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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

domenica 24 marzo 2013

Le problematiche etnografiche nei Balcani


1908-2008: breve storia degli Slavi del Sud
di Giovanni Cecini

Il XX Secolo si aprì con il lento e progressivo declino dell’Impero ottomano e gli ultimi sussulti di quello asburgico, che, nel desiderio di guadagnare la guida e il dominio degli interi Balcani, si ergeva ad avido tutore di tutta la galassia di piccole nazionalità che li abitavano. L’aggettivo «balcanico» stava a identificare non solo un’area geografica, ma soprattutto uno stato d’animo, un’identità variegata, contrassegnata da frequenti guerre, invasioni e conquiste. Non potendo tracciare confini etnici stabili e certi, ogni singola bandiera nazionale era il pretesto per nascondere aspirazioni e prevaricazioni di imperialismi tribali. In questo contesto si inseriva sin dagli inizi dell’Ottocento una corrente culturale e linguistica che come base aveva il concetto geo-politico di «Slavia del Sud»; per questo l’Impero multietnico di Vienna, concessa già la parità istituzionale a Budapest nel 1866, riteneva prioritario ostacolare questo «jugoslavismo». In antitesi alle ambizioni della Duplice Monarchia, la piccola ma agguerrita Serbia, dopo il colpo di stato del 1903, divenne il punto di riferimento di ogni possibile unità degli Slavi del Sud, trovando consensi nei vicini Montenegro e Bosnia-Erzegovina, dipendente ancora da Costantinopoli, ma nella sostanza amministrata da Vienna a partire dal Congresso di Berlino del 1878. L’Austria-Ungheria del resto aveva sempre considerato questa sua ingerenza nelle faccende bosniache come l’inevitabile premessa di una futura completa annessione, sottovalutando la possibile reazione dell’Italia (interessata a tutto ciò che gravitava intorno all’altra sponda dell’Adriatico, avendo a cuore Trieste e la costa dalmata) e sicura che dopo la sonora sconfitta zarista nella guerra con il Giappone del 1905, la Russia non potesse dare quel sostegno decisivo alle ambizioni della protetta Serbia. In questo senso, giudicando la decadenza ottomana come un pericolo e un’occasione, gli Asburgo nel 1908 occuparono militarmente la Bosnia-Erzegovina, facendo capire a Belgrado e a Pietroburgo che il pericolo maggiore venisse ormai da Vienna e non dalla moribonda Costantinopoli.
Proprio la profonda debolezza della Sublime Porta diede coraggio anche alle nazionalità balcaniche (Serbia, Bulgaria, Montenegro, Grecia), che nel 1912 firmarono patti bilaterali, costituenti una «Lega». In realtà tale alleanza, voluta e presieduta dalla Russia, era nata per impedire un’ulteriore penetrazione asburgica sullo strategico sangiaccato di Novi Bazar, ma la situazione favorevole indirizzò i suoi componenti a volgere le proprie energie contro l’esercito turco, già umiliato anche dall’Italia pochi mesi prima in Libia. Il conflitto (Prima guerra balcanica) causò un rovinoso colpo al già traballante Impero ottomano, tanto da perdere la quasi totalità dei suoi territori in Europa. Le condizioni di pace furono molto dure per il Sultano, ma Belgrado, per la contraria ingerenza diplomatica austriaca, non riuscì a ottenne il tanto agognato sbocco sul mare. Tuttavia grazie all’intervento russo e francese, dopo la Seconda guerra balcanica contro la Bulgaria, la Serbia si avvantaggiò della «Macedonia»[1] e del Kosovo, mentre la Metohija venne concessa al Montenegro, che nel 1910 si era autoproclamato regno indipendente sotto la guida del principe Nicola. Queste annessioni furono l’inizio di aspri contrasti e dure repressioni contro le deboli minoranze, soprattutto di etnia albanese.
Il nuovo equilibrio diplomatico instaurato tuttavia si rivelò instabile e fragile, non avendo per nulla risolto i rancori e gli antagonismi con la Duplice Monarchia, il cui erede Francesco Ferdinando non ebbe molta accortezza nel scegliere come data della sua visita a Sarajevo il 28 giugno 1914 (anniversario della battaglia del Kosovo del 1389, il giorno più importante della storia serba). Il suo assassinio, all’apparenza fatto secondario interno alla politica asburgica e lontano dall’interesse delle cancellerie europee, si tramuterà invece a pretesto per una Guerra mondiale. Nel giro di un mese l’evento generò una seria crisi diplomatica internazionale, che una dopo l’altra portò le potenze europee a scendere in campo tra i due logoranti schieramenti.
Durante il conflitto l’esercito della Serbia fu velocemente battuto e respinto dalle truppe dell’Austria-Ungheria e della Bulgaria (con il sostegno della popolazione albanese nella «liberazione» del Kosovo), tanto da dover trovare riparo in esilio attraverso l’Adriatico. Le due correnti principali della futura Jugoslavia, i croati e i serbi, combatterono in parti avverse, tuttavia durante il periodo bellico si aprirono negoziati a Corfù con il governo serbo in esilio, dove nel 1917 si accettò, come comune sentire, la volontà di creare uno Stato unitario.
Finita la Grande Guerra, il trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919), quello di Neuilly (27 novembre 1919) e quello del Trianon (4 giugno 1920) regolarono, non senza aspre diatribe con i paesi confinanti, i territori e i relativi confini della zona compresa tra l’Adriatico e il Danubio, decretando la legittimità internazionale del Regno unificato dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, proclamato da un consiglio popolare sin dal 1° dicembre 1918. In questo modo una parte considerevole dei precedenti possedimenti delle vecchie Austria, Ungheria e Bulgaria confluivano in un soggetto completamente nuovo «jugoslavo», che comprendeva la maggior parte dei cosiddetti «Slavi del Sud» (il grosso dei bulgari ne era però escluso), che per distinzione si voleva differenziare da quelli «dell’Est» (russi, bielorussi e ucraini) e da quelli «dell’Ovest» (polacchi, cechi, slovacchi, sorabi e casciubi).
Le regioni che rientrarono in questa operazione geo-politica furono: la Serbia, considerata centro e madrina di tutto il nuovo Stato, a cui veniva accorpato il già indipendente Montenegro (riunendo così anche la «Macedonia», il Kosovo e la Metohija, spartiti tra i due Stati dopo le guerre balcaniche), la Backa e la Voivodina, che rendeva la capitale Belgrado non più città indifesa e di frontiera sulle rive del Danubio; la Slovenia, comprensiva di una fetta del ducato di Carniola, della Stiria meridionale e di una porzione della Carinzia; la Croazia, comprendente tutta la Dalmazia, la Slavonia e il territorio della Mur; l’attigua Bosnia-Erzegovina; nonché le regioni occidentali dell’amputata Bulgaria: i distretti di Strumica, un’ulteriore zona della «Macedonia», Caribrod, Timok, Bosiljgrad.
Va da sé che tale composizione altamente variegata, comprendente popolazioni di nazionalità, cultura, tradizione, religione, costumi e lingua (oltre all’alfabeto in taluni casi) diversi, potesse essere soggetta, per il governo centrale di Belgrado, a spinte centrifughe a seconda delle volontà e degli interessi propri e degli scomodi stati vicini. Infatti, fatte salve le già non lievi differenze dei vari ceppi slavi tra loro, lo Stato conteneva forti minoranze di magiari, rumeni, albanesi, italiani e tedeschi, che le rispettive Nazioni reclamavano con insistenza. In questa logica, per esempio, si inserì lo scontro per l’indipendenza prima e per l’annessione all’Italia poi della città costiera di Fiume, cruciale porto già appartenuto al Regno d’Ungheria, i ribellismi macedoni filo-bulgari e quelli dei montenegrini rimasti fedeli al re Nicola.
Discorso a sé, ma inerente alla situazione nel complesso della zona, investì l’Albania. Proclamato Stato indipendente nel 1912, dopo la Prima guerra balcanica, già a partire dallo scoppio della Grande Guerra i paesi dell’Intesa, tramite accordi diplomatici, ne volevano decretare la fine, con spartizioni a vantaggio di Grecia, Italia e Serbia, che come si è visto, era divenuta il catalizzatore di tutta la regione balcanica, promossa a Jugoslavia. Quest’ultima per esempio nel 1921 fu protagonista di un’invasione dell’Albania, in sostegno di un fantomatico Stato indipendente filo-serbo chiamato «Repubblica di Mirdita», che comprendeva gli albanesi cattolici. Belgrado lanciò un ultimatum a Tirana di abbandonare sei città, ma l’Albania si appellò alla Lega delle Nazioni, che impose il ritiro, cosa che le truppe jugoslave, senza scelta, fecero subito. Come in questa circostanza gli opposti interessi e i reciproci sospetti delle potenze vincitrici, portarono Tirana a ribadire la forza della sua autonomia e dell’integrità dei suoi confini, fino alla sua occupazione nel 1939 da parte dell’Italia fascista e del suo risorgere in repubblica socialista dopo la Seconda guerra mondiale.
Tornando a Belgrado invece, alla fine della Prima guerra mondiale, essa vedeva nella Serbia la radice identitaria dell’unità jugoslava, come lo era stata la Prussia per la Germania e il Piemonte per l’Italia. Per questo il nuovo sovrano Alessandro il 28 giugno (ormai data ricorrente e densa di significati) 1921 prestò il giuramento di fedeltà alla Costituzione, che stabiliva una comune Nazione slava, diplomaticamente vicina alla Piccola Intesa (insieme alla Cecoslovacchia e alla Romania) e alla Francia contro ogni possibile rivendicazione revisionista ungherese. La realizzata unificazione istituzionale, centralizzata e suddivisa in trentatre «regioni» (identificate con nomi di fiumi) che ignorava i confini etnici, tuttavia non riuscì ad assorbire i sentimenti locali, con relative occasioni di agitazione politica interna, spesso scaturita dagli antagonismi del sistema dei partiti, speculare alla frammentazione delle nazionalità. I continui disordini e l’instabilità governativa portarono il re ad abolire la Costituzione all’inizio del 1929, introducendo una vera dittatura monarchica. Venne quindi cambiato il nome dello Stato in «Regno di Jugoslavia», riviste le suddivisioni interne (10 banati) con un sistema centralizzato di ispirazione francese e inaspriti i poteri in mano al sovrano, decretando però il suffragio universale maschile. Questa situazione spinse l’opposizione interna e degli esiliati a essere molto attiva contro il regime instaurato, tanto da giungere all’assassinio dello stesso Alessandro (insieme al ministro francese Barthou) il 9 ottobre 1934 a Marsiglia. Vista la minore età del principe ereditario Pietro, si seguirono le volontà del monarca morto, procedendo a un consiglio di reggenza, che diede impulso in maniera altalenante alla politica interna ed estera jugoslava in balia delle tendenze internazionali fino ad approdare nel 1941 alla firma del Patto Tripartito insieme alla Germania, all’Italia e al Giappone. Questa decisione creò una serie di malesseri sociali, espressione delle varie sensibilità all’interno del Paese. Seguì un colpo di stato militare anglofilo, capeggiato dall’ormai maggiorenne Pietro, che recuperò la gestione del Paese, disponendo l’uscita dall’influenza tedesca e la formazione di un governo di unità nazionale, sostenuto da elementi dell’opposizione democratica serba. Questo ritorno alla «normalità» però durò poco, perché la campagna militare tedesca della primavera del 1941 colpì a morte la Jugoslavia, questa volta portandola sotto la piena occupazione dell’Asse. Oltre a vere e proprie ampie annessioni da parte di Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria e Albania, i restanti territori divennero semplici Stati fantoccio: un elefantiaco Regno di Croazia, un «indipendente» Regno di Montenegro (di gradimento italiano) e un’umiliata e amputata Serbia (sotto il comando militare tedesco).
Tuttavia, se a livello giuridico il governo legittimo della casa regnante continuava a essere riconosciuto in esilio dagli Alleati, durante il periodo bellico, scacciati gli invasori tedeschi e italiani, il potere effettivo passò nelle mani dei partigiani comunisti del croato Josif Broz (Tito), che nella sostanza poteva vantare di essere stato l’unico esercito nazionale ad aver liberato il proprio territorio con le sue sole forze. Infatti a guerra finita, nonostante il «Regno» de jure fosse gradualmente tornato in possesso di tutti i suoi territori precedenti, le formazioni della Resistenza titina nel dicembre del 1945 abolirono la monarchia, proclamando nella capitale Belgrado una nuova «Repubblica popolare federativa di Jugoslavia», composta da sei repubbliche socialiste (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia, Montenegro) e due province autonome all’interno della Serbia (Kosovo e Voivodina). Secondo gli accordi tra Stalin e Churchill dell’ottobre 1944, nell’intento di suddividere equamente l’Europa in zone d’influenza, la Jugoslavia sarebbe stata controllata in comune, ma la forte personalità del maresciallo Tito, portò il suo Paese a divenire una sorta di zona franca indipendente, anche se ufficialmente socialista e quindi per logica direttamente collegata all’Unione Sovietica. Tuttavia, a parte l’interesse a beneficiare dell’iniziale appoggio che Stalin dimostrò a favore di Belgrado per la questione di Trieste e per l’eventuale acquisizione della Carinzia austriaca, la politica di Tito a partire dal 1948 si caratterizzò sempre per un certo ribellismo contro la rigida dottrina e ortodossia di Mosca, che ne voleva di conseguenza limitare l’autorità e l’autonomia politica. Quello, che i sovietici con disinvoltura condannavano come eresia, era in realtà solo uno scisma. La vittoria autonoma jugoslava nella lotta di liberazione contro i tedeschi permetteva al Maresciallo di rispondere con forza (e con un indubbio ascendente sui dirigenti del partito comunista nazionale) al peso psicologico degli altri capi comunisti bulgari, rumeni o polacchi, che viceversa vedevano il loro potere derivante unicamente dal trionfo dell’Amata rossa sul Reich hitleriano. Questa grave indisciplina di Belgrado, considerata vero antagonismo alla politica dell’Unione Sovietica, venne severamente ostacolata e isolata anche dai vertici degli altri partiti comunisti europei. In questo contesto, rimanendo a modo suo sempre fedele alla causa marxista (riconobbe proprio nel 1948 la Corea del Nord), Tito si avvicinò all’Occidente, almeno per non rimanere indietro in fatto di armamenti, rifiutando però sempre categoricamente le offerte di entrare nel Patto atlantico. Solo dopo la morte di Stalin nel 1953, le relazioni diplomatiche tra Mosca e Belgrado tornarono cordiali, anche se il Maresciallo aveva ormai iniziato a cavalcare a metà degli anni Cinquanta la politica dei paesi «non allineati», insieme a Nasser in Egitto e a Nerhu in India, non trovandosi completamente in sintonia con gli interventi sovietici in Ungheria.
In politica interna già nel 1946 si fissava al fianco della cittadinanza e del patriottismo «jugoslavo», la forte tutela delle singole «nazionalità». Con la nuova costituzione del 1963, che ribattezzava lo Stato in «Repubblica socialista federativa», lo spirito unitario «comunista» era bilanciato dal principio di una maggiore partecipazione delle varie repubbliche e province autonome alle più rilevanti decisioni politiche e di una più efficace salvaguardia della loro eguaglianza e autonomia. Seguendo questa logica, la costituzione del 1974, in seguito alle tensioni interne, dovute ai vari nazionalismi locali e alle tendenze liberali dei serbi, sancì il diritto per le repubbliche (ma non per le province autonome) di poter staccarsi dalla federazione, altro elemento che differenziava il sistema istituzionale jugoslavo da quello accentratore sovietico. Nonostante ciò la stabilità unitaria resistette anche alla morte di Tito nel 1980, con qualche disordine grave solo in Kosovo, dove la popolazione albanese e mussulmana reclamava ormai ad alta voce la propria autonomia.
Solo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione del sistema socialista nell’Europa dell’Est portò a un serio riesame politico-istituzionale per i popoli componenti la Jugoslavia. Delle sei repubbliche, le prime a proclamare l’indipendenza furono la Slovenia e la Croazia (giugno 1991), seguite dopo poco dalla Macedonia (settembre 1991) e dalla Bosnia-Erzegovina (aprile 1992). Se nel caso di Lubiana il governo di Belgrado non poté quasi opporsi, contro l’indisciplina delle altre repubbliche che avevano confini comuni con la «madre Serbia», si iniziarono cruenti scontri di guerra civile, di fronte ai quali sia le Nazioni Unite sia la Comunità europea non seppero reagire con efficacia. A quel punto le due repubbliche socialiste rimaste, la Serbia e il Montenegro, diedero vita nell’aprile del 1992 alla «Repubblica federale di Jugoslavia», mettendo la parola fine alla storia dello Stato socialista. Questa situazione, oltre alla forte tensione che creava tra gli stessi slavi, ripresentò anche un altro storico motivo di frizione: il governo di Atene mosse delle recriminazioni contro quello di Skopje per il nome di «Repubblica di Macedonia», che da un lato creava ambiguità per l’origine ellenica del termine, ma anche perché poteva dare adito a eventuali rivendicazioni sul territorio omonimo in Grecia. Similmente in seguito al referendum del maggio del 2006 anche il Montenegro è tornato, dopo circa novanta anni, uno Stato indipendente, ponendo fine anche all’ultimo retaggio di unione jugoslava.
Intanto nella provincia del Kosovo dopo decenni di aspre lotte politiche e dopo due lustri di serie rivendicazioni (anche violente) d’indipendenza guidate dal Movimento di liberazione kosovaro albanese (UÇK), nel 1999 si aprì una crisi profonda con relativo conflitto armato, che portò l’intervento della Nato in protezione di Pristina, attaccata dal governo di Belgrado. Tuttavia la situazione non si stabilizzò che con gradualità e dopo crudeli anni di scontri politici e militari, fino ad arrivare alla controversa dichiarazione d’indipendenza, approvata dal parlamento locale, del 17 febbraio 2008. Come prevedibile, Belgrado non solo ha rigettato tale decisione unilaterale, ma ha colto l’occasione per minacciare la rottura diplomatica con qualunque altro Stato avesse riconosciuto una repubblica kosovara autonoma. In questi frangenti la comunità internazionale si è divisa: da un lato vi è stato il pieno e rapido riconoscimento degli Stati Uniti e della Turchia, dall’altro il chiaro rifiuto di Russia e Cina, mentre l’Unione Europa (come spesso accade in questi casi) non ha trovato una politica estera comune, lasciando alle singole Nazioni la libertà di optare per la scelta più opportuna. Fra i favorevoli si annoverano la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia, mentre tra i contrari la Spagna, la Grecia, la Romania e Cipro.
Alla base di queste diverse scelte, più che ragioni di «giustizia» e di «legalità», spesso ha inciso il timore di creare scomodi precedenti in fatto di stabilità interna per i rispettivi movimenti di minoranze, presenti nei singoli Paesi, primi fra tutti i ceceni, i baschi e i nord-ciprioti. Anche in questo caso, come per le questioni caucasiche, curda e palestinese, i grandi guasti provocati dalle maldestre decisioni della conferenza della Pace di Parigi nel 1919 sono ancora fonte di continue agitazioni e prese di posizione unilaterali, traumatiche e cruente non solo per le istituzioni politiche, ma soprattutto per le popolazioni civili, che vi si trovano coinvolte spesso loro malgrado. Gli Alleati nel 1945 hanno vinto la Seconda guerra mondiale, i loro nipoti nel 2008 devono ancora «risolvere» la Prima ...


[1] La Macedonia (propriamente detta) rappresentava e rappresenta un elemento di forte contrasto internazionale tra l’attuale «Macedonia» (Repubblica di), la Grecia e la Bulgaria. Al pari di altre Nazioni e territori contesi (come quello della Moldavia e delle Repubbliche transcaucasiche) e suddivisi in Stati diversi, il solo fatto di usare il termine unitario, per identificare una porzione di quello che verrebbe identificato come sua totalità, produce grave offesa e timore per gli altri Stati, che ne contengono parte di popolazione.

mercoledì 20 marzo 2013

Ungheria: limitazione dei Poteri della Corte Costituzionale


Il Primo ministro ungherese Viktor Orban, leader del partito nazionalista Fidesz, ha varato, lunedì 11 marzo, una riforma della Corte Costituzionale aspramente contestata dall’opposizione e dall’Unione Europea. La riforma limiterà il potere della Corte, uno degli organi istituzionali con cui il Governo di Orban si è più frequentemente scontrato.
La riforma, passata grazie al voto della supermaggioranza parlamentare di Orban e all’astensione dell’opposizione, priva la Corte Costituzionale del diritto di esaminare il contenuto degli emendamenti alla Costituzione presentati dal Governo, limitando il suo compito alla sola verifica procedurale. In tal modo la Corte non potrà più impedire al Governo di Orban il varo di modifiche alla Costituzione come ha fatto nel corso degli ultimi 18 mesi.
L’opposizione ha duramente attaccato Orban, sostenendo che il provvedimento sia destinato a mettere a tacere ogni voce di dissenso, depo! tenziando il sistema giudiziario e quindi la democrazia intera. L’accentramento dei poteri compiuto da Orban potrebbe aumentare il fastidio internazionale nei confronti di Budapest, in un momento in cui il Paese sembra prossimo a dover richiedere assistenza internazionale per via della sua fragilità economica, della sua moneta debole e del crollo dell’investimento straniero.
(Da Ce.S.I. Geopolitical Weekly n. 103)

Nato: Conclusa la Praud Manta 2013.


l 6 marzo scorso si è conclusa la Proud Manta 2013, esercitazione dedicata alla lotta anti-sommergibile della Nato, tenutasi nelle acque del Mar Ionio. Per 10 giorni, gli equipaggi delle Marine di Canada, Francia, Germania, Grecia, Italia, Norvegia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti hanno partecipato alle attività volte al miglioramento del livello operativo nella lotta anti-sommergibile e dimostrato i progressi compiuti nella cooperazione e nell’interoperabilità delle unità navali.
All’esercitazione hanno partecipato 4 sottomarini, 16 velivoli e 8 navi di superficie. La Marina Italiana ha schierato il cacciatorpediniere D560 Luigi Durand de la Penne, la nave trasporto fari Levanzo, il sommergibile S527 Scirè, elicotteri EH101 e AB212 in configurazione anti-sommergibile e velivoli da pattugliamento marittimo Br-1150 Atlantique. Il comando delle operazioni è stato basato all’Allied Maritime Command (Marcom) a Northwood nel Regno Unito.
Per l�! �esercitazione sono stati predisposti contesti basati su realtà in cui la Nato potrebbe trovarsi a operare, tra cui l’abbordaggio di una nave sospettata di avere carichi pericolosi e scenari di guerra totale. Nell’occasione il Centro di Ricerca e Sperimentazione Marittima (CMRE) della Nato ha testato nuove tecnologie tese all’individuazione e alla tracciatura di sottomarini: tra queste una nuova barriera anti-sommergibile organizzata da veicoli subacquei e aerei senza pilota (AUV e ASV) e il Wave Glider, veicolo navale di superficie privo di equipaggio.
(da Newletter Ce.S.I. n. 48.)

 

Esercitazione congiunta Italia-Francia


Il 7 marzo presso il Centro Sperimentazioni Missilistiche della Direction Générale de l’Armament (DGA) di Biscarrosse, in Francia, si è svolta una esercitazione congiunta italo-francese di lancio di missili ASTER-30, del sistema missilistico SAMP-T (Surface-to-Air Missile Platform-Terrain). Il sistema è riuscito ad intercettare con successo un bersaglio che simulava un missile balistico di teatro. Questo ottimo risultato segna un altro passo nel dimostrare le capacità del SAMP-T di contrastare le minacce balistiche e fa seguito a due test positivi svolti nell’ottobre 2010 e nel novembre 2011. Il test è stato realizzato all’interno di un’esercitazione internazionale della Interim Ballistic Missile Defence (IBMD) dimostrando le capacità del SAMP-T nel contesto di un’operazione della difesa integrata della NATO realizzata sotto la guida del Ballistic Missile Defence Operational Centre di Ramstein (Germania).
Il nuovo sistema missilistico, in dotazione al ! 4° Reggimento Artiglieria Controaerei “Peschiera” dell’Esercito, con sede a Mantova, consente una capacità di difesa, in un raggio di 100km, contro la minaccia rappresentata da aerei, missili convenzionali e balistici di teatro.


(Da News Letters Ce.S.I. n. 48)

 

venerdì 15 marzo 2013

Analysis of Greenland Ice Cores Adds to Historical Record and May Provide Glimpse into Climate's Future



The International North Greenland Eemian Ice Drilling (NEEM) project results indicate that melting of Antarctic ice sheet may have contributed more to sea level rise than melting of the Greeland ice sheet some 100,000 years ago
A new study that provides surprising details on changes in Earth's climate from more than 100,000 years ago indicates that the last interglacial--the period between "ice ages"--was warmer than previously thought and may be a good analog for future climate, as greenhouse gases increase in the atmosphere and global temperatures rise. The research findings also indicate that melting of the massive West Antarctic ice sheet may have contributed more to sea-level rise at that time than melting of the Greenland ice sheet.The new results from the North Greenland Eemian Ice Drilling (NEEM) project were published in the Jan. 24 edition of Nature.Members of the research team noted that they were working in Greenland during the summer of 2012 during a rare modern melt event similar to those discussed in the paper."We were quite shocked by the warm surface temperatures observed at the NEEM ice camp in July 2012," said Dorthe Dahl-Jensen, of the University of Copenhagen, the NEEM project leader."It was simply raining, and, just as during the Eemian period, meltwater formed subsurface ice layers. While this was an extreme event, the present warming over Greenland makes surface melt more likely, and the predicted warming over Greenland in the next 50-100 years will potentially have Eemian-like climate conditions."The Eemian interglacial period began about 130,000 years ago and ended about 115,000 years ago.The project logistics for NEEM are managed by Denmark's Centre for Ice and Climate. The Arctic Sciences Section in the National Science Foundation's Division of Polar Programs manages the U.S. support for the project.In addition to Denmark and the United States, researchers from Belgium, Canada, China, France, Germany, Iceland, Japan, the Netherlands, South Korea, Sweden, Switzerland and the United Kingdom are also partners in NEEM. The research published this week shows that during the Eemian interglacial, the climate in North Greenland was about 8 degrees Celsius warmer than at present. Despite this strong warming signal during the Eemian--a period when the seas were roughly four to eight meters higher than they are today--the surface in the vicinity of NEEM was only a few hundred meters lower than its present level, which indicates that the Greenland ice sheet may have contributed less than half of the total sea rise at the time."The new findings reveal higher temperatures in Northern Greenland during the Eemian than paleo-climate models have estimated," said Dahl-Jensen.The researchers looked at surface elevation and ice thickness in the early and later parts of the Eemian. Following the previous glacial period, 128,000 years before present, the surface elevation in the vicinity of NEEM was 200 meters higher than the present and the ice thickness decreased at a very high rate of 6 centimeters per year. Some 122,000 years before the present, the surface elevation was 130 meters below the present. In the late Eemian, 122,000 to 115,000 before present, the surface elevation remained stable at a level of 130 meters below the present with an ice thickness of 2,400 meters.The research team estimated the Greenland ice sheet's volume reduced by no more than 25 percent over 6,000 years. The rate of elevation change in the early part of the Eemian was high and the loss of mass from the Greenland ice sheet was likely on the the same order as changes observed during the last ten years."The good news from this study is that Greenland is not as sensitive as we thought to temperature increases in terms of disgorging ice into the ocean during interglacial periods," said Dahl-Jensen. "The bad news is that if Greenland did not disappear during the Eemian, Antarctica, including the more dynamically unstable West Antarctica, must be responsible for a significant part of the 4-8 meters of sea-level rise."Jim White, director of the Institute of Arctic and Alpine Research at the University of Colorado, Boulder, and the lead U.S. investigator on the NEEM project, said that while three previous ice cores drilled in Greenland in the last 20 years recovered ice from the Eemian, the deepest layers were compressed and folded, making the data difficult to interpret.
With this study, although there was some folding of the lowest ice layers in the NEEM core, sophisticated ice-penetrating radar helped scientists sort out and interpret the individual layers to paint an accurate picture of the warming of Earth's Northern Hemisphere as it emerged from the previous ice age."When we calculated how much ice melt from Greenland was contributing to global sea rise in the Eemian, we knew a large part of the sea rise back then must have come from Antarctica," said White. "A lot of us had been leaning in that direction for some time, but we now have evidence that confirms that the West Antarctic ice sheet was a dynamic and crucial player in global sea rise during the last interglacial period."The intense surface melt in the vicinity of NEEM during the warm Eemian period was seen in the ice core as layers of re-frozen meltwater. Meltwater from surface snow had penetrated the underlying snow, where it re-froze. Such melt events during the past 5,000 years are very rare by comparison, confirming that the surface temperatures at the NEEM site during the Eemian were significantly warmer than today, said the researchers.The Greenland ice core layers--formed over millennia by compressed snow--are being studied in detail using a big suite of measurements, including stable water isotope analysis that reveals information about temperature and moisture changes back in time. Lasers are used to measure the water stable isotopes and atmospheric gas bubbles trapped in the ice cores to better understand past variations in climate on a year-by-year basis--similar in some ways to a tree-ring record."It's a great achievement for science to gather and combine so many measured ice core records to reconstruct the climate history of the past Eemian," said Dahl-Jensen. "It shows what a great team of researchers we have assembled and how valuable these findings are."(NSF press release, jan.24,2013)

Novoportovskoye will boost Arctic oil shipping



The biggest oil field in the Yamal Peninsula will be ready for production in 2015. Most of the oil will be shipped out along the Northern Sea Route.
By
February 13, 2013
The Novoportovskoye field holds 220 million tons of extractable oil and 260 billion cubic meters of gas and is under development by the Gazprom Neft company. The nearby terminal at Cape Kamenny in the Ob Bay is to be ready already in 2014, while field production launch is scheduled for 2015.
When ready, the Novoportovskoye field will result in a major increase in the level of oil shipments in Russian Arctic waters. All the oil is to be shipped out along the Northern Sea Route with the help of icebreakers. In addition, a new gas pipeline is to connect the field with Gazprom's pipe infrastructure in the region.
The field is located about 30 km inland from the Ob Bay, near the town of Novy Port. A public hearing on the project is currently underway in the town, Biztass.ru reports.
Gazprom Neft will in 2013 drill another three wells at the field. In 2012, a total of five wells were drilled, Oilru.com reports.
As previously reported, Gazprom Neft’s planned terminal at Cape Kammeny is located about 400 km south of the Sabetta Port, the site where Novatek is planning its Yamal LNG plant together with French energy major Total. A test sailing mission with the nuclear-powered icebreaker “Vaigach” in late 2011 showed that the site can be used for the purpose. The Ob waters are in winter covered by ice with a thickness of up to two meters and the ice-free season lasts only about three months.

Gas explosion at arctic gas field



Eight people were injured in a gas explosion at the Bovanenkovo gas field in the Yamalo-Nenets region early this morning.
The accident happened when workers in a workshop for gas treatment were adjusting equipment. An uncontrolled blast of gas partly ruined the workshop and injured eight workers,Business TASS reports. An investigation group from Gazprom is on its way to the site.
Bovanenkovo  holds 4,9 trillion cubic meter of gas and is the biggest gas field in the Yamal Peninsula. The field is in its final stage of preparation before launch. According to Gazprom, the first startup complex of the field has entered the final stage of pre-commission work. At the same time, the first string of the Bovanenkovo-Ukhta pipeline, which will bring the gas towards western markets, is in the process of being completed. Only small parts of welding remains on the 1240 km long pipeline, and testing is in the progress,BarentsObserver reported earlier. (Barents Observer march 12,2013)

In Russian Arctic waters, a looming battle of giants


Rosneft accuses Gazprom of intervening in Arctic oil, while Gazprom is increasingly uncomfortable with Rosneft’s attempt to engage in production of Arctic LNG.
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There might not be any international scramble for Arctic resources, but the relationship between Russia’s two major energy companies are surely about to reach a level of Arctic heat.
According to Kommersant, Rosneft Deputy Board Chairman Nikolai Laverov President last week sent a letter to the federal Ministry of Natural Resources where he strongly critiziced Gazprom’s plans on the shelf.
The worsening relations come after the two companies’ successful joint action to prevent non-state companies from getting access to Arctic offshore hydrocarbons. As previously reported, after fierce lobbying, the two companies managed to preserve their shelf monopoly, much to the irritation and frustration of private companies as well as key government ministers.
With the monopoly situation intact, the two companies now increasonly look at eachother with distrust and as resource rivals.
While Gazprom fiercely opposes Rosneft’s attempt to break its gas export monopoly, Rosneft wants Gazprom to stay out of oil production. As previously reported, Rosneft has together with Novatek applied for permission to engage in production and export of LNG from Arctic fields. If permission is granted by government, it will mean an end to Gazprom’s luxurious gas export monopoly. Meanwhile, Rosneft is increasingly irritated by Gazprom’s engagement in Arctic oil developments. Subsidiary unit Gazprom Neft, Russia’s fourth biggest oil producer and a competor to Rosneft, has been granted several offshore licenses by its mother company, among them to the Dolginskoye and Prirazlomnoye fields.
Rosneft suspects that Gazprom intends to hand over a number of more licenses to its oil subsidiary. Meanwhile, Rosneft itself believes that it has natural gas reserves amounting to as much as 21 trillion cubic meters in its Arctic field portefolio, a volume by far exceeding the offshore reserves of Gazprom.
Rosneft, the state-controlled company headed by Igor Sechin, has over the last year rapidly enhanced its Arctic engagement and today holds a total of 43 licenses. And the company’s appetite has not yet been pleased. According to Kommersant, Rosneft has applied the federal mineral resource agency Rosnedra for another eight licenses. (Barents Observer, march 12,2013)