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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 31 agosto 2016

Brexit: si raccolgono i cocchi di una scelta insensata

Brexit
Londra, con l’Ue sarà un lungo addio
Lorenzo Vai
14/08/2016
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Le previsioni sull’entità degli effetti economici e politici che la Brexit provocherà continuano a rimanere incerte. L’unico facile pronostico riguarda il tenore dell’addio, che si prospetta lungo e complesso per ragioni procedurali e convenienze politiche. Iniziamo da queste ultime.

Alla Gran Bretagna la prima mossa
Il referendum tenutosi lo scorso 23 giugno aveva valore consultivo, ovvero di semplice indirizzo politico. Ciò significa che la decisione di recedere dall’Unione deve essere formalmente sancita da un voto del parlamento del Regno Unito, a cui è ipotizzabile che seguiranno le pronunce di sostanziale conferma/opposizione dei singoli parlamenti nazionali (scozzese, nord-irlandese e gallese).

In teoria, Westminster potrebbe anche rinviare sine die il voto, di fatto non accogliendo il suggerimento dato dai cittadini britannici; tuttavia, in un clima saturo di antipolitica, tale opzione appare non sostenibile.

La neo-premier britannica Theresa May ha però bisogno di tempo. Tempo per ricucire le fratture interne ai conservatori emerse durante la campagna referendaria. Tempo per preparare il voto parlamentare senza il rischio di alimentare spinte secessioniste mai sopite. Tempo per predisporre al meglio la strategia e il terreno diplomatico sul quale dare il via agli incontri (scontri) negoziali che definiranno il futuro quadro delle relazioni tra l’Ue ed il Regno Unito. Ed è su questo punto che gli interessi politici s’intersecano con le questioni procedurali.

La prima mossa tocca a Londra, da cui si attende la richiesta di avviare la procedura di recesso prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (Tue). Tale clausola fu pensata ai tempi della Costituzione europea per tranquillizzare l’opinione pubblica di Sua Maestà sui possibili rischi di un’Unione troppo stretta che sfociasse nella federazione.

Ma le cose sono andate diversamente, e la procedura potrebbe oggi ritorcersi contro gli inglesi. Come svelato da Valéry Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, l’art. 50 venne formulato con l’idea di non dover essere mai utilizzato. Affermazioni che evidenziano il fine più politico che giuridico che ispirò la sua scrittura, e che testimoniano la comune pratica di sacrificare sull’altare del compromesso politico una più chiara e coerente scrittura delle norme europee.

Tempi biblici
L’articolo prevede che, dopo la notifica da parte dello Stato uscente, il Consiglio europeo detti gli orientamenti negoziali e scelga il negoziatore dell’Ue, che avrà due anni di tempo per giungere ad un accordo di recesso con la controparte. Accordo che, per entrare in vigore, dovrà essere approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo stesso.

Immaginando le centinaia di capitoli negoziali in discussione, nella ridefinizione dei rapporti fra Londra e l’Unione, due anni sono pochi. A voler tracciare un difficile parallelismo, basti ricordare che l’uscita della Groenlandia dalla Comunità europea nel 1982 ne richiese tre.

In questa situazione, il governo inglese potrebbe ritrovarsi fuori dall’Ue senza un nuovo accordo che ne tuteli gli enormi interessi economici che ha nel continente. Il periodo di negoziazione può essere esteso, ma solo su decisione unanime del Consiglio europeo, che ha quindi il notevole vantaggio di poter dettare i tempi di una partita nella quale ha molto meno da perdere.

Nel ritardare la richiesta ufficiale di recesso - le ultime indiscrezioni dicono che arriverà ad inizio 2017 - c’è anche il tentativo britannico di ridurre il più possibile il coinvolgimento della Commissione, rivelatasi fino ad oggi l’attore più intransigente e potenzialmente più ostico nell’offrire concessioni.

Viste le materie in gioco e le competenze tecniche necessarie, ci sono pochi dubbi sul ruolo centrale nelle trattative che sarà tuttavia richiesto alla Commissione, che nell’attesa ha già dimostrato di essere pronta ad usare sia il bastone sia la carota.

Difatti, se da un lato il suo presidente Jean-Claude Juncker ha scelto come capo negoziatore per l’Ue l’ex commissario europeo Michel Barnier, politico francese non troppo amato al di là della Manica per ragioni di carta d’identità e di curriculum, dall’altro ha nominato l’inglese Julian King come nuovo commissario alla Sicurezza.

Una scelta che, dopo le dimissioni di Jonathan Hill, riporta all’interno del collegio dei commissari un britannico, e che lascia intravedere il possibile fulcro delle cooperazioni politiche che verranno tra l’Ue ed il Regno Unito.

Alla premier May conviene perciò dilatare le tempistiche per ricercare all’interno del più confortevole metodo intergovernativo a porte chiuse del Consiglio europeo le migliori condizioni da cui far partire i round negoziali.

A fare sponda all’attendismo britannico è anche subentrato il consueto conflitto interistituzionale tra il Consiglio europeo e la Commissione, la quale rivendica, con il sostegno del Parlamento, una maggior indipendenza d’azione rispetto all’interpretazione dell’art. 50 sopra-descritta e fatta propria dai governi. Questi ultimi, scegliendo come proprio capo negoziatore il diplomatico belga Didier Seeuws, non sembrano però volersi fare da parte tanto facilmente.

Il futuro di eurodeputati e funzionari britannici 
I prossimi mesi vedranno così un Regno Unito in procinto di fare le valigie con pragmatica lentezza e con qualche “piccolo” imbarazzo da affrontare. Se la May ha assicurato di voler rinunciare alla presidenza di turno del Consiglio Ue prevista per la seconda metà del 2017, rimangono ancora incerte le modalità di partecipazione dei britannici - rappresentanti, funzionari statali seconded e giudici - all’interno delle istituzioni europee (secondo i Trattati, lo Stato recedente non può partecipare alle sole delibere e decisioni che lo riguardano).

È probabile che si giungerà a una partecipazione di basso profilo che non irriti gli altri paesi e la Commissione, la quale, nel caso in cui la notifica di recesso tardasse troppo, ha fatto intendere di voler portare Londra davanti alla Corte di giustizia per violazione del principio di leale cooperazione (art. 4 Tue).

Riguardo il destino dei 73 europarlamentari eletti nel Regno Unito, la durata del negoziato sembra suggerire una loro “dolce uscita” in coincidenza con la fine del mandato, anche se maggiori incognite rimangono sul loro coinvolgimento nei processi legislativi da qui al 2019.

Discorso diverso per i tanti funzionari europei di nazionalità britannica che, non lavorando per il loro paese ma per l’Ue, rimarranno al loro posto semmai con minori possibilità di carriera e qualche battuta in più nei corridoi.

Lorenzo Vai è ricercatore dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.

venerdì 26 agosto 2016

Macedonia crisi e prospettive future

Balcani
Macedonia, un compromesso nazionale per tornare al voto
Francesco Martino
10/08/2016
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Riparte l'ennesimo, fragile accordo, il tentativo di tirare fuori la Macedonia dalla crisi politica ed istituzionale in cui il paese balcanico è precipitato dal febbraio 2015.

A sottoscriverlo, sul finire di luglio, i principali partiti macedoni, tra cui il movimento conservatore della Vmro dell'ex premier Nikola Gruevski - al governo ininterrottamente da un decennio - e i socialdemocratici di Zoran Zaev - Sdsm, principale forza di opposizione -, sotto il patronato di Unione europea e Stati Uniti.

L'obiettivo dell'intesa è portare finalmente il paese alle urne per restituire stabilità e legittimità ad un sistema politico profondamente scosso da scandali e bloccato da veti incrociati, dopo due tentativi abortiti di organizzare elezioni sia ad aprile che a giugno scorso.

Per il momento date e scadenze per nuove consultazioni anticipate non sono state fissate: l'impegno è incontrarsi ancora a fine agosto per valutare la presenza delle condizioni minime necessarie ad elezioni libere e democratiche.

L’intesa fra governo e opposizione
Tre i nodi fondamentali ancora da sciogliere: una politica di riequilibrio dei media, considerati da osservatori locali e internazionali poco liberi, dipendenti e nettamente sbilanciati a favore della compagine governativa; il vaglio delle liste elettorali obsolete e piene di nominativi fittizi, facilmente utilizzabili dal governo per pilotare i risultati del voto; l'accordo sulla composizione e le competenze del governo ad interim che dovrebbe guidare la Macedonia durante la campagna elettorale.

Le reazioni all'intesa raggiunta a fine luglio sono state molto caute, visti i ripetuti fallimenti registrati nei mesi passati, e da parte delle associazioni dei giornalisti è già arrivata una sonora bocciatura dei meccanismi proposti al fine di creare un ambiente più libero e disteso per i media macedoni, giudicati del tutto insufficienti. Al momento, però, la strada del compromesso sembra restare l'unica percorribile per tentare di sbloccare lo stallo.

La crisi era letteralmente esplosa ad inizio 2015, quando il leader socialdemocratico Zaev aveva reso pubbliche scandalose registrazioni di intercettazioni ambientali e telefoniche (ottenute da fonti mai chiarite).

Nelle registrazioni - messe a disposizione del pubblico ad intervalli regolari -, secondo Zaev c'erano prove inconfutabili del fatto che il governo Gruevski si sarebbe macchiato di brogli elettorali, corruzione, arresti e detenzioni illegali e, soprattutto, dello spionaggio arbitrario di almeno ventimila cittadini macedoni.

Per Gruevski, però, quelle che sono presto diventate note come “notizie bomba” non rappresentano altro che un tentativo di colpo di stato, ordito dall’opposizione ai danni dell'esecutivo con l’aiuto di mai precisati “servizi segreti stranieri”.

Accordi di Pržino e proteste di piazza
In un clima politico sempre più rovente - culminato a inizio maggio in scontri di piazza tra manifestanti anti-Gruevski e polizia -, Unione europea e Stati Uniti sono riusciti a portare i contendenti al tavolo delle trattative, arrivando nell'estate 2015 ai cosiddetti “accordi di Pržino”.

L’intesa prevedeva due punti fondamentali: una road-map per portare la Macedonia ad elezioni anticipate (inizialmente fissate per il 24 aprile 2016), con le dimissioni di Gruevski e la nascita di un governo di transizione aperto ai socialdemocratici, e la creazione di una procura speciale per indagare sulle accuse di corruzione e abusi nei confronti dell'esecutivo.

L'implementazione degli accordi di Pržino si è però rivelata molto più difficile del previsto: nonostante le dimissioni di Gruevski, per l'opposizione (e per gli attori internazionali, Ue in testa) il governo non si è impegnato a sufficienza ad assicurare elezioni free and fair, e le consultazioni sono state spostate prima al 5 giugno per essere rimandate poi sine diedopo il boicottaggio di tutti i partiti coinvolti (tranne la stessa Vmro).

Anche il lavoro della procura speciale - affidata all’ex procuratore della città di Gevgelija Katica Janeva - è partito in salita e in ritardo sui tempi previsti. Il senso stesso dell'indagine è stato poi messo in discussione nell'aprile 2016 dalla decisione del presidente Gjorge Ivanov (Vmro) di concedere l’amnistia ai politici coinvolti negli scandali di competenza della procura, provvedimento ritirato dopo l'esplodere di nuove violente proteste di piazza.

Il sostanziale fallimento di una soluzione concordata ha messo in evidenza la capacità del governo della Vmro di resistere alle pressioni provenienti dalla piazza, ma anche alle critiche della comunità internazionale che accusa apertamente Gruevski di aver imposto un regime sempre più illiberale.

Nel frattempo si approfondiscono le spaccature che segnano la società macedone, con l'opposizione politica incapace di imporre una direzione diversa alla crisi e con una società civile ancora in cerca di nuovi ed efficaci strumenti di partecipazione.

Bruxelles sempre più lontana
Anche il peso politico dell'Unione europea esce ridimensionato dalla vicenda: preoccupata dalle numerose crisi che ne scuotono il centro, l'Ue appare oggi piuttosto distratta rispetto alle vicende che interessano la propria periferia vicina e quindi poco capace di influenzarne i destini.

Nel caso della Macedonia - candidato membro dal lontano 2005 - pesa poi anche lo storico veto della Grecia all'apertura dei negoziati (Atene considera il nome “Macedonia” parte inalienabile del patrimonio culturale e storico ellenico, e chiede al vicino settentrionale di modificare il proprio nome costituzionale). Una mossa che priva l'Unione della sua “carota” più appetibile nei confronti della leadership politica locale, ovvero l’avanzamento nel processo di integrazione.

L'accordo di fine luglio segna un passo interlocutorio che lascia le porte aperte a futuri negoziati. Resta però estremamente difficile prevedere uno sbocco della crisi. Nella migliore delle ipotesi, la Macedonia potrebbe arrivare a nuove elezioni nel dicembre 2016: nel frattempo il paese - che alla crisi politica affianca una situazione economica tutt'altro che rosea - resta una realtà a forte rischio di destabilizzazione.

Francesco Martino è giornalista, corrispondente da Sofia, lavora per Osservatorio Balcani e Caucaso e collabora con varie testate italiane e internazionali.
 
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lunedì 22 agosto 2016

Ucraina: la difficile identità

Crisi Ucraina
A Kiev i veri alleati sono pochi e preziosi
Paolo Calzini
02/08/2016
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Il conflitto per l’Ucraina è in certa misura passato in secondo piano, coperto dagli avvenimenti che hanno portato a focalizzare l’attenzione sul ruolo della Russia nella crisi mediorientale e sulle sue ambizioni globali.

L’attualità è stata dominata dagli eventi di più immediata preoccupazione - guerra civile in Siria, lotta al movimento terroristico dell’Isis, migrazione di massa in Europa.

Il fatto però è che l’Ucraina rimane la posta cruciale nella contrapposizione tra le potenze occidentali e la Russia, che vede da un lato il sostegno al nuovo governo di Kiev da parte del “fronte orientale” europeo, cui si accompagna l’azione di sostegno degli Stati Uniti (Nato inclusa) e dell’Unione europea, mentre Mosca si conferma risoluta nell’affermare “diritti privilegiati” nei confronti del “paese fratello”.

La difficile identità ucraina
Il brusco passaggio al campo occidentale, dovuto al rovesciamento del governo filo russo, nel febbraio del 2014, ad opera delle forze rivoluzionarie attive a Maidan, ha costretto l’Ucraina, allo stesso tempo, nella posizione contraddittoria di “oggetto recipiente” e di “soggetto attivo” del confronto russo-occidentale, con i contraccolpi che ne sono derivati sul processo di consolidamento istituzionale interno.

L’interruzione traumatica del collegamento con la Russia ha portato in direzione dell’intervento militare russo, alla perdita della Crimea e alla costituzione di un enclave separatista nel Dombass, dando il via ad una sanguinosa guerra civile.

In questa situazione, l’Ucraina ha dovuto affrontare la costruzione di una propria “nuova” identità nazionale. Una tale identità tuttavia, per volontà delle forze nazionaliste rappresentative della maggioranza ucraina, si doveva costruire anche a spese dei diritti della minoranza russa, sull’onda dei tumultuosi eventi che hanno portato, anche grazie al ridimensionamento di carattere scissionista, a una ridefinizione della configurazione multietnica del paese e alla nascita di una nuova nazione ucraina.

La contrapposizione alla Russia, inevitabilmente identificata dalla società ucraina come la potenza “altra” con cui raffrontarsi, ha fornito l’impulso decisivo per spingere il paese a costituirsi nel ruolo di un attore indipendente. che guarda all’occidente.

Un orientamento che si traduce nella formula della “scelta europea”, espressione sintetica che riassume la diffusa aspirazione della società ucraina alla modernizzazione del sistema politico-economico, rimasto confinato, nel periodo post-sovietico, in uno stato di profonda arretratezza.

Ancora gli oligarchi
A più di due anni dai moti di Maidan, l’immagine offerta dagli esponenti politici americani e europei nettamente schierati a sostegno del cambio di regime a Kiev, di un’Ucraina convintamente pro-europea, sulla via di una democrazia in linea con gli standard occidentali, risulta riduttiva e non in perfetta armonia con la situazione reale.

Il processo di riforma delle strutture burocratico-istituzionali, e l’adeguamento della pratica politico-amministrativa alle esigenze di una governance onesta e efficiente, è in panne, condizionato com’è da anni di malgoverno.

La presenza nei gangli dello stato dei clan oligarchici dominanti, in larga misura passati, senza soluzione di continuità, dall’amministrazione precedente a quella attuale, costituisce, per giudizio unanime degli osservatori, l’ostacolo maggiore al superamento delle attuali condizioni di persistente degrado economico-sociale e di carente emancipazione politica.

I vari clan oligarchici, tra loro associati o in competizione, al controllo di vasti settori dell’economia pubblica (energia, banche, comunicazioni) e in alcuni casi di intere regioni, si confermano, grazie allo stretto collegamento con i partiti politici di riferimento, i veri detentori del potere.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, è evidente l’insufficiente capacità e/o determinazione dimostrata finora dal governo presieduto da Poroshenko di imporre una linea riformatrice rispondente alle esigenze di modernizzazione del paese.

Il dato più preoccupante, per le sue conseguenze sul piano politico-sociale, è costituito dallo stato disastroso dell’economia. Solo il sostegno finanziario garantito dal Fmi, su istanza americana, ha evitato che il paese andasse incontro al collasso.

L’alienazione evidente di crescenti settori della popolazione, frustrati nelle proprie aspettative, rischia col tempo di tradursi in aperta opposizione nei confronti delle autorità, accusate di inefficienza e corruzione dilagante.

Come in precedenti occasioni, l’attuale situazione rimane tutto sommato sotto controllo, ma potrebbe essere ancora una volta travolta da movimenti subitanei e poco prevedibili di rivolta, sulla spinta dell’aspirazione a un rinnovamento nazionale, fortemente radicata nella coscienza collettiva ucraina e mai pienamente realizzata.

A costituire un ulteriore fondamentale fattore di difficoltà nel processo di transizione a forme di governo più avanzate contribuisce lo stato di belligeranza permanente generato dal conflitto irrisolto nell’area del Donbass.

Temporaneamente stabilizzato grazie a un precario accordo di cessate il fuoco, il cosidetto Minsk-2, promosso congiuntamente da Francia, Germania, Russia e Ucraina, il clima di tensione determinato dalla contrapposizione fra forze governative e forze separatiste, sostenute da Mosca, è divento motivo di grave distrazione dalle urgenze di un paese in crisi.

La prospettiva di prosecuzione della lotta armata avvantaggia i partiti estremisti, tra i quali spiccano quelli ispirati a un nazionalismo etnico vecchio stile, visceralmente anti-russo, che antepone a ogni altra considerazione di opportunità politico-diplomatica il ripristino a qualunque costo della sovranità sul territorio ucraino, entro i confini definiti al momento dell’implosione dell’Unione Sovietica (e quindi con la Crimea e tutti i territori occupati dai ribelli filo-russi).

La tentazione dell’uomo forte
In questa situazione non meraviglia che si vada compattando intorno a Poroshenko uno schieramento che mira a un rafforzamento delle prerogative della Presidenza, al fine di assicurare alle autorità effettive capacità di controllo e gestione del paese.

L’intenzione di promuovere, con la motivazione del consolidamento di una condizione generalizzata di ordine e stabilità, la costituzione di un sistema di potere forte, non esente da tentazioni autoritarie, è evidente. A lasciare aperta una prospettiva di progresso della situazione sono gli esponenti di una nuova leva politica, organizzati in partiti sinceramente pro-europei, sulla base di una piattaforma programmatica che postula il superamento del regime oligarchico, come condizione imprescindibile dell’avvento a pieno titolo di un’Ucraina avanzata, civile e indipendente,

Sono queste forze, impegnate nel contrastare la crescente influenza dei partiti nazionalisti radicali e dei conservatori tradizionali, che meritano, nell’interesse generale all’uscita dalla crisi nel cuore del continente europeo, a meritare il pieno sostegno dei governi occidentali.

Paolo Calzini è Associate Fellow della Johns Hopkins University Bologna Center.
 
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lunedì 1 agosto 2016

Germania: pubblicazione del Libro Bianco

Europa
Germania, la strategia di difesa del Libro bianco
Ester Sabatino
22/07/2016
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Dopo aver atteso il risultato referendario britannico, la Germania ha da qualche giorno pubblicato il Libro bianco2016 sulla politica di sicurezza e sul futuro delle Forze Armate.

Quest’importante documento definisce la politica di difesa tedesca per i prossimi dieci anni e il ruolo che la Germania è pronta ad assumere nel contesto strategico internazionale.

Numerosi erano già i segnali che facevano pensare ad una Berlino volenterosa di ampliare le capacità operative e di personale nella difesa nonché a promuovere una cooperazione multilaterale, anche a livello europeo, in termini di sviluppo industriale e di coordinamento delle operazioni, così come il documento tedesco ha ribadito.

L’ampliamento del Verteidigungsministerium
Già in gennaio, come riportato da Der Spiegel, il ministro della Difesa Ursula von der Leyen aveva reso nota la volontà di dedicare fino al 2030 130 miliardi di euro alla difesa, in particolare in equipaggiamenti, prevedendo un investimento annuo di circa 9 miliardi di euro se la situazione economica dovesse rimanere stabile.

La posizione del ministro è stata confermata per permettere all’intero apparato militare tedesco di ampliare le capacità di difesa, dall’acquisto ed dal mantenimento degli equipaggiamenti alla creazione di nuove divisioni e l’inclusione di nuovo personale.

Resa nota da un’analisi del Verteidigungsministerium (ministero della Difesa) è la costruzione entro il 2023 di un nuovo dipartimento per la cyber and information security (in tedesco Kommando Cyber und Informationsraum, KdoCIR), da creare in cooperazione con il ministero degli Interni.

La sicurezza cibernetica ed informatica riguarda infatti sia la sicurezza interna che esterna, ma per essere efficiente, secondo quanto affermato dal Libro bianco, essa deve essere compresa in un quadro cooperativo più ampio, come ad esempio quello Nato.

Viene previsto inoltre il raggiungimento dell’obiettivo di inclusione di quasi 19.000 nuove unità, tra cui 14.300 militari e 4.400 civili. Queste risorse dovrebbero essere impiegate nelle operazioni Nato soprattutto sul fianco orientale dell’Alleanza, nel nuovo KdoCIR, per l’utilizzo di droni e per i servizi medici.

Queste forze verrebbero altresì utilizzate nella Marina per le forze speciali ed in particolare nell’ambito della cooperazione con i Paesi Bassi per l’integrazione dei rispettivi battaglioni e con la prospettiva futura di un’unione della difesa europea.

Tuttavia, per raggiungere l’obiettivo di crescita dell’organico, la Germania ha deciso di permettere a cittadini europei non tedeschi di entrare a far parte dell’esercito. Già nel 2011 l’ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg aveva proposto, senza risultato, l’estensione del reclutamento a giovani di nazionalità non tedesca.

Affinché l’iniziativa abbia successo, von der Leyen è chiamata a rendere la carriera militare più attrattiva per le giovani reclute e puntare al valore aggiunto del multiculturalismo e del multilinguismo della nuova Bundeswehr per appianare possibili dissensi interni.

La Strategia Aerospaziale tedesca
L’importanza per la Germania di una maggiore cooperazione europea nell’ambito della difesa, sia da un punto di vista industriale sia nel campo dell’addestramento e della formazione, è evidenziata anche dalla Strategia Aerospaziale pubblicata lo scorso febbraio.

Il documento riflette il principio del “maggior numero possibile nella minor misura possibile”, con il quale viene data enfasi alla necessità di disporre di un apparato di difesa completamente equipaggiato, privo di inefficienze e duplicazioni.

Per quanto riguarda il settore aerospaziale, la Germania mira a raggiungere un elevato livello di interoperabilità dei sistemi disponibili, permettendo così l’abbattimento dei costi ed il mantenimento del vantaggio operativo. Ancora una volta, Berlino evidenzia l’importanza di limitare, almeno in Europa, i tipi di velivoli a disposizione delle aeronautiche europee.

A tal proposito si fa riferimento agli elicotteri da trasporto Sikorsky CH-53 che dovranno essere sostituiti entro la prossima decade. La scelta del tipo di velivolo che la Germania dovrà adottare è di particolare importanza, dal momento che rimane l’unico paese ad impiegare questo tipo di aeromobile.

Altro punto focale del documento è il riferimento ai progetti di cooperazione intergovernativa. Secondo la visione del ministero per gli Affari economici e l’energia, per essere vantaggiosa, la cooperazione dovrebbe avvenire conferendo ad una nazione il ruolo di leader, sulla stessa falsariga del programma Euromale nel segmento degli Aeromobili a Pilotaggio Remoto (Apr).

Data la complessità del sistema Apr, il ministero promuove l’uniformità delle modalità di conferimento delle certificazioni di volo, dei programmi d’addestramento e, non da ultimo, dell’avanzamento tecnologico nel settore.

Verso una maggiore cooperazione europea?
La visione strategica tedesca conferma i trend di crescita e di maggiore collaborazione del settore della difesa che già da qualche mese si erano iniziati a vedere.

A più riprese, il Libro bianco enfatizza la necessità di maggiore cooperazione nelle strutture Nato e a livello europeo volte rispettivamente al rafforzamento e alla creazione di un apparato di difesa collettiva cruciale per contrastare le attuali sfide. In tal senso è la decisione di ampliare la cooperazione industriale puntando sulla formazione congiunta del personale degli eserciti nazionali europei.

Di certo il risultato della Brexit ha spinto la Germania a considerare un maggiore impegno nel campo della difesa e l’European Security Compact proposto da Francia e Germania lascia spazio per una futura possibile maggiore collaborazione in campo europeo.

Ester Sabatino (@Ester_Sab1) è Junior Fellow presso il programma Sicurezza e Difesa dello IAI.