Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

sabato 31 dicembre 2016

venerdì 23 dicembre 2016

Il colpo d'ala di Putin

Energia
Il ritorno di Mosca nello scacchiere energetico globale
Nicolò Sartori
29/12/2016
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Le sanzioni internazionali per il conflitto in Ucraina, la seguente svalutazione del rublo e il crollo dei prezzi del greggio sembravano averla messa irreparabilmente in ginocchio.

Se a ciò si aggiungono una domanda di gas praticamente piatta in Europa - primo mercato di esportazione per Mosca - e la crescente competizione sui mercati globali con l’entrata di nuovi protagonisti nel mercato del gas naturale liquefatto, ecco servito uno dei periodi più complessi e incerti della storia recente della Russia.

Nonostante tali difficoltà, o forse proprio alla luce di queste, nelle ultime settimane il Cremlino è riuscito a mettere a segno una serie di iniziative internazionali, dall’accordo Opec all’ingresso nel settore estrattivo egiziano, in grado di riportare la Russia prepotentemente al centro dello scacchiere energetico globale.

Prezzo del petrolio in aumento
Dal 2008, i membri dell’Opec non riuscivano a raggiungere un accordo per il taglio alla loro produzione complessiva, e addirittura dal 2001 il Cartello non trovava una linea comune con gli altri Paesi produttori.

Negli ultimi mesi, la diplomazia di Mosca ha lavorato intensamente per uscire dal tunnel dei prezzi bassi, presentandosi da un lato come partner credibile impegnato a limitare la propria produzione nazionale e dall’altro come broker di un allineamento - tutt’altro che scontato - tra Arabia Saudita e Iran, in crescente competizione per questioni di leadership regionale.

L’aver inoltre portato al tavolo paesi non-Opec come Azerbaijan, Bahrain, Bolivia, Brunei, Guinea equatoriale, Kazakistan, Malesia, Messico, Oman, Sudan e Sud Sudan rappresenta la ciliegina sulla torta preparata dal Cremlino.

Anche se i tagli pattuiti durante il meeting di Vienna - 1.8 milioni di barili al giorno, circa il 2% della produzione globale - hanno condotto a un aumento del prezzo del greggio, ora sopra i 50 dollari al barile, questa crescita non è stata poi così significativa e sostenuta come ci si poteva aspettare. In futuro, molto dipenderà dall’effettiva capacità del gruppo dei produttori di coordinarsi (e rassicurarsi) attraverso meccanismi informali e rapporti di forza estremamente delicati.

Quanto potrà durare tutto questo rimane quindi un grande punto di domanda. Resta tuttavia la percezione che la Russia potrà giocare un ruolo chiave in questa partita, presentandosi come ‘indispensable nation’ di fronte a un’Opec sempre più consapevole della sua incapacità/inadeguatezza a influenzare - da sola e indipendentemente - il funzionamento del mercato petrolifero.

Mosca entra nel Mediterraneo orientale
A distanza di poche settimane dall’accordo con l’Opec, Mosca ha assestato un importante colpo, questa volta nel settore del gas naturale. Attraverso la compagnia Rosneft, il Cremlino ha sancito il proprio ingresso nel Mediterraneo orientale, dal 2009 terra di conquista di compagnie statunitensi e in seguito europee.

Rosneft, di certo non un attore di primo piano nel settore del gas, ha infatti acquisito da Eni il 30% della concessione Shourouk, all’interno della quale, lo scorso anno, la compagnia italiana ha scoperto il mega giacimento Zohr.

L’accordo è particolarmente rilevante perché negli ultimi anni il Mediterraneo orientale è emerso come una delle principali direttrici della strategia di diversificazione degli approvvigionamenti dell’Unione europea, Ue, volta soprattutto a ridurre la dipendenza dal gas di Mosca.

Tuttavia, sebbene sia chiaro che la mossa permette alla Russia di entrare in gioco in una regione chiave per la sicurezza energetica europea, non vanno comunque sottovalutate la rivalità industriale tra Rosneft e Gazprom (attuale monopolista dell’export di gas russo in Europa) e le possibili implicazioni che questa potrebbe avere sull’unità delle strategie energetiche di Mosca verso l’Ue.

Quello che ormai è certo, ad ogni modo, è che il Cremlino ha ben più di un piede nel Mediterraneo orientale: partendo dalla Grecia, e passando per Turchia, Cipro, e Israele per arrivare fino all’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi (e addirittura alla disastrata Siria), l’allineamento astrale regionale sembra essere stato disegnato appositamente per gli interessi strategici di Putin.

Tillerson, altra pedina della collaborazione Usa-Russia
La ciliegina sulla torta, per la leadership di Mosca, potrebbe arrivare in seguito all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Il tycoon non ha infatti mai nascosto il suo obiettivo di una normalizzazione delle tensioni con la Russia. La nomina di Rex Tillerson - ex Amministratore Delegato del gigante petrolifero Exxon Mobil - potrebbe essere strumentale a un riavvicinamento tra le parti.

La potenziale convergenza tra Usa e Russia sul piano energetico potrebbe ad esempio sancire una rimozione - progressiva e/o parziale - delle sanzioni, magari proprio quelle sulle attività del settore petrolifero nell’Artico, dove la compagnia del futuro Segretario di Stato Usa ha forti interessi industriali in collaborazione con i russi.

Anche l’approccio cooperativo di Mosca con l’Opec potrebbe però essere nell’interesse di Washington che grazie a prezzi del greggio in crescita avrebbe la possibilità di vedere le sue compagnie non convenzionali riprendere a produrre, evitando la (parziale) bancarotta di un settore messo duramente alla prova dalla guerra dei prezzi in atto dal Cartello.

Se a ciò si aggiunge il potenziale disimpegno dell’amministrazione Trump nel Mediterraneo, nuova frontiera delle politiche energetiche di Mosca, il cerchio è presto chiuso.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca e coordinatore del Programma Energia dello IAI.

giovedì 22 dicembre 2016

Recién Cartógrafos

Di Federico Mammarella*


No todo el mundo está ya descubierto, aún hay grandes áreas  del planeta sin cartografía exacta. No salen en los mapas y por eso los médicos y los equipos de Médicos Sin Fronteras (MSF), así como de otras muchas organizaciones no pueden trabajar con informaciones ciertas sobre determinada área geográficas. Desde la fundación de MDF en 1971 una de las herramientas básicas del equipo han sido los mapas, necesarios para llevar la ayuda donde se necesita, y todavía lo son hoy. De hecho, en muchos países, los equipos de la organización siguen utilizando los mapas para llegar a los pacientes, para organizar la operación en algunas zonas particulares, etc. Con las nuevas tecnologías, ahora, estamos de suerte: es posible implantar una nueva cartografía de las zonas geográficas donde queremos intervenir de forma rápida, segura y sin apenas coste alguno. Esto el objetivo del Proyecto Missing Maps, operación puesta en píe por Médicos Sin Fronteras junto con la Cruz Roja Británica, la Cruz Roja Americana y el equipo humanitario de OpenSTreetMap. La idea es simple e inteligente: con las nuevas tecnologías y el uso de los satélites es posible mapear las partes del mundo más vulnerables a las crisis humanitarias, desastres naturales, conflictos, epidemias o brotes de enfermedad. Con un mapa detallado podemos llegar a los pacientes de forma más rápida, realizar intervenciones más efectivas y comprender mejor las necesidades de las personas tras una emergencia. Sin duda, Missing Maps va a ser el resultado de la nueva frontera del voluntariado digital, como una Wikipedia de los mapas. Todas las personas que quieran echar una mano a la organización con esto pueden hacerlo fácilmente. Basta tener un poco de tiempo, ganas y un portátil a mano, no es necesario tener altos conocimientos tecnológicos. La cartografía se lleva a cabo muchas veces a partir de una jornada intensivas de mapeo, el mapatones, eventos masivos de personas que con instrucciones, y siempre con guías de apoyo, recogen y apuntan datos de una determinada área seleccionada a partir de sucesivas y potentes amplificaciones de imágenes vía satélite.
El 7 de Julio, en Barcelona, se celebró el segundo mapatón, y también en muchas otras ciudades del mundo, dibujando nuevos mapas y creando una comunidad internacional de personas de cada condición y pelaje reconvertidos en casados cartógrafos del siglo XXI para apoyar a Médicos Sin Fronteras. El proyecto se ejecuta a través de Open Street Map, que certifica como los datos recogidos y los mapas que van a ser diseñados serán de uso completamente libre, accesibles y sin restricciones. Además, los mapas están en continuo mutar, de esta forma es posible una actualización continua. La ayuda de las personas al proyecto Missing Maps supone contribuir con las actividades médicas humanitarias de MSF y va a ser una mejoría directa en la vida de algunas de las persona más vulnerables del mundo.

*Erasmus, Relazioni Internazionali


Almería,20 Novembre 2016

mercoledì 21 dicembre 2016

Una regione inquieta

Allargamento
Il futuro incerto dei Balcani in Europa 
Luisa Chiodi, Marzia Bona
05/12/2016
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Nonostante le rassicurazioni dei leader della regione circa l’impegno dei rispettivi Paesi a proseguire il cammino europeo e le dichiarazioni dei vertici europei, il referendum per l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, Ue, ha aumentato l’incertezza sul futuro dei Balcani occidentali.

La partita dell’integrazione europea si gioca ormai a livello politico mentre l’istituzionalizzazione del processo garantita dal lavoro della Commissione europea ne garantisce solo la prosecuzione tecnica nel medio periodo.

La preoccupazione principale è che il dossier allargamento possa finire in fondo all’elenco delle priorità politiche europee, monopolizzate dai negoziati per l’uscita di Londra e dalla gestione di pressanti questioni sia interne (per il bilancio e la crisi della solidarietà tra stati membri) che esterne (la situazione in Medio Oriente e i rapporti con Turchia e Russia, fattori ai quali si aggiunge la nuova stagione politica negli Usa).

Inoltre, l'uscita del Regno Unito dall’Ue mette in discussione il potenziale di attrazione, e quindi di trasformazione, che l'Unione ha nei confronti di Paesi in cui tanto i governi che le opinioni pubbliche sono ansiose di benefici tangibili nel breve periodo e soggetti all’influenza di altri attori internazionali, tra cui Russia e Turchia.

A Trieste i protagonisti del processo di Berlino
Poiché già dall'ingresso della Croazia nel 2013 l'allargamento scontava una sostanziale perdita di slancio, in coincidenza con l’inizio delle commemorazioni per il centenario della Grande Guerra, la Germania ha ideato per il sud-est Europa il cosiddetto “Processo di Berlino” che simbolicamente dovrebbe concludersi nel 2018.

La cancelliera tedesca Angela Merkel, sostenuta da Austria, Francia e successivamente dall’Italia, ha riunito i leader dei 6 Paesi dei Balcani occidentali prima a Berlino e poi a Vienna e Parigi per incoraggiare la cooperazione intergovernativa attorno ai temi dello sviluppo economico, del rafforzamento delle reti di trasporti, di energia e gas, e della cooperazione regionale, tra cui quella giovanile.

Il prossimo luglio 2017, l'incontro dei sei Paesi membri dell'Ue che sostengono il processo (Germania, Austria, Francia, Croazia, Slovenia e Italia), dei Balcani occidentali e della Commissione Europea si terrà a Trieste.

Il processo di Berlino non è un'iniziativa comunitaria, ma non è in contraddizione con le politiche Ue adottate nella regione: la Commissione ha infatti dimostrato fin da subito il proprio appoggio all'iniziativa e ne ha ribadito l'importanza anche nei Progress Report sullo stato di avanzamento dei negoziati di adesione, appena pubblicati.

Sino ad ora, il Processo di Berlino ha contribuito a far tornare sotto i riflettori, almeno in occasione dei summit, il tema dell’integrazione europea dei Balcani e l’importanza della cooperazione regionale. In questo senso l'insolito asse Belgrado-Tirana, con lo scambio di visite tra il premier serbo Vučić e quello albanese Rama, sono un segnale incoraggiante, in mezzo ai tanti negativi.

A Vienna sono state fatte promesse solenni per la soluzione delle molte dispute bilaterali che ancora segnano la regione. Le relazioni Serbia-Kosovo costituiscono il nodo più difficile da sciogliere, ma non va sottovalutato il problema degli ostacoli frapposti da stati membri a Paesi candidati, in primis l’ostracismo della Grecia verso la Macedonia.

Berlino protagonista dell’allargamento nei Balcani
Oltre a Berlino serve però anche tanta Bruxelles. Le iniziative politico-diplomatiche, infatti, sono utili se si affiancano in modo coerente al lavoro di lungo periodo sul terreno da parte delle istituzioni.

Nei Balcani occidentali i cambiamenti strutturali necessari per diventare stati membri richiedono tempo e determinazione, poiché non si tratta solo di trasposizione normativa dell’acquis comunitario. Vi sono culture politiche e istituzioni tutte da consolidare nel percorso di implementazione delle riforme in Paesi ancora inclini a derive autoritarie.

Nonostante si tratti dell’ennesima iniziativa diplomatica nei loro confronti, l’effettiva capacità di attrazione del Processo di Berlino è sostenuta dal protagonismo della Germania, percepita dai Balcani occidentali come il vero motore europeo.

Ma Berlino fa riferimento ai fondi europei per realizzare le iniziative previste ovvero i 10 progetti infrastrutturali identificati come prioritari.

E i Balcani occidentali devono rendersi conto che nonostante la “fatica di allargamento” possono ancora beneficiare di notevoli risorse comunitarie, diversamente dal resto dei Paesi terzi inclusi quelli del resto dell’Europa orientale interessati dalle politiche di vicinato.

Il ruolo della società civile nel processo di allargamento 
Infine, negli ultimi anni i Paesi del Sud Est Europa hanno corso il serio rischio di riacquistare centralità nella politica europea solo per ragioni di sicurezza su questioni quali la lotta al terrorismo internazionale o la cosiddetta Rotta balcanica.

Tuttavia, se i Balcani tornano ad essere trattati come la periferia instabile da gestire con l'approccio della politica estera tradizionale siamo di fronte alla fine del processo di allargamento. I Balcani occidentali completeranno il loro consolidamento democratico se vengono considerati a tutti gli effetti futuri Paesi membri da sostenere nel percorso di europeizzazione, tenendo dritta la barra dei principi fondamentali.

Naturalmente, questo percorso non può prescindere dal coinvolgimento convinto e attivo delle società civili e in senso lato dei portatori di interesse nelle società della regione. E al Processo di Berlino va dato atto di aver riaffermato la necessità del loro coinvolgimento attivo anche nei processi politici di alto profilo.

Nell’attuale quadro di incertezza rispetto agli sviluppi futuri dell’allargamento europeo il processo di europeizzazione guidato dalla Commissione costituisce la sola opportunità di trasformare i Paesi dell’area in democrazie funzionanti. È quindi di fondamentale importanza identificare quali siano gli attori locali che possano impegnarsi attivamente affinché l’implementazione delle riforme non resti sulla carta.

Luisa Chiodi dirige OBC Transeuropa dal 2006. Dal 2003 al 2008 è stata docente a contratto di Storia e istituzioni dell'Europa orientale presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna e ha insegnato in numerosi corsi universitari in Italia e all'estero (Twitter: @luisa_chiodi).
Marzia Bona è ricercatrice per OBC Transeuropa dal 2015. Dal 2010 al 2013 ha trascorso un periodo di ricerca e lavoro in Bosnia Erzegovina. Ha lavorato come tutor accademico nel master europeo in Democrazia e diritti umani nel sud-est Europa, con sede a Sarajevo. Si interessa di diritti umani, studi di genere e politiche culturali nei Balcani (Twitter: @marziabona).

venerdì 9 dicembre 2016

Francia: elezioni politiche

Francia
La corsa sovranista di Fillon verso l’Eliseo
Francesca Bitondo
08/12/2016
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Sovranità nazionale, dialogo con la Russia, “Europa delle nazioni”: sono questi i capisaldi della politica estera di François Fillon, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali francesi nel 2017.

Capo del governo firmatario del Trattato dell’Unione europea, Ue, di Lisbona nel 2007 e dell’accordo per il rientro della Francia nella struttura militare della Nato nel 2009, Fillon non è stato, durante il suo quinquennio da primo ministro (2007-2012), un protagonista di spicco della politica internazionale francese, accentrata nelle mani del presidente Nicolas Sarkozy che lo ha di fatto emarginato.

I suoi orientamenti in materia di politica non sono quindi molto conosciuti, ma gioca a suo favore il fatto di non essere stato direttamente coinvolto in eventi intercorsi sotto Sarkozy e ampiamente dibattuti, quale l’intervento francese in Libia.

L’ispirazione gollista di Fillon
Eletto in maniera schiacciante alle primarie di destra, Fillon incarna i principi di politica internazionale di ispirazione gollista, a cui tutti i presidenti della quinta Repubblica hanno fatto riferimento, sebbene con sfumature differenti.

Tradizionalmente, tre sono gli elementi portanti della politica estera francese. Il primo è l’autonomia strategica: la sovranità nazionale e la libertà decisionale nel compiere delle scelte di politica, interna ed estera, sono viste come condizioni necessarie per garantire e rafforzare il ruolo della Francia nel mondo.

A questo aspetto si collega l’utilizzo dello strumento della dissuasione nucleare per essere al pari delle grandi potenze. Ma la Francia, da sola, non disporrebbe dei mezzi per portare avanti questo approccio.

Di qui il terzo elemento, ossia la costruzione di un’“Europa delle nazioni”, intesa come forum intergovernativo che rispetti le sovranità nazionali.

Dialogo con la Russia
Favorevole al dialogo con la Russia, Fillon - già accusato di aver adottato un approccio morbido nei confronti di Vladimir Putin - il candidato repubblicano ha un atteggiamento realista nei confronti di Mosca.

Nella sua visione, essa è un partner strategico con cui dialogare per la soluzione di questioni internazionali come quella siriana e la lotta al terrorismo. Questo atteggiamento segue i rapporti già cordiali instaurati durante i cinque anni da primo ministro, stesso ruolo ricoperto da Putin nello stesso periodo.

Sotto questo profilo, Fillon sembra concordare non solo con la visione del neopresidente statunitense Donald Trump, ma anche con quella di alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, fautori della riapertura del canale del dialogo con la Russia.

Proprio sulla Siria, Fillon non ha esitato a prendere le distanze dalla posizione di Hollande e Obama, in particolare dall’enfasi da loro posta sul rovesciamento di Bashar al-Assad. Ciononostante, come per Trump, l’approccio di apertura di Fillon deve essere considerato con la giusta prudenza, distinguendo tra le dichiarazioni fatte in campagna elettorale e la loro traduzione in fatti concreti.

Il no di Fillon al trattato costituzionale dell’Ue
Fillon è un fautore dell’ “Europa delle nazioni”, ossia un’Ue politica, realista ed efficiente, che sappia convogliare l’adesione dei popoli e delle nazioni, rispettando al contempo le sovranità nazionali. Una linea non nuova nella politica estera della Francia della quinta Repubblica, ma che assume un rinnovato impeto alla luce della Brexit e della mancata realizzazione dell’unione politica.

In piena coerenza con questo approccio, e in linea con una concezione sovranista della Francia, Fillon ha votato no al referendum del 2005 sul trattato costituzionale dell’Ue, sostenendo che non esisteva un’unione politica tale da avere un inquadramento giuridico di rango costituzionale e per le conseguenze che questo avrebbe comportato per la sovranità nazionale.

Nel suo programma politico, il candidato repubblicano ha tracciato alcuni assi prioritari dell’azione francese nell’Ue: innanzitutto, la sicurezza dei cittadini con delle frontiere efficaci e una difesa autonoma. Seguendo il leitmotiv dell’indipendenza dagli Stati Uniti per le capacità di difesa, la Francia è sempre stata a favore di una difesa autonoma ed efficace a livello europeo, esortando i Paesi membri dell’Ue a maggiori sforzi militari e finanziari.

Al contempo, secondo Fillon è anormale che la Francia prenda in carico tutti gli oneri, finanziari e militari, per mettere in sicurezza la regione del Sahel a fronte del terrorismo islamico. Inoltre, occorre progredire nella cooperazione industriale nel campo della difesa sia per lo sviluppo di un programma militare, sia per un piano di acquisto di mezzi militari europei.

Sul fronte economico, oltre a proporre l’euro come moneta di riserva al pari del dollaro americano, Fillon intende promuovere una politica commerciale volta a difendere gli interessi nazionali.

Sebbene Fillon rivendichi un’“Europa delle nazioni”, soprattutto alla luce della Brexit e dell’esigenza interna della Francia di rispondere a sfide complesse come la minaccia terroristica, la politica estera che propone per l’Eliseo è in linea di continuità con quella condotta da tutti i presidenti della quinta Repubblica.

Più vicino alla prudenza di Chirac che all’interventismo di Sarkozy e Hollande, Fillon, pragmatico e moderato quale è, potrebbe essere il naturale prosecutore della politica estera francese che, da De Gaulle fino a Hollande, non è mai venuta meno ai suoi principi tradizionali.

Francesca Bitondo è assistente alla ricerca nel Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @frabitondo).

giovedì 1 dicembre 2016

Spagna: immigrazione latinoamericana

Focus sui migranti latinoamericani in Spagna

La Spagna non vive solo di immigrazione africana o mediorientale, non è meta di migranti solo delle tratte mediterranee. Essa vive ancora gli strascichi del suo passato coloniale. Infatti in Spagna si possono contare ben 2,3 milioni di migranti latinoamericani: di questi, il 25%(ovvero uno su quattro) vive con meno di 600€ al mese e quasi mezzo milione di questi non riesce a mettere da parte denaro sufficiente da inviare ai propri cari nei paesi di origine. Questi dati ci vengono forniti dallo studio "Remesas e inclusión financiera. Análisis de una encuesta de migrantes de América Latina y el Caribe en España", condotto dal consultorio Novadays per conto del Fondo Multilaterale di Investimenti (Fomin) del Banco Interamericano di Sviluppo (BID).
Il salario minimo per i lavoratori dipendenti in Spagna è fissato sui 655,20 € al mese, per 40 ore lavorative settimanali, ma un migrante latinoamericano su quattro non raggiunge queste cifre, anche se lo studio non precisa le loro ore giornaliere. 
Dalla relazione emerge che la capacità di risparmio della popolazione latinoamericana è "limitata": è infatti stato osservato come la recente crisi economica abbia maggiormente colpito quest’ultimi che né la popolazione propriamente spagnola. In questo modo, oltre alla normale concentrazione in posti di lavoro poco qualificati, si aggiunge ora la difficoltà di trovare lavoro in generale. Si può infatti osservare come il 22% di questi si trova al momento senza un occupazione e di quelli che lavorano, il 60%, è impiegato in mansioni poco qualificate, in base a quanto è emerso dalle 2.000 persone intervistate per effettuare questo studio.
Più della metà di questi lavoratori si è visto costretto, a causa della sua precaria situazione lavorativa, a spendere tutti o quasi tutti i propri guadagni, non riuscendo quindi poi ad inviare nulla nel proprio paese di origine.
Tuttavia, dall'indagine è possibile osservare che il 69% dei migranti di origine latinoamericana che vive in Spagna è comunque riuscito ad inviare denaro ai propri famigliari nel 2015, il venti percento in più rispetto a quelli del 2007. Questo fatto viene spiegato dal “rimpatrio selettivo” generato dalla crisi, ovvero ha causato un ritorno nel proprio paese di origine di molti di quei cittadini latinoamericani che avevano perso il proprio posto lavoro in Spagna. Il totale dei rimpatri si è ridotto tra il 3 e il 7 % dall'inizio della crisi economica nel 2008, per migliorare ulteriormente poi nel 2015, tendenza che si consoliderà entro la fine di quest'anno.
Coloro che riescono ad inviare maggiori quantità di denaro nei proprio paesi di origine, sono quelli che vivono in Spagna da più di 7 anni. Gli intervistati provengono da Bolivia, Colombia, Ecuador, Paraguay, Perù e Repubblica Dominicana. Di questi, colombiani e dominicani sono coloro che hanno maggior possibilità di inviare denaro alla propria famiglia, circa un 75%, contro un 65% degli ecuadoriani e un 69% dei paraguayani.
Il profilo del migrante “risparmiatore”, con maggiori chance di inviare denaro, corrisponde a quello di un cittadino di 30-45 anni, che viva da più di 10 anni in Spagna, con un lavoro e con un basso livello di istruzione.
La quantità medi di risparmio si aggira sui 1000€ annui, ripartito in sei invii, con picchi maggiori in corrispondenza del Natale e del "Dia de la Madre". Due immigrati su tre inviano denaro ai propri genitori, il 34% a suoi fratelli e il 15% a propri figli.

Federico Mammarella, laureando in Relazioni Internazionali.

28 Ottobre 2016, Almeria, Spagna

mercoledì 30 novembre 2016

Spagna: Indignados ed Elites

Spagna
Podemos: populismo o la nuova sinistra spagnola?
Elisabetta Holsztejn Tarczewski
23/11/2016
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Nel suo discorso in Parlamento in occasione del voto d’investitura che, dopo 10 mesi di paralisi, ha confermato Mariano Rajoy alla guida dell’esecutivo spagnolo, Pablo Iglesias si è autoproclamato leader della vera opposizione, definendo Podemos unica futura alternativa di governo al Partito popolare, Pp.

Un ruolo che il Partito socialista, Psoe, nonostante i 14 seggi (ma appena 400mila voti) in più, sarebbe secondo Iglesias inabilitato a svolgere, alla luce dell’“abstencionazo” del 29 ottobre. Ma è veramente riuscito Podemos a sostituirsi al Psoe e ad occuparne, in poco più di due anni, lo spazio elettorale e la funzione politica?

Gli “indignados” e le “élites”
Per quanto sia da ritenersi una conseguenza, più che la causa, della crisi dei partiti tradizionali, è indubbio che Podemos abbia rotto il sistema bipartitico spagnolo (aprendo la strada anche a Ciudadanos).

All’inizio Podemos è stato soprattutto uno “stato d’animo”. Un gruppo di politologi che hanno saputo parlare alla pancia della gente, capitalizzando il malessere causato dalla crisi economica e dalla sfiducia verso una classe politica ormai considerata vecchia e corrotta (“no nos representan”).

In questo sta l’elemento populista di Podemos, nell’aver diviso la società in “noi” (gli “indignados”) e “loro” (le “élites”), costruendo un progetto politico attorno alla contrapposizione “gente-casta” e presentandosi come unici portavoce della prima.

Ne consegue che Podemos si è sviluppato con una logica “anti” - anti-sistema, anti-oligarchie, anti-austerità, anti-sfratti - ed ha avuto continuamente bisogno dell’individuazione di un nemico - Mariano Rajoy, Bruxelles, la Cancelliera Merkel, l’Ibex 35.

Ciò potrebbe nel medio termine rappresentare anche il suo principale limite, qualora Podemos non riuscisse a sviluppare anche un discorso positivo convincente: perché entrando nelle istituzioni si rischia che, improvvisamente, si possa essere visti come “loro” e non più come “noi”.

Il movimento erede del 15M è dunque destinato a rimanere un fenomeno legato ad un determinato momento storico-politico-sociale o riuscirà a consolidarsi quale nuovo referente della sinistra spagnola?

La risposta dipenderà dall’effetto combinato di due fattori: 1) che cosa Podemos vuole fare da grande, ora che ha “portato la gente nelle Istituzioni”; 2) come reagirà il Psoe, se sarà capace di ricompattarsi attorno ad un nuovo progetto che lo metta al riparo dal rischio di “pasokizzazione”.

Il dilemma tra “calle” e “instituciones”
Sul primo punto, occorre ricordare che Podemos è, sin dall’inizio, un fenomeno con più anime e tensioni interne: tra partecipazione orizzontale e struttura di controllo verticale, tra radicalismo e moderazione, tra ideologia e trasversalità. “Il cielo non si prende per consenso, ma per assalto”, aveva dichiarato Iglesias in occasione dell’assemblea costitutiva di Vistalegre, citando Karl Marx e giustificando in questo modo la creazione di una “macchina elettorale” votata all’obiettivo di breve termine: l’appuntamento con le urne.

Ora che la prima tappa si è conclusa però, l’anima radicale e quella moderata hanno ripreso a fronteggiarsi per determinare il futuro del progetto politico. A fronte di un settore interno, guidato dal n. 2 del partito Iñigo Errejón, secondo cui per completare l’occupazione dello spazio socialista sono necessari un discorso più trasversale e misurato e un ruolo più istituzionale, Iglesias ritiene che il Parlamento sia uno scenario che non favorisce Podemos e, pertanto, non deve diventare il centro della sua azione politica.

Nella sua visione, Podemos deve continuare ad essere un agente “anti-sistema” che “costruisce contro poteri attraverso i movimenti sociali”, recuperando al contempo un più forte ancoraggio ideologico a sinistra.

Nella ricerca di questo equilibrio tra “calle” e “instituciones” - che echeggia il noto dilemma tra “partito di lotta e di governo” - sta la chiave del futuro di Podemos: se prevarrà unicamente la prima componente, il rischio è che torni ad essere un progetto fortemente connotato ideologicamente, ma di minoranza; se prevarrà unicamente la seconda, Podemos potrebbe perdere quel vantaggio che gli viene dall’incarnare un nuovo modo di fare politica e di gestire il consenso.

Podemos competizione con il Psoe all’opposizione
La crisi del Psoe sembrerebbe facilitare i compiti a Podemos. Dal 2008 il Partito socialista ha perso sei milioni di elettori, conservando un voto prevalentemente rurale, concentrato nelle fasce d’età più alta e nel Sud del Paese (dall’Andalusia provengono il 25% dei voti e il 40% della militanza).

Spaccatosi sull’astensione a Rajoy e ancora senza guida dopo la defenestrazione del leader Pedro Sanchez, il Psoe dovrà avviare un profondo dibattito interno dal quale possano emergere un nuovo progetto, capace di sedurre giovani e classi urbane, e una nuova leadership.

Al contempo, i socialisti cercheranno di rivendicare in Parlamento il proprio ruolo di primo partito dell’opposizione, tentando di sfruttare il vantaggio che gli viene dalla maggiore conoscenza dei meccanismi parlamentari, ma con il rischio di vedersi costretti a “sovrattuare” per non lasciare protagonismo a Podemos.

In ultima analisi, tuttavia, il fatto che il Psoe sia al governo - da solo o come socio minore - in 10 delle 17 Comunità Autonome rende opportuno per i socialisti ricercare la collaborazione con il Governo centrale su diversi temi.

Inoltre il Psoe non ha interesse a una legislatura corta (Rajoy ha già “minacciato” di sciogliere le Camere, qualora impossibilitato a governare), poiché ha bisogno di tempo per riorganizzarsi prima di affrontare nuove elezioni. Ciò pone i socialisti in una posizione delicata, perché in un Paese in cui manca ancora una cultura politica del patto e del compromesso (parola per cui non esiste, in spagnolo, traduzione) qualunque collaborazione con il Pp potrebbe comportare un costo elettorale.

In attesa dei rispettivi Congressi che, nel 2017, ne ridefiniranno strategia e progetto, l’esercizio quotidiano dell’opposizione plasmerà la relazione tra i due partiti che ambiscono all’egemonia della sinistra spagnola, ma che forse semplicemente dovranno imparare a convivere.

Le avvisaglie non sono delle migliori: nei primissimi giorni dall’avvio della legislatura Podemos è parso ossessionato dall’esigenza di differenziarsi - anche nei gesti - dagli altri partiti, mentre il Psoe è sembrato erratico, in assenza di una chiara linea di comando. La partita a sinistra è dunque ancora aperta. Nel frattempo Rajoy governa.

Elisabetta Holsztejn Tarczewski, diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
 

UE: prospettive balcaniche

Balcani
L’Ue scommette sulla Bosnia
Sara Bonotti
21/11/2016
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Un primo sì alla Bosnia che ha visto accolta la sua domanda di adesione all’Unione europea, Ue. Un questionario di pre-accesso della Commissione europea sarà parametro di valutazione dell’eleggibilità alla candidatura, presumibilmente entro il 2017.

Il 20 settembre Johannes Hahn, Commissario europeo per l'allargamento, ha confermato i progressi sulla base di dati economici e standard di vita che hanno imposto a Bruxelles di vegliare sull’agenda delle riforme nel Paese.

Il percorso di adesione, dopo negoziati pluriennali arenatisi nel 2008 - anno della firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione - si preannuncia sofferto: la Bosnia dovrà introdurre riforme strutturali a stato di diritto, amministrazione pubblica, istituzioni politiche ed economia.

L’accordo di Dayton del 1995, compromesso partorito dalla comunità internazionale per porre termine alle ostilità, ha istituito due governi autonomi, di croati e bosniaci da un lato e serbi dall’altro, e un governo centrale con presidenza a rotazione tra tre rappresentanti dei popoli costitutivi. Incertezza sulla via europea deriva proprio dalle divisioni interne in merito alla distribuzione delle competenze tra i vari livelli dell’apparato federale.

Gli ultimi rapporti Ue sulla Bosnia evidenziano inoltre involuzioni nella libertà di espressione e nel sistema giudiziario. Rimane tuttora pendente una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2009 che esige l’allargamento della partecipazione elettorale attiva, per consentire a cittadini non appartenenti alle tre etnie dominanti di candidarsi.

Slancio europeista, ma spinte centrifughe interne
L’apparente paradosso dello slancio in avanti della Bosnia in una fase vulnerabile dell’Ue si spiega con il persistere di dinamiche endogene e spinte centrifughe nel Paese. La prospettiva dell’integrazione europea affievolirebbe quelle retoriche nazionalistiche che tengono l’esperimento multietnico costantemente in bilico.

Ennesimo rigurgito di propaganda anti-statuale emerge dall’adesione plebiscitaria al sì (99,8 %) nel recente referendum promosso dal leader serbo-bosniaco Milorad Dodik in Repubblica Srpska per il mantenimento della Festa nazionale dell’entità statale del 9 gennaio.

La consultazione, dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale bosniaca, minava coesione e competenze centrali con tale intento retrogrado da indurre lo stesso premier serbo Aleksandar Vucic a sconfessarla.

Botta e risposta tra Sefer Halilovic, ex leader militare bosniaco, e Dodik fomentava gli animi. Halilovic intimava: "Con una reazione militare sconfiggeremmo Dodik in 10-15 giorni", mentre Dodik replicava: "Siamo pronti e capaci a difenderci ". La Repubblica Srprska tuttora utilizza il dibattito sull’adesione in chiave strumentale a rafforzare lo status interno e attrarre l’attenzione di Bruxelles.

L’obiettivo Ue rappresenta un potente incentivo a pronunciarsi con una sola voce attraverso meccanismi di mediazione quali incontri di coordinamento, analisi congiunte dei dossier europei e creazione di un’autorità preposta a negoziare con l’Unione. La posta in gioco appare troppo alta per rischiare passi falsi ispirati da particolarismi etnico-territoriali e populismi.

L’Unione risorge dai Balcani
La riapertura del dossier bosniaco rasserena comunque gli orizzonti europei, incupiti dalla “Brexit” e dal disaccordo sul caos migratorio perché, come enfatizza Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera Ue, l’Unione esercita tuttora forte attrazione. La candidatura incarna un valore simbolico come argine per “corsi e ricorsi” storici in ex Jugoslavia e tappa di “de-balcanizzazione” sotto egida europea.

Il rinnovato interesse di Bruxelles sembra governato da maggior raffinatezza strategica nel dare priorità non tanto alle riforme costituzionali ed elettorali, ma piuttosto a materie sociali ed economiche, più attraenti per i cittadini che possono individuarvi, al di là di questioni burocratiche centro-periferia e barriere etniche, reali opportunità di partecipazione dal basso.

La Bosnia possiede un potenziale significativo nel quadro di un complessivo recupero dei Balcani sul piano di risorse umane, patrimonio culturale e artistico e interscambio commerciale con la Mitteleuropa.

La tempesta “Brexit”, la minaccia dell’autoproclamatosi “stato islamico”, la crisi migratoria e l’alternanza di consenso e gelo con il Cremlino inducono i 28 a consolidare il confine orientale del vecchio continente secondo logiche di protezionismo politico. Il fallimento del progetto South Stream, speranza russa di ampliare la sua orbita energetica, è riprova della mancanza di valide alternative all’Ue.

Con Slovenia e Croazia in Europa, la Serbia che sembra aver seppellito tentazioni nostalgiche e scioviniste, Albania e Montenegro che rafforzano il fronte filo-occidentale e la Macedonia alle prese con consueti cavilli di denominazione, la Bosnia è l’anello debole e al contempo nodo cruciale per il destino dei Balcani. La candidatura diviene scommessa inevitabile per l’Europa, perché il suo “ventre molle” smetta di produrre più storia di quanta riesca a consumarne.

Sara Bonotti, Programme Manager Human Dimension, Organization for Security and Co-operation in Europe (Osce), Programme Office in Astana.

lunedì 21 novembre 2016

Difesa: prospettive ottimistiche

Ue post Brexit
Europa della difesa, avanti adagio
Alessandro Marrone
16/11/2016
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La cooperazione nella difesa fa dei piccoli passi in avanti con le decisioni prese dal Consiglio Affari Esteri del 14 novembre, dimostrando consenso e unità su scelte non rivoluzionarie, ma comunque importanti.

I 56 ministri degli esteri e della difesa dei 28 stati membri, poiché i britannici partecipano come gli altri finché non metteranno in atto la Brexit, hanno preso decisioni rilevanti per attuare la Global Strategy on Foreign and Security Policy dell’Ue, Eugs, presentata lo scorso giugno dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Decisioni che riprendono quattro elementi particolarmente rilevanti dall’Implementation Plan della Eugs, proposto l’altro ieri al Consiglio sempre dall’Alto Rappresentante.

Csdp, missioni più ambiziose 
Il primo elemento è l’articolazione del livello di ambizione politico-militare Ue, sulla base dei tre obiettivi posti dalla Eugs: fronteggiare crisi esterne, assistere i Paesi partner nello sviluppare le loro capacità di sicurezza e difesa, proteggere l’Ue.

Riguardo al primo obiettivo, il documento specifica una lista - non esaustiva - di tipologie di interventi militari e civili, tra cui: operazioni in situazioni ad alto rischio nelle regioni circostanti l’Ue; missioni di stabilizzazione, incluse le componenti aeree e di forze speciali; operazioni di reazione rapida, anche usando i Battlegroup Ue; operazioni aeree, sia di sorveglianza che di supporto aereo ravvicinato alle truppe di terra, o per la sicurezza marittima; missioni di addestramento delle forze militari e/o di sicurezza locali, incluse polizia, guardia di frontiera, unità anti-terrorismo, strutture civili.

L’ultima tipologia è strettamente legata al perseguimento del secondo obiettivo della Eugs, il capacity building dei partner, per aumentare la loro capacità di affrontare instabilità e conflitti in loco mitigandone l’impatto sulla sicurezza europea.

Quanto alla protezione dei cittadini Ue, si riafferma che la Nato rimane la pietra angolare della difesa collettiva dei suoi stati membri. L’azione prevista dal Consiglio si articola piuttosto sulla sicurezza dei confini esterni dell’Ue, anche nel contrasto ai trafficanti di esseri umani e nel gestire l’immigrazione irregolare, sulla lotta al terrorismo, la sicurezza cibernetica, l’accesso allo spazio e all’alto mare, la protezione civile.

Nel complesso, si tratta di un forte ampliamento delle tradizionali missioni della Common Security and Defence Policy, in due direzioni. Da un lato, verso l’inclusione di operazioni più pericolose e con compiti di combattimento, dall’appoggio aereo ravvicinato all’uso delle forze speciali. Dall’altro, lungo il continuum tra sicurezza esterna ed interna per affrontare minacce e crisi non strettamente militari, ma rispetto alle quali le forze armate possono dare un contributo, come nel caso della lotta al terrorismo, della gestione dei flussi migratori, del controllo delle frontiere esterne dell’Ue, della cyber security.

Un quartier generale di fatto (ma non di nome)
Come condurre un così ampio ventaglio di operazioni europee? Il Consiglio ha deciso di adattare le “strutture e capacità” del Seae per la “pianificazione e condotta permanente” delle missioni, con due catene di comando militare e civile distinte, ma coordinate.

Tali strutture devono essere in grado di gestire il livello operativo e strategico delle operazioni e di rispondere, al livello politico europeo, al Comitato Politico e di Sicurezza Ue. Di fatto, si tratta del quartier generale permanente chiesto negli ultimi mesi da Francia, Germania, Italia e Spagna, e approvato senza il suo vero nome probabilmente per non suscitare il veto britannico. L’Alto Rappresentante è incaricato di presentare proposte da attuare entro la primavera 2017 per iniziare la sua costituzione.

Pesco, dalle parole ai fatti 
Altro punto su cui avevano spinto i suddetti quattro Paesi core dell’eurozona, nonché altri, era l’avvio della Cooperazione strutturata permanente prevista dal Trattato di Libsona (Permanent Structured Cooperation - Pesco). Il Consiglio Affari Esteri, anche qui superando le obiezioni di Londra e non solo, ha dato luce verde alla Pesco, concordando di esplorarne il potenziale e chiedendo all’Alto Rappresentante di fornire il prima possibile “elementi ed opzioni”.

Su cosa dovrebbe concentrarsi la Pesco? Il Consiglio parla genericamente di “progetti ed iniziative concrete”, che giocoforza riguarderanno l’acquisizione cooperativa di capacità militari e/o il loro mantenimento. Ovvero programmi di ricerca tecnologica, sviluppo e produzione, ammodernamento, di piattaforme e sistemi necessari alle forze armate europee per svolgere le missioni previste.

Ora tocca agli stati membri chiarire che cosa vogliono fare quanto ad investimenti nella difesa, con chi e come sviluppare nuovi programmi di ricerca, acquisizione o ammodernamento di capacità, ma anche le istituzioni Ue hanno un ruolo al riguardo.

Infatti, da un lato l’Agenzia di difesa europea è incaricata dal Consiglio di consultare gli stati membri ed il Military Committee Ue per formulare proposte sullo sviluppo cooperativo di capacità militari, e di rendere il suo Capability Development Plan uno strumento maggiormente in grado di servire a questo scopo.

Dall’altro la Commissione è chiamata in causa per incentivare economicamente la cooperazione tra gli attori nazionali, in vista della presentazione del suo European Defence Action Plan. Diversi sono gli strumenti finanziari nel portafoglio dei commissari Ue che il Consiglio incoraggia, in modo più o meno esplicito, a mettere in campo: un programma di ricerca tecnologica nella difesa da inserire nel prossimo bilancio settennale dell’Unione; la possibilità per la Banca europea degli investimenti di finanziare l’industria della difesa europea tramite lo European Fund for Strategic Investments (Efsi); la creazione del European Defence Fund ventilata recentemente, senza molta chiarezza, dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.

Le Conclusioni del Consiglio, e lo stesso Implementation Plan, non rappresentano il punto di arrivo del processo avviato dalla Eugs nel campo della difesa.

Costituire il quartier generale, istituire la Pesco, avviare programmi cooperativi per lo sviluppo di capacità militari co-finanziati dall’Ue, sono tutte azioni concrete e positive che richiedono però una costante guida e spinta politica. Così come la richiede, in generale, l’avvicinamento delle politiche di difesa dei principali stati membri dell’Ue se si vuole davvero contribuire alla sicurezza europea. Se son rose, fioriranno. Ma se non le si coltiva, appassiscono.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).

venerdì 11 novembre 2016

Le elezioni negli Stati Uniti

Usa2016
Europa, la più sensibile al voto Usa
Riccardo Alcaro
05/11/2016
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Per 70 anni gli europei hanno guardato con curiosità, interesse e qualche volte apprensione alle elezioni presidenziali Usa. Raramente hanno però avuto fondati motivi di pensare che l’esito del voto potesse risultare in una radicale trasformazione del rapporto con l’alleato d’oltreoceano. Quest’anno la situazione è ben diversa.

L’Europa agli occhi della Clinton: un pilastro dell’ordine liberale
Hillary Clinton è persuasa che la sicurezza e la prosperità dell’America derivino dalla sua capacità di mantenere un’economia aperta e fondata sull’innovazione, garantire la libertà di navigazione, rassicurare gli alleati, contenere i rivali, facilitare risposte coordinate a sfide transnazionali, nonché promuovere i valori e gli ideali americani come democrazia e liberalismo.

Agli occhi di Clinton, la leadership della sua nazione è necessaria al perseguimento di questi obiettivi e le alleanze lo sono al mantenimento della leadership.

Quando guarda all’Europa, Clinton vede un blocco di Paesi stabili, affini agli Stati Uniti sul piano politico-culturale e legati a Washington da vincoli di amicizia e dipendenza. La Nato è un fondamentale strumento di controllo e pressione su una Russia sempre più imprevedibile, ostile e aggressiva, e le innumerevoli basi e stazioni militari statunitensi sparse per l’Europa sono essenziali alla proiezione in Africa e Medio Oriente.

L’Ue è anche il principale partner economico degli Usa ed è quindi probabile che Clinton, nonostante il suo recente e tutto opportunistico scetticismo nei confronti del libero commercio, sostenga il negoziato sul Partenariato transatlantico per il commercio e l’investimento, Ttip.

Più in generale, l’Europa rappresenta per Clinton l’altra metà dell’Occidente e un pilastro dell’ordine liberale fondato nella seconda metà del XX secolo. Senza Europa, gli Usa non solo si priverebbero di alleati ricchi e tecnologicamente avanzati, ma anche di partner essenziali nel gestire questioni di governance globale come il riscaldamento climatico, le migrazioni, l’economia, e nel sostenere il primato dei diritti umani e della democrazia come quadro di riferimento normativo globale.

Trump, accordi più che alleanze
Trump dà voce a una percezione degli interessi statunitensi completamente diversa. Per come la vedono lui e i suoi sostenitori, la globalizzazione e il libero commercio hanno favorito i Paesi concorrenti dell’America, in primo luogo la Cina, e le alleanze Usa in Europa e Asia sono un inutile peso sulle finanze federali che non portano vantaggi.

Per Trump le relazioni internazionali ruotano attorno alla forza, militare ed economica, e pertanto ad avere reale efficacia non sono le alleanze, i regimi o le istituzioni multilaterali, bensì gli accordi – i deals, per dirla come lui - tra le potenze che contano. Dal momento che gli Stati Uniti sono la maggiore tra queste potenze, Trump ritiene che dovrebbero sempre essere in grado di ottenere il deal più vantaggioso.

Quando guarda all’Europa, quindi, Trump vede un insieme di Paesi che, in misura variabile, si approfittano della protezione offerta dagli Usa. Trump considera la Nato un’alleanza superata dai tempi e un potenziale fattore di complicazione nelle relazioni tra il suo Paese e la Russia, con cui è persuaso sia necessario raggiungere accordi sulla lotta al terrorismo islamico.

Trump non ritiene che gli Stati Uniti abbiano alcun interesse in Europa orientale e forse sarebbe disposto a dare a Mosca mano libera nello spazio ex sovietico in cambio di cooperazione sul fronte mediorientale. Anche se la possibilità che ritiri gli Stati Uniti dal trattato Nato è remota, è improbabile che investa grandi energie nel rinnovamento dell’alleanza.

Trump non ha alcun interesse a continuare a negoziare il Ttip, né ritiene sia importante per Washington avere un partner nell’Ue - al punto che si è detto favorevole alla Brexit, in netta contrapposizione a Obama, Clinton e buona parte dell’establishment politico, economico e militare statunitense.

Del resto, Trump non crede che si possa dare una governance globale di problemi come il riscaldamento climatico (al cui contrasto in ogni caso si oppone), i flussi migratori (ogni stato dovrebbe chiudere le frontiere), o l’economia globale (ognuno deve pensare a proteggere i suoi mercati). Come detto, per lui le relazioni internazionali si riducono a un’equazione di forza, e pertanto gli Stati Uniti avrebbero in un’Europa unita soltanto un rivale in più.

Relazione transatlantica o rete di rapporti clientelari
In conclusione, con Clinton continueremmo ad avere la solita, noiosa e prevedibile relazione transatlantica. Tensioni occasionali e solite frustrazioni per unilateralismi statunitensi e inefficienze europee non ne muterebbero il carattere di partnership tra leader e alleati. Trump pensa invece a una rete di rapporti clientelari in cui l’America offre favori e protezione in cambio di ritorni diretti e non in nome di beni comuni come stabilità regionale e ordine internazionale.

L’ultima volta che gli elettori Usa scelsero tra visioni tanto diverse del ruolo degli Stati Uniti nel mondo fu nel 1940, quando Franklin Delano Roosevelt prevalse sulla posizione neutralista del suo oppositore e fornì enormi aiuti al Regno Unito in guerra con la Germania nazista. Anche se la situazione è tutt’altra, oggi come allora l’Europa sarà la prima subire le conseguenze del risultato di Usa2016.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca presso lo IAI.

Bruxelles: combattere la burcrazia

Unione europea
Liberalizzazione dei visti, la revisione del meccanismo
Andrea Cofelice
03/11/2016
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Da tempo ormai l’Unione europea, Ue, è in cerca del mix appropriato di incentivi positivi e negativi al fine di incoraggiare i Paesi terzi a collaborare nella prevenzione e gestione degli ingenti flussi migratori (misti) che stanno attraversando l’Europa.

Se commercio e aiuto pubblico allo sviluppo rappresentano le classiche leve politiche impiegate a tal fine, più di recente anche la politica europea dei visti sta assumendo, in maniera sempre più marcata, i caratteri della “condizionalità”.

Visti Ue, clausola di salvaguardia
Tale tendenza è evidente soprattutto in relazione ai processi di liberalizzazione dei visti per i Paesi terzi. A seguito degli sviluppi politici legati alla recente crisi migratoria, infatti, tra gli Stati membri si è diffusa la convinzione che tali processi debbano essere accompagnati da una sorta di clausola di salvaguardia che consenta ai membri dell’Ue: a) di far fronte ad aumenti sostanziali dei flussi migratori (sicurezza interna); b) di “premiare” i Paesi terzi che collaborano con l’Ue nelle politiche di riammissione (azione esterna).

Un primo tentativo di introdurre tale clausola risale al 2013, quando, a seguito della decisione di liberalizzare i visti per i Paesi dei Balcani occidentali, Consiglio e Parlamento decidono di modificare il regolamento 539/2001 che contiene l’elenco dei Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto per entrare in territorio europeo e di quei Paesi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo, per soggiorni di breve durata (ovvero non superiori a 90 giorni su un periodo di 180 giorni).

La modifica introduce un meccanismo di sospensione temporanea dell’esenzione dall’obbligo del visto per i cittadini di un Paese terzo in specifiche situazioni di emergenza, quali quelle determinate da un aumento improvviso e sostanziale della migrazione irregolare, delle domande di asilo infondate o degli esiti negativi dati alle domande di riammissione presentate da uno Stato membro al Paese terzo in questione per i propri cittadini (regolamento 1289/2013).

Ad oggi, tuttavia, tale meccanismo non è mai stato utilizzato, a causa dell’eccessiva (a detta di alcuni Stati) rigidità e durata delle procedure di attuazione. A fronte di tali difficoltà, molti Stati hanno manifestato l’intenzione di considerare il rafforzamento del meccanismo di sospensione come prerequisito essenziale per approvare qualsiasi futuro processo di liberalizzazione.

Nuovo meccanismo di sospensione
Pertanto, nel maggio 2016, a seguito della conclusione positiva dei vari dialoghi sulla liberalizzazione dei visti con Georgia, Ucraina, Kosovo e Turchia, la Commissione ha deciso di presentare un’ulteriore proposta di modifica del regolamento 539/2001, al fine di riesaminare il meccanismo di sospensione e preservare, in questo modo, l’integrità dei processi di liberalizzazione in corso.

Rispetto alla situazione attuale, le novità riguardano, in particolare, tre ambiti. Innanzitutto, sono stati abbreviati termini e periodi di riferimento, consentendo così una procedura di attuazione più rapida e flessibile.

In secondo luogo, alla Commissione è data la possibilità di attivare il meccanismo di sospensione di propria iniziativa (e non più solo su notifica di uno Stato membro), soprattutto se è in possesso di informazioni concrete e affidabili sulla mancata cooperazione in materia di riammissione da parte di un Paese terzo che abbia sottoscritto un accordo di riammissione con l’Ue.

Infine, sono stati estesi i possibili motivi di sospensione: da un lato, infatti, il meccanismo può essere usato non più soltanto in “situazioni di emergenza”, ma, più in generale, quando la liberalizzazione dei visti comporta un serio aumento della migrazione irregolare, delle domande di asilo infondate o degli esiti negativi dati alle domande di riammissione; dall’altro, è stato incluso, tra i motivi di sospensione, l’aumento del numero di esiti negativi dati alle domande di riammissione relative non più solo ai propri cittadini, ma anche ai cittadini di altri Paesi terzi che sono transitati nel Paese terzo in questione, qualora esista uno specifico accordo di riammissione concluso con l’Ue o un suo Stato membro (è fin troppo evidente qui il riferimento all’accordo Ue-Turchia del novembre 2015).

Liberalizzazione dei visti e diritti umani
Il principale aspetto di criticità della riforma risiede nel fatto che la Commissione, nell’ampliare i motivi di sospensione, non si è spinta al punto tale da includere anche una valutazione della situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nei Paesi terzi (tema maggiormente dibattuto proprio in relazione all’accordo Ue-Turchia).

Eppure, si tratta di un criterio che è già normalmente utilizzato, nell’ambito dei dialoghi sulla liberalizzazione dei visti, per valutare l'adeguatezza di un’esenzione dal visto, al pari di questioni legate a sicurezza interna degli Stati membri, ordine pubblico e cooperazione in materia di riammissione. Non è chiaro, dunque, il motivo per cui tali requisiti non concorrano tutti a determinare, in egual misura, le circostanze di un’eventuale sospensione dell’esenzione dall’obbligo del visto.

Dallo scorso mese di maggio, la proposta di riforma è al vaglio dei due co-legislatori europei. Mentre il Consiglio ha sostanzialmente accolto il testo della Commissione europea, la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento, che ha esaminato il testo agli inizi di luglio, ha adottato numerosi emendamenti e proposte di modifica, al fine di introdurre dei meccanismi per assicurare che i diritti umani continuino a essere rispettati nei Paesi che beneficiano di un’esenzione dal visto.

Sarà l’esito dei negoziati inter-istituzionali a determinare se il nuovo meccanismo di sospensione, oltre ad essere più rapido e flessibile, sarà accompagnato anche da un insieme di garanzie e misure volte a tutelare i diritti umani, al fine di garantire una maggiore coerenza tra i principi dell’azione esterna e la governance europea dei visti.

Andrea Cofelice è ricercatore presso il Centro Studi sul Federalismo di Torino e co-editore dell'Annuario italiano dei diritti umani.

Un ponte sull'Atlantico

Commercio internazionale
Ue, Canada e le mirabolanti avventure del Ceta
Eugenio Bortolusso
02/11/2016
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Dopo lunghi anni di dibattito e alcune fibrillazioni dell’ultima ora, Unione europea (Ue) e Canada hanno stabilito i termini di un’audace intesa commerciale, siglata domenica durante un vertice bilaterale a Bruxelles.

Nelle parole dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nello stato dell’Unione dello scorso settembre, il Ceta - Comprehensive Economic and Trade Agreement - è il miglior trattato mai stipulato dall’Europa. In un momento di ‘crisi esistenziale’ del più importante esperimento politico ed economico del Vecchio Continente, la capacità negoziale dell’Unione, foriera di crescita economica duratura, rimane essenziale.

Eppure, la ratifica a livello europeo del Ceta - necessaria per un’applicazione provvisoria del trattato - ha incontrato forti resistenze ufficiali. Il parlamento vallone, rappresentante circa 3,5 milioni di cittadini, ha posto il veto alla firma del trattato da parte del governo belga. Solo dopo un’ultima, logorante trattativa interna si è trovata l’unanimità in vista del summit euro-canadese riprogrammato al 30 ottobre.

Alle origini del Trattato
Il trattato nasce dall’attuale situazione di paralisi in cui versa la strategia multilaterale del commercio internazionale perseguita fin dal secondo dopoguerra. Dopo lo stallo decennale del Doha round iniziato nel 2001, le grandi potenze commerciali planetarie hanno rinunciato a trovare accordi significativi tramite l’Organizzazione mondiale del commercio, optando per la stipula di accordi commerciali preferenziali.

A questa esigenza rispondono accordi transregionali quali il Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), siglato tra stati nordamericani, sudamericani, asiatici e dell'Oceania; il Partenariato Transatlantico per commercio e investimenti (Ttip), in complessa negoziazione tra Stati Uniti e Ue; e il Ceta, per l’appunto. Il testo di quest’ultimo è stato pubblicato nel 2014, dopo sei anni di negoziato. La traduzione in tutte le lingue ufficiali dell’Ue e gli ultimi affinamenti legali hanno richiesto altri due anni.

Il Ceta prevede una profonda liberalizzazione nella circolazione di merci, servizi, persone e capitali. I dazi doganali sulle merci saranno aboliti dopo un periodo di transizione da tre a sette anni, mentre un dialogo legislativo rafforzato attenuerà le barriere non tariffarie.

Dalla liberalizzazione sono esclusi alcuni prodotti agroalimentari, sui quali Canada e Ue vogliono mantenere un riguardo ulteriore. In casi specifici sono previste quote d’importazione e meccanismi di compensazione per i produttori locali. L’accordo prevede inoltre l’incorporazione di 173 indicazioni geografiche già protette a livello europeo, tra cui 41 italiane.

Le aziende canadesi ed europee potranno accedere ai rispettivi appalti pubblici e offrire mutualmente i loro servizi finanziari. Brevetti e proprietà intellettuale riceveranno protezione comune; gli ordini professionali potranno stringere accordi per un riconoscimento automatico in entrambi gli ordinamenti, favorendo la circolazione di lavoratori qualificati.

Il capitolo sugli investimenti include clausole di eguale trattamento e l’istituzione di un apposito tribunale a risoluzione delle controversie tra investitori e stato.

Nell’ultimo riesame del testo si è riusciti ad affinare uno strumento commercialmente necessario ma passibile di utilizzi erronei. Il sistema designato è unico nel suo genere: un tribunale permanente, con possibilità di appello, composto da giudici designati da Ue e Canada tenuti a osservare un rigido codice di condotta, con procedure trasparenti e udienze pubbliche.

Infine, in linea con le recenti riflessioni di public policy sostenute dai due blocchi, nel trattato sono incluse clausole di sviluppo sostenibile, che proibiscono l’abbassamento delle soglie attuali di protezione ambientale per favorire nuovi investimenti o aumentare il commercio.

Fra Ceta e Ttip
L’approvazione del trattato, malgrado l’accoglienza inizialmente tributata al mandato negoziale, ha incontrato difficoltà crescenti. La diffusa ostilità europea al Ttip si è riversata sul Ceta, nonostante le grandi differenze tra gli accordi: a oggi, Stati Uniti e Ue sono fermi infatti sulle trattative di un testo non accessibile al pubblico.

Preoccupazioni per le divergenze tra la normativa europea e quella statunitense, unite a un ricorrente anti americanismo europeo, hanno creato forti movimenti popolari attivi sia nelle piazze sia sui social medi e per i quali Ceta e Ttip sarebbero due facce della stessa medaglia. L’opposizione popolare al Ceta è culminata con le oltre 125mila firme che hanno richiesto l’intervento del Corte costituzionale tedesca. I giudici federali, nel settembre scorso, hanno respinto l’eccezione d’incostituzionalità sollevata rispetto al trattato, non chiudendo tuttavia la porta a possibili cambi di passo in futuro.

Dall’altro lato, gli stati membri dell’Unione hanno mostrato un atteggiamento ambivalente, ricercando una difficile sintesi tra esigenze di politica interna e adesione al progetto europeo. Il vice cancelliere e ministro dell‘Economia tedesco Sigmar Gabriel, esponente di spicco dei socialdemocratici nella Große Koalition di frau Merkel, ha aderito con entusiasmo al Ceta, dopo aver dichiarato in televisione il fallimento dei negoziati del Ttip.

Il governo francese ha mantenuto una posizione equivalente. La Gran Bretagna studia il trattato come una possibile base per le trattative post-Brexit. L’Italia - tramite il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, che già aveva fatto della promozione commerciale il fulcro del suo breve mandato a Bruxelles come rappresentante permanente presso l’Ue - si è distinta per il suo appoggio ufficiale al Ceta e al Ttip.

Un accordo di natura mista
Nonostante l’apparente comunanza d’intenti, gli stati membri - con la notevole defezione ufficiale dell’Italia - hanno diplomaticamente spinto affinché la Commissione europea considerasse il trattato di natura mista (e quindi di competenza condivisa), e non esclusiva, come pure prescritto dal Trattato di Lisbona.

Bruxelles ha acconsentito: il trattato, che nel frattempo sarà applicato provvisoriamente, avrà piena validità solo dopo la ratifica da parte di tutti i parlamenti nazionali (e regionali, ove competenti) che compongono l’Unione. Dopo l’affairevallone, si può immaginare facilmente la tortuosità del percorso di approvazione.

I problemi relativi Ceta non sono altro che irrisolti problemi strutturali nella costruzione europea lungo faglie politiche cruciali, fra politica estera e interna, centralizzazione e regionalismo, tecnocrazia e populismo. Un divario che si allargherebbe ulteriormente se dovesse venir meno la credibilità negoziale dell’Unione.

Eugenio Bortolusso è laureato in relazioni internazionali e si occupa di rapporti transatlantici, sicurezza e commercio internazionale.

mercoledì 2 novembre 2016

Madrid: il ritorno alla normalità

Spagna
Rajoy torna al governo di minoranza 
Federico Delfino
31/10/2016
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E alla fine governo fu. Dopo un lungo processo di negoziazione il Congreso ha finalmente eletto Mariano Rajoy capo del governo. Il leader del Partito popolare, Pp ha poi giurato di fronte al re e per giovedì prossimo è previsto l'annuncio della squadra del nuovo governo.

Fondamentale astensione del Psoe
Nessuna illusione però, l’esecutivo che nascerà non avrà vita facile. Rajoy è stato eletto con la sola maggioranza semplice grazie al sostegno dei liberali di Ciudadanos, degli indipendentisti canari e alla fondamentale astensione del Partito socialista, Psoe, che si è comunque in parte diviso al momento della votazione in aula. Contrari, Podemos, gli indipendentisti baschi e catalani.

Ciudadanos, nonostante la fiducia a Rajoy, ha comunque già annunciato che non sosterrà il nuovo governo, che sarà dunque composto esclusivamente da membri del Ppe che dovrà di volta in volta trovare il compromesso per approvare le leggi.

Da parte sua, il neo premier ha annunciato che non pretenderà un “assegno in bianco”, ma che “offrirà dialogo”. Una situazione del tutto nuova rispetto al passato, quando i governi mono partitici avevano vita facile in seno al Congreso e il compromesso andava tutt’al più trovato all’interno del partito.

Rajoy ha vinto perché a differenza dei suoi avversari è sempre riuscito a mantenersi in sella al Pp, che a sua volta ha dimostrato unità e coesione.

Caratteristiche che sono mancate al Psoe, lacerato all’interno da una guerra intestina culminata con le dimissioni della maggioranza dei membri dell’esecutivo che ha portato alle defenestrazione del segretario Pedro Sánchez, fermo sul no a Rajoy.

Come se non bastasse, al momento della votazione della fiducia, il Psoe si è ulteriormente spaccato con 15 deputati, di cui sette catalani che hanno votato contro.

Podemos unico partito di opposizione vera
Chi sicuramente non appoggerà Rajoy è Unidos-Podemos, il cui leader Pablo Iglesias, alias El Colete, ha organizzato il giorno stesso della votazione della fiducia una manifestazione di protesta vicino al Congreso.

Iglesias stesso ha i suoi grattacapi interni al partito da risolvere. Mentre El Coletesarebbe più aperto a un “compromesso storico” alla spagnola con lui stesso nel ruolo di leader unico della sinistra spagnola, il suo secondo, Íñigo Errejón, vorrebbe aprire il movimento a una linea più trasversale ed inclusiva che raccolga il diffuso malcontento.

Le azioni di Up restano però ancora legate all’evoluzione interna ed esterna del Psoe nei mesi a venire. Molto dipenderà da chi guiderà i socialisti e dal tipo di appoggio che garantiranno a Rajoy. Se il nuovo Psoe andrà verso il centro e appoggerà Rajoy in alcuni passaggi chiave allora potrebbe compromettersi a sinistra spostando parte del consenso dell’elettorato socialista insoddisfatto verso Podemos, che rimarrebbe l’unica alternativa di governo di sinistra.

Costituzione, la migliore alleata di Rajoy
In ogni caso, in tempi brevi Rajoy rappresenta l’unica alternativa di governo per la Spagna. Se l’esecutivo nascerà debole, il migliore alleato per ora sembra essere la Costituzione. Il meccanismo della sfiducia costruttiva (moción de censura constructiva) obbliga il Congreso a presentare la mozione di sfiducia contenente al suo interno il nome del candidato a nuovo primo ministro.

Considerato l’attuale panorama politico e le distanze inconciliabili tra i vari partiti, lacensura constructiva rimane un’alternativa improbabile se non impossibile. Inoltre, la Costituzione garantisce al primo ministro il potere di sciogliere anticipatamente le Cortes e indire nuove elezioni. Un’alternativa che spaventa non solo il lacerato Psoe, ma anche Ciudadanos, che pare stia scontando in termini di consenso l’appoggio concesso all’investitura di Rajoy.

Come già avevo sostenuto in un precedente articolo pre-elettorale su AI, il problema rimane legato non tanto alle dinamiche istituzionali, che come accennato in precedenza garantiscono una certa stabilità al governo, ma bensì al sistema partitico e alla sua capacità di adeguarsi e abituarsi al nuovo scenario politico quadripartitico che obbliga al compromesso e a governi di coalizione.

Psoe e Ciudadanos, astenendosi il primo e votando a favore il secondo, hanno dimostrato di aver in parte capito la “lezione tedesca”. Tuttavia, ritorni elettorali di breve periodo e lacerazioni intestine sembra li abbiano costretti ad osteggiare compromessi di lungo lungo termine.

E primo banco di prova del nuovo governo sarà l’approvazione della finanziaria, argomento sul quale trovare un compromesso sarà ancora più difficile del solito, considerato anche che il Psoe ha già annunciato che voterà contro.

La Spagna avrà finalmente un governo? Per circa un anno è stata questa la domanda che i leader europei, la Commissione e soprattutto i cittadini spagnoli si sono posti.

Federico Delfino è stagista dell’area Europa dello IAI.

Integrazione europea da ripensare

Integrazione europea
Nuove mode: l’Ue non serve più
Cesare Merlini
26/10/2016
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Si sta sviluppando una politologia della disgregazione europea. Sull’ultimo numero di Foreign Affairs è comparso un articolo la cui tesi è che “un’Europa degli stati-nazione sarebbe preferibile alla disarticolata e inefficace Unione Europea di oggi”(1).

La forza del patriottismo
L’autore, Jakub Grygiel del Center for European Policy Analysis, dopo aver condotto un’ampia rassegna delle difficoltà del processo di integrazione e della crescita dei movimenti euroscettici nei diversi paesi, si concentra sulla questione della sicurezza vista dall’angolo americano, per affermare che “Washington non deve temere una dissoluzione dell’Ue. […] Stati pienamente sovrani potrebbero rivelarsi più capaci di un’unione ad affrontare le varie minacce alle loro frontiere.

Solo il patriottismo ha l’attrattiva forte e popolare per mobilitare i cittadini europei contro i pericolosi vicini”. Piuttosto, argomenta il testo, “mentre l’unione si dissolve, crescerà la funzione della Nato nel mantenere la stabilità e dissuadere le minacce esterne”.

Ma la tesi non si limita al campo della difesa. “In un’Europa dei rinati stati-nazione, i paesi continueranno a formare alleanze basate su interessi comuni”. L’esempio portato è quello dei paesi Visegrad che “hanno riunito le forze per opporsi ai piani dell’Ue che li avrebbero costretti ad accogliere migliaia di rifugiati”. In conclusione, “l’Europa sarà capace di affrontare le più pressanti sfide di sicurezza quando abbandonerà le fantasie di un’unione continentale e farà proprio il pluralismo geopolitico”.

La nazione baluardo contro la globalizzazione
In un altro saggio, tratto questo da The International Spectator, Federico Romero, professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, muove dall’analisi del “decrescente ruolo dell’Italia nell’arena internazionale” per osservare che questa “media potenza” ha sempre condotto una politica estera mirante a farsi accogliere nei circoli multilaterali (2).

Solo che, con la fine della guerra fredda, questo approccio ha perso molti dei suoi vantaggi ed è stato compensato “da una grande illusione integrazionista che scontava il declino dello stato-nazione e la crescita di più ampie istituzioni fondate su un’interdipendenza regolata, fra le quali l’Ue allargata emergeva come un modello luminoso”.

Poi è venuta la crisi finanziaria con le sue conseguenze per noi difficili, quali la pressione deflazionista in omaggio all’austerità, il nuovo ruolo dominante della Germania e il difficile consenso sulla politica estera fra i diversi stati membri dell’Unione a 28.

Per cui, secondo Romero, dobbiamo “ripensare in che misura certe grandi convinzioni rispondono alla nostra situazione attuale e prevedibile”. Donde “la possibilità che il nostro stato-nazione, per quanto debole e inefficiente, sia non tanto l’ultima, quanto forse la principale, o anche la sola risorsa per cavalcare le onde della globalizzazione, o almeno resistervi”.

Ripieghiamo con il piano B
Più soft la tesi del terzo testo qui preso a campione: un articolo del noto commentatore Angelo Panebianco apparso sulla rivista Il Mulino (3). Che uno condivida o no, dice l’autore, la sua tesi che un’ulteriore integrazione verso uno stato federale sarebbe “impossibile e persino indesiderabile” perché tale stato potrebbe non essere compatibile con la democrazia, si deve riconoscere che oggi l’Unione Europea è destinata al fallimento.

Quindi occorre un “Piano B”, quale “un’evoluzione in senso schiettamente confederale che, sperabilmente arrivi un giorno a gestire, con metodo intergovernativo, la sicurezza europea […] in una co-partnership con gli Stati Uniti, a controllare i confini comuni, a preservare quel preziosissimo bene che è il mercato comune”. Insomma. dice Panebianco, “si tratta di sperare che la crisi diventi un’opportunità di cambiamento”.

Ma la crisi va ben oltre l’Ue
Le fantasie e le illusioni devono dunque cedere il passo al realismo. Ma il realismo non è esente dall’imperativo di tener conto del contesto complessivo. Il quale ci dice chiaramente che la crisi dell’Unione Europea non è un fenomeno a sé stante, ma è parte e sintomo di una crisi più generale, quella del sistema liberal-democratico, che si manifesta sia nel funzionamento degli stati che a tale sistema appartengono, sia nella coesione multilaterale fra di essi realizzata nella seconda metà del secolo scorso e sia infine nel modo e nella misura in cui si vuole essere modello per altre parti del mondo.

Evidenti sono le patologie di cui soffrono, anche se in misure diverse, le democrazie. A cominciare da quella del paese leader dell’Occidente, dove le campagne elettorali per la primarie e per le presidenziali hanno rivelato atteggiamenti nell’opinione pubblica che non scompariranno quando, a meno di eventi critici che possano influenzare il voto alla sua vigilia, vincerà il candidato rappresentativo della continuità.

Nella circostanza è stata coniata l’espressione “post-truth politics” per illustrare la prassi della distorsione della realtà al fine di catturare consensi. Altro esempio significativo di tale pratica si è avuto nella dialettica che ha portato una maggioranza di inglesi (ma non dei giovani, non degli scozzesi o degli irlandesi del nord) a votare per la Brexit sulla base di slogan non rispondenti, appunto, a verità.

Il gioco del rifiuto, contro la democrazia
La diffusa retorica del rigetto non si limita alle istituzioni di Bruxelles. Ai numeri decrescenti che le indagini di opinione rivelano in materia di consenso all’idea europea, di sostegno dei cittadini alle sue realizzazioni e di fiducia nei meccanismi (comunitari e intergovernativi) dell’Ue, è da accostare il calo di popolarità, talvolta anche maggiore, che stanno subendo i corrispondenti contesti nazionali.

E negli Stati Uniti il grado di sfiducia, quando non di rifiuto, dei cittadini nei confronti della classe dirigente (le famose élites), dei media e delle istituzioni è rilevante quasi quanto in Europa.

Il valore stesso di democrazia è in gioco. Non è un caso che quei paesi dell’est dell’Unione che, con il compiacimento di Grygiel, si alleano contro il principio della solidarietà tradotto dalla Commissione europea in quote di disperati da accogliersi nei paesi membri, siano gli stessi dove si verificano serie derive autoritarie.

Né che oltre oceano i fan di un Trump, che mette in dubbio la regolarità del processo elettorale a cui partecipa, alzino cartelli invocanti l’impiccagione della Clinton.

E poi c’è la questione del futuro dell’Occidente
E veniamo allora al legame transatlantico. L’istituto di opinione Pew ha riscontrato che meno della metà di italiani, francesi e tedeschi è disposta a difendere un paese Nato attaccato dalla Russia. E i populisti tanto citati quando si parla di anti-Europa sono in prevalenza anche anti-americani, non disdegnando alcuni partiti, come quello della Le Pen, i finanziamenti di Putin in cambio di simpatie geopolitiche. Quella di compensare il collasso dell’Ue, o la sua diluizione in formule confederali, con una più salda alleanza con gli Usa sembra sì essere una fantasia.

L’ipotesi di uscita dall’Euro e le riserve contro il mercato unico e le sue quattro libertà fondamentali si confondono con il rigetto della globalizzazione, per investire l’intero libero scambio, che si cerca di regolare con la governance multilaterale. Donde il formarsi di eterogenee alleanze fra destra e sinistra estreme, nonché di movimenti confusamente trasversali quali il nostro Cinque Stelle.

L’Unione Europea non sarà più un modello luminoso - sempre che lo sia mai stato - ma i liberal democratici che al suo interno sono a rischio di estinzione, come in Polonia e Ungheria, o al suo esterno sono a rischio di galera, come in Turchia, guardano pur sempre ad essa come riferimento di riscatto.

Il nazionalismo è crescente nel mondo intero.Il fallimento del più avanzato esperimento di composizione e condizionamento delle sovranità nazionali ne rappresenterebbe la vittoria decisiva, con l’esito di confinare l’Europa - quella degli stati-nazione, a sé stanti o confederati che siano - nell’irrilevanza geopolitica e di limitare seriamente l’influenza americana, dunque rimettendo in questione il futuro dell’Occidente.

(1) J. Grygiel, “The Upside to the EU’s Crisis”, Foreign Affairs, Sept/Oct 2016.
(2) F. Romero, “Rethinking Italy’s Shrinking Place in the International Arena”, The International Spectator, 51/1, March 2016.
(3) A. Panebianco, “Un piano B per l’Europa”, Il Mulino, 4/16. 


Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.