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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 27 novembre 2014

Serbia: gli Studenti incontrano l'Ambasciatrice in Italia

Italia-Serbia: dall'alleanza nell'Europa in guerra a quella nell'Europa unita


di 

Anastasia Latini*

Si è tenuto lunedì 24 Novembre il terzo appuntamento del ciclo di seminari “Osservatorio di attualità geopolitica” organizzati in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). 
L’incontro ha trattato la tematica delle relazioni tra Italia e Serbia e ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ana Hrustanovic, ambasciatrice della Repubblica di Serbia in Italia, che ha ricordato i molti vantaggi del partenariato strategico instauratosi tra i due paesi e il percorso di avvicinamento all’Ue della repubblica balcanica, ormai sempre più indirizzata verso un’integrazione più profonda. 
Si è attraversata la storia dall’inizio del primo conflitto mondiale ad oggi, la crisi degli equilibri europei e la sgretolazione degli imperi che è seguita, eventi che hanno profondamente inciso sul futuro dei due Stati, legati tra loro da intese commerciali e strategiche, come ha ricordato nel suo intervento il professor Antonello Biagini. 
L’intervento del dottor Scalea ha invece ripercorso le vicende più recenti gettando nuova luce sulle responsabilità della Serbia durante la guerra civile che l’ha vista contrapposta al Kosovo, e prima ancora durante il crollo della Jugoslavia che ha lasciato ferite ancora aperte nella memoria storica della regione.
Riallacciare il filo che storicamente lega Italia e Serbia è ad oggi considerato indispensabile per un processo che mira a rendere l’Europa una realtà geopolitica in grado di misurarsi con le molte sfide che affronta e che troverà lungo il suo percorso.

email: latini.anastasia@gmail.com
          Biografia: in www.studentiecultori.blogspot.com (in approntamento)

martedì 18 novembre 2014

Spagna. Referendum in Catalogna. Su sei milioni di catalani, votano due milioni

Referendum in Catalogna
Il divorzio mentale della società catalana 
Riccardo Pennisi
13/11/2014
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Un successo di partecipazione. Questo il risultato del referendum "informale" - senza valore legale e organizzato su basi volontarie - con il quale cittadini e residenti in Catalogna sono stati chiamati a decidere se la propria regione sia da considerare uno stato, e se sì, se debba essere indipendente.

Il doppio sì sulla scheda è stata l'opzione scelta dall'80% degli oltre due milioni di partecipanti, un terzo del corpo elettorale locale.

Il voto, più che un passo avanti verso l'indipendenza, evidenzia soprattutto due gravi mancanze del governo del premier del partito popolare (Pp), Mariano Rajoy: incapacità di comprendere appieno lo scontento della società catalana, e perdita di iniziativa politica.

Peso della corrente indipendentista
Uno dei primi dati da considerare è il peso reale della corrente indipendentista sul totale degli elettori. Una corrente molto forte, ma che non arriva alla maggioranza assoluta.

I partiti del tutto o in gran parte favorevoli al distacco della Catalogna dal resto della Spagna sono a grandi linee due: Convergència i Unió (CiU), di centrodestra, a cui appartiene il presidente della regione Artur Mas; e Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), formazione ex radicale oggi più spostata su posizioni socialdemocratiche.

In occasione delle elezioni regionali del 2012 e delle europee del 2014, in cui il tema della secessione è stato ben presente, la somma dei voti dei due partiti è restata poco sopra il 40%.

Tuttavia, la corrente indipendentista ha egemonizzato quasi completamente, negli ultimi anni, il discorso pubblico in Catalogna. Ciò è dovuto a fattori strutturali, come ad esempio le politiche culturali che nei trentacinque anni di esistenza dell'autonomia sono state orientate a costruire e rafforzare l'identità locale, o la presenza di una tv pubblica (di qualità e molto seguita) abbastanza schierata a favore degli interessi del governo regionale.

Non si vuole qui ovviamente parlare di indottrinamento, ma piuttosto della creazione di un clima sociale di fatto "propenso" alle ragioni dell'ampliamento dell'autonomia e dell'indipendenza.

Socialisti bugiardi, popolari centralisti
Ma in particolare, l'attuale divorzio mentale della società catalana - in particolare dei suoi settori più dinamici, come la piccola e media imprenditoria e i giovani, il cui ruolo è centrale nella regione che produce un quinto del Pil nazionale - da Madrid, è dovuto all'insoddisfazione nei confronti dei due grandi partiti spagnoli.

I socialisti, un tempo fortissimi, dopo gli anni del loro ultimo governo (2004-2011) ora pagano il non aver mantenuto le tante promesse fatte ai catalani in materia di federalismo e aumento delle competenze regionali: la loro forza elettorale in Catalogna si è ridotta a un terzo rispetto a dieci anni fa.

I popolari sono centralisti per definizione - benché in passato il governo nazionale di José Maria Aznar abbia siglato diversi accordi con quello regionale di Jordi Pujol; la loro reazione alle manifestazioni di massa che gli indipendentisti hanno organizzato negli ultimi anni è stata di rifiuto, se non di sdegno e ridicolizzazione.

Un rifiuto che si è esteso a qualsiasi richiesta di nuovi accordi, e che ha portato sicuramente un buon numero di "non indipendentisti" a partecipare comunque in segno di protesta.

Intransigenza di Madrid
La decisione di non permettere un referendum costituzionale è apparsa legittima ai sensi della Carta del 1978 e condivisa nel resto del paese. Ma la messa sotto accusa da parte di Madrid del governo regionale e di tutti i funzionari che hanno concesso l'uso di locali pubblici come seggi avrà delle conseguenze più pesanti.

Per quanto alcune parti del Pp e dell'amministrazione centrale possano esserne soddisfatte, allo stesso tempo l'idea di Artur Mas, cioè portare CiU e Erc a costituire alle prossime regionali una lista indipendentista comune che superi il 50% esce certamente rafforzata da tale intransigenza. Mas spera che questa lista possa poi procedere spedita verso la secessione della Catalogna.

La mancanza di lucidità del governo di Madrid è confermata dal recente ritiro di due tra i provvedimenti-simbolo: la legge che complicava il ricorso all'aborto, e la proposta di riforma elettorale.

L'esecutivo di Rajoy sembra infatti paralizzato dalla crescita di Podemos, inizialmente sottovalutata e anzi considerata una risorsa per spaccare la sinistra.

Il nuovissimo partito di Pablo Iglesias non solo corre nei sondaggi - aiutato dalle inchieste sulla corruzione che si susseguono e che toccano un po' tutti gli altri partiti - ma attira elettori da tutti gli schieramenti, compresi i votanti del Pp meno fedeli.

È una prospettiva che da Bruxelles e da Berlino viene osservata con discreto timore. La Germania e l‘Unione europea temono che un eventuale governo di Podemos possa non rispettare i vincoli di bilancio e non voglia onorare il pagamento del debito; eventualità, questa, non ritenuta ammissibile.

Se le cose resteranno così, i partner europei faranno pressione per un futuro governo di grande coalizione tra popolari e socialisti - ora non in grado di affermarsi da soli. Questi nodi si scioglieranno solo nel 2015, quando si rinnoveranno quasi tutte le amministrazioni locali, in primavera, e il parlamento, in autunno.

Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, ISPI, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia.
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Svizzera: fisco, banche, denaro più comprensibili

Svizzera
Se il fisco diventa più trasparente
Cosimo Risi
16/11/2014
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Svizzera vuol dire fisco leggero. Vuol dire banche impenetrabili fino a anni addietro e ora in procinto di aprirsi alla trasparenza.

L’opacità sta per finire grazie all’accordo Ocse sullo scambio automatico delle informazioni e con il patto Ue anti - evasione raggiunto al Consiglio Ecofin di ottobre.

La realtà ha tuttavia la testa dura e i negoziati continuano a svolgersi contemporaneamente e in varie sedi.

Trattativa Italia-Svizzera
Prendiamo la trattativa bilaterale fra Italia e Svizzera, che riceve assicurazioni ad alto livello di pronta conclusione e pur tuttavia sfora sistematicamente il calendario. Ora la fine si prevede per la primavera 2015.

Perché si negozia da due anni e passa e non si giunge all’accordo, malgrado le buone intenzioni delle parti? Qualcuno tergiversa, come lascia intendere certa stampa svizzera imputando la responsabilità all’Italia?

Su un punto l’Italia non ha potestà negoziale. La reciproca apertura dei mercati finanziari compete all’Unione europea ed è collegata al negoziato istituzionale che la stessa Unione ha in corso con la Svizzera.

I singoli stati membri possono intervenire ad adiuvandum e non in prima battuta. La proposta svizzera di negoziare l’apertura dei mercati con alcuni stati membri sul piano bilaterale, a titolo di contropartita dello scambio automatico delle informazioni, appesantisce la barca e rende difficile la manovra.

Per tornare all’essenza della trattativa, si tratta di stabilire un regime per il periodo transitorio che intercorre tra la conclusione dell’accordo bilaterale e l’entrata in vigore dello scambio automatico d’informazioni (Ocse standard). Quali e quante informazioni la nostra autorità fiscale può chiedere all’autorità svizzera?

Voluntary Discloure
La trattativa su questo punto s’intreccia con un provvedimento strettamente nazionale, che è quello in discussione al Parlamento con il nome di Voluntary disclosure (Vd).

Con la Vd, il legislatore offre la possibilità al contribuente, che abbia omesso di dichiarare le fortune depositate all’estero, di dichiararle pagando un certo ammontare e senza incorrere in sanzioni. La Vd funzionerebbe erga omnes e non sarebbe discriminatoria nei confronti dei paesi a fiscalità agevolata come la Svizzera.

Un altro legame resta in piedi a complicare il quadro: quello fra il trattamento dei dati bancari a fini fiscali e la fiscalità dei lavoratori frontalieri. Il legame risponde alla logica del pacchetto così cara alla diplomazia.

Sui frontalieri in Svizzera pesa l’applicazione dell’iniziativa costituzionale del 9 febbraio 2014 riguardo al “no all’immigrazione di massa”.

Peserebbe l’eventuale vittoria del referendum cosiddetto “Ecopop”, dal nome dell’Associazione per l’ambiente e la popolazione che lo promuove, che, analogamente, punta a limitare l’afflusso degli stranieri. La consultazione referendaria si celebrerà il 30 novembre e ha le principali forze politiche contro. Ma come insegna il precedente di febbraio, i sondaggi sono mendaci e la guardia è alta.

Futuro dei frontalieri in bilico
Di questo referendum si dice poco in Italia, ma i suoi effetti si cumulerebbero con quelli dell’iniziativa costituzionale. Il quesito recita letteralmente: “stop alla sovrappopolazione - sì alla conservazione delle basi naturali della vita”.

In omaggio allo sviluppo sostenibile, i promotori propugnano un tetto alla crescita economica e alla crescita della popolazione. Per questo vorrebbero fissare gli ingressi al limite coerente con lo sviluppo sostenibile. I frontalieri, anche se non residenti, rientrerebbero nel limite perché contribuiscono all’inquinamento e al sovraffollamento.

Molte variabili condizionano il quadro negoziale sui frontalieri al punto da renderlo poco prevedibile: applicazione dei contingenti e della preferenza nazionale ex iniziativa del 9 febbraio; limiti ex referendum del 30 novembre; modifica della fiscalità.

Ecco che i frontalieri divengono oggetto di una partita così complessa da oscurare il dato sociale. Si tratta di oltre 60mila persone, le cui vicende si riflettono sul benessere dei 400 comuni di provenienza prevalentemente lombardi. Il Ticino, per parafrasare un nostro responsabile politico, è il primo datore di lavoro della Lombardia.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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Ucraina: il dopo elezioni nelle terre contese

Crisi ucraina
Verso una grande Transnistria
Francesco Bascone
04/11/2014
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Le elezioni del 2 novembre nelle “repubbliche” di Donetsk e Lugansk non hanno aggiunto nessun nuovo elemento al risiko della crisi ucraina.

Mosca le ha considerate valide, come aveva già preannunciato mentre l'Unione europea (Ue) non poteva che negarne la validità poiché in contrasto con la costituzione dell'Ucraina.

Queste voltazioni non costituiscono però un nuovo vulnus. Definirle un’ennesima provocazione può servire solo ad accelerare lo scivolamento verso un clima da guerra fredda. Proprio quando le “attività insolite” dell'aviazione russa ai margini dello spazio aereo Nato consigliano una de-escalation.

Elezioni ucraine
I risultati delle parlamentari tenutesi la settimana prima nel resto dell' Ucraina sono stati generalmente accolti con sollievo: ha vinto lo schieramento democratico e pro-europeo, l'estrema destra non è cresciuta, il commento di Mosca è cautamente positivo.

Ci si può augurare che nel formare la coalizione di governo il presidente Pedro Poroshenko e il primo ministro Arseniy Yatsenjuk rinuncino all'apporto del partito Svoboda e che sappiano tenere a bada coloro che premono per una soluzione militare della questione del Donbass.

In Occidente come in Russia, le rispettive propagande hanno fornito immagini distorte degli sviluppi dei mesi scorsi in Ucraina, creando nelle opinioni pubbliche la confusa sensazione che l'aggressività dell'altra parte è stata rintuzzata e che se c'è del vasellame rotto la responsabilità è tutta di quella parte.

Da noi è diffusa una moderata soddisfazione: il presidente russo Vladimir Putin è stato fermato, l'economia russa soffre assai più della nostra per le sanzioni, il 95% dell'Ucraina è stato incorporato nell'orbita dell'Ue. L'Occidente avrebbe quindi vinto la partita geopolitica, nonché quella morale. Ma le cose stanno proprio così?

Armistizio sul Donbass
L'armistizio raggiunto sul fronte del Donbass ha certo evitato il peggio: la paventata conquista russa di un corridoio fra Donetsk e la Crimea. Il bilancio provvisorio del tentativo di soluzione militare deciso da Poroshenko è però pesantemente negativo per Kiev, e quello finale potrebbe essere ancora più disastroso in caso di rottura dell’imperfetta tregua.

Per Putin è stato un successo parziale su cui pesano le sanzioni. L'Europa pagherà un prezzo economico ancora più alto, perché alle conseguenze sulle nostre economie delle sanzioni e delle contromisure russe si aggiungerà l'onere di salvare dal fallimento l'Ucraina.

Inizialmente il sostegno militare russo ai ribelli non aveva preso la forma di un intervento massiccio e dichiarato, come fu quello del 2008 contro la Georgia, in una situazione analoga (in entrambi i casi lo Stato che attaccava una provincia secessionista difendeva legittimamente la propria integrità territoriale, ma sfidava la Russia), ma il 17 luglio scorso, l’abbattimento dell'aereo civile MH17 malese aveva aperto una nuova fase.

Lo sfruttamento propagandistico di quell'"incidente di percorso" da parte occidentale, il giro di vite sulle sanzioni, le bombe sulle città ribelli e soprattutto il rifiuto di Poroshenko di concedere uno status speciale alle regioni russofone e di rinunciare alla associazione alla Ue avevano spinto Putin a decidere un impiego non più dissimulato di truppe russe, alzando il tiro: non più solo rallentare l'avanzata delle forze ucraine, ma passare alla controffensiva aprendo un nuovo fronte più a Sud e minacciando la città di Mariupol.

Di fronte al rischio di amputazione di una striscia di territorio che collega il Donbass con la Crimea, e forse anche oltre, fino a Odessa e a congiungersi con la Transnistria, il presidente ucraino aveva dovuto accettare l'armistizio, cioè rinunciare alla riconquista dei territori orientali, promettendo loro un'ampia autonomia.

Al punto in cui sono giunte le cose, questa formula, più che indicare la prospettiva di una soluzione di compromesso, maschera il sostanziale distacco di quelle province.

Conflitto congelato
Nella migliore delle ipotesi, infatti, per uscire dal circolo vizioso delle sanzioni e dal piano inclinato verso una nuova guerra fredda, Mosca e l'Occidente si accorderanno per il congelamento della situazione sul terreno e l'avvio di un processo negoziale destinato a durare anni o decenni e imperniato sul mantra della "ampia autonomia" delle regioni filorusse, nel rispetto - formalmente - dell'integrità territoriale dell'Ucraina. La Crimea sarebbe un caso "sui generis".

Sia che si giunga ad un accordo su uno status di autonomia, inteso come mascheramento o anticamera della secessione, sia (come è più probabile) che una impasse negoziale consolidi di fatto la separazione, in ogni caso avremo nella regione Donetsk-Lugansk una situazione in tutto analoga a quella della "Repubblica di Transnistria" (confinante con l'Ucraina), sulla quale il governo di Chisinau non esercita da oltre due decenni alcuna autorità.

Analoga anche a quella della Abkhazia e della Sud-Ossezia prima del conflitto del 2008 quando queste due regioni (ex) georgiane hanno ottenuto dalla Russia il riconoscimento dell'indipendenza, nonché presidii militari.

Fermo restando che la Crimea è un caso speciale, l’annessione deve cioè rimanere una eccezione, Mosca appare orientata ad applicare alla "Novorossija" il modello Transnistria. Il modello Abkhazia rimarrebbe in riserva come punizione per eventuali iniziative avventate di Kiev, o come ritorsione contro mosse occidentali, o per soddisfare nuove fiammate nazionalistiche.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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lunedì 10 novembre 2014

Immigrazione: un valore da sfruttare

Immigrazione 
Se l’Europa valorizzasse la mobilità dei migranti
Enza Roberta Petrillo
26/10/2014
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Coinvolgi, attiva, responsabilizza. La via promossa dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) per valorizzazione l’immigrazione ha rappresentato il punto di riferimento dell’azione italiana in materia di migrazione e sviluppo.

Un approccio che dal 2003 ha puntato a restituire centralità al ruolo giocato dai migranti sia nei progetti di co-sviluppo e cooperazione decentrata che in quelli di investimento in attività produttive avviate nei paesi di provenienza.

Poco più di un decennio dall’avvio di quella strategia, un workshop promosso dal Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale ne ha esaminato approdi e prospettive con l’obiettivo di definire una road map per l’avvio dell’ agenda di sviluppo post-2015.

Immigrazione e sviluppo
In che modo l’immigrazione influenza i processi di sviluppo economici, sociali ed ambientali? Quali politiche sono necessarie per far sì che la mobilità crei sviluppo nei paesi di provenienza?

Questioni dibattute già da un decennio e che sono state rilette anche alla luce delle nuove dinamiche migratorie euro-africane.

Il numero crescente dei migranti forzati diretti in Europa segnala in modo netto che guardare soltanto alla dimensione economica non basta.

Per quanto decisivi, temi come la sinergia migrazione-sviluppo, la riduzione dei costi delle rimesse, la valorizzazione del ruolo delle migrazioni circolari, restano soltanto un tassello dell’azione richiesta alla comunità internazionale per fronteggiare le nuove configurazioni demografiche, sociali e geopolitiche che vanno prendendo piede.

Punto ribadito anche dal coordinamento di Organizzazioni non governative “Link 2007” che ha segnalato l’urgenza di una riflessione che tenga conto anche delle dinamiche che da qui a un trentennio prenderanno forma in Africa, il bacino d’eccellenza delle migrazioni dirette in Europa.

Crescita demografica africana 
Per il 2050 le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite prevedono una crescita della popolazione africana dal miliardo di abitanti odierno, a più di 2,4 miliardi di persone. Tendenza che potrebbe veder raddoppiare la popolazione attiva compresa tra i 14 e i 65 anni, determinando un bacino potenziale di 700 milioni di persona in età lavorativa.

La crescita economica disomogenea del continente africano, e l’instabilità di molte delle strutture istituzionali dei suoi paesi, lascia prevedere che una parte consistente di queste persone continuerà a guardare all’Europa come un orizzonte possibile in cui capitalizzare la propria esperienza.

Proiezione che tira in ballo le politiche che l’Unione europea (Ue) e le sue cancellerie intendono mettere in atto per indirizzare il fenomeno non soltanto nei paesi di provenienza, ma anche nei paesi di arrivo.

“Non è pensabile alcun contributo alla valorizzazione dei migranti per lo sviluppo (nella duplice condizione di immigrati e di emigrati) se ad essi non vengono riconosciuti rispetto, accoglienza, diritti, integrazione, lavoro dignitoso, protezione politica e umanitaria, tutele e garanzie di sicurezza sociale”. Considerazione, quella di Link 2007 che sembra marcare la vera priorità dell’azione post-2015: lo sviluppo di politiche coerenti, sia a livello Ue che a livello multilaterale.

Strabismo europeo
Dieci anni dopo il varo di strategie come quelle dei corridoi migratori tra paesi di provenienza e destinazione, volti a stimolare in un’ottica di co-sviluppo gli investimenti dei migranti e lo sviluppo di relazioni commerciali circolari, i paesi europei sembrano infatti aver soppiantato la dimensione umana della mobilità con quella economica.

Una condotta strabica basata da un lato sull’intento di promuovere le relazioni economiche tra i due continenti, dall’altro su quello di rafforzare i dispositivi di controllo in entrata, riducendo in maniera netta le possibilità di piena inclusione dei migranti nei paesi di arrivo.

Se l’Europa vorrà segnare un cambio di rotta nel dibattito multilaterale che sta precedendo il lancio dell’Agenda per lo sviluppo post- 2015 deve partire dalla valorizzazione effettiva, non solo dichiarata, della mobilità migrante e delle politiche di integrazione a essa legate. Una svolta possibile solo se si sceglierà di mettere in sinergia le politiche di cooperazione e sviluppo con quelle sull’immigrazione.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc, Università La Sapienza di Roma; esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri
(enzaroberta.petrillo@uniroma1.it)
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