, la May ha visitato la tomba di Mustafa Kemal - meglio conosciuto come Atatürk, padre dei turchi -, prima di recarsi dall’uomo che sta tentando di diventarne erede politico e successore carismatico.

Nell’incontro con il presidente Erdogan, il Regno Unito ha acconsentito a stanziare 100 milioni di sterline per il finanziamento della costruzione di 250 jet da combattimento per l’aviazione turca, aprendo così la strada ad una rinnovata partnership strategica in materia di difesa tra i due Paesi. I fondi serviranno per la cooperazione tra l’industria aerospaziale turca (Tusas) e la società inglese Bae Systems per sviluppare il programma TF-X per le forze aeree turche.

Al centro dell’incontro anche le questioni di Cipro, della Siria e della lotta al terrorismo, ma soprattutto la promessa reciproca di istituire un gruppo di lavoro per aumentare il volume degli scambi tra i due Paesi da 15,6 a 20 miliardi di dollari. Questa convergenza di posizioni sembra anticipare una nuova partnership tra Londra e Ankara, entrambe alla ricerca di amicizie internazionali.

La May chiude un occhio
In risposta alle critiche di chi non vede di buon occhio la vendita di risorse militari al governo dell’Akp, il portavoce di Downing Street ha dichiarato che le preoccupazioni riguardo il rispetto dei diritti umani da parte di Ankara sono una questione diversa da quelle affrontate dai due leader durante l’incontro.

Sul tema è intervenuta anche la May che, durante la conferenza stampa con il presidente Erdogan, ha dichiarato di essere orgogliosa di appartenere a un Paese che ha da subito espresso la sua vicinanza alla democrazia turca a seguito del colpo di stato tentato e ha aggiunto che “è importante che la Turchia sostenga la democrazia, rispettando lo stato di diritto e i suoi doveri in materia di diritti umani, impegno che il governo ha già intrapreso”.

La May evita perciò di compromettersi e sta al gioco della diplomazia, citando la questione dei diritti umani, ma senza rischiare di far innervosire il presidente turco, noto per la poca pazienza nei confronti di chi ne critica l’operato.

Organizzazioni dei diritti umani e altri osservatori in Europa sono in questi giorni più duri nei confronti del governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), che ha arrestato decine di migliaia di persone a seguito del colpo di stato tentato. Le purghe hanno colpito circa 40 mila giornalisti e numerosi oppositori politici, tra cui i due co-leader del filo curdo Partito democratico dei Popoli (Hdp).

Accordi con gli “uomini forti”
Allo stesso modo, la May ha evitato di commentare la controversa decisione del presidente Trump di sospendere l’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di sette Paesi musulmani.

Proprio durante la conferenza stampa con il primo ministro turco Binali Yildirim, ha evaso le domande dei giornalisti che le chiedevano un commento sul decreto anti-immigrati di Trump. Mentre la sua controparte turca non ha esitato a reagire con sdegno alla decisione della Casa Bianca, per la May la realpolitik ha trionfato, ancora una volta.

Insomma, in uno slalom tra le questioni più spinose, la May si concentra su quello che le interessa di più: stringere nuove relazioni, in particolare in tema di difesa e scambi commerciali, per rafforzare la posizione contrattuale del suo Paese in vista della Brexit.

Bianca Benvenuti è stata visiting researcher, Istanbul Policy Centre (IPC). Durante il suo periodo di ricerca presso lo IAI, si è occupata di relazioni Ue-Turchia e di crisi migratorie.

Gran Bretagna: nel pantano della brexit

Gb vs Ue
Brexit: la May tra Bruxelles e Washington
Antonio Armellini
02/02/2017
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La Corte Suprema britannica ha confermato la necessità di un passaggio parlamentare prima di avviare il negoziato sulla Brexit, contribuendo a fare chiarezza in una situazione che resta molto, molto confusa ed incerta.

Ha rintuzzato le tentazioni secessioniste di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, ma per quel che riguarda Edimburgo la sfida sembra rinviata, piuttosto che annullata.

La ‘Royal prerogative’ invocata da Theresa May ha subito un ridimensionamento dalle implicazioni costituzionali rilevanti per l’azione del governo, specie in politica estera. Sembrano essersene accorti in pochi nel resto d’Europa, dove l’intero meccanismo appare di difficile comprensione, scarsamente democratico e quasi esoterico, ma la dice lunga circa le differenze che - anche sotto questo aspetto - rendono più larga la Manica.

La battaglia si sposta ora sui termini del provvedimento con cui il Parlamento autorizzerà l’avvio del negoziato: la May punta su un testo ‘secco’ e su un White Paper privo di indicazioni dettagliate, per evitare di precostituire gabbie negoziali che rischierebbero di indebolire il suo margine di manovra (argomento questo, fra i pochi condivisibili della posizione britannica).

Il fronte del remain cercherà di allungare il brodo con emendamenti più o meno vincolanti, ma la conclusione non dovrebbe discostarsi molto da quanto vuole il governo.

Inevitabilità della Brexit? Scenari
Alla Camera dei Comuni c’è una maggioranza trasversale contraria alla Brexit e il Paese è profondamente diviso, come non ci si scorda di sottolineare, ma è difficile che possa pronunciarsi contro quella che è stata pur sempre una manifestazione legittima della volontà popolare, ancorché “consultiva”.

Sarebbe troppo in contrasto con la visione del rapporto fra rappresentanza e democrazia in cui si sostanzia la tradizione parlamentare britannica. Altrettanto vale per la Camera dei Lord, dove la maggioranza dei remainers è schiacciante: cedere alla tentazione di un filibustering finirebbe per accentuare la crisi di credibilità di una istituzione la cui legittimazione è già per molti versi sotto attacco.

Un contro-referendum a breve, aldilà delle petizioni e dell’iperbole mediatica, non è credibile, ma la battaglia non è finita e potrebbe riproporsi al momento della conclusione del negoziato. Se, come è probabile, questa dovesse essere assai più pesante per Londra di quanto prospettato, delusione e proteste potrebbero spianare la strada ad un nuovo referendum (non più sulla Brexit, bensì sull’accettabilità del suo risultato), ma prima e soprattutto a un passaggio parlamentare questa volta di sostanza.

È uno scenario su cui sta lavorando un gruppo traversale che a livello politico va da Peter Mandelson a Kenneth Clarke e trova con personalità come John Kerr una eco più vasta in parti significative dell’opinione pubblica. Resta da chiedersi come si riuscirebbe a gestire il pasticcio di una Londra che, giunta alla fine del percorso, chiedesse di fare marcia indietro con il rischio molto concreto di far esplodere le contraddizioni all’interno dell’Ue che il negoziato avrebbe messo in evidenza. Si salverebbe l’unità dei Ventotto, forse, ma a un prezzo pesante.

Incognite e prospettive del negoziato
Se è vero che il Trattato di Lisbona indica un termine di due anni, concludere una trattativa di questa complessità in un tempo che sarà caratterizzato da scadenze elettorali importantissime, sembra sempre più velleitario. Senza contare che il negoziato sulla Brexit è solo la premessa di una sistemazione più complessa dell’insieme delle relazioni con quanto resterà dell’Ue che, contrariamente a quanto vorrebbe Londra, non potrà essere condotta in parallelo. La possibilità di una proroga, che Lisbona prevede anche se tutti fingono di ignorarlo, si fa sempre più concreta: un rompicapo che contribuirà a ingarbugliare ancor più la vita dei Ventisette.

Il discorso di Theresa May a Lancaster House è stato interessante non tanto per i contenuti - più o meno noti o prevedibili - quanto per i toni. Ha rispecchiato l’approccio tradizionale britannico di “sparare alto” sin dall’inizio, per fare emergere i punti di fragilità della posizione avversaria e condizionare a proprio favore lo sviluppo del negoziato. Rientra in tale approccio il misto fra arroganza e condiscendenza con cui sono stati trattati i temi della difesa e della sicurezza, così come i riferimenti al danno che i Ventisette subirebbero nel recidere ogni legame con un Paese membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ecc.

Tutto ciò potrebbe rientrare nella normalità - passporting finanziario e accesso al mercato unico sono fondamentali per Londra -, se non tradisse una possibile, e assai pericolosa, sottovalutazione del clima che per ragioni diverse e talvolta opposte sta maturando fra i Ventisette, dove la bilancia fra comprensione ed insofferenza per le richieste britanniche tende a pendere vieppiù verso la seconda.

Le elezioni condizionano francesi e tedeschi, gli italiani non sono né di qua né di là, polacchi, ungheresi e altri non sono pronti a dare spago a Londra.

Rischi di frammentazione e ombre di dissoluzione
C’è una preoccupazione crescente che la Brexit possa innescare un processo di frammentazione dietro il quale si staglia l’ombra della dissoluzione dell’Ue. L’Europa la vogliono cambiare un po’ tutti, ma nessuno è pronto a rinunciarvi; anche quelli fra i vari populisti che dicono di volerlo non sanno bene come e, soprattutto, non sono disposti a farlo seguendo diktat britannici.

Le percezioni psicologiche sono fondamentali in una trattativa dalle mille sfaccettature, come quella che si annuncia: sarà indispensabile tenerlo sempre a mente per evitare di finire in situazioni da cui potrebbe risultare molto costoso uscire. Né Londra né Bruxelles sembrano avere ancora valutato a fondo questo aspetto: quanto prima ci riusciranno, tanto prima si allontaneranno da uno scenario da chicken game.

L’asse con Donald Trump fa parte di una visione britannica ben descritta dall’Economist in una vignetta in cui allo stesso tavolo siedono Trump, che addenta una bistecca dalla forma della Gran Bretagna, e May che guarda un bicchiere d’acqua mezzo vuoto. Aveva annunciato un programma di governo volto a recuperare la tradizione popolare del partito conservatore e si trova con un compagno di viaggio concettualmente agli antipodi, da cui ha poco da guadagnare e che molto danno, per contro, può fare all’Ue.

L’evocazione di stampo churchilliano di una Gran Bretagna con ma non in Europa e ancorata al Commonwealth, che recupera la missione storica di potenza marittima rivolta verso il Mondo, può servire a raccogliere consenso in una parte dell’opinione pubblica, ma è lontana dalla realtà.

Trump è un presidente che non vuole aprirsi ad un mondo di liberi commerci, ma chiudersi al proprio interno, il Commonwealth è a metà fra una associazione culturale e un elegante relitto storico. I rapporti di forza sono quelli che sono e un accordo commerciale bilaterale non si negozia in trenta giorni e neanche in trenta mesi (senza contare che i vincoli Ue magari non sembrano rilevanti a Washington, ma invece ci sono).

Il danno che l’Amministrazione Trump può fare all’Ue - che la stessa May dice di voler difendere - è assai maggiore dei vantaggi che Londra potrebbe sperare di conseguire in un futuro peraltro lontano e incerto. E tuttavia, la seduzione della via americana ha molto a che vedere con quella divaricazione di percezioni psicologiche di cui si è fatto cenno e che, proprio per questo, va presa molto sul serio.

Come andrà a finire? Gli scenari catastrofisti sono sempre di moda, ma se una previsione si può tentare adesso è che dovremmo prepararci a un percorso assai più lungo di quanto si è sin qui detto, che dovrebbe poter concludersi con uno dei tanti compromessi con cui si è sin qui mantenuto in vita il processo europeo. Ma se dovesse fallire, il rischio di disintegrazione diverrebbe tutt’altro che aleatorio.

Antonio Armellini è Ambasciatore d’Italia.