Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 25 ottobre 2013

Regno Unito: Dopo Margaret Tachter, l'Irlanda

L’insieme di Irlanda del Nord, Galles, Scozia e soprattutto Inghilterra sembra dimostrarsi un regno sempre meno unito. La spinta irridentista mossa dalle minoranze è solo una delle tante sfide che questo paese ai confini dell’Europa deve porsi. Dopo la scomparsa di Margaret Thatcher e forse di tutto il thatcherismo, c’è da chiedersi come siano cambiati la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord e quanto la Lady di ferro ed il suo governo abbiano plasmato il profilo attuale di questo paese. In particolare, in Irlanda del Nord, il suo governo ha dovuto affrontare trent’anni di scontri armati. La questione irlandese è una pesante eredità che i governi succeduti a Margaret Thatcher si sono tramandati e tutt’ora devono affrontare, dimostrando però idee ben alternative a quelle della Lady di ferro.
Il suo nome, completo del titolo, era Margaret Thatcher, Baronessa Thatcher di Kesteven. Il suo diminutivo era però Tina. “There Is No Alternative”. Non c’erano per lei alternative alle sue scelte politiche ed economiche. La sua dottrina economica è stata dura, la sua politica severa. Il suo fine ha però per lei sempre giustificato i mezzi – o forse per lei non era neanche necessario giustificarsi. Di alternative forse ce ne sono sempre state e lei ne ha vagliate tante. Dopo la fine della sua premiership, ad esempio, dichiarò che lei avrebbe fatto scelte alternative rispetto al Trattato di Maastricht. Lady Thatcher si è sempre, infatti, dimostrata contraria all’Unione Europea e alla moneta unica. Qualche anno dopo commentò che tutti i problemi vengono dall’Europa e tutte le soluzioni dal Regno Unito. Margaret Thatcher ha sempre difeso tutte le sue scelte in materia di politica estera con molto orgoglio. Per la questione libica, ad esempio, sottolineò a Tony Blair le loro visioni alternative relative a Gheddafi:
Fece altresì tutto il suo possibile per promuovere la fine dell’apartheid in Africa. Avviò il processo di decolonialismo di Hong Kong promuovendola come regione ad amministrazione speciale.
Lady Thatcher era favorevole alla pena di morte. Era favorevole all’aborto. Era favorevole all’uso del nucleare come fonte di energia ma anche come deterrente militare. Sottolineò il pericolo del buco dell’ozono e delle piogge acide. Adotto precauzioni e punizioni severe contro la violenza negli stadi. Non trattò mai con i terroristi, come gli Arabi che assediavano l’ambasciata iraniana a Londra. Non scese mai a compromessi con i sindacati né con i manifestanti, usando sempre il pugno di ferro. Era malata di cuore, colpita da infarti ed ictus, sofferente di Alzheimer iniziò un comizio dicendo:
Lady Thatcher è morta l’8 aprile 2013. “E’ un mondo vecchio – ha detto alla fine – ma è divertente”.
La questione irlandese è una pagina insanguinata della storia del Regno Unito e in cui Margaret Thatcher, suo malgrado, ha avuto un ruolo da protagonista. Trent’anni di rivolte e di terrorismo sono passati alla storia con l’espressione vaga, distratta, di “the troubles”. Ufficialmente, iniziarono il 12 agosto del 1969 con gli scontri di Belfast e Derry, dove già si sperimentò la violenza che avrebbe caratterizzato i decenni a venire1. Gli scontri anche molto violenti tra la minoranza cattolica e la maggioranza protestante c’erano già da anni ma sarebbe stata solo la crisi economica degli anni ’70 a indurre agli scontri più efferrati che porteranno all’intervento delle forze armate del governo inglese in massa. I Cattolici vivevano da sempre discriminati dai Protestanti, senza riuscire a farsi assumere né a farsi eleggere e nemmeno ad ottenere l’affidamento delle case popolari. Non è stata la sola religione però a causare i disordini. Si deve sottolineare come la minoranza cattolica fosse anche spinta da desideri irridentisti e da un forte nazionalismo irlandese e denunciasse la Gran Bretagna di colonialismo. Furono questi fattori, sorretti da un contesto di crisi economica, a portare nel giugno 1970 ai disordini che videro la chiesa cattolica di Saint Matthew di Belfast assediata ma ben difesa. Gli assalitori protestanti in parte furono uccisi da membri del movimento IRA Provvisorio2.
Il governo inglese impose pochi giorni dopo il coprifuoco nella zona cattolica e la perquisizione delle abitazioni alla ricerca delle armi. Un anno dopo, il governo introdusse la possibilità di internare senza processo (“Operazione Demetrius”) e centinai di Cattolici di ogni età furono così arrestati. Nel frattempo non mancavano attacchi di terroristi protestanti. Infine, la domenica del 30 gennaio 1972, la Bloody Sunday, un corpo di paracadutisti colpì dei manifestanti cattolici uccidendone quattordici. A Marzo il governo sospese il parlamento nordirlandese assumendo direttamente il controllo del territorio. Scontri, disordini ed esplosioni si verificarono quotidianamente da ambo le parti. Belfast era diventata una città fantasma, in mano all’unità di matrice anticattolica passata alla storia come i macellai di Shankill.
Come avrebbe potuto affrontare il governo di Margaret Thatcher la crisi? La violenza e le sommosse furono condannate, i combattenti criminalizzati, i detenuti furono surclassati da “prigionieri politici” a comuni criminali. Invece di continuare a combattere contro i Cattolici nordirlandesi usando il proprio esercito, il governo inglese decise di arruolare quasi esclusivamente i Protestanti del luogo. Nuovi carceri furono costruiti per i detenuti irlandesi. L’IRA reagì in primo luogo colpendo questi carceri e aggredendo il personale carcerario (all’interno dei carceri ci furono invece insanabili sommosse e diverse evasioni). Di fronte tutto questo, Margaret Thatcher rimaneva inamovibile: non avrebbe trattato con chi si era macchiato di terrorismo.
Da uno dei carceri partì uno sciopero della fame, sospeso al cinquantatresimo giorno dopo una vaga e non confermata rassicurazione da parte del governo inglese. Quando invece si scoprì che il governo non avrebbe fatto concessioni, un secondo sciopero della fame prese luogo. Il 5 maggio 1981 morì il primo scioperante, Bobby Sands, membro dell’IRA, seguito poi da altri nove detenuti. Nel frattempo, mentre gli scontri proseguivano incessantemente, il movimento cattolico trovò una strana rappresentazione parlamentare nel partito di Sinn Féin. Sin dall’inizio dello sciopero della fame, Margaret Thatcher si era rifiutata di trattare con l’IRA. Già nel 1979 l’IRA aveva ucciso Lord Louis Mountbatten, cugino della regina. Margaret Thatcher sarebbe stato il prossimo obbiettivo. Nell’ottobre del 1984, una bomba al Grand Hotel di Brighton, dove si stava tenendo il congresso del suo partito, esplose e solo per poco non la uccise. Morirono invece altri cinque membri del suo partito. Nel 1987 fu scoperto un traffico di armi tra l’IRA conla Libia di Gheddafi. Si trattava di centinai di tonnellate di armi di ogni genere, in massima parte non rinvenuta poi dal governo inglese, che comprendevano anche missili terra-aria ed esplosivo. Nel 1991, l’IRA fece esplodere una bomba nel cortile del numero 10 di Downing Street, dove John Major, il capo del nuovo governo successo a quello thatcheriano, stava tenendo una riunione.
Solo tre anni dopo, l’IRA annunciò la cessazione delle operazioni militari, imitata poi dai protestanti. Fu il primo vero passo verso la riappacificazione ma qualcosa andò storto: John Major, memore dell’attentato, non acconsentì alla partecipazione di Sinn Féin alle trattative e chiese all’IRA di consegnare tutte le armi al governo inglese. L’IRA di tutta risposta ruppe la tregua e fece brillare dell’esplosivo a Londra. Il conflitto ripartì ma ormai, dopo venticinque anni, aveva perso intensità. Nel 1997 il laburista Tony Blair vinse di netto le elezioni. L’IRA ripristinò la tregua – anche se una parte dei suoi combattenti continuò lo scontro. Il 10 aprile 1998, giorno di Venerdì Santo, Tony Blair e il premier irlandese Berie Ahern firmarono l’accordo di Belfast. Il governo dell’Irlanda sarebbe stato affidato a rappresentati cattolici e protestanti (in proporzione al risultato delle elezioni). I detenuti appartenenti alle organizzazioni paramilitari furono rilasciati. Persino gli esponenti del Sinn Féin poterono prendere parte del nuovo governo.
L’IRA non ha mai consegnato le armi, sebbene a partire dal 2001 ha acconsentito a farle ispezionare periodicamente per verificare che non siano usate. Si sono detti pronti a distruggerle (ma mai a cederle al governo inglese) e hanno annunciato la fine della lotta armata ma senza sciogliere l’organizzazione. Hanno dichiarato di voler proseguire nel loro obiettivo esclusivamente con mezzi pacifici. Resta prefissata la riunificazione delle sei conteee del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Nel 1986 nascono il Republican Sinn Féin e il Continuity IRA, costole dissidenti dei rispettivi movimenti da cui ereditano anche alcunileader. Tutt’ora il Continuity IRA continua la sua lotta armata mirante alla liberazione del suolo irlandese dal governo inglese. Il suo ultimo attacco risale al 9 marzo 2009 (a due giorni da un attacco del Real IRA)3. Il Real IRA nasce nel 1997 per opera di dissidenti dell’IRA che si opponevano al processo di pace, veterani ed esperti artificieri. Dopo aver causato una prima strage nel 1998, hanno dichiarato il cessate-il-fuoco. L’organizzazione resta attiva con circa 600 unità e occasionalmente compie qualche attentato. Nel 2011 hanno dichiarato di voler espandere la lotta armata e di avere in progetto degli attentati con armi da fuoco ed esplosivi4 e 5.
Per quanto riguarda invece l’Official IRA, nel 2009 ha accettato di smantellare le sue scorte di armi, processo che si è concluso dopo pochi mesi ed è stato confermato dalla International Independent Commission on Decommissioning6. Nel 2005, l’IRA ha annunciato ufficialmente la fine della lotta armata. Dopo le elezioni del 2007, il partito protestante è diventato la prima formazione politica in Irlanda del Nord e il Sinn Féin la seconda. Ciò nonostante il 23 febbraio 2010 è esplosa un’autobomba a Newry. Il 21 giugno 2011 sono esplosi diversi scontri a Belfast con i manifestanti armati di molotov, razzi, armi da fuoco. Sotto la cenere, potrebbero dormire ancora dei fuochi che sembrano spenti. Per vedere la conculsione, o almeno il capitolo successivo, di questa storia probabilmente si dovrà attendere l’evoluzione di un percorso analogo, quello della Scozia. Se la Scozia riuscirà in tempo breve ad ottenere la separazione dal resto del Regno Unito, inevitabilmente questo in Irlanda farà riemergere il vecchio irridentismo. Si rimanda all’analisi della situazione della Scozia per poter comprendere ciò che resterà del Regno Unito.

Marco Flavio Scarpetta è dottore in Giornalismo, editoria e scrittura (Università di Roma Sapienza)

1.- Per una visione più completa si rimanda a “Storia dell'Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri” di Morgan Kenneth O. pubblicato da Bompiani nella collana Storia.
2.- Nel 1922, dopo il fallimento della guerra di indipendenza irlandese, una parte dell'esercito repubblicano irlandese (Irish Republican Army) continuò a combattere contro la presenza britannica in Irlanda. Nel 1969, si divise in Provvisorio ed Ufficiale, entrambe organizzazioni militari nazionaliste. Il Provvisorio è nato per prendere le distanze dal resto dell'organizzazione ritenuta inefficace e di tendenze socialiste. L'Ufficiale è rimasto in combattimento contro l'esercito britannico fino al 1972. Non ha mai riconosciuto il Provvisorio ed ha combattuto anche contro di esso.
3.- TGCOM 24, "Attacco in Ulster,ucciso poliziotto", 2009. [On line] http://www.tgcom24.mediaset.it.Consultato il 28 settembre 2013.
4.- Les enfants terribles, "Real IRA minaccia intensificazione degli attacchi", 2011. [On line]http://www.lesenfantsterribles.org. Consultato il 28 settembre 2013.
5.- The Guardian, "Real IRA admits bomb attacks on Northern Ireland banks", 2011. [On line]http://www.theguardian.com. Consultato il 28 settembre 2013.
6.- Per questo ed altri report, consultare l'archivio CAIN University of Ulster [On line]: http://cain.ulst.ac.uk.Consultato il 28 settembre 2013.

venerdì 18 ottobre 2013

Turchia: le riforme per la democratizzazione

Riforme in Turchia
La politica degli scacchi di Ankara
Emanuela Pergolizzi
10/3/2013
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Sebbene il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan abbia ben mosso l'alfiere delle riforme sullo scacchiere bicromo della politica turca, la partita è lunga, imprevedibile e tutta ancora da giocare.

Matrioska turca
Dalle ceneri delle proteste di piazza Taksim, con il pacchetto di “riforme di democratizzazione” presentato il 30 settembre, il governo gioca a sorpresa la pedina meno visibile, quella al fondo dello scacchiere. Con una sola mossa cerca di ricalibrare gli equilibri dell'intero gioco.

Con il suo savoir-faire mediatico, il premier aveva annunciato da giorni la presentazione di un pacchetto che avrebbe dovuto - in un sol colpo - superare l'impasse turco-curda, riformare il sistema elettorale e rinvigorire le aspirazioni democratiche del paese.

Di fronte a tali aspettative l'annuncio riformista non poteva che essere deludente. Nel commentare il pacchetto l'opposizione ha usato il noto proverbio turco: “dalla grande montagna è uscito un topolino”.

Un'analisi più attenta, tuttavia, rivela come il “pacchetto democratico” sia più coraggioso del previsto, aprendo - come una matrioska politica - tante finestre su temi più caldi del dibattito politico turco.

Riforma elettorale e istruzione
Il vero successo riguarda la riforma elettorale. A qualche mese dal test politico delle municipali, previste per la primavera 2014, il governo avvia una profonda revisione del sistema elettorale turco che beneficia, in primis, i partiti minori.

Sarà finalmente modificato lo sbarramento del 10% che ha storicamente escluso dalle aule parlamentari le frange estreme del panorama politico turco: i deputati curdi del partito della Pace e della Democrazia, Bdp, da un lato e gli ultra-nazionalisti del Mhp dall'altro.

Si riduce ufficialmente, inoltre, dal 5 al 3%, la soglia di voti necessari ai partiti per ottenere finanziamenti pubblici per la campagna elettorale. Infine, concessione diretta alla minoranze, dalle prossime elezioni sarà possibile fare propaganda “in lingue e dialetti” diversi dal turco.

Più deludenti i progressi nel campo dell'istruzione.

Ben accolta l'abolizione del divieto kemalista dell'utilizzo delle “lettere curde”:“W”, “Q” e “X”. Tuttavia, a far discutere, è l’insegnamento in lingua curda. La possibilità viene accordata, ma solo agli istituti privati. Se si considera che le province meridionali dove la minoranza curda risiede sono tra le più povere del paese, è facile capire perché questa viene percepita come una misura insoddisfacente.

Le novità introdotte rivelano un'apertura importante di Ankara verso le sue “minoranze ignorate.” Anche i greci-ortodossi e gli alevi, i grandi assenti della riforma, sembrano in qualche modo godere di riflesso il clima di apertura in attesa di possibili futuri avanzamenti.

Il pacchetto non basterà, tuttavia, a ricucire le sorti del processo di pace turco-curdo, bruscamente interrotto il 9 settembre. Per i deputati del Bdp che per mesi hanno sollecitato il governo le concessioni sono modeste e tardive: “le condizioni di Ocalan non sono migliorate, la soglia elettorale non è stata ancora abolita, i nostri compagni - il riferimento è alle decine di giornalisti in carcere - non sono stati liberati - commenta la parlamentare Danış Beştaş - non è abbastanza”.

I curdi sono decisi a non cedere al braccio di ferro con il governo e il premier dovrà mostrare una reale volontà di proseguire le riforme se vuole riavviare il processo di pace.

Laici perdenti
A piccoli passi il governo lancia comunque un forte segnale: Erdoğan ha ripreso in mano il gioco, ed è pronto a rilanciare.

L'unico vero perdente è la torre dell'establishment laico, ferito dall'ennesimo colpo di coda islamico-conservatore. Dal 30 settembre anche il personale dei pubblici uffici potrà infatti indossare il velo. Siamo davanti alla morte simbolica dell'ideale di neutralità dello stato kemalista.

Anche l'Unione Europea ha accolto con favore le riforme, ribadendo che ne terrà contro nel Progress Report del 2014. Unica nota grave, commenta, è l'assenza di riferimenti al codice penale e alla legge contro il terrorismo grazie ai quali decine di giornalisti sono tutt'ora tenuti in carcere.

Ma non potrebbe essere proprio l'Europa a influenzare la pendenza dello scacchiere, influenzando le linee su cui si muovono gli attori politici turchi? Ankara si prepara a un inverno caldo. Per ora è prematuro prevedere quali saranno le prossime mosse dei suoi invisibili giocatori.

Emanuela Pergolizzi è laureanda presso l'Università di Torino e Sciences Po Grenoble. Ha svolto un tirocinio presso l'IAI nel quadro del progetto “Global Turkey in Europe”.
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lunedì 14 ottobre 2013

Geopolitica: I forum Eurorusso

26 settembre, 2013 Redazione Europa Nessun commento
A Palazzo Marini il primo Forum Euro-Russo dell’IsAG
Martedì 24 settembre 2013, presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini (Camera dei Deputati) nel centro di Roma, si è tenuto il primo seminario internazionale del Forum Euro-Russo organizzato dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e dall’Institut de la Démocratie et de la Coopération (IDC) di Parigi. Nel corso dell’evento si è discusso dello stato dei rapporti tra l’Europa e la Russia sotto una triplice angolatura – la sfera della sicurezza continentale e della lotta antiterrorismo, il presente e il futuro della cooperazione economica, i legami culturali e scientifici – attraverso tre sessioni di lavoro ove sono intervenuti alcuni fra i maggiori specialisti internazionali dei singoli argomenti.
I lavori della conferenza sono stati aperti dai saluti dell’On. Andrea Colletti, che ha ringraziato gli organizzatori a nome della Camera dei Deputati, dei Presidenti Tiberio Graziani per l’IsAG e Natalija Naročnickaja per l’IDC, e dell’Ambasciatore della Federazione Russa presso la Repubblica Italiana Sergej Razov. Nel salutare i relatori e gli ospiti presenti, Razov ha sottolineato come la Russia guardi all’Italia nella duplice veste di Paese membro dell’UE e di Stato mediterraneo con cui Mosca ha una consolidata tradizione di rapporti commerciali, culturali e politici, auspicando che i rapporti futuri siano improntati a una maggiore concretezza nelle decisioni.
Dario Citati
Proprio sull’ampiezza dello spettro semantico della definizione “Forum Euro-Russo” si è concentrata la prolusione iniziale di Dario Citati, Direttore del Programma “Eurasia” dell’IsAG e moderatore delle tre sessioni di lavoro. Il Forum va inteso come una piattaforma dove fare il punto sui rapporti tra Federazione Russa e Unione Europea e al contempo su quelli fra la Russia e i singoli Stati europei. Si tratta di due piani non sempre coincidenti, perché talora si è osservato che il livello bilaterale registra una capacità di cooperazione assai maggiore rispetto a quello che si realizza in sede comunitaria. Tuttavia, gli eventi degli ultimi mesi – il G-20 di San Pietroburgo, le posizioni sulla crisi siriana, i tentativi di superare la crisi economica – sembrano dimostrare che i rapporti euro-russi possano oggi diventare positivi come forse non lo sono mai stati in passato.
Aleksandr Gruško
Nel panel dedicato alla sicurezza continentale, il primo intervento è stato pronunciato dall’Ambasciatore della Federazione Russa presso la NATO Aleksandr Gruško. Egli ha rimarcato come gli eventi più recenti, in particolar modo il caso della Siria, abbiano consentito a molti osservatori di parlare d’una vera e propria rinascita della diplomazia classica come strumento per affrontare i temi più difficili delle relazioni internazionali, soppiantando l’approccio unilaterale che ha dominato in molti frangenti del post-Guerra Fredda. Proprio da questa base possono ripartire anche i rapporti tra la Russia e la NATO, che negli ultimi anni sono stati gravati da una mancanza di fiducia reciproca che occorre ricostruire.
Giovanni Brauzzi
Giovanni Brauzzi, Direttore Centrale per la Sicurezza del Ministero degli Esteri, ha aggiunto che occorre ritornare allo “spirito di Pratica di Mare”, ovvero al clima che fece da sfondo agli accordi siglati nel 2002 tra Russia e NATO, quando si passò da un formato 19+1 ad un approccio in cui la Russia si interfacciava in modo più diretto con i singoli membri dell’Alleanza Atlantica. Alcune scadenze prossime, come la nomina del nuovo segretario NATO nel 2014, possono rappresentare in questo senso dei segni tangibili di un ritorno ad un approccio collaborativo.
Andrej Volodin, professore presso l’Accademia Diplomatica e l’Accademia delle Scienze russe, ha invece tenuto un intervento dedicato all’Unione Eurasiatica e all’importanza che questa nuova realtà può rivestire anche per la sicurezza europea. L’aspetto più importante in questa direzione è rappresentato dal progetto di inaugurare una nuova industrializzazione su larga scala, in cui potranno essere coinvolti anche i Paesi europei beneficiando di strutture in grado di consentire un maggior coordinamento internazionale della sicurezza in ambito continentale.
Paola Brunetti, Natela Šengelija, Dario Citati, Tiberio Graziani
Nel secondo panel, dedicato alla sfera della cooperazione economica, sono intervenute Natela Šengelija, Presidente della Rappresentanza Commerciale della Federazione Russa in Italia, e Paola Brunetti, Dirigente presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Entrambi gli interventi hanno illustrato aspetti tecnici attraverso un’esposizione rivolta ad un pubblico ampio, concentrandosi in particolare sulle relazioni economiche italo-russe: la 23esima sessione della Task Force italo-russa che si terrà a Torino il 12 novembre 2013, il recente progetto di costruzione del Superjet 100 grazie alla collaborazione Alenia-Sukhoi, l’anno incrociato del turismo nei due Paesi che sarà previsto per il 2014. Sono tutti aspetti che confermano la complementarità fra due Paesi che hanno peraltro una necessità comune per il futuro: quella di valorizzare le realtà locali e “periferiche”, colmando i divari di sviluppo interni a ciascun sistema-Paese.
Ekaterina Narochnickaja, Natalija Narochnickaja, John Laughland, Roberto Valle, Tiberio Graziani
La terza sessione di lavoro è stata aperta dal professor Roberto Valle, docente di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università Sapienza di Roma, che ha inquadrato la cultura russa all’interno di una prospettiva paneuropea. Per recuperare un’intesa in termini culturali, la decostruzione dell’immaginario europeo sulla Russia come terra di barbarie deve andare di pari passo con la percezione rinnovata dell’Europa come “patria dei santi miracoli” – cioè come faro di civiltà – da parte della Russia.
John Laughland, Direttore dell’Institut de la Démocratie et de la Cooperation, ha invece analizzato il rapporto russo-europeo concentrandosi sull’inedita sintonia tra il Cremlino e la Santa Sede, che sembra aver avuto un riscontro concreto nella proposta russa sul controllo delle armi chimiche siriane, in ottemperanza all’auspicio del Vaticano. Mettendo a confronto i diversi messaggi di auguri che i Capi di Stato hanno rivolto a Papa Francesco all’indomani della propria elezione, Vladimir Putin è stato in assoluto l’unico a fare esplicito riferimento ai valori cristiani come terreno comune per costruire buone relazioni. Laughland ha ricordato anche la visita di Dmitrij Medvedev a Notre Dame di Parigi nel 2010, per pregare davanti alla Corona di spine portata nel 1239 da Luigi IX di Francia, una delle reliquie più care alla cristianità occidentale. Malgrado la differenza confessionale, la Russia sembra oggi avere a cuore la tradizione europea più degli Europei stessi.
Ekaterina Naročnickaja, professore presso l’Accademia delle Scienze di Russia, ha sottolineato come molte crisi internazionali rivelino non soltanto interessi geopolitici diversi, ma anche lo scontro di diverse visioni morali: ad esempio il caso della Siria, che al di là delle strategie ha visto il riproporsi di un atteggiamento egocentrico da parte occidentale.
Nell’intervento conclusivo di Natalija Naročnickaja si è insistito ulteriormente sulla difesa del diritto naturale in Russia e su come la cultura odierna in Europa, impregnata di secolarismo postmoderno, fraintenda e mistifichi la posizione russa. Molte tendenze politico-culturali che vengono presentate come l’ampliamento di nuovi diritti costituiscono in realtà una vera e propria rivoluzione antropologica, tesa ad annientare i valori della famiglia e di tradizioni culturali e religiose millenarie che hanno reso l’Europa un modello di civiltà per il resto del mondo. La crisi demografica ed economica che vive il mondo europeo va di pari passo con la sua perdita di attrattiva sul piano culturale, che solo una maggiore valorizzazione del proprio passato potrebbe invertire.
Le conclusioni di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG, hanno infine rimarcato come la vastità degli argomenti trattati al Forum riflettano le enormi opportunità di discussione e approfondimento che le controparti russa ed europea devono sfruttare per trovare la propria collocazione nel futuro assetto multipolare del mondo

lunedì 7 ottobre 2013

I Rapporti difficili con Albione

Regno Unito e Ue
Londra, biglietto di sola andata
Rocco Cangelosi
23/09/2013
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Un'Europa flessibile, à la carte, dove Londra può scegliere quello che gli è più conveniente Questa l’immagine tracciata dal premier britannico durante il discorso pronunciato a inizio anno quando ha lanciato il referendum sulla partecipazione della Gran Bretagna all'Unione europea da tenersi nel 2017.

Un disegno chiaro e al limite onesto che mostra il tipo di Europa che gli inglesi vorrebbero, libera da eccessivi vincoli istituzionali e incentrata su quel mercato unico, di cui Cameron rivendica la paternità britannica.

Europa elefantiaca
Secondo Cameron, l'Unione europea si è trasformata in un organismo elefantiaco e complesso che ha perso il suo diretto rapporto con i cittadini. Se altri paesi vogliono andare avanti con l'integrazione lo facciano pure, a condizione che Londra mantenga il suo droit de renard e, ove necessario, il diritto di veto su questioni prioritarie che la riguardano.

Secondo Cameron, la Gran Bretagna deve negoziare un nuovo accordo con l'Unione europea che sia nell'interesse "non solo del Regno Unito, ma anche dell'Europa". Spingere i paesi europei a far parte di un'unione politica centralizzata sarebbe un grande errore.

La Gran Bretagna non vi parteciperebbe mai. Sono troppo diverse le tradizioni, la storia e soprattutto le economie dei paesi membri per essere riconducibili in un unico contesto che non sia dotato della necessaria flessibilità.

Conseguenze dell’eurozona
Cameron ha preso atto della trasformazione storica determinata dall'adozione della moneta unica e delle politiche che l'eurozona ha dovuto adottare per difenderla. L'euro è un progetto politico oltre che economico e non può fallire, ma ciò comporta una diversa organizzazione costituzionale dell'Unione.

Una eurozona sempre più integrata dovrà relazionarsi con i paesi che non ne fanno parte. Se i ministri dell'eurogruppo agiranno in modo coordinato all'interno del consiglio dei ministri Ecofin si formerà una maggioranza permanente in grado di imporre agli altri paesi le proprie scelte.

È una posizione inaccettabile per l'Inghilterra, che ritiene finita l'epoca del progetto unico per l'Europa che si era voluto tenere in piedi ricorrendo a aggiustamenti di ingegneria istituzionale, come le cooperazioni rafforzate, gli opt out, le avanguardie etc.

Finalità diverse
Occorre adesso un nuovo accordo politico tra gli stati dell'eurozona e quelli che non ne fanno parte. Non si può negare la chiarezza degli obiettivi perseguiti da Cameron, ma certamente questi non coincidono con le finalità di un'Unione sempre più stretta che dovrebbe comportare un'evoluzione in senso federale.

Su questo aspetto gli obietivi britannici sono totalmente divergenti da quelli dei padri fondatori. Durante i 40 anni di appartenenza all'Unione europea, la Gran Bretagna ha sempre negoziato e ottenuto deroghe nei settori più sensibili che comportavano cessione di sovranità.

È stato così per il trattato di Shengen, per la moneta unica, per la Carta dei diritti fondamentali. I numerosi opt out di cui beneficia Londra producono gravi distorsioni nel funzionamento dell'Unione, assicurando alla Gran Bretagna un vantaggio competitivo, grazie al dumping sociale e economico di cui può avvalersi.

Si dirà che l'apporto della Gran Bretagna è determinante per una politica estera e di difesa comune, ma questa è evanescente e Londra preferisce privilegiare la speciale relazione che intrattiene con gli Stati Uniti. Il recente voto del parlamento inglese sull'intervento in Siria sembra però aver creato qualche incomprensione oltreoceano.

Piede in due scarpe
Visto che per gli inglesi l'Unione non è una finalità a sè stante, ma uno strumento di cui si avvale lo Stato nazionale, sarebbe più saggio negoziare con Londra i termini della sua partecipazione all'Unione europea, come accade ad esempio con la Svizzera, la Norvegia e altri paesi dell'Associazione europea di libero scambio.

Questo comporterebbe la rinuncia britannica a partecipare alle decisioni delle istituzioni. Un prezzo molto alto da pagare. Cameron ne è consapevole. E qui nasce l'ambiguità del suo discorso, perchè il premier reclama regole che consentano a Londra di prendere parte alle decisioni sul mercato unico - soprattutto nei settori chiave come i servizi finanziari - lasciondosi le mani libere per il resto.

Ma sarebbe ancora più alto il prezzo che l'Europa pagherebbe se continuasse a voler mantenere a tutti i costi Londra nell'Unione, negoziando condizioni sempre più al ribasso, suscettibili di vanificare i processi di necessaria cessione di sovranità.

L'Europa non può essere ridotta ad una grande area di libero scambio. Il mercato unico tanto caro agli inglesi non potrà funzionare senza una poltica economica e fiscale comune.

La posizione assunta da Cameron e il dibattito interno che ne seguirà in vista delle elezioni del 2015 e del referendum del 2017 impongono agli altri paesi europei di fare la loro scelta, senza privilegiare situazioni di comodo nascoste dietro l'atteggiamento britannico.

Inaccettabile compromesso al ribasso
Se l'Unione europea vorrà procedere nell'integrazione verso un'organizzazione di tipo federale, non potrà accettare compromessi al ribasso o regole istituzionali ambigue e pasticciate.

Il rapporto con la Gran Bretagna e con i paesi che ne vorranno seguire l'esempio dovrà essere molto chiaro. Aperto alla collaborazione e allo stretto coordinamento nei settori possibili, ma nel rispetto del principio all but institutions.

Questo è principio di cui aveva parlato Jacques Delors, poi ripreso da Romani Prodi, immaginando uno stretto partenariato economico e politico con le nuove democrazie emerse dopo la caduta del muro di Berlino, senza prevederne l'immediato ingresso nell'Unione.

Sarà interessante vedere come si comporteranno gli elettori britannici alla prova del referendum. Già nel ‘55, il rappresentante inglese abbandonò la conferenza di Messina e Londra dovette attendere l'uscita di scena del presidente francese Jacques De Gaulle per diventare membro della comunità economica europea.

Cameron è stato molto chiaro nel precisare che l'uscita dall'Unione è un biglietto di sola andata.

Fortunatamente nel Regno Unito non tutti la pensano allo stesso modo. Il sociologo Anthony Giddens sta mettendo a punto un manifesto per rilanciare il processo di integrazione europea attraverso una modifica dei trattati. L’obiettivo è la creazione degli Stati Uniti di Europa.

Rocco Cangelosi è ambasciatore, già consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica.
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Cameron e le sue iniziative

Regno Unito e Ue
Nebbia europea sulla Manica
Antonio Armellini
23/09/2013
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L’Inghilterra di David Cameron può continuare a essere un partner attivo dell’Unione Europea? Se sì, in che misura? Gli alleati liberaldemocratici sembrano presi da un balbettio paralizzante sull’Europa, mentre i conservatori sono sotto l’influenza dall’ondata isolazionista del partito indipendentista antieuropeo Ukip. In un simile scenario sembra che il referendum annunciato sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione – ma sinora non confermato – potrebbe sancire una separazione per più versi traumatica.

Non tutta l’opinione pubblica inglese è su queste linee e le voci della ragionevolezza cominciano a farsi timidamente sentire. Oltre che dalla volontà e dalle nevrosi dell’elettorato britannico, la sorte dell’Unione dipenderà in misura decisiva dalla reazione degli altri paesi membridinanzi a una simile eventualità.

Europa minimalista
Per capire l’importanza della Gran Bretagna nel futuro dell’integrazione europea, è bene chiedersi di quale Europa si intenda parlare. L’euroscetticismo che alligna nelle opinioni pubbliche di più consolidata tradizione europeista – a cominciare dalla nostra – è probabilmente figlio di un embarras de richesses e alimenta più o meno consapevolmente la progressiva rinazionalizzazione delle politiche, con buona pace delle dichiarazioni di intenti di Lisbona.

L’ipotesi di una Europa “minimalista”, sempre meno comunitaria e più intergovernativa, è un ircocervo non impossibile. In essa il contributo britannico rimane fondamentale per il completamento del processo di razionalizzazione economica intorno al mercato unico e per la costruzione di una economia aperta in linea con i dettami di un capitalismo liberale avanzato.

La Gran Bretagna resta fondamentale anche per la gravitas che lo status di media potenza nucleare può attribuire alla dimensione intergovernativa della politica estera e di difesa. La presenza inglese è importante anche per l’impegno a salvaguardare i principi di quel “recinto delle regole” dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa che costituiscono la piattaforma irrinunciabile di quanti si riconoscono nel processo di costruzione europea, quali ne siano contenuti e finalità ultime.

Si tratta di un’Europa in linea con gli interessi di Londra da sempre. Pochi ricordano come al momento dell’adesione, nel ’72, il governo Mac Millan spiegasse che l’ingresso nella Comunità economica europea conteneva sì alcuni aspetti relativi a un’entità politica sovranazionale, ma che i rischi che essa si realizzasse erano ben poca cosa rispetto al vantaggio certo che il paese ne avrebbe ricavato sul pianoeconomico e commerciale.

Collante politico tramontato
Il mantra di una ever closer union tendenzialmente sovranazionale continua a essere stancamente recitato, quasi ad esorcizzare il fatto che un simile obiettivo appare oggi politicamente astratto. Quantomeno a ventotto. Una volta tramontato con la fine della guerra fredda il collante politico originario dei fondatori, le motivazioni che hanno indotto i paesi ad aderire al progetto comunitario sono troppo diverse perché di essa si possa parlare di altro, oltre la mera retorica.

D’altro canto, la crisi finanziaria ha messo chiaramente in luce come, senza un salto di qualità, l’intero edificio europeo rischi di crollare. Chi pensasse che la fine dell’euro potrebbe essere in qualche modo gestita, sottovaluterebbe pericolosamente l’importanza politica decisiva della moneta unica. La sua eliminazione innesterebbe una deriva euroscettica inarrestabile.

La via che si presenta è quella di un’Unione a diverse velocità, in cui la stessa sopravvivenza dell’Europa minimalista sarebbe legata alla volontà di altri di dar vita, attraverso la cessione di quote crescenti di sovranità, a modelli più avanzati di integrazione. “Più Europa” per l’euro (ma anche per la difesa) non vuol dire solo operare per salvaguardare la moneta comune, ma mettere in piedi un argine per l’insieme della costruzione europea.

Una domanda agli inglesi
Di questa Europa “avanzata” la Gran Bretagna non vorrà mai fare parte: storia, tradizioniculturali ed economia militano irrevocabilmente contro. Londra ha costantemente cercato non solo di correlare il proprio impegno comunitario a una rigida visione dell’interesse nazionale, ma di impedire che altri potessero procedere sulla via di una integrazione sovranazionale che la lasciasse ai margini.

È qui che si trova il nodo fondamentale della compatibilità o meno di una presenza della Gran Bretagna in Europa. È giunto il momento di porre chiaramente agli inglesi la domanda di come vedano il loro futuro europeo.

Chiedere se, partendo dal riconoscimento di un loro opt out generalizzato da forme più avanzate di integrazione, siano disposti a collaborare con quanti intendano procedere più speditamente sulla via dell’integrazione sovranazionale, riconoscendo come tale processo sia fondamentale per la sopravvivenza di quella parte della costruzione europea più vicina ai loro interessi.

Parlando a Chatham House, lo scorso luglio il premier Enrico Letta ha chiesto, con toni felpati, “più Europa” a Londra e Bill Emmott ha constatato lo scetticismo della City. L’imperativoposto dalla crisi esclude nuovi tatticismi da parte britannica e la costruzione europea non può permettersi il rischio dell’entropia.

Rinegoziare condizioni più eque – come ripete Cameron – ha senso solo in un quadro d’insieme condiviso: l’impressione è che ne siamo ancora lontani. Sarà bene che dalla Manica ci si convincesse una volta per tutte che, quando cala la nebbia, non è l’Europa, ma la Gran Bretagna a restare isolata.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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