Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 28 maggio 2015

Albania: la Politica internazionale di Tirana

Balcani, Albania
Il sogno proibito di Tirana
Alessandro Ronga
20/05/2015
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L’escalation di tensioni a Kumanovo, cittadina macedone a maggioranza albanese che il 9 e il 10 maggio è stata teatro di violenti scontri tra forze di sicurezza locali e guerriglieri kosovaro-albanesi, riporta drammaticamente d'attualità l'ultima, irrisolta questione lasciata in eredità dalle guerre balcaniche degli Anni Novanta: la Grande Albania.

Tirana non sembra aver mai abbandonato l'idea di ridestare nei Balcani meridionali uno stato etnicamente omogeneo che nasca dall'annessione, oltre che del Kosovo, anche di territori di etnia albanese sparsi tra la Serbia, il Montenegro, la Grecia e appunto la Macedonia.

Polemiche nel triangolo con l’Ue
“L'unificazione degli albanesi di Albania e Kosovo è qualcosa che si realizzerà in modo inevitabile e indiscutibile. E avverrà nel contesto dell'Unione europea (Ue) come un processo naturale e accettato da tutti, o al di fuori, come reazione alla cecità e al lassismo dell'Europa”: queste affermazioni, che sembrano uscite da un comizio degli ultranazionalisti di Akz (la formazione che nel 2013 aveva proposto la creazione di una Federazione albanese-kosovara), appartengono invece al premier albanese, il socialista Edi Rama.

Intervistato ad inizio aprile dall'emittente kosovara Klan Kosova, Rama ha voluto ribadire come il suo Paese e l'ex provincia secessionista serba perseguano il medesimo obiettivo, ovvero quello di ricomporre la diaspora albanese sotto le bandiere dell'Ue. Nella quale l'Albania è candidata ad entrare e, nelle intenzioni di Rama, con il Kosovo come dote.

Ma tra Pristina e Bruxelles, dopo una fase di entusiasmo iniziale seguita al referendum secessionista kosovaro del 2008, i rapporti si sono fatti più tiepidi, tanto che l'Ue non ha concesso ai kosovari nemmeno il regime di abolizione dei visti d’ingresso, di cui dal 2010 beneficiano invece i cittadini della stessa Albania.

A questo si riferiva evidentemente Rama quando parlava di "cecità e lassismo" dell'Ue, accusando Bruxelles di non scorgere quel che è un dato di fatto: Albania e Kosovo sono un tutt'uno, e solo l’ingresso in toto dei territori albanesi all’interno dell’Ue eviterà che le etnie dei Balcani debbano scontrarsi in futuro per questioni di confini. Una sorta di aut aut, quasi a voler mettere l'Ue dinanzi al fatto compiuto.

Uno status da definire
L'idea dell'unificazione dell'Albania etnica non è più prerogativa dei soli gruppi ultranazionalisti, ma sembra ormai avallata dallo stesso governo albanese: con il suo concetto della "inevitabilità" dell'unificazione, Rama non fa altro che cavalcare un sentore diffuso nel suo Paese e nel Kosovo stesso.

È fin troppo chiaro che, con l'intervista alla tv kosovara, Edi Rama abbia voluto lanciare un messaggio chiaro, tanto ai kosovari che ai governanti europei.

L'Ue ha sostenuto fin da subito - forse in maniera troppo frettolosa - le istanze indipendentiste del Kosovo, riconoscendone il referendum secessionista del 2008 ma ritrovandosi al suo interno con delle prevedibili voci di dissenso, le più forti da Spagna e Grecia, che, diversamente dalle altre capitali comunitarie, ritengono non legittima la secessione di Pristina da Belgrado.

Una posizione, quest'ultima, che di fatto ha anticipato la sentenza emessa nel luglio 2010 dalla Corte internazionale di Giustizia, che, con toni tra il salomonico e il pilatesco, ha ritenuto l'indipendenza del Kosovo "non illegittima": una sfumatura lessical-giuridica che non vuol dire che essa sia "legittima".

I giudici della Cig, infatti, si sono solo espressi sulla secessione in senso tecnico, riconoscendo che il referendum del 2008 non ha violato il diritto internazionale solo perchè non esistono norme che vietano esplicitamente a un territorio di separarsi dalla Madre Patria. Se dunque non ci sono norme, non può esserci violazione del diritto. Ma se l'indipendenza del Kosovo sia legittima o meno, la Cig non ha potuto, o voluto stabilirlo.

Di fatto, a causa di questa situazione così ambigua, Pristina si trova oggi in una sorta di limbo: la sua indipendenza è riconosciuta da un numero di governi elevato, ma non sufficiente per permettere al Kosovo di fregiarsi della condizione di Stato generalmente riconosciuto e conseguentemente di candidarsi a un seggio alle Nazioni Unite, traguardo che a sette anni dalla proclamazione dell'indipendenza sembra ancora lontano.

Sotto un’unica bandiera
A Tirana regna un sano pragmatismo: Rama e i suoi i calcoli se li sanno fare bene. Sanno, per esempio, che il Kosovo dovrà attendere chissà quanto prima di veder la propria sovranità riconosciuta in sede Onu, e per questo sembrano non escludere l'ipotesi che i kosovari possano decidere di farsi inglobare dall’Albania prima di diventare cittadini di un loro Stato sovrano generalmente riconosciuto.

Tecnicamente, la cosa è fattibile, per giunta avvantaggiata dallo status internazionale non definito del Kosovo: basterebbe un referendum come quello indetto in Crimea lo scorso anno per votare l’annessione alla Russia, e l’esito sarebbe scontato.

Del resto, gli albanesi del Kosovo hanno sempre guardato all’Albania come la terra della loro cultura, della loro lingua e dei loro avi. Fin dai primi scontri con le forze jugoslave di fine Anni Ottanta è parso chiaro più un senso di appartenenza all’Albania che un vero sentimento nazionale kosovaro.

Ma questa ipotesi-unificazione perseguita rischierebbe di creare parecchi imbarazzi nella stessa Ue e nella Nato, di cui l'Albania è membro dal 2009. Se ciò dovesse avvenire, come si comporterebbero nei confronti di Tirana?

Se riconoscessero l’annessione del Kosovo per salvaguardare i propri rapporti politici e militari con l’Albania, andrebbero a contraddire un anno di ritorsioni economiche nei confronti della Russia, perchè a quel punto nulla più differirebbe tra il Kosovo e la Crimea: entrambi sarebbero due territori che si staccano da uno Stato per confluire in un altro.

Sinistri scricchiolii
In tutto questo contesto di instabilità va ora a incunearsi la crisi politica in Macedonia. Non è ancora chiaro se i fatti di Kumanovo della scorsa settimana rappresentano l'incipit di una svolta autoritaria del governo di Skopje, come denunciato dall'opposizione, oppure, come ribattono le forze di sicurezza, la risposta ad un tentativo di destabilizzazione messo in atto da miliziani di etnia albanese provenienti dal vicino Kosovo.

Tra di essi, secondo alcune fonti locali, ci sarebbero stati anche uomini del famigerato Uçk, l’ambigua organizzazione paramilitare protagonista della guerriglia indipendentista contro l’esercito di Milosevic, ma successivamente accusata di aver commesso crimini di guerra contro la popolazione civile di etnia serba e rom.

Quel che è certo, è che nei territori macedoni a maggioranza albanese si è attivato il timer di una bomba a orologeria, che la comunità internazionale e l'Unione europea in primis sono chiamate a disinnescare subito, se non vogliono che i Balcani meridionali siano travolti da un nuovo e devastante incendio. Perché ciò che accade in queste ore in Macedonia fa tanto deja-vu.

Alessandro Ronga è giornalista e collaboratore del settimanale "Il Punto".
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Europa. Alla ricerca di nuovi orizzonti ad est

Verso il Vertice di Riga
Ue: le nuove sfide del Partenariato orientale 
Dario Sabbioni
19/05/2015
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Il 21 e 22 maggio si terrà a Riga il quarto Vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi inclusi nel Partenariato orientale. Per i sei Paesi non-Ue che fanno parte di questa iniziativa (ovvero Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Armenia, Georgia e Azerbaijan) è l’occasione per riallacciare un dialogo che da più parti è stato messo in discussione.

Lanciato sei anni fa nel quadro della Politica europea di vicinato, il Partenariato rappresenta il volto “orientale” delle relazioni bilaterali, multilaterali e transregionali che caratterizzano questa importante politica dell’Unione.

Quali sfide attendono i ventotto capi di Stato e di governo Ue, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il commissario europeo per la Politica di vicinato e i negoziati di allargamento Johannes Hahn?

Il lancio dell’Unione economica eurasiatica (Uee) a gennaio 2015, la situazione nel Donbass, la costante incertezza politica in Moldavia, i conflitti “congelati” della regione mostrano come l’Ue abbia assoluto bisogno di nuove strategie.

La via trans caucasica
Per quanto riguarda il versante caucasico, dei tre Paesi che fanno parte del Partenariato soltanto la Georgia sembra aver raggiunto un soddisfacente livello di integrazione con l’Ue.

L’Armenia invece, che il 2 gennaio è entrata a far parte della neonata Uee, diretta erede della Unione doganale eurasiatica, sembra aver già fatto una scelta di campo. Tornando in Europa, il sentiero armeno è stato seguito dalla Bielorussia, anch’essa parte della Uee.

La “competizione” con questa nuova iniziativa di integrazione regionale russa non va sottovalutata. L’Ue non potrà più parlare solo con la pubblica amministrazione dei singoli Paesi per trattare di barriere doganali, dazi e altre questioni legate al commercio, ma dovrà vedersela con l’intero blocco dell’Uee, che è ora in grado di fissare tariffe comuni a tutti i Paesi.

È quasi scontata quindi l’egemonia che la Russia avrà nella regione, come dimostra la presidenza della Commissione economica eurasiatica conferita all’ex-ministro dell’Industria del governo russo, Viktor Borisovich.

La campana delle riforme suona a Est
Nel quadrante est-europeo, invece, la situazione è più favorevole all’Unione: le bandiere blu a dodici stelle gialle apparse a Maidan Nezalezhnosti durante le proteste di piazza a Kiev sono l’esempio di un (ancora abbozzato) desiderio “europeo”. Inoltre, Ucraina e Moldavia hanno stipulato con l’Ue un Dcfta (Deep and Comprehensive Free Trade Agreement) che ora attende solo di essere messo in pratica.

Ci sono molti ostacoli sul cammino: la Russia ha già fatto sapere che si oppone all’applicazione del Dcfta con l’Ucraina almeno fino a fine 2016, ma il rischio è che continui a rilanciare per ritardare il processo.

Inoltre, per avere la “carota”, ovvero i cospicui finanziamenti europei, è richiesta a ciascun partner l’accettazione di certi valori e standard democratici, oltre che la costosa messa in regola di determinati settori dell’economia secondo le direttive europee. Il cosiddetto “bastone” della condizionalità è sempre dietro l’angolo, quindi.

Infine, il coinvolgimento della società civile non può essere trascurato: l’Eastern Partnership Civil Society Forum (EaP-Csf) è il forum principe per le discussioni della società civile tra Paesi del Partenariato e Unione europea. Le proteste in Ucraina hanno dimostrato quanto una società civile consapevole possa ottenere se agisce con un obiettivo comune. Progetti che aiutino la società civile e il settore privato (attraverso il Business Forum del Partenariato orientale) ad assumere maggiore consapevolezza politica possono essere sicuramente una leva importante per l’Ue.

Quale Partenariato dopo Riga?
Il ministro degli Esteri lettone Edgars Rinkevics, che in quanto presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea ospita il Vertice nella sua capitale, ha usato toni garibaldini: qui o si realizza veramente una cooperazione, o il Partenariato morirà. Il momento sarebbe propizio per affrontare almeno due questioni fino ad ora eluse.

Innanzitutto, dare una vera prospettiva europea a Moldavia e Ucraina. Sono Paesi che certo devono ancora lavorare molto sulla strada delle riforme, ma che hanno bisogno di stimoli più forti e non soltanto di promesse per arrivare in fondo. Sembra quasi che l’attaccamento a Bruxelles sia direttamente proporzionale al livello di avanzamento degli ideali democratici dei Paesi: questo può essere uno sprone forte per l’Ue a continuare nel solco già tracciato.

Infine, l’ultima questione da affrontare riguarda la fornitura di energia: l’Azerbaijan, il partner regionale con maggiori interessi in questo settore, è sganciato da una logica europea, ma rimane interessato a proseguire la cooperazione nel quadro del Partenariato strategico per l’Energia con l’Ue.

Il colore del futuro per il Partenariato orientale è grigio. Da una parte, molti fattori giocano a favore di relazioni più strette con l’Ue, soprattutto per alcuni Paesi. In questo caso, bisogna essere attenti a non trasformare la “differenziazione” in base al livello di integrazione con l’Ue in vera e propria “discriminazione” contro i Paesi che mostrano maggiori difficoltà.

Dall’altra, il guanto di sfida lanciato da Mosca non può che essere un segnale di allarme per un’Unione che ha ancora mezzi troppo limitati per lanciarsi in un gioco di potenza su scala regionale. Il summit di Riga dirà se l’Ue è pronta (almeno a parole) a giocare la partita.

Dario Sabbioni ha svolto uno stage presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI). Attualmente frequenta un MA in EU International Relations and Diplomacy Studies al College of Europe di Bruges.
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martedì 12 maggio 2015

Russia: le sanzioni non sono finite

Ue e Russia
L’arma dell’antitrust contro Gazprom
Lorenzo Colantoni
08/05/2015
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La Commissione europea ha inviato una comunicazione degli addebiti alla compagnia nazionale per il gas russa Gazprom, accusandola di abuso di posizione dominante, per l’imposizione di prezzi eccessivamente alti in otto Stati membri dell’Ue (Bulgaria, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lituania e Lettonia).

Le relazioni ancora tese con l’Ucraina, la novità europea dell’Unione energetica e i cambiamenti nei piani infrastrutturali della Russia, dal fallimento di South Stream alla nascita del Turkish Stream, pongono interrogativi importanti sulle motivazioni e l’evoluzione di questa decisione.

I fatti
La causa antitrust della Direzione Generale (DG) Concorrenza della Commissione europea contro Gazprom non è una novità: i suoi albori risalgono al 2012. La comunicazione era pronta almeno dalla scorsa estate e l’ex commissario Almunia desiderava farla partire entro il settembre scorso, ma fu poi fermato dall’evolversi della crisi ucraina.

La comunicazione è lo stesso tipo di documento che lo scorso 15 aprile la Commissione ha inviato a Google: vi si sostiene che Gazprom stia portando avanti una strategia basata sulla divisione tra Stati membri dell’Europa Centrale e Orientale per poter ridurre la concorrenza in questi paesi.

Le modalità sarebbero di tre tipi. La prima consisterebbe in restrizioni territoriali, in particolare clausole che proibiscono l’esportazione del gas ricevuto, clausole di destinazione, secondo cui il gas deve essere impiegato dove concordato dal contratto, e altre misure che condizionano i distributori.

Gazprom applicherebbe poi una politica di prezzo sleale in cinque Stati membri (Bulgaria, Polonia, Estonia, Lituania e Lettonia) tramite l’indicizzazione del prezzo del gas a quello del petrolio secondo formule modificate a proprio vantaggio.

Infine, la compagnia utilizzerebbe la propria posizione dominante per influenzare decisioni di tipo infrastrutturale, sulle quali non potrebbe in teoria intervenire per via dell’unbundling, la divisione tra chi produce e chi trasmette l’energia prevista dal Terzo Pacchetto per l’Energia dell’Ue.

Le forniture di gas russo sarebbero subordinate alla concessione di maggiore controllo a Gazprom o di maggiori investimenti su determinati gasdotti in paesi come la Bulgaria e la Polonia.

Gazprom ha ora 12 settimane, in principio fino al 22 luglio, per inviare la propria risposta, con la possibilità di richiedere un’audizione.

Il contesto 
La posta in gioco è economicamente alta: la multa potrebbe arrivare fino al 10% del fatturato del più grande esportatore di gas al mondo. A livello diplomatico però, la situazione è ancora più critica.

Quando il caso fu presentato per la prima volta nel 2012, era lecito pensare che la Commissione volesse spingere Gazprom ad adottare un modello di contratto più flessibile rispetto a quelli a lungo termine, riducendo il costo della dipendenza russa per gli Stati membri più colpiti.

La crisi ucraina e le sanzioni hanno però inasprito i rapporti tra Europa, in particolare Bruxelles, e la Russia, e l’impatto politico di una mossa simile è forte, nonostante le dichiarazioni del commissario alla Concorrenza Margrethe Vestager neghino una simile intenzione.

La comunicazione è stata poi preceduta da una serie di eventi, sia dal lato della Commissione che da quello russo. Da una parte la Commissione ha lanciato l’iniziativa dell’Unione energetica, proposta dall’attuale presidente del Consiglio europeo ed ex primo ministro polacco Tuskcon in netto tono anti russo, poi mutato secondo un approccio olistico nella versione finale.

La stessa Unione energetica ha visto l’ultimo Consiglio europeo focalizzarsi sugli aspetti esterni dell’iniziativa, parlando soprattutto di gas e diversificazione delle forniture.

La Russia non è però stata a guardare, discutendo un accordo per il gasdotto Turkish Stream prima con Ungheria e Grecia, che hanno espresso il proprio supporto all’iniziativa già in un incontro dello scorso sette aprile.

Tsipras e Putin hanno subito dopo firmato un accordo commerciale, in cui il Turkish Stream potrebbe avere un ruolo chiave. Un incontro di tanto successo che la Grecia potrebbe ricevere a breve un prestito dal Cremlino del valore di cinque miliardi di europer il gasdotto.

Nel mezzo, l’Ue, la Russia e l’Ucraina hanno inaugurato i trilaterali sul gas lo scorso 20 marzo, cancellando però l’incontro successivo che avrebbe dovuto essere, in teoria, alla fine di aprile. Con motivi forse differenti rispetto a quelli puramente tecnici, usati per giustificare lo spostamento di date.

L’interesse della Commissione in una decisione simile potrebbe stare nel consolidamento sul fronte esterno, ricordando alla Russia che possiede l’arma antitrust (i “marines” della Commissione) e che non ha paura di usarla.

Allo stesso tempo però la mossa potrebbe rivolgersi al lato domestico, evitando innanzitutto lo scontro tra le posizioni europee e quelle nazionali, come era accaduto con il South Stream.

La Commissione potrebbe poi voler accelerare la diversificazione dalla Russia, un processo che sta avvenendo anche da parte del Cremlino verso l’Europa.

Questa decisione potrebbe influenzare sia il nuovo ambito infrastrutturale (Gnl, gasdotti ma anche reti elettriche) così come la definizione, ancora in corso, della nuova politica energetica europea sulla base degli obiettivi per il 2030, stabiliti lo scorso ottobre, e l’attuazione dell’Unione energetica, proposta in forma finale il 25 febbraio 2015.

Lorenzo Colantoni è consulente di ricerca dello IAI (Twitter: @colanlo) .
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Gran Bretagna: ancora sul voto

Gran Bretagna al voto
Il ruggito dei vecchi leoni 
Gabriele Rosana
05/05/2015
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Due fugaci apparizioni a Downing Street, fagocitate dalle ingombranti ombre degli immediati predecessori.

Le parabole di John Major e Gordon Brown, gli eterni delfini assisi al numero 10 quando ormai divenuti marmoree cariatidi, si intrecciano anche oggi che lo scenario partitico è decisamente mutato e il bipolarismo britannico si mostra in tutta la sua precarietà, ostaggio delle consolidate sacche di consenso dei nazionalisti scozzesi e della avanzata eurofoba dell'Ukip di Nigel Farage, oligopolisti dell'agenda politica.

Major e Brown, a volte ritornano
Nell'arena di Sua Maestà, le due vecchie glorie sono inaspettatamente diventate mattatori della campagna elettorale più incerta della storia del Regno.

Dimenticata la fallimentare successione di autentici fuoriclasse della comunicazione politica (rispettivamente, Margaret Thatcher e Tony Blair), Major e Brown presidiano oggi ciascuno il proprio campo - l'uno quello conservatore, l'altro il laburista -, atteggiandosi a padri nobili della patria. Una patria, nelle parole di entrambi, da preservare dal pericolo di un nuovo collasso ad opera del revanchismo indipendentista.

Brown, in realtà, un exploit comunicativo lo aveva fatto registrare già lo scorso settembre, a poche ore dal referendum sulla secessione della Scozia, quando, su e giù per il palco di Glasgow, aveva rivolto un ultimo appello agli elettori a nome dell'eterogeneo fronte unionista al grido di "Better together".

Allora, la stampa britannica, mai troppo gentile con l'impacciato ex primo ministro, aveva parlato persino di appassionato discorso della vita da parte di Brown, che da glasgowiano rientra a pieno titolo nella vecchia generazione di laburisti scozzesi foraggiati dal granaio elettorale del nord, indispensabile propulsore dei trionfi della sinistra britannica (a nord del Vallo di Adriano, i Tories racimolano tradizionalmente ben pochi voti e, di conseguenza, seggi, nel sistema uninominale).

Quello stesso granaio che oggi è seriamente minacciato da una realtà ben consolidata nel panorama politico del Regno Unito, lo Scottish National Party (Snp) che - accreditato dai sondaggi fra i 35 e i 45 seggi (sui 59 in palio in Scozia) - potrebbe rivoluzionare l'assetto politico di Westminster, soffiando ai liberaldemocratici il terzo piazzamento e il ruolo di kingmaker, assestando l'ennesimo e ben più significativo colpo al bipartitismo di Londra.

Proprio quel ruolo aveva fatto di Nick Clegg e dei suoi l'ago della bilancia dopo le consultazioni del 2010, quando i libdem decisero di formare un governo di coalizione con i conservatori di David Cameron.

Oggi, una nuova e ben più grande alleanza potrebbe essere all'orizzonte; ma vedrebbe stavolta il fronte laburista di Ed Miliband - riguadagnato il profilo popolare e vicino alle Trade Unions mandato in soffitta dal new labour di fine Anni Novanta - tessere un accordo post-elettorale proprio con il demonizzato Snp della pasionaria first minister di Edimburgo Nicola Sturgeon (subentrata allo storico leader Alex Salmond, ritiratosi dopo il naufragio del referendum), in concorso con altri frammenti che guardano a sinistra, come i verdi e gli indipendentisti gallesi.

Flirt fra laburisti e scozzesi?
Una prospettiva non smentita dall'establishment laburista ma fatta subito oggetto di derisioni da parte della Sturgeon: benché più probabile, l'appoggio esterno caso per caso a un governo di minoranza potrebbe essere quanto mai logorante per il partito di Miliband.

Anzi, per dirla con sir Major, un’eventuale agenda di governo influenzata dall'Snp si tradurrebbe nel pretesto che i nazionalisti scozzesi attendono per riportare la secessione all'attualità del dibattito pubblico. Insomma, l'esito di settembre non sarebbe stato "the end of the matter for a generation", ma solo un passaggio obbligato di una strategia di più lungo orizzonte.

L'atmosfera dopo il responso delle urne che ha mantenuto in piedi il Regno, poco meno di otto mesi fa, insomma, non pare essersi rasserenata.

Le dure parole di Major contro il possibile accordo Labour-Snp all'insegna dell'aumento della spesa pubblica sono state bollate come pericolose per l'unione britannica da Miliband e disinnescate dall'interno della stessa fazione conservatrice (da Lord Michael Forsyth, che con Major era stato segretario di Stato per la Scozia).

"Fuori dall'Ue la nostra Nord Corea"
Ma se di referendum e di rinnovate chiamate alle urne si continua a parlare, l'altro convitato di pietra - stavolta a proiezione sovranazionale - è l'Ukip.

Molto meno radicato sul territorio dell'Snp, non riuscirà - complici i collegi uninominali - a tradurre in un cospicuo numero di scranni ai Comuni l'affermazione nazionale delle europee 2014. Ciò nondimeno, è un'aspra voce molto ascoltata nell'arena politica britannica e ha provocato lo smottamento anti-Ue del governo Cameron.

Il referendum sulla permanenza nell'Unione che - se rieletto - l'attuale primo ministro vuole indire entro il 2017 (preceduto, nei primi cento giorni di governo, da un rinegoziato fra Gran Bretagna e partner europei) rientra appieno in questa ottica.

Falsata, secondo il (nuovo) ruggito di Gordon Brown. L'"eroe" del no alla Scozia indipendente evidenzia oggi - quando la bistrattata Ue è trascinata nella fiera battaglia politica all'ombra di Westminster - come quello propugnato dai Tories sia in realtà un errore di prospettiva del tutto simile a quello proposto dall'Snp pochi mesi fa.

"Il referendum sull'indipendenza dell'anno scorso era stato trasformato dai nazionalisti in una scelta fra la Scozia e la Gran Bretagna (...), così convincendo migliaia di elettori che l'unico modo per dimostrarsi fieri e patriottici scozzesi fosse votare per il sì".

Un inganno che secondo l'ex premier il fronte anti-europeista stanno diffondendo oggi con riferimento all'Europa, propagandando una scelta ben più semplicistica ed emozionale: "Siete per la Gran Bretagna o per l'Europa?". Una contrapposizione fra "noi" e "loro", fra Juncker e la sua furia pro-Ue e Farage con il suo strenuo rifiuto del disegno euro-unitario in favore di una patriottica difesa del Regno Unito.

Il rischio, alto, è anche che gli europeisti combattano la battaglia con le armi sbagliate, cedendo alle sirene dell'establishment londinese filo-Ue e prestando il fianco all'accusa di non capire il paese reale.

Ma la campagna per tenere Londra legata all'Europa "non si vince solo diffondendo schede con i dati circa i benefici che il Regno trae dall'appartenenza all'Ue”. Come il referendum scozzese ha insegnato, “non si vincono i cuori parlando alle teste e ai conti in banca".

Il messaggio di Brown è ben diverso e guarda a una Gran Bretagna "non già nell'Ue, ma che guidi l'Ue", specie se in un decennio o poco più, con la riduzione della popolazione tedesca, Londra si troverà a essere la più grande e potente economia del continente.

Di contro, "l'opzione di lasciare l'Ue per aprirci al mondo farebbe del Regno Unito la Nord Corea dell'Europa, con pochi alleati, priva d'influenza, pochi scambi e una contrazione degli investimenti".

Gabriele Rosana è stato stagista per la comunicazione dello IAI (Twitter: @GabRosana).
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Gran Bretagna: il momento delle decisioni

Gran Bretagna al voto
All’ora del Brexit, più europei che mai
Antonio Armellini
05/05/2015
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Il costume politico dell’Europa, con i sui riti, le sue modalità, compromessi e instabilità è entrato a gamba tesa nella tenzone elettorale in Gran Bretagna.

Si realizza il paradosso che, proprio nel momento in cui discute concretamente della possibilità di uscire dall’Ue, il paese si appresta a vivere le elezioni più “comunitarie” della sua storia recente.

A pochi giorni dall’apertura delle urne, laburisti e conservatori sono bloccati in un testa a testa di cui è impossibile pronosticare il vincitore.

David Cameron non è riuscito a tradurre gli indubbi risultati ottenuti sul piano economico in un messaggio elettoralmente vincente; abile tattico più che stratega di fondo, gli è mancato quel quid di retorica e di populismo che in campagna elettorale aiuta e che di certo non fa difetto al suo più pericoloso rivale - il sindaco di Londra, Boris Johnson - che attende dietro le quinte (ma non troppo) gli eventi pronto, a seconda del risultato, a inserirsi nella vittoria o a raccogliere le macerie.

Ed Miliband non ce l’ha fatta a scrollarsi di dosso l’immagine di leader un po’ arrogante, la cui mancanza di comunicativa rende difficile il rapporto con un elettorato che vorrebbe essere rassicurato nella propria ansia di rivincita.

Il suo discorso piace alla sinistra ma non convincegli orfani di Blair i quali attendono sornioni - a partire dall’ ex “principe nero” Peter Mandelson - di vedere se riuscirà a non lasciare lungo la strada una fetta troppo consistente del voto di centro su cui, in ultima analisi, si giocherà la partita fra i due principali contendenti.

Programmi elettorali ‘neutri’
I programmi elettorali sono stati giudicati dalla maggioranza degli osservatori privi di contenuti atti a favorire uno spostamento significativo di consensi.

Negli ultimi giorni l’attenzione sui temi dell’immigrazione - che era stato il cavallo di battaglia un po’ di tutti - ha ceduto il passo a quello dell’economia, in una girandola di populismi di opposto segno che sembrerebbe destinata a concludersi in un ulteriore pareggio.

Se il voto labour rappresenta il cuore e quello tory la testa (e il portafoglio), le ultime battute potrebbero vedere uno spostamento a favore dei conservatori; non se ne vedono per ora le tracce e le speranze di Cameron potrebbero ora appuntarsi sul ritorno di fiamma del sentimento monarchico a seguito dell’arrivo del nuovo “royal baby”, che di norma gioca a favore dei partiti conservatori.

La verità è che nessuna delle categorie interpretative tradizionali è applicabile ad una situazione che si presenta del tutto nuova: la logica del sistema maggioritario basata su un unico vincitore non è più in grado di rappresentare la realtà di una società sempre più complessa.

È vero che il governo uscente è stato anch’esso figlio di una coalizione, vissuta come una anomalia temporanea; adesso però quell’anomalia si va trasformando in un dato strutturale.

Le coalizioni - la novità “europea” - sono destinate ad entrare stabilmente a far parte del quadro politico britannico.

Il ruolo chiave dei partiti ‘minori’
A meno di ribaltoni dell’ultimo minuto, la natura del prossimo governo britannico sarà determinata in misura significativa da chi fra i liberaldemocratici e i nazionalisti scozzesi dell’Snp (Scottish National Party) entrerà a far parte della coalizione.

Il meccanismo elettorale farà sì che il peso in termini di seggi degli antieuropei dell’Ukip sia irrilevante: gallesi, unionisti nord-irlandesi e Verdi potranno al massimo fare da portatori d’acqua per coalizioni già definite.

I liberaldemocratici di Nick Clegg pagheranno a quanto pare con un salasso elettorale un prezzo ingiusto per una avventura di governo, che li ha obbligati a compromessi mal digeriti dal loro elettorato, ma che ha permesso loro di esercitare un’influenza moderatrice sulle tentazioni estremiste del socio conservatore.

Dovrebbero mantenere comunque un numero di seggi non inconsistente e si apprestano a rimanere alla finestra, in attesa di vedere quale potrà essere l’offerta più interessante.

I nazionalisti dell’Snp stanno per cogliere un successo storico, conseguito cancellando di fatto la presenza del partito laburista nelle roccaforti storiche scozzesi (e, di conseguenza, riducendone in maniera forse decisiva le possibilità di vittoria al Parlamento di Westminster).

Un governo di coalizione Snp-labour sarebbe quello politicamente più omogeneo, ma l’ostilità di Miliband nei confronti di chi gli avrebbe impedito di esercitare appieno il potere potrebbe essere un osso duro da superare.

La sordina sull’Unione in campagna elettorale
Il tema dell’Europa, che è rimasto un po’ in sordina nella campagna elettorale, riprenderebbe centralità nel quadro di una coalizione.

Per i liberali, sarebbe difficile immaginare l’ingresso in un governo Cameron che non si impegnasse nei fatti, se non nella retorica, ad annacquare la portata di un referendum sull’Europa nel 2017.

Per gli scozzesi dell’Snp per contro, un referendum sull’Europa che decidesse l’uscita di Londra dall’Ue, potrebbe risultare in un assist fortissimo all’obiettivo di una Scozia indipendente all’interno dell’Ue e potrebbe indurli, quindi, ad un atteggiamento più tattico.

Molto dipenderà dalla possibilità per uno dei partiti maggiori di raggiungere un risultato che renda possibile un governo di coalizione, aldilà delle formule: labour-liberali, labour-Snp, conservatori-liberali, appoggi esterni.

L’insufficienza dei numeri, e la difficoltà di muoversi nella terra incognita delle logiche di coalizione, potrebbe risultare alla fin fine nella formazione di un governo di minoranza, con appoggi esterni variabili, destinato ad avere vita breve e cedere entro un paio d’anni il passo a nuove elezioni.

Dalle quali il quadro rischierebbe di uscire, se possibile ancora più frammentato. Per un paese che aveva appena introdotto il principio della durata fissa della legislatura, sottraendola alla libertà di scelta del primo ministro, si tratterebbe di uno sviluppo per molti versi dirompente e, al tempo stesso, sarebbe un segnale inequivocabile dell’inevitabilità di un rivolgimento in profondità del sistema politico.

Assorbire regole e meccanismi, e diventare più “europei”, non sarà facile né indolore, Lord Meghnad Desai, l’economista anglo-indiano, ha evocato la possibilità di una inedita “grande coalizione” come via d’uscita dall’instabilità. Più che una proposta, sembra una brillante provocazione, che indica il percorso di un futuro forse inevitabile, ma ancora lontano.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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martedì 5 maggio 2015

Europa: Immigrazione: meglio occuparsi delle quote latte e della regolamentazione dei ravanelli dolci

Ue, Italia e migranti
Il confronto tra angelici e spietati
Riccardo Perissich
28/04/2015
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Come aveva chiesto l’Italia, si è finalmente riunito un Consiglio europeo straordinario sull’emergenza immigrati nel Mediterraneo. Puntualmente, la maggioranza dei media il cui peso è amplificato dalla voce della Chiesa grida al fallimento.

Che cos’è stato concluso a Bruxelles? In primo luogo di potenziare le operazioni comuni nel Mediterraneo con mezzi finanziari e navali adeguati e che potrebbero aumentare. Inoltre si lavorerà all’Onu e in altre sedi sulle misure più opportune per bloccare il traffico di esseri umani. Infine il problema della modifica delle disposizioni del regolamento di Dublino che attribuiscono al paese di primo ingresso l’esclusiva responsabilità dell’esame delle domande d’asilo è finalmente posto sul tappeto.

In sostanza, una decisione e due buone intenzioni: quanto basta per dichiarare fallimento? No, perché nemmeno in un mondo ideale il risultato avrebbe potuto essere diverso.

Non vi è dubbio che la coesione europea è necessaria per affrontare il problema. Tuttavia chi tuona contro l’insufficienza delle decisioni di Bruxelles e l’egoismo dell’Europa dimentica che siamo probabilmente il continente più aperto e sensibile ai mali del mondo: da noi la costruzione di un muro come quello che esiste in alcuni punti della frontiera fra gli Stati Uniti e il Messico non sarebbe possibile.

Consenso europeo e consensi nazionali
La verità è che gli europei non riescono ad accordarsi su una politica comune in materia d’immigrazione perché ogni paese è lacerato al suo interno e fatica a trovare un consenso nazionale su cosa fare di fronte a quella che potrebbe rivelarsi la più grande sfida alle nostre istituzioni democratiche e al nostro modello sociale. Le prime sono minacciate dalla crescita del populismo, il secondo dalla difficoltà di sopportare i costi dell’integrazione di masse di diseredati.

Sostenere che il problema di una politica europea si esaurisce negli egoismi nazionali, nella necessità di salvare le persone in pericolo e in una maggiore solidarietà nella ripartizione dell’accoglienza, è pura ipocrisia.

Osserviamo il dibattito italiano, che poi non è così diverso da quello che ha luogo altrove. La platea dei media è quasi interamente occupata da due scuole di pensiero. Gli angelici, che godono dell’attivo sostegno della Chiesa, sostengono che dobbiamo accoglierli tuttiperché il fenomeno è ineluttabile, perché abbiamo bisogno di immigrati, per dovere morale e anche perché tutti i mali dei paesi da cui provengono questi disperati dipendono da colpe nostre, passate o presenti.

Poi ci sono gli spietati che pensano e a volte dicono: lasciateli annegare; noi comunque non li vogliamo. I primi dominano i media e si ritengono depositari di un’incontestata superiorità morale. I secondi, anche se meno loquaci sono altrettanto numerosi e sono mossi da istinti meno nobili ma altrettanto umani.

Entrambi sono incontaminati dal buon senso. Per fortuna i governi almeno quando non inseguono il populista di turno e, si spera, la maggioranza silenziosa, cercano di mantenere i piedi per terra; purtroppo faticano a coagulare il consenso intorno a soluzioni ragionevoli.

La pancia dell’opinione pubblica è cattiva consigliera; gli angelici di oggi possono facilmente diventare gli spietati di domani. Una politica coerente dovrebbe perseguire tre obiettivi, fra loro non necessariamente conciliabili; alcuni di essi, ma non tutti, dovrebbero essere di competenza europea.

Priorità: evitare le stragi in mare. Ma non solo
In primo luogo, bisogna evitare le stragi in mare. Ce lo impone il diritto internazionale, la morale e i nostri valori. Dobbiamo sapere che non sarà possibile evitare del tutto nuove tragedie, ma il dispositivo deciso a Bruxelles, anche se le regole d’ingaggio non sono chiare dovrebbe migliorare la situazione.

Una volta che le navi saranno in mare, è difficile pensare che rifiuteranno di esercitare anche una funzione umanitaria. Quindi salveremo molte più persone. Fin qui gli angelicihanno soddisfazione, ma entrano in campo gli spietati: limitarsi a salvarli, dicono, serve solo ad attirarne altri. L’osservazione non è priva di fondamento; non lo dice solo Salvini, ma anche alcuni governi europei che spietati necessariamente non sono.

Arriva quindi il secondo problema: cosa facciamo di quelli che abbiamo salvato, o che comunque riescono ad arrivare? Cambiare il regolamento di Dublino sarebbe un passo importante, ma difficile e meno risolutivo di quanto si pensa in Italia. Molti migranti attraversano il Mediterraneo con il sogno di andare nel Nord dell’Europa; ora Francia, Germania e altri Paesi del Nord accolgono già un numero di rifugiati superiore al nostro. Dalla Gran Bretagna nulla si può sperare almeno fino alle imminenti elezioni.

Infine, i Paesi dell’Est. La loro posizione è difficilmente sostenibile; approfittano più di tutti della libera circolazione all’interno dell’Unione e non possono quindi sottrarsi a questa diversa forma di solidarietà. Non sarà facile, perché sono tutti attraversati da forti correnti nazionaliste e a volte razziste, ma vanno convinti.

Per l’integrazione, più di una generazione
Tuttavia questa è solo una parte, forse nemmeno la più importante, del problema. Anche se si pervenisse a una ripartizione più equa, resterebbe il problema di cosa fare di quelli che sono destinati a restare sul territorio nazionale. È vero che nella nostra situazione demografica abbiamo bisogno di forze nuove. Tuttavia sarebbe disonesto negare che nella loro maggioranza, per formazione e cultura, questi non sono gli immigrati di cui avremmo bisogno: sono utilizzabili solo per lavori umili e a costante rischio di sfruttamento.

Ci vorrà forse più di una generazione perché l’integrazione raggiunga livelli accettabili. Bisogna però cominciare subito, con forme di assistenza, formazione linguistica e scolastica, soluzioni abitative che evitino la formazione di ghetti ancora peggiori di quelli che afflissero in passato le città americane e che già vediamo in alcune città europee.

In assenza di tutto ciò, è inevitabile che una parte di essi venga assorbita da varie forme di criminalità. Infine, molti di loro sono musulmani. Anche se la quasi totalità sono probabilmente estranei a fenomeni estremisti, più sono disperati più saranno vulnerabili alla propaganda jihadista. Oltre al problema dei ghetti, si pone quindi quello dei luoghi di culto, della selezione e formazione degli imam e delle prigioni che, come si è visto in Francia, sono luoghi privilegiati di reclutamento.

In teoria il nostro obbligo legale si limita a chi ha diritto all’asilo. Se l’esame delle domande prende troppo tempo e se gli interessati sono lasciati vagare per il territorio senza inquadramento e senza assistenza, il rifiuto diventa di fatto impossibile.

Il problema di chi aspira all’asilo
La sorte degli aspiranti all’asilo si confonde allora con quella di coloro, molto numerosi, che all’asilo non hanno diritto; se si può ragionevolmente presumere che l’asilo dovrebbe essere concesso a un siriano, un senegalese o chi viene dal Ghana con ogni probabilità non ne ha diritto.

Legalmente, le espulsioni richiedono una decisione di giustizia alla quale si può fare appello. Tuttavia, se la gestione dell’accoglienza è carente e la burocrazia e la giustizia troppo lente, i due gruppi di fatto si fondono. Prendere le impronte digitali di tutti è sicuramente una buona idea; è tra l’altro una ragionevole richiesta dei paesi che sembrano disposti a rivedere il regolamento di Dublino.

Ma, per vari motivi, molti immigrati si sottraggono ai controlli subito dopo gli sbarchi; altri limano o bruciano i polpastrelli. Se le procedure fossero ragionevolmente brevi, dovrebbe essere possibile immaginare luoghi di raccolta chiusi e protetti che non assomiglino agli ignobili lager che abbiamo visto in Italia e in altri paesi. Il problema è reso ancora più complicato perché in molti casi l’accoglienza è affidata a poteri locali, spesso privi di mezzi, inefficienti, o a volte politicamente ostili.

L’Italia è a questo proposito particolarmente in colpa e nessuno potrebbe accusare l’Europa per le nostre insufficienze. Le strutture d’accoglienza sono quasi inesistenti, spesso affidate solo al volontariato e alla carità privata, o peggio a strutture in teoria pubbliche, ma in mano alla criminalità e alla corruzione.

Ci accontentiamo di salvarli dal naufragio, ma poi non pensiamo nemmeno a curarli; come se un barcone che affonda fosse degno dell’apertura del telegiornale e ci induce alla pietà, mentre due disperati che si accoltellano in un ghetto hanno diritto solo a una notizia di cronaca e a una reazione di rigetto.

In molti paesi del nord è diffusa la convinzione che quella italiana non sia solo inefficienza, ma deliberato cinismo perché abbandoniamo coscientemente a loro stessi masse di poveracci nella giustificata speranza così si accelererà lo loro fuga verso il nord dell’Europa. Paradossalmente, a causa di inefficienze italiane e della volontà degli interessati, il regolamento di Dublino è comunque superato nei fatti.

Il problema più difficile: limitare i flussi
Infine il problema che si è rivelato più intrattabile. Legalmente, chi non ha diritto all’asilo, dovrebbe poter essere espulso a meno che il paese interessato decida di accoglierlo. La realtà è che, contrariamente agli Stati Uniti, nessun paese europeo e tanto meno l’Italia ha avuto successo nella politica di espulsione anche quando era legalmente giustificata.

È possibile fare meglio con buona pace degli angelici?Come si vede, una sana politica di accoglienza e di gestione degli arrivi è una sfida immane che comporterebbe la messa in opera d’ingenti risorse finanziarie, organizzative e culturali. Possiamo farlo per alcuni, ma certamente non per tutti. Quindi, bisogna assolutamente riuscire a limitare i flussi.

Se facciamo la guerra agli scafisti e alle organizzazioni cui appartengono, non è solo per combattere un crimine orrendo. Pensare che l’Europa sia in grado di assorbire ogni anno centinaia di migliaia di persone, forse molte di più, che vogliono attraversare il Mediterraneo è pura ipocrisia. Colpisce che siano proprio le associazioni di volontariato, che si prodigano con abnegazione nell’assistenza, a essere spesso in prima linea a chiedere ingressi illimitati e indiscriminati. Nessun governo europeo riuscirebbe a farsi eleggere su un simile programma.

Chi credesse che quello dell’accoglienza e della ripartizione dei rifugiati sia un problema insolubile, non ha ancora fatto i conti con la questione dei flussi e di come controllarli.

Il problema comincia in Libia. Le difficoltà logistiche e tecniche sono evidenti, ma i militari dovrebbero trovare le modalità più opportune; se non lo fanno, è perché ritengono a ragione di non avere la necessaria copertura politica.

È vero che le analogie sono spesso fuorvianti, ma ciò che avuto successo in Albania e nell’oceano indiano dovrebbe almeno fornire qualche indicazione. Poi ci sono ovviamente le difficoltà giuridiche. Se la Libia riuscirà ad avere un governo legittimo, riconosciuto dalla comunità internazionale e capace di esercitare un minimo di controllo sul territorio, una delle prime cose su cui si dovrebbe impegnare sarebbe di permetterci di fare quanto necessario per neutralizzare gli imbarchi.

Se invece la Libia è condannata a restare a lungo un failed state, le Nazioni Unite non potranno negarci la possibilità di difendere un interesse prioritario e legittimo. La conclusione del Consiglio europeo parla anche della necessità di accordi con i paesi di origine degli emigranti. È probabilmente la parte più velleitaria.

Le rotte di transito, in prevalenza attraverso il Sahara, non erano controllabili nemmeno quando c’erano le potenze coloniali; sono fin dall’antichità terreno d’elezione di bande di predoni dediti a ogni genere di traffico, compreso quello degli schiavi. L’idea di organizzare canali umanitari attraverso accordi con i paesi d’origine è particolarmente velleitaria.

Forse qualche accordo limitato si può concludere, per esempio per i rifugiati siriani in Turchia; per il resto, si tratta nella maggior parte dei casi di paesi in guerra, spesso corrotti, comunque inaffidabili; ci sono fondati sospetti che in alcuni casi siano i governi stessi a organizzare il traffico.

Del resto anche se alcuni corridoi umanitari potessero funzionare, le masse degli esclusi s’indirizzerebbero comunque verso i canali illegali. C’è anche l’ipocrisia suprema che dovrebbe mettere d’accordo angelici spietati: un piano Marshall per l’Africa per far sì che lo sviluppo economico fermi la spinta alla fuga. Ottima idea, ma perché abbia effetto serve almeno una generazione. Inoltre proprio l’esperienza africana ci dice che la stabilità è un prerequisito per lo sviluppo; con paesi strutturalmente instabili e corrotti sarebbe come gettare soldi in un pozzo senza fondo.

Con buona pace degli angelici, degli spietati e della loro demagogia a buon mercato, l’opinione pubblica dovrebbe essere educata a una doppia dura realtà. Da un lato siamo destinati ad assorbire un numero importante di disperati e che quindi bisogna accettare di mobilitare le risorse necessarie per un’accoglienza umana e per la loro integrazione. Dall’altro, una politica basata unicamente su principi umanitari e di solidarietà non reggerebbe a lungo.

C’è un limite alla capacità di assorbimento di una società europea che sta faticosamente uscendo da una grande crisi, le cui finanze pubbliche sono esangui ed è attraversata da crescenti fenomeni di razzismo e xenofobia. È utile ricordare che nazioni come l’Olanda e i paesi scandinavi, bastioni della tolleranza, sono anche fra i più vulnerabili al successo elettorale di partiti populisti e xenofobi. Il fenomeno è però generale; parafrasando François Mitterrand, l’Europa non può essere la soluzione di tutta la miseria del mondo.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

Europa: con l'immigrazione la sua immagine si offusca.

Ue, Italia e migranti
Il Consiglio europeo, di straordinario nulla
Enza Roberta Petrillo
28/04/2015
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Neanche l’orrore degli 850 migranti annegati nel naufragio avvenuto nella notte il 18 aprile nel Canale di Sicilia è bastato a far cambiare passo all’Europa. Per l’ennesima volta, a dispetto delle dichiarazioni e delle attese, la montagna ha partorito un topolino.

Il Consiglio europeo straordinario convocato il 23 aprile su richiesta del Governo italiano, per lanciare un piano coordinato per fronteggiare l’intensificazione degli arrivi di migranti dal Sud del Mediterraneo, ha concordato misure limitate, non risolutive e soprattutto già vecchie. Altro che game-changing. La dichiarazione rilasciata dopo ore di confronto tra i capi di governo è tra i risultati più ordinari e prevedibili raggiunti in anni di dibattiti comunitari sull’immigrazione.

“Rafforzare la presenza europea in mare. Lottare contro i trafficanti nel rispetto del diritto internazionale. Prevenire i flussi migratori illegali. Rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne”. Un piano striminzito che ricalca senza fantasia quelli varati ciclicamente a partire dal 2005, anno in cui Frontex, l’agenzia per il controllo delle Frontiere esterne dell’Unione è diventata operativa. Che allora l’allerta fosse indirizzata ai flussi irregolari in partenza dall’Africa occidentale e diretti in Spagna conta poco. La sostanza resta la stessa.

Rafforzare il controllo delle frontiere esterne
Oggi come allora, il vertice europeo straordinario dedicato all'emergenza immigrazione non è riuscito ad immaginare altro intervento che quello legato al rafforzamento dei mezzi per potenziare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione.

Tuttavia, se risorse aggiuntive per pattugliare le acque del Mediterraneo sono stati già assicurati da Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Croazia, Slovenia e Norvegia, manca, tra i 28, una visione comune sulle implicazioni umanitarie del rafforzamento delle operazioni Frontex, il cui mandato, ad oggi, resta invariato: non ‘ricerca e salvataggio’, ma mero pattugliamento delle frontiere esterne dell'Ue entro 30 miglia dalle coste.

Che la questione dei limiti territoriali del mandato continui a dividere l’Europa l’ha confermato anche la cancelliera tedesca Angela Merkel. “Sono stata io a sollevare la questione della portata di Triton e dell'area di intervento e ho notato che c’è una comprensione molto diversa di quello che Triton può fare tra i vari Stati membri. Saranno gli esperti e i legali a valutare”.

Dichiarazione che la dice lunga sia sulle tempistiche necessarie ad un eventuale cambio di mandato, sia sulla paura di molte cancellerie ad avviare un’operazione di search and rescue europea che potrebbe trasformarsi in un fattore di attrazione per nuovi flussi irregolari.

Punto chiave, quest’ultimo, visto che gran parte degli stati membri non ha alcuna intenzione di accogliere nuovi migranti. Cameron, il premier britannico ha chiarito che l’intervento britannico ci sarà, a patto “che le persone salvate siano portate nel Paese sicuro più vicino, probabilmente in Italia, e che non chiedano asilo nel Regno Unito”.

Posizione condivisa da un manipolo crescente di governi, sempre più orientati a gestire la questione flussi irregolari fuori da casa propria, agendo lì dove migranti irregolari partono e transitano. Misura che prevede, come già prospettato dal processo di Khartoum, il sostegno a paesi di transito come Tunisia, Egitto, Sudan, Mali e Niger per il monitoraggio e il controllo delle frontiere e delle rotte, e il dispiegamento di ufficiali di collegamento europei nei paesi chiave per raccogliere informazioni sui flussi migratori, garantendo un coordinamento con le autorità nazionali e locali.

Nessun riferimento a vie alternative e sicure
Voci critiche ritengono che sarebbe questa la ragione dietro l’assenza di riferimenti al potenziamento delle vie alternative e sicure di accesso all’Europa. Misure esistenti e realizzabili, ha ribadito Christopher Hein del Consiglio Italiano Rifugiati, e che comprendono canali e visti umanitari, domande d’asilo da paesi terzi, un massivo programma di ricollocamento e re-insediamento.

Azioni, che ad oggi, restano bloccate dal malfunzionamento del sistema Dublino, rispetto alla cui ridefinizione anche il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker avrebbe voluto “un risultato più ambizioso”. Delusione comprensibile, considerato che le proposte del Consiglio per “rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne” hanno soltanto evidenziato la necessità di “aumentare gli aiuti d'urgenza agli Stati membri in prima linea, considerando opzioni per l'organizzazione di una ricollocazione di emergenza fra tutti gli Stati membri su base volontaria”. Ossia a discrezione degli stati membri.

Su questo fronte, la stessa proposta di istituire un primo progetto pilota volontario in materia di re-insediamento in tutta l’Ue, rappresenta un risultato magro e sottodimensionato: sarebbero soltanto 5.000 i posti disponibili per le persone ammissibili alla protezione. Un’offerta visibilmente sproporzionata rispetto al numero di migranti forzati che cercano salvezza in Europa: 2.800 quelli soccorsi soltanto in quest’ultimo fine settimana al largo delle coste italiane. Cifra, che secondo IOM, porta a15.000 le persone arrivate via mare in Italia nel 2015.

La priorità assoluta “salvare vite umane” e la sua negazione
Se la priorità assoluta per l’avvio del Consiglio straordinario - per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, - era evitare altre morti in mare, le conclusioni raggiunte rischiano di produrre il risultato inverso anche rispetto alla più mediatizzata delle proposte in tavola: la lotta senza se e senza ma ai trafficanti di esseri umani. Una guerra dichiarata chiudendo gli occhi sull’aspetto sostanziale del fenomeno, ossia la scelta volontaria del migrante nell’affidarsi ai trafficanti per potere schivare le restrizioni frontaliere e cercare riparo in Europa.

Diversamente dalla tratta di esseri umani che esclude la consensualità tra trafficato e trafficante, lo smuggling, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, rappresenta l’effetto collaterale più evidente delle politiche migratorie restrittive varate nell’ultimo decennio. Per Zeid Ra’ad Al Hussein, commissario Onu per i Diritti umani, proprio “la mancanza di canali regolari, e il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dell’Unione, ha costretto i migranti a rivolgersi ai gruppi criminali di trafficanti che operano lungo le frontiere meridionali d’Europa”.

Temi che si intrecciano con i piani concreti che verranno varati per debellare la rete criminale dei trafficanti e che sollevano questioni anche sul secondo effetto collaterale del contrasto all’immigrazione irregolare: lo spostamento delle rotte irregolari in aree frontaliere meno presidiate come quella che dalla Grecia transita attraverso i Balcani, regione, per ora fuori dai radar di intervento dell’Unione, e che secondo Frontex, tra gennaio e marzo 2015 ha già registrato 32.421 ingressi irregolari a fronte dei 10.237 registrati nel Mediterraneo centrale.

Ciò che sarà lo si vedrà in due appuntamenti decisivi. Quello del 13 maggio quando Dimitris Avramopolous, il commissario Ue all’Immigrazione, presenterà il nuovo piano quinquennale per l’immigrazione. E quello del 25 Giugno, quando, in un Consiglio che si annuncia rovente, i 28 dovranno mettere nero su bianco la road-map per trasformare le chiacchiere in azione.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).