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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 28 aprile 2014

Russia: la carta del grano

Produzione e commercio del grano in Russia, 1919

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selezionata e commentata da Edoardo Boria
Una carta storica tratta da Limes 4/14, "L'Ucraina tra noi e Putin", in edicola, in libreria e su iPad.

[Carta storica a cura di Edoardo Boria; per ingrandire, scarica il numero su iPad]
Più che per i dati sul commercio di grano, che confermano la spiccata vocazione agricola dell’Ucraina, questa carta sorprende per la delimitazione del paese, indicata in legenda come “limite dell’Ucraina”: la linea blu che la identifica comprende infatti una vastissima area che va dall’alto Dniepr al Caucaso settentrionale.

Fonte: L. HautecoeurProduction et commerce du blé en Russie, inLes Rapports économiques de la Russie et de l’Ukraine, Parigi,Service Géographique de l’Armée, 1919.

Carta tratta da Limes 4/14 "L'Ucraina tra noi e Putin"
(16/04/2014)

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mercoledì 16 aprile 2014

Elezioni Europee e Commissione Europea

Elezioni europee
Se la Commissione torna leader
Piero Tortola
09/04/2014
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Alle elezioni del Parlamento europeo potremmo per la prima volta esprimere la nostra preferenza anche per il prossimo presidente della Commissione europea grazie alla scelta delle principali formazioni politiche paneuropee di presentare un proprio candidato alla guida dell’esecutivo di Bruxelles.

Commentatori e opinionisti si sono finora concentrati sugli aspetti più immediati e superficiali di questa novità. Con una netta prevalenza dei giudizi scettici o negativi. Da un lato, si evidenzia la futilità, per la democrazia europea, di questa innovazione politica, avendo la Commissione un ruolo sempre più defilato rispetto a quello del Consiglio. Dall’altro si mette in guardia contro i pericoli di un’eccessiva politicizzazione della Commissione, che ne minerebbe il ruolo di guardiana imparziale dei trattati.

Ciò che queste critiche paiono non (voler) cogliere, tuttavia, sono le conseguenze strutturali che la nuova procedura elettorale potrebbe avere sull’Ue, cambiandone gli equilibri politico-istituzionali e dunque anche il contesto analitico rispetto al quale la politicizzazione della Commissione deve essere letta e giudicata.

Fermo restando che molto in questa trasformazione dipenderà da una serie di fattori che sono ancora poco chiari - in primo luogo quanto i partiti nazionali e i media sapranno trasmettere il significato e la portata della nuova procedura presso gli elettorati europei - gli effetti principali dell’elezione del presidente di Commissione si possono riassumere nel rafforzamento delle due principali istituzioni sovranazionali, ossia la stessa Commissione e il Parlamento, a scapito degli stati membri.

Testa a testa tra il Pse e il Ppe 
Il rafforzamento del Pe riguarderebbe, evidentemente, soprattutto la nomina del prossimo presidente di Commissione - un passaggio cruciale nella ridefinizione (o meno) del nuovo “assetto costituzionale” dell’Ue.

Il Trattato di Lisbona conferisce il potere di scegliere il presidente della Commissione congiuntamente al Pe e al Consiglio europeo: quest’ultimo propone un candidato (“tenendo conto” dell’esito elettorale) che sarà poi eletto dal Parlamento.

L’avversione del Consiglio (e in particolare del suo membro più influente, la Germania) verso l’idea di un’elezione indiretta del presidente, che di fatto svuoterebbe il potere di proposta degli stati membri, è nota. Tuttavia è abbastanza improbabile che di fronte alla chiara vittoria di uno dei candidati, il Consiglio voglia aprire uno scontro con il Pe (e indirettamente con l’elettorato europeo), rifiutandosi di seguire le indicazioni delle urne.

Il problema è che questa chiara vittoria con ogni probabilità non avrà luogo. Stando ai sondaggi, le elezioni saranno un testa a testa tra il Pse e il Ppe, in cui il partito vincitore potrà comunque vantare solo una maggioranza relativa di voti e seggi.

Quasi sicuramente, quindi, il prossimo presidente di Commissione dovrà essere eletto da una coalizione, ed è probabile che questa sarà alla fine una grande coalizione con socialisti e popolari come maggiori (o soli) azionisti.

Il Consiglio potrebbe essere tentato di approfittare di una situazione simile, proponendo un candidato terzo ed esterno alla competizione elettorale - cosa che finirebbe per annullare qualsiasi effetto della nuova procedura. Per il Pe e i partiti europei sarà dunque di vitale importanza tenere il punto sul candidato di maggioranza relativa, anche se lo scarto che lo separa dal secondo classificato, chiamato a fare un passo indietro, dovesse essere minimo.

Legittimità del presidente della Commissione
Così eletto, il nuovo presidente di Commissione potrà contare su un grado di legittimità democratica senza precedenti nella storia dell’Unione che potrà a sua volta non solo renderlo più influente nella scelta dei restanti commissari e rafforzarlo nella guida del Collegio nel suo complesso, ma anche e soprattutto conferire alla Commissione maggiore autonomia e potere nell’esercizio delle sue funzioni di iniziativa legislativa ed esecuzione delle norme europee.

Forte della legittimazione popolare, infine, il nuovo presidente potrà anche ravvivare quel ruolo più generale di leadership politica del processo di integrazione che la Commissione sembra aver perso negli ultimi anni.

Tutto ciò, sia chiaro, non è da leggere come un’improvvisa (nonché caricaturale) trasformazione della Commissione nel dominus dell’Unione. Anche nel migliore degli scenari possibili per la Commissione, gli stati membri continueranno ad avere un ruolo importante nella formazione e nell’applicazione delle norme europee, e diversi strumenti per far rispettare i propri diritti qualora questi siano violati.

Ciò di cui si parla, piuttosto, è un riequilibrio tra poteri nell’Ue, nel quale la Commissione si sposterà dall’ibrido (tra segretariato internazionale, agenzia indipendente ed esecutivo federale) che rappresenta adesso, in direzione di un modello di governo tradizionale.

Commissione partigiana?
Alla luce di tutto ciò, quella che rimane forse la critica più forte alla nuova procedura, ossia che essa genererà tensioni dovute alla nuova natura “partigiana” della Commissione, appare non tanto errata quanto mal posta. Quello che ci si deve chiedere, infatti, non è se sia opportuno avere una Commissione politicizzata a guardia dei trattati, ma piuttosto se siamo pronti ad accettare che la Commissione intraprenda questo cambiamento di natura verso un vero e proprio esecutivo.

Se la risposta è sì, molte delle obiezioni a una Commissione politicizzata si sgonfiano fino a diventare problemi per lo più tecnici di separazione tra funzioni di governo e garanzia che con mezzi altrettanto tecnici (come la creazione di agenzie indipendenti e maggiore trasparenza amministrativa) possono essere risolti.

Piero Tortola è un ricercatore del Centro Studi sul Federalismo e uno degli animatori del sito di informazione politica ed economica Quattrogatti.info. Alcuni dei temi toccati in questo articolo sono approfonditi in un recente policy paper pubblicato dal CSF.
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Transinistria e Moldova: altra divisione?

Crisi ucraina
Moldova a rischio frantumazione
Giovanna De Maio
12/04/2014
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Prima la pressione politica ed economica, poi quella militare in Crimea e lungo il confine con l’Ucraina. Mosca sembra decisa ad avvalersi di mezzi pesanti nel tiro alla fune con l’Unione europea.

La partita, però, non si gioca solo in Ucraina. Anche in Moldova si assiste a un déjà-vu. Al progetto per la costruzione del gasdotto Ungheni-Iașico finanziato dalla Commissione europea per agganciare la Moldova alla rete di trasmissione romena e alleggerire la dipendenza energetica dalla Russia, Mosca ha risposto con la messa al bando dei vini moldavi e con la minaccia di restringere la circolazione dei lavoratori transfrontalieri.

Sulla via dell’Europa, la Moldova rischia poi di perdere due pezzi, la Transnistria e la Gagauzia. La prima, all’indomani del referendum in Crimea, ha inoltrato formale richiesta di ricongiungimento con la Federazione russa.

Lo scorso 2 febbraio, la Gagauzia si è invece espressa, sempre tramite referendum, a favore dell’adesione all’unione doganale con Bielorussia, Russia e Kazakhstan, votando per il distacco dalla Moldova nel caso in cui quest’ultima dovesse perdere la propria indipendenza.

La 14esima armata russa
Nessun paese ha mai riconosciuto l’indipendenza di questo lembo di terra ai margini dell’ex Unione Sovietica, dove perdura una situazione di “conflitto congelato”. Con il dissolvimento dell’Urss, dopo circa due anni di guerra civile in cui si sono scontrate le forze regolari moldave e quelle della neo-proclamata repubblica moldava di Prinestrovie (Transnistria), sostenute dalla 14esima armata russa, il Cremlino è riuscito a mantenere un bastione in Moldova, pericolosamente vicino a quello che sarebbe diventato il confine sudorientale dell’Unione europea.

A pochi mesi dalla sigla da parte della Moldova dell’accordo di associazione con l’Ue, il parlamento (cosiddetto Soviet supremo) di Tiraspol - la capitale della Transnistria - aveva già presentato un disegno di legge per adeguare la legislazione transnistriana a quella della Federazione russa. Alla Duma di Mosca, intanto, è stata recentemente approvata una legge per semplificare il processo di incorporazione dei territori non russi.

La Moldova saluta Tiraspol?
“Se la Moldova fa un passo verso l’Europa può dire addio alla Transnistria”, aveva dichiarato lo scorso settembre il vice-premier russo Dmitry Rogozin. Sembrava soltanto un esercizio di retorica. Con l’acuirsi della crisi in Ucraina, suona però come una minaccia concreta. Con la Crimea agganciata a Mosca, i resti della 14esima armata russa in Transnistria, il confine sud occidentale dell’Ucraina non può dormire sonni tranquilli.

Dopo vent’anni di stallo, il territorio transnistriano si è trasformato in un crocevia di traffici illeciti, soprattutto di armi, e un punto di ritrovo di organizzazioni malavitose e terroristiche su scala internazionale.

In Transnistria la percentuale di russi e di moldavi è pressoché identica, ma le decisioni delle autorità di Tiraspol, come quella di chiudere le scuole che insegnano la lingua moldava in caratteri latini e non cirillici, hanno tracciato un confine sempre più netto. Fino a pochi mesi fa il Cremlino non sembrava particolarmente propenso a difendere i diritti dei russofoni vicini, almeno finché questi paesi sono stati retti da governi filo-russi.

In Moldova, la coalizione filo-europeista del presidente Nicolae Timofti deve fronteggiare l’ascesa del partito comunista che invece propende per aderire all’Unione doganale con la Russia. Se da un lato un’azione russa in Transnistria sembra poco realistica, dall’altro, in caso di escalation della crisi ucraina, questo territorio resterebbe per Mosca un asso nella manica.

Gagauzia
La Gagauzia è una regione territorialmente discontinua, ma che costituisce un’unità amministrativa autonoma. Ha una popolazione di circa 155.000 persone, prevalentemente turchi, russofoni e cristiani ortodossi. Anche qui, in risposta alla firma dell’accordo con l’Ue, il governo locale ha indetto un referendum, dichiarato illegale sia da Chisinau - la capitale della Moldova - che dalla corte di Comrat, capoluogo della regione.

Stando alle stime delle autorità gagauze, il 98,5 % della popolazione si è espressa a favore dell’Unione doganale con la Russia, mentre il 98% ha votato per l’indipendenza, qualora la Moldova dovesse perdere la propria sovranità.

La ragione principale di questa così netta scelta di campo sono innanzitutto i sentimenti filorussi della popolazione, oltre a una scarsa conoscenza dell’Ue e del processo di integrazione, la paura di una potenziale unificazione tra la Moldova e la Romania (come paventato da diversi esponenti dell’élite politica moldava e romena) e il timore di un crollo del commercio con la Russia e di restrizioni per l’accesso al mercato del lavoro russo

Nonostante le relazioni tra Gagauzia e Chisinau siano tutt’altro che semplici, difficilmente la regione può diventare un fattore di destabilizzazione. È molto piccola, scarsamente popolata ed economicamente troppo debole per sperare di influenzare il governo centrale. La retorica separatista è stata spesso usata dai leader locali come arma di ricatto nei confronti di Chisinau, anche se i risultati del referendum hanno alimentato il discorso anti-europeo portato avanti da Mosca e dal partito comunista moldavo.

Giovanna De Maio è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI (Twitter: @Giovgenius).
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giovedì 10 aprile 2014

Ukraina: turbolenze nelle regioni orientali

L'assalto edifici governativi nelle città ucraine est di Donetsk, Luhansk e Kharkiv il 6 aprile da manifestanti filo-russe dimostra il tipo di leva finanziaria che la Russia può esercitare in Ucraina. Questo nonostante alcuni piccoli segni di progresso nei negoziati russi con gli Stati Uniti durante la scorsa settimana.
Interessi della Russia in Ucraina non sono cambiate radicalmente dopo la cacciata del signor Yanukovich. La Russia rimane determinata a impedire che l'Ucraina avvicinamento alla NATO e l'UE; vorrebbe vedere l'Ucraina integrarsi con gli ex stati sovietici, invece. Le autorità russe non hanno alcun desiderio di vedere l'Ucraina fare un successo del suo pluralismo politico, per paura che potesse favorire un'alternativa al modello esistente in casa e altrove. La Russia mantiene un interesse a proteggere russi e russofoni in Ucraina, e preservare la sua influenza in una parte vitale del "mondo russo". E 'anche desideroso di mantenere il suo status economico privilegiato all'interno dell'Ucraina.
Cosa è cambiato dopo la cacciata del signor Yanukovych e l'annessione della Crimea è il calcolo riguardo a come questi interessi possono essere meglio protetti. La perdita della penisola ha indebolito le possibilità di un candidato da Ucraina meridionale e orientale di essere eletto come presidente dell'Ucraina. Inoltre ha inferto un duro colpo alla possibilità dell'Ucraina di entrare progetti di integrazione eurasiatica. Quindi la posizione pubblica della Russia è ora quello di insistere sul fatto che l'Ucraina mette in atto la riforma costituzionale, compreso il passaggio a un modello federale e l'elevazione del russo come seconda lingua di Stato, oltre a neutralità permanente. L'idea alla base di queste proposte è che una minoranza filo-russa nelle regioni orientali si, tramite una disposizione federale, in grado di bloccare qualsiasi mossa verso l'Europa, o il successo della riforma, da parte del governo a Kiev, la capitale ucraina. Il federalismo potrebbe anche contribuire a preservare influenza e gli interessi in Ucraina economico, politico e culturale della Russia.
Partendo da questo punto, la Russia è probabile che sia visualizzato i negoziati tra il governo ad interim e le élite in Ucraina orientale, puntando sul decentramento, piuttosto che la federazione, con allarme. Questo non garantirebbe interessi russi, almeno nella comprensione massima attualmente rappresentato dalla posizione pubblica russa. Di fronte a questo, che cosa potrebbero fare le autorità russe?
Una possibilità sarebbe quella di alimentare il sentimento separatista all'interno dell'Ucraina orientale, nella speranza di screditare le autorità e prevenire un accordo sul decentramento. Se questo sarà possibile probabilmente dipenderà dalla forza delle élites orientali (persone come Rinat Akhmetov e Serhiy Taruta). Prima della crisi attuale, hanno dominato la politica a est ea sud. La domanda è: fare ancora? O c'è una parte consistente della società che richiederà federazione o di separazione e, se sì, possono organizzarsi politicamente? Se così fosse, che potrebbero impedire un consenso nazionale formando attorno decentramento e mantenere l'opzione federale vivo.
L'uso della forza
L'uso della forza militare è un'altra opzione, anche se uno che porta molto maggiori rischi in orientale ed in particolare sud dell'Ucraina di quello che ha fatto in Crimea. Si sarebbe invocata in risposta ad una minaccia per il benessere dei russofoni nelle regioni orientali e meridionali.
Una terza opzione per la Russia, a fronte di ucraini sviluppi interni che si muovono in una direzione sfavorevole, sarebbe quello di abbassare le sue richieste di negoziato. Questo probabilmente comporterà dando terreno su modifiche costituzionali al fine di garantire altri interessi. C'è poco appetito del pubblico in Ucraina o al di fuori del paese ad aderire alla NATO, così un accordo sulla neutralità sembra realizzabile (anche se un accordo sulla non-associazione con l'UE sarebbe molto più controversa). Garanzie giuridiche per lo status della lingua russa a sud e ad est dovrebbe essere possibile anche. Lo stesso vale probabilmente per accordi per regolare i rapporti tra Crimea e il resto dell'Ucraina, anche se le autorità di Kiev non riconosce l'annessione.
Tra le leve disponibili alla Russia di accesso per l'industria ucraina e dei lavoratori alle sue forniture di mercato, di gas e petrolio e volumi di transito, prestiti bancari, e la sua formidabile culturale e 'soft power'-forse il più potente attualmente è se riconoscere o no le autorità ucraine. L'Ucraina non può essere stabile per tutto il tempo le autorità di Mosca rifiutano di riconoscere il governo di Kiev. C'è poco incentivo per la Russia a farlo fino a quando l'Ucraina elegge un presidente e le autorità recuperare il loro monopolio della forza nel paese. Posizione contrattuale di una volta queste due condizioni si ottengono, se vengono raggiunti-Russia (per quanto riguarda una soluzione per l'Ucraina) sarà indebolita. Questo potrebbe essere un argomento a favore di tagliare un accordo prima del 25 maggio. Eppure, se un tale accordo non può essere raggiunto, o se la Russia non è intenzionati a ridurre le sue esigenze, quindi ha la possibilità di lavorare per minare le elezioni presidenziali, sia cercando di interrompere o di progettare un boicottaggio nelle regioni orientali e meridionali che sarebbe negare la legittimità neoeletto presidente. Se la Russia dovesse imboccare questa strada, però, sarebbe più difficile da progettare un'uscita dalla crisi.

martedì 8 aprile 2014

Francia: Hollande e la nuova fase della vita politica francese

Francia dopo le elezioni
Hollande e il governo Valls, lascia o raddoppia? 
Jean-Pierre Darnis
05/04/2014
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Con il rimpasto che ha portato alla nomina di Manuel Valls a capo del governo si è aperta una nuova fase nella vita politica francese scaturita dalle elezioni amministrative, che hanno coinvolto comuni o raggruppamenti intercomunali sempre più importanti nel panorama politico interno. Anche se la posta in gioco era locale, il risultato ha avuto rilevanza e ripercussioni notevoli a livello nazionale.

I francesi amano alternare. Tradizionalmente, durante le votazioni di mid term votano contro la squadra al potere. L’esito del voto non ha però solo una componente fisiologica, ma anche un significato politico non trascurabile.

Volata Blue marine
Osservando che cosa è successo a destra, si notano subito alcune dinamiche locali di portata nazionale, come l’elezione di Alain Juppé a Bordeaux e quella di François Bayrou a Pau, due pesi massimi che, dopo la conferma ricevuta dalle urne, si affermano come candidati potenziali rispettivamente dell’Unione per un movimento popolare (Ump) e della formazione centrista Udi-Modem per le prossime presidenziali. La destra beneficia però soprattutto del crollo della sinistra.

Va inoltre sottolineata il successo del Front National-mouvement bleu marine, capeggiato da Marine Le Pen, la versione 2.0 del vecchio partito nazionalista, che si sta affermando come forza anti-sistema. È una formazione che registra una dinamica paragonabile a quella del M5S in Italia e sicuramente conterà nelle ormai prossime elezioni europee.

Sconfitta di Hollande 
La principale dinamica del voto va tuttavia cercata a sinistra. La maggioranza al governo registra un calo nettissimo che non riflette solo una generica voglia di alternanza, ma anche l’impopolarità della presidenza di François Hollande che non è riuscita a migliorare la situazione economica e sociale.

All’inizio del suo mandato, Hollande aveva scommesso su una gestione prudente, senza grossi cambiamenti degli equilibri politici o correzioni della politica fiscale, confidando in una ripresa economica che sperava potesse intervenire a rilanciare il suo quinquennio.

Hollande puntava poi a lasciare il segno su alcune questioni sociali - come la legge sul matrimonio gay - o di politica estera. L’attesa ripresa non è però giunta e l’opinione pubblica percepisce in modo molto acuto la crisi economica. Si ripropone lo scenario della precedente presidenza, quella di Nicolas Sarkozy, che era stata anch’essa azzoppata dalla crisi. Oggi l’attendismo di Hollande è criticato da tutte le parti.

Hollande si appoggiava a Jean-Marc Ayrault, un primo ministro alquanto dimesso e riservato, un po’ incolore, che ha di fatto lasciato il presidente solo di fronte al paese. La riforma costituzionale del 2000 ha accorciato il mandato del presidente da sette a cinque anni, la stessa durata della legislatura.

Prima, invece, lo sfasamento elettorale tra l’elezione del Parlamento e quella del Presidente dava maggiore autonomia sia al primo ministro che al presidente. Quest’ultimo, appena eletto, scioglieva l’Assemblée nationale, indicendo nuove elezioni. L’attuale parallelismo fra il mandato presidenziale e quello dei deputati ha ridotto l’importanza e l’autonomia del primo ministro. Ciò crea una situazione problematica anche dal punto di vista democratico e degli equilibri istituzionali, con un presidente che di fatto oltrepassa il suo mandato e governa senza poter essere censurato dal parlamento.

Dalle elezioni del 2002 in poi, il primo ministro francese tende ad assomigliare a un potente sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Una tendenza che si è accentuata con la scelta del mite Ayrault. Come Sarkozy prima di lui, Hollande si trova dunque direttamente esposto al malcontento popolare. Con il rimpasto di governo e la nomina di Valls, Hollande cerca ora di rilanciare la sua immagine. I margini di azione, e quindi di recupero, sono però limitati.

Valls al governo
Come Sarkozy prima di lui, Manuel Valls si è distinto per la fermezza e il pragmatismo con cui ha gestito un dicastero molto esposto, quello del Ministero dell’interno, di cui era titolare nel gabinetto Ayrault. Il suo attivismo gli ha dato grande visibilità, tanto da farlo apparire come un potenziale candidato socialista alle presidenziali del 2017. Potrebbe pertanto entrare in crescente competizione con lo stesso Hollande.

La conferma di Laurent Fabius agli esteri e di Jean-Yves Le Drian alla difesa indicano invece un’assoluta continuità con il precedente governo. Questi due ministri potenti e fedeli a Hollande proseguiranno la loro azione in una triangolazione con la Presidenza della repubblica, esautorando di fatto il primo ministro nei settori degli esteri e della difesa.

Nonostante ciò la nomina di Valls potrebbe creare nuove dinamiche nello scenario europeo. È dall’inizio del suo mandato che Hollande cerca di rimettere in moto una dialettica con la Germania per ottenere più ampi margini di azione per il rilancio dell’economia. Pur essendo un germanista, Ayrault non è riuscito a rinnovare questo dialogo con i tedeschi, visto anche il lungo periodo di stallo che ha conosciuto la Germania prima e dopo le elezioni.

L’asse franco-tedesco 
Certo, l’ultimo vertice bilaterale franco-tedesco ha messo in luce importanti convergenze in materia di politica estera, con una ripresa di attivismo da parte di Berlino. La Francia è riuscita a promuovere la sua agenda di politica africana mentre la Germania è riuscita a portare Parigi sulle sue posizioni in merito alla questione ucraina. L’invio della brigata franco-tedesca in Mali è un simbolo di questo parziale rilancio dell’asse franco-tedesco.

Ma oggi la partita essenziale si gioca sul terreno economico, fra vincoli europei di bilancio e misure per il rilancio della crescita. Fallito la scommessa attendista di Hollande, oggi il governo francese deve impegnarsi in un reale programma riformista, se vuole avere qualche chance nelle future elezioni. È un’operazione necessaria anche per il rilancio della macchina economica francese parecchio ingrippata.

Il governo ha avviato questo nuovo corso con un “patto di responsabilità” che non è altro che un alleggerimento del carico fiscale sugli stipendi. Ma ciò richiederà anche nuove misure dal lato delle spese, sotto forma di spending review o quant’altro. Qui c’è un parallelismo fra la situazione francese e quella italiana: la Francia si aspetta cambiamenti che il governo di Matteo Renzi sta cercando di mettere in atto.

Il riformismo di Renzi 
Se Valls, anche per motivi generazionali, riuscirà a incarnare questo riformismo più incisivo, allora il parallelismo potrebbe sfociare in una vera e propria convergenza, dando luogo a una comune posizione negoziale più forte nei confronti della Germania.

In realtà, i passati tentativi di creare un asse franco-italiano alternativo a quello franco-tedesco sono sempre stati un esercizio assai zoppicante, e spesso semplicemente un errore. La Germania, grande democrazia, è un partner cruciale da cui non si può prescindere.

Ben vengano però dinamiche tri-, o multilaterali europee che creino una dialettica più intensa fra i paesi membri, nel nome di un sano riformismo e di ulteriori progressi nella governance economica e istituzionale. Se l’Italia di Renzi e la Francia di Valls riusciranno a rilanciare il riformismo, allora anche l’Europa, e la Germania, ne trarranno benefici. Messieurs les français, tirez les premiers !.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI.
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venerdì 4 aprile 2014

Kossovo: proposta di creazione del MInistero della Difesa e di un esercito nazionale


kossovo
A sei anni dalla secessione del Kossovo dalla Serbia, il governo di Pristina ha proposto la costituzione di un vero e proprio Ministero della Difesa e di un esercito nazionale che abbia la funzione di proteggere la sovranità e l’integrità territoriale del Paese. L’approvazione da parte del Parlamento è attesa per fine marzo.
Il futuro esercito kossovaro dovrebbe essere sviluppato a partire dall’attuale Kosovo Security Force, un corpo di intervento emergenziale costituito nel 2009 con funzioni essenzialmente di protezione civile, forte di 2.500 effettivi e di 800 riservisti, dotati di armamento leggero. 
L’esercito kossovaro dovrebbe essere supportato da un budget annuale di 65 milioni di Euro, ed essere pienamente operativo a partire dal 2019. A fronte di una popolazione nazionale di 1,7 milioni di persone, dovrebbe essere costituito da 5 mila effettivi e da 3 mila riservisti. Esso avrà compiti esclusivamente di autodifesa e, almeno nelle intenzioni dei promotori, dovrà soddisfare gli standard operativi NATO, in modo da garantirne la piena interoperatività in ambito internazionale.
La decisione di Pristina, però, rischia di compromettere i rapporti con Belgrado: sono infatti 100 mila i Kosovari di etnia serba che vivono nella parte settentrionale del Paese, al cui controllo amministrativo e di polizia il governo serbo aveva recentemente rinunciato, in cambio dell’avvio delle trattative per l’adesione all’Unione Europea.
Le autorità serbe hanno già minacciato di volersi rivolgere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in quanto la decisione di Pristina contrasterebbe con la risoluzione ONU 1244, che vieta la costituzione di qualsivoglia Forza Armata sul territorio kossovaro. Il primo ministro serbo, Ivica Dacic, inoltre, ha espresso l’intenzione di chiedere alla NATO garanzie atte a subordinare qualsivoglia presenza di soldati kossovari nella parte settentrionale del Paese all’autorizzazione preventiva della stessa Alleanza Atlantica. Dalla conclusione della guerra in Kossovo del 1998-1999, infatti, la sicurezza del piccolo stato balcanico di etnia albanese, privo di uno sbocco sul mare, è stata garantita dalla presenza di circa 5 mila soldati NATO.

Fonte CESI Roma

martedì 1 aprile 2014

Svizzera: i difficli rapoorti con l'Europa

Svizzera 
Dopo il referendum, altri quesiti
Cosimo Risi
31/03/2014
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Per essere un paese preciso fino alla meticolosità, la Svizzera sta affrontando il travaglio del dibattito circa le conseguenze del referendum del 9 febbraio sui rapporti con l’Unione europea (Ue) e con gli stati membri vicini maggiormente interessati alla libera circolazione delle persone.

Dopo la votazione, scartata Roma per la crisi politica, i governanti svizzeri si sono recati a Berlino, Bruxelles e Parigi per rassicurare che poco cambierà nei rapporti con l’Ue. Poco cambia, beninteso nel rispetto del risultato che comporta una modifica costituzionale da attuare nell’arco di tre anni. Un periodo di tempo che Berna spera di utilizzare interamente, al fine di mettere a punto una exit strategy adeguata sia sotto il profilo esterno che della compatibilità interna.

Accordo sulla libera circolazione delle persone
Il Consiglio federale (governo) ha tre anni di tempo per sottoporre al Parlamento gli strumenti legislativi di attuazione: e cioè tetti massimi e contingenti annuali da applicare a tutti i permessi per gli stranieri, inclusi i frontalieri e i richiedenti asilo.

Quote e contingenti vanno commisurati al fabbisogno globale e degli interessi dell’economia domestica. Si aggiunga la rigida applicazione della preferenza nazionale sul mercato del lavoro. Il che significa che il datore di lavoro potrà rivolgersi al candidato straniero solo se mancano i candidati nazionali a quel determinato impiego.

Nei tre anni andranno rinegoziati i trattati internazionali in contrasto con tali criteri: in questo ambito ricade l’accordo sulla libera circolazione delle persone con l’Ue (Alcp).

Il Consiglio Ue replica che, quale che sia la posizione del governo di Berna, da sempre contrario al referendum, esso deve vegliare affinché il diritto in fieri non pregiudichi il complesso degli impegni con la stessa Ue. Ciò in quanto “le quattro libertà fondamentali sono parte integrante delle relazioni Ue - Svizzera e mercato interno ed i quattro pilastri sono indivisibili”.

Tradotto in termini che suonano preoccupanti agli ambienti economici: se cade la libera circolazione delle persone, o viene seriamente limitata, cadono le altre tre libertà grazie alle quali il sistema svizzero, in piena crisi europea, ha macinato e macina indici positivi.

La Segreteria di stato dell’economia misura nel 2% la crescita 2013, prevede il 2,2% nel 2014 e il 2,7% nel 2015. Il tasso di disoccupazione 2013 è del 3,2% nella Confederazione e del 4,5% in Ticino. Secondo la Segreteria, la voce del commercio estero “potrebbe tornare a dare impulsi positivi e rinvigorire la già robusta domanda interna”.

Lo scenario che si prefigura conferma la crescita e il suo collegamento alla proiezione esterna del sistema, ma rischia di restare una speranza se si limita l’accesso al mercato europeo, che già oggi assorbe il 70% delle esportazioni svizzere.

A fronte di queste cifre, i settori già contrari al referendum, ma responsabili di una campagna elettorale sotto tono avendo dato per scontata la loro vittoria, si muovono per richiamare l’attenzione del governo sulle conseguenze di una rottura comunque mascherata con l’Ue.

Le zone più dinamiche, a cominciare dalla “internazionale” Repubblica di Ginevra, possono tollerare contingenti e tetti per gli altri, e se proprio si devono applicare a tutti, quelli per la Repubblica devono essere tali da non colpire l’economia locale, fortemente tributaria agli stranieri di Francia.

Frontalieri
Ecco un altro paradosso della situazione attuale: i frontalieri verso i quali si applicherebbero le nuove misure sono solo formalmente stranieri, mentre sotto il profilo culturale e linguistico sono del tutto assimilabili ai cittadini.

Nella Svizzera romanda affluiscono i francesi, nella Svizzera alemanna i tedeschi, nella Svizzera italiana gli italiani. L’opinione pubblica non respinge “l’altro” in quanto diverso, ma in quanto concorrente sul mercato del lavoro. Questo vale per i ressortissants dei vecchi stati membri Ue, meno per i cittadini dei nuovi stati membri e dei richiedenti asilo.

A proposito dei nuovi stati membri, il primo assaggio della nuova dimensione è dato dal rifiuto svizzero, almeno finora, di firmare il protocollo che estende l’Alpc alla Croazia. Un atteggiamento inaccettabile per l’Unione a Ventotto ed un argomento in più nella discussione sui profili generali dell’Alcp.

Accordo sul quadro istituzionale 
La macchina europea continua il suo corso e arriva a maturazione il mandato che il Consiglio conferisce alla Commissione per negoziare l’accordo sul quadro istituzionale con la Svizzera, l’accordo degli accordi che mira a dare organicità alla pletora di intese settoriali che legano le parti e che fanno ritenere la Confederazione, almeno fino al 9 febbraio, come un paese terzo talmente prossimo all’Ue da condividere davvero tutto salvo le istituzioni.

Vi è pure chi prospetta l’adesione a termine del paese, ma si tratta di voci solitarie di europeisti visionari. Se non altro si trovano in compagnia di precedenti illustri. Visionario era pure Altiero Spinelli a Ventotene, eppure ebbe ed ha ragione.

Con ogni probabilità il mandato negoziale sarà adottato col caveat di una dichiarazione con cui l’Unione ribadisce l’indivisibilità delle quattro libertà ed esprime sostegno alla Croazia.

Sugli sviluppi della situazione influirà il successo della desistenza che il governo pratica verso i settori parlamentari che, all’origine del referendum, ora vogliono monetizzare la vittoria. Ci sono tre anni di tempo per trovare una soluzione - questo risponde l’esecutivo alle interpellanze.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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