Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 31 marzo 2015

Grecia: un piano dietro l'altro per uscire dalla crisi

Ue/Grecia
Il Piano Merkel di Yanis Varoufakis
Oliviero Pesce
30/03/2015
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Il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ha proposto un nuovo piano di investimenti europeo, che si aggiunge, tra i vari schemi avviati, promessi o inattuati, al cosiddetto Piano Juncker e al più concreto Quantitative Easing (QE).

Il piano avviato dalla Banca centrale europea (Bce) per l’acquisto di titoli di stato europei è l’unico finora di dimensioni adeguate - oltre 1000 miliardi di euro - ad affrontare il problema di “rilanciare la crescita”.

Il Piano Varoufakis rappresenta una forma alternativa di Quantitative Easing: la Banca europea degli investimenti chiederebbe ai governi di guidare un programma per la ripresa, finanziato al 100% mediante obbligazioni dalla stessa Bei acquistate dalla Bce sul mercato secondario.

Varoufakis lo chiamerebbe volentieri, se la Germania vi aderisse e ne permettesse il lancio, “Piano Merkel”. Proposta, vista la provenienza, amaramente canzonatoria e ironica.

I limiti del Piano Juncker e del QE
Il suggerimento di Varoufakis mette in luce i limiti evidenti del Piano Juncker e il fatto che col QE la liquidità immessa nel sistema dalla Bce non si tramuta di per sé in investimenti. Nonché, com’è evidente, che i debiti si rimborsano meglio in una cornice di crescita che non di diffusa anemia e stagnazione.

Mentre si grida al portento se, dopo avere perso negli ultimi sette anni numerosi punti percentuali di Pil, si torna a ritmi di crescita di qualche decimale di punti base all’anno.

Ma l’idea che possa essere la Banca europea per gli investimenti (Bei) a propugnare piani di investimenti dei propri Stati membri, e non questi ultimi – potendo - a effettuarli, trascura tutta una serie di vincoli e di fattori.

In primo luogo, la Bei non ha mai avuto problemi di provvista. Le sue obbligazioni, classificate AAA da tutte le agenzie di rating, godono di un mercato ampio e pronto ad assorbirle nella misura sinora normale, compresa tra 50 e 70/80 miliardi di euro per esercizio.

E mai la Bei, malgrado recenti e reiterati aumenti di capitale, ha accordato prestiti per più di 70/80 miliardi di euro l’anno, erogandone al massimo 60, per limiti tecnici e statutari.

Limiti che non vennero certo imposti negli Anni Cinquanta del Novecento per motivi di austerità, che allora nessuno propugnava, tanto meno la Germania; ma piuttosto per assicurarsi che la Banca operasse con i criteri prudenziali propri del credito.

I limiti e le caratteristiche della Bei
Il più importante limite prudenziale imposto alla Bei dal suo statuto (art.16, punto 5), è che il totale degli impegni derivanti dai prestiti e dalle garanzie accordati dalla Banca non può essere superiore al 250 % del capitale sottoscritto, delle riserve, degli accantonamenti non assegnati e dell'eccedenza del conto profitti e perdite, dedotte le quote di partecipazione, versate o sottoscritte, in altre entità.

Su tale base al 31 dicembre 2013 (capitale sottoscritto 243,3 miliardi, riserve e profitti 36,2 miliardi, per un totale di 279,5 miliardi, meno 5,7 miliardi di partecipazioni), il totale degli impegni non poteva superare 680 miliardi di euro, a fronte di prestiti in essere e da erogare per circa 500 miliardi; un margine operativo di 180 miliardi circa, pari a circa tre anni di attività ordinaria, al lordo dei rientri.

La Banca ha rischiato, in passato, di perdere il rating massimo, in presenza di una massa di crediti di buona qualità e performing, ma rimborsabili da debitori caratterizzati anche da rating assai inferiori.

Per ovviare al problema, e affrontare la crisi europea, sono stati effettuati aumenti del capitale sottoscritto della Banca di oltre il 40% nel 2009 (da 164,8 a 232, 4 miliardi di euro) e di altri 10 miliardi nel biennio scorso, quest’ultimo versato, a differenza dei precedenti, per intero.

Abbandonare criteri prudenziali - tenuto conto che il capitale della Banca è rappresentato in misura predominante da impegni degli stati membri (il capitale versato è pari al 9% di quello sottoscritto) - incluso il rapporto di 9-10 a uno tra prestiti e mezzi propri disponibili - non potrebbe che allontanare dal mercato la Bei, in particolare se fosse la Bce a dovere comprare titoli che il mercato assorbe senza difficoltà in tutto il mondo.

Le questioni vanno quindi affrontate dalla politica, e da una politica europea. Sta all’Unione risolvere i problemi europei, senza devolverli alle banche; e alla Grecia risolvere i propri.

Oliviero Pesce è stato funzionario della Word Bank, direttore centrale del Crediop e amministratore delegato di banche italiane all’estero.

venerdì 27 marzo 2015

EU: l'idea della Unione Energetica

Consiglio europeo
L’Unione energetica alla prova dei 28
Nicolò Sartori
23/03/2015
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La scorsa settimana il Consiglio europeo presieduto dal polacco Donald Tusk si è espresso sul contenuto della comunicazione sull’Unione energetica presentata il 25 febbraio dal vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič.

L’idea dell’Unione energetica - sulla quale l’Esecutivo guidato da Jean-Claude Juncker ha investito notevole capitale politico - è stata lanciata proprio dallo stesso Tusk lo scorso aprile, quand’era ancora premier polacco, alla luce dell’acuirsi del conflitto in Ucraina e dai possibili rischi per gli approvvigionamenti energetici ai paesi dell’Europa centrale.

Nelle loro conclusioni, i capi di Stato e governo dei 28 Stati Ue hanno sostanzialmente avallato quanto proposto dalla Commissione nella comunicazione, ribadendo l’impegno verso le cinque priorità d’azione per l’Unione energetica: sicurezza energetica, solidarietà e fiducia; piena integrazione del mercato europeo dell'energia; efficienza energetica per contenere la domanda; de-carbonizzazione dell'economia; ricerca, innovazione e competitività.

Pur sottolineando la necessità di rafforzare l’azione dell’Ue in materia, il Consiglio europeo non ha però mancato di ricordare la sovranità degli Stati membri e il loro diritto di definire autonomamente i mix energetici nazionali, un elemento che in qualche modo rischia di limitare la portata innovativa dell’Unione energetica stessa.

Il gas (e la Russia) elementi centrali
Il protrarsi della crisi ucraina e l’incerto destino degli approvvigionamenti di gas russo pesano, eccome, sulle scelte del Consiglio europeo. Non è un caso che il primo tema trattato nelle conclusioni sia la realizzazione di progetti infrastrutturali, in particolar modo le interconnessioni per il trasporto dell’elettricità e del gas nelle regioni periferiche del continente, quelle più vulnerabili in caso di interruzioni degli approvvigionamenti energetici.

In quest’ottica l’Unione energetica dovrà garantire la totale conformità alle normative Ue degli accordi per la fornitura di gas tra Stati membri e paesi terzi, rafforzando misure di coordinamento e trasparenza pur nel rispetto delle esigenze di confidenzialità e segretezza fondamentali per un settore complesso come quello energetico.

Tali misure, ha sottolineato lo stesso Tusk, potranno prevenire pratiche di abuso di posizione dominante contrarie al diritto europeo da parte di fornitori esterni (c’è chi legge qui Gazprom), rafforzando concretamente la sicurezza energetica dell’Ue.

Poco o nulla di fatto, invece, per gli acquisti collettivi di gas, uno dei principali cavalli di battaglia dell’ex premier polacco.L’idea di un acquirente europeo rimane per ora in naftalina, mentre si prospetta la creazione di meccanismi volontari che permettano agli Stati membri di aggregare la propria domanda al fine rafforzare il potere negoziale nei confronti dei fornitori pur rispettando le regole europee della concorrenza.

Mercato sì, ma con un occhio alla sicurezza
Tra gli obiettivi del Consiglio europeo non poteva mancare il rafforzamento dei meccanismi di mercato attraverso la completa implementazione e la rigorosa applicazione della legislazione europea in materia energetica. Nulla di nuovo sotto il sole, pertanto, e nessun forte riferimento alla competitività del sistema e alla riduzione del costo dell’energia in Europa.

Il tema dei costi per cittadini e imprese viene trattato in modo tangenziale affrontando la spinosa questione del modello d’integrazione delle rinnovabili nel mercato elettrico europeo.

Le conclusioni sottolineano correttamente la necessità di elaborare un modello decisamente più flessibile ed efficiente di quello attuale - ponendo l’accento sul contributo delle cooperazioni regionali -, che da un lato rispetti le regole europee in materia di aiuti di stato ma che dall’altro non vada a incidere sulla libertà degli stati membri di definire in autonomia il loro mix energetico.

Significativa l’attenzione prestata al rafforzamento del frame work regolatorio per garantire agli Stati membri la sicurezza degli approvvigionamenti di gas ed elettricità. Reti energetiche più robuste, maggiore attenzione all’efficienza energetica e sviluppo delle risorse domestiche sono gli ingredienti principali della ricetta del Consiglio europeo per un mercato orientato in primo luogo alla sicurezza energetica.

Un’Europa energeticamente sostenibile
Non potevano infine mancare i riferimenti alla sostenibilità, per un’Unione che mira a consolidare il suo ruolo di guida globale sui temi delle politiche ambientali e che punta forte sulla sua diplomazia climatica in vista della COP21 di Parigi.

In questo contesto, sarà necessario utilizzare gli strumenti dell’Unione energetica per sviluppare una solida e coerente legislazione in materia di emissioni, efficienza e rinnovabili sulla base degli obiettivi fissati al 2030.

Significativo il riconoscimento da parte del Consiglio europeo della necessità di implementare un sistema di governance efficace e trasparente, un elemento cruciale per il futuro di ogni ambizione europea in materia di energia, ma che finora non è stato trattato a dovere né dalla Commissione né dagli Stati membri nei loro precedenti incontri.

Infine, viene sottolineata l’importanza della dimensione tecnologica dell’Unione energetica, un elemento di assoluta novità inserito tra le priorità d’azione nel documento redatto dalla Commissione Juncker.

Gli Stati membri invitano l’Ue a sviluppare una strategia per la tecnologia e l’innovazione nei settori dell’energia e del clima, un elemento di grande rilevanza non soltanto in ambito interno per ridurre e razionalizzare consumi ed emissioni, ma anche per consolidare leadership europea nel settore in vista dell’appuntamento di Parigi e delle strategie post-2020.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (@_nsartori).

Ucraina: i rapporti difficili con la Transinistria e la Moldova\\\\\\\\\\\\\\\\\

Transnistria
Le spine della sicurezza e dell’economia
Mirko Mussetti
21/03/2015
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La presenza di “peacekeeper” russi in Transnistria, territorio moldavo filo-russo autoproclamatosi repubblica indipendente, non è vista di buon occhio dal governo della confinante Ucraina, che teme mosse militari da parte della Russia a danno della propria sicurezza nazionale.

Tale timore induce Kiev ad attuare misure di sicurezza sui confini transnistriani, come la costruzione di trincee (dall’estate scorsa) e il più recente dispiegamento della Guardia Nazionale e di volontari esperti (ed infiltrabili) già combattenti nel Donbass.

Tali azioni nascono dalla convinzione che la Transnistria possa costituire una minaccia militare per l’Ucraina.

Problemi di sicurezza della Transnistria
In realtà, non prendendo in considerazione i veterani riservisti della guerra del 1992, le truppe presenti nella regione non superano le 1.500/2.000 unità, sono tatticamente e logisticamente isolate, impossibilitate ad effettuare un normale e regolare ricambio degli effettivi e, soprattutto, vincolate al proprio primario obiettivo strategico (difesa di postazioni, obiettivi sensibili, armerie): ingenuo pensare che possano condurre operazioni militari sul territorio ucraino.

È molto più naturale, invece, che sia la Transnistria a sentirsi minacciata e privata di un supporto difensivo adeguato da parte della Russia, per l’isolamento logistico della regione. Anche per questo, i “peacekeeper” russi sono impegnati da mesi in massicce esercitazioni, l’ultima delle quali può considerarsi preparatoria a scenari tipici di una guerra ibrida (esercitazione di piccoli gruppi tattici).

I problemi della sicurezza s’inseriscono in un contesto economico già inizialmente non florido e che, a partire dall’agosto 2014, va sensibilmente peggiorando, come ammette la stessa premier Tatiana Turanskaya.

Ciò è dovuto principalmente alla vicina crisi ucraina e alle misure commerciali e di sicurezza adottate dal governo di Kiev nei confronti della regione: annullamento dei contratti (energia elettrica, cemento, acciaio), aumento dei controlli alla frontiera e una campagna mediatica che mette in cattiva luce l’economia locale, scoraggiando di conseguenza i partner ucraini dall’intrattenere rapporti commerciali.

A questo si aggiunge ovviamente il pesante deprezzamento del rublo russo che di fatto mette i produttori transnistriani nella condizione di non poter esportare con profitto né in Russia né in Ucraina.

Lo stesso ricchissimo oligarca russo Alisher Usmanov ha lasciato la Transnistria e i propri interessi legati alla metallurgia e al cemento, cedendo a gennaio le proprie quote direttamente alle autorità di Tiraspol e lasciando in seria difficoltà l’economia della città di Ribnita.

La crisi economica
Il governo sta cercando di difendere il rublo transnistriano impedendone il cambio valutario, vietando l’uscita della moneta dai confini nazionali e cercando di dotarsi di valuta forte (euro e dollari americani), abbandonando quindi la vecchia e ricorrente idea di adottare il rublo russo come moneta nazionale.

Il deprezzamento del rublo russo nei confronti del rublo transnistriano rende più costoso il sostegno all’economia locale da parte della Russia, che di recente ha rifiutato per la prima volta di concedere un modesto aiuto (pari a circa 100 milioni di dollari) al governo di Tiraspol, non garantendo più l’integrazione in rubli russi alle pensioni sociali.

La stessa Gazprom, pur non sollecitandone il pagamento, vanta crediti nei confronti di Tiraspol pari a circa 5 miliardi di dollari dovuti alle forniture di gas erogate nel corso degli anni.

La legge finanziaria 2015 prevede uscite quadruple delle entrate e in assenza di un aiuto economico da parte della Russia il governo di Tiraspol sarà costretto a operare drastici tagli alla spesa sociale, licenziamenti in massa, aumenti delle tasse e introduzione di nuovi balzelli.

Le già bassissime pensioni sono state dimezzate e l’erogazione degli stipendi ai dipendenti pubblici è attualmente garantita solo a Tiraspol, Dubasari e Ribnita.

La crisi ucraina comporta pesanti contraccolpi sul sistema economico e sociale dell’autoproclamato stato separatista e genera diffidenza, incrementando ulteriormente l’isolamento che da oltre 20 anni contraddistingue la regione.

La desolante situazione economica può, infine, innescare un pericoloso malcontento sociale potenzialmente aggravato da divisioni etnico-linguistiche su cui movimenti politici ultranazionalisti potrebbero irresponsabilmente giocare.

Lo sa bene il governo di Tiraspol che teme infiltrazioni esterne e che pertanto aumenta i controlli alle proprie frontiere sia orientali che occidentali e riorganizza l’organico dei propri servizi informativi e di sicurezza.

Come lo sa bene il governo di Kiev che teme un attivismo terroristico nella provincia di Odessa; e lo sa bene il governo di Chisinau, che non può chiudere le frontiere (significherebbe riconoscere indirettamente la sovranità di Tiraspol), ma è in costante apprensione per la propria popolazione residente nella regione.

Mirko Mussetti è un giovane analista di stampo neorealista. Aree di interesse primario: Est Europa ed Asia Centrale (@mirkomussetti).

venerdì 20 marzo 2015

Europa: analisi sul progetto di esercito europeo

Difesa europea
Il sasso lanciato da Juncker
Vincenzo Camporini
19/03/2015
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Calato il clamore mediatico suscitato, non certo in Italia, dalle dichiarazioni di Jean-Caude Juncker sull'opportunità di costituire un esercito dell'Unione europea, vale la pena di fare qualche considerazione a freddo.

Una prima osservazione riguarda la carica rivestita da Juncker: è il Presidente della Commissione che, in quanto organo comunitario, non ha competenza alcuna in tema di sicurezza e difesa, materie gelosamente riservate all'area intergovernativa; le sue dichiarazioni pertanto costituiscono di per se stesse un segnale molto forte, al limite della provocazione, il che implica che i tempi sembrano maturi per affrontare il tema senza preclusioni concettuali.

Organo in cerca di funzione
Interessante è anche una delle motivazioni addotte, e cioè che "un tale esercito ci aiuterebbe a concepire una politica estera e di sicurezza comune", con un palese rovesciamento logico secondo cui l'organo è destinato a creare la funzione, e non viceversa.

Ci sarebbe da rimanere perplessi, ma prima sarà il caso di considerare quanto sta accadendo nei singoli paesi europei: la crisi economica ha indotto quasi tutti, con pochissime eccezioni, a tagli pesanti nel settore della difesa, effettuati senza la minima coordinazione, con il risultato che tutti hanno tagliato le stesse capacità, miopemente percepite come non più indispensabili.

Così oggi, ad esempio, sono praticamente scomparsi dagli arsenali degli stati membri i mezzi corazzati, salvo poi accorgersi che qualcuno ad Est questa capacità l'ha ben conservata!

Ora apparirebbe saggio, se non logico, che i ministri della difesa dei paesi dell'Unione, per lo meno dei 'willing and able, in un quadro di Cooperazione Strutturata Permanente, come previsto dal trattato di Lisbona, si riuniscano intorno ad un tavolo per concordare in modo coordinato i tagli, così che nel loro insieme i paesi europei conservino tutte le capacità necessarie in misura adeguata.

Sarebbe un modo surrettizio di riprendere il concetto di specializzazione e presuppone un grado di mutua fiducia che, al presentarsi della necessità, nessuno possa o voglia tirarsi indietro: ecco che l'organo darebbe forzatamente vita alla funzione. Vista sotto questa prospettiva, l'affermazione di Juncker non appare poi così fuori dalla realtà.

Protezionismo e mercato unico
Vale la pena di riflettere anche su un'altra delle argomentazioni esposte nell'intervista, quella sull'ottimizzazione della spesa per l'ammodernamento dei mezzi e degli equipaggiamenti: oggi non solo si spende meno del dovuto, ma si spende male e in modo inefficiente, perché nella miope visione protezionistica delle proprie industrie per la difesa, i singoli paesi disperdono le proprie risorse in una miriade di programmi concorrenti, con buona pace del concetto di mercato unico.

Davvero l'Europa aveva bisogno di tre tipi di velivoli da caccia o di tredici veicoli blindati da trasporto truppe, con costi unitari saliti alle stelle e sacrificando il principio fondamentale dell'interoperabilita?

Certo l'Unione non ha fatto molto per stimolare in modo virtuoso il comparto dell'industria della difesa, salvo emanare faticosamente direttive rimaste sostanzialmente inapplicate: basta dichiarare che un programma risponde all'irrinunciabile interesse strategico del paese (come ha fatto la Francia per il futuro blindato!) per eludere i dettami del mercato unico.

Serve quindi un approccio diverso, propositivo e non normativo. Sarebbe così scandaloso se l'Unione in quanto tale, a somiglianza di quanto fatto per il programma Galileo, lanciasse lo sviluppo a fondi comuni del prossimo sistema d'arma complesso, assicurando ai paesi che decidessero di dotarsi di tale sistema benefici come l'esenzione dalla tassazione indiretta e lo scomputo dei fondi per l'acquisizione dal tetto del 3 % del deficit di bilancio?

Le cifre in gioco, riferite agli equilibri finanziari, sarebbero minuzie, ma il segnale politico sarebbe straordinariamente forte e potrebbe costituire l'elemento di discontinuità necessario.

Ecco perché le dichiarazioni di Juncker non sono campate in aria, ma al contrario possono costituire l'avvio di un dibattito che potrebbe portare lontano.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.

lunedì 16 marzo 2015

Italia: il rapporto con Mosca

Italia-Russia
Renzi a Mosca, per il rilancio del ruolo italiano
Andrea Carteny
09/03/2015
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Gli osservatori sono concordi nel considerare la visita del presidente del consiglio Matteo Renzi a Mosca del 5 marzo come un chiaro tentativo di rilanciare il ruolo internazionale dell’Italia.

Naturalmente lo stile e il protagonismo di Renzi caratterizza questa operazione “tattica” con valenze strategiche su diversi scenari, da quello ucraino, a quello mediorientale a quello mediterraneo.

L’Italia tra Ucraina e Russia
Il viaggio del capo del governo italiano si è articolato in una sequenza diplomaticamente ineccepibile: la tappa a Kiev e l’incontro con il presidente ucraino Petro Poroshenko, a cui ha assicurato il sostegno italiano ed europeo, l’arrivo a Mosca e la visita al luogo dell’assassinio dell’oppositore del regime putiniano Boris Nemtsov. Quindi l’incontro con capo del governo della Federazione Russa Dmitrij Medvedev e con il presidente Vladimir Putin

Il viaggio del leader italiano viene riportato dagli stessi organi di stampa russi come una visita per “rompere l’isolamento” di Mosca: tale visione è funzionale al regime di Putin, per dimostrare la validità delle posizioni russe sulla questione ucraina, ma anche al governo Renzi, che dimostra di giocare il ruolo di tradizionale mediatore che Roma svolge nelle tensioni Est-Ovest.

L’Italia di Romano Prodi, poi di Silvio Berlusconi, quindi a seguire di Monti e Letta hanno mantenuto un rapporto bilaterale privilegiato con la Russia di Putin, quale fattore di garanzia per la difesa dei cosiddetti interessi nazionali “permanenti” dell’Italia post-guerra fredda, non solo in ambito di sicurezza, ma anche energetico e commerciale.

Da quest’ultimo punto di vista il mercato russo infatti ha un valore di 10 miliardi di euro per le esportazioni italiane (è la cifra del 2013), ridottosi del 12% l’anno scorso non solo a causa delle controsanzioni russe (che hanno colpito consistentemente le vendite italiane di prodotti alimentari), ma anche della crisi finanziaria e della svalutazione del rublo, conseguenza delle sanzioni occidentali.

Non a caso di primo mattino Renzi incontrava a porte chiuse presso l’ambasciata italiana oltre cento imprese, a cui ricordava che - nonostante le sanzioni - l’Italia rimane il quarto partner commerciale e da questa visita a Mosca le imprese italiane riportano a casa accordi in ambito aeronautico-spaziale (jet, elicotteri, satelliti) e energetico-industriale.

In questo contesto la diplomazia italiana tende a valorizzare i fattori positivi dell’accordo di Minsk, del 12 febbraio scorso, sul conflitto in Ucraina orientale, dove gli scontri pesanti si sono fermati e lo scambio di priogionieri ha permesso di riavviare un sottile filo di dialogo tra le parti in campo.

Sapendo che uno dei nodi più difficili del negoziato riguarderà l’autonomia delle regioni filo-russe, il leader italiano ha citato una best practice italiana: quella dell’autonomia dell’Alto Adige.

D’altro lato il leader russo ha sottolineato il particolare feeling della Russia con l’Italia menzionando il fondo paritetico da 1 miliardo di dollari che Roma e Mosca hanno messo a disposizione (in realtà fin dal governo Letta) per investimenti comuni.

L’Italia vorrebbe più Russia nel Mediterraneo 
Roma, d’altronde, aveva un ottimo alibi per rilanciare in questo momento il ruolo di Mosca a livello internazionale, almeno a livello di Mediterraneo e Medioriente.

L’emergenza terrorismo, insieme con la crisi umanitaria delle migliaia di migranti in continuo tentativo di sbarco in Italia e con l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico in Libia (territori “prossimi” e di interesse strategico per l’Italia), hanno convinto il governo italiano della necessità di trovare alleati in ambito Onu.

Qui Mosca continua ad essere protagonista di qualsivoglia azione internazionale: considerando la delicatezza dello scenario libico (dove francesi e inglesi hanno dimostrato, al tempo dell’attacco al regime di Gheddafi, di giocare una partita in competizione con l’Italia), la Russia di Putin può svolgere un ruolo diretto sia in supporto di potenze regionali implicate nella crisi (in primis l’Egitto del generale Al Sisi), sia di maggiore coinvolgimento per la stabilità del “grande medioriente” (contro lo Stato Islamico, in Siria e Iraq, e per la trattativa sul nucleare iraniano).

La partita che Roma deve giocare al Palazzo di vetro passa quindi per Mosca, oltre che per Washington, Parigi, Londra o Pechino: l’invito (accettato) di Renzi a Putin per l’Expo di Milano il 10 giugno è il segnale che la “partnership privilegiata” tra Russia e Italia può tornare a funzionare davvero, sia per il business sia per la sicurezza del Mediterraneo.

Andrea Carteny è docente di Storia dell'Eurasia presso la Sapienza Università di Roma.
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venerdì 13 marzo 2015

Ucraina: cerchiamo di abbassare i livilli di conflitto nell'interesse di tutti

I limiti del negoziato con Putin
Europa-Russia, la Merkel traccia il solco
Laura Mirachian
08/03/2015
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Il viaggio di Matteo Renzi a Mosca è stato reso possibile dall’iniziativa di Angela Merkel. C’è chi si domanda se il Presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere più duro, o al contrario ancora più concentrato sulla prospettiva degli “affari”. Ma la realtà è che il tracciato della Merkel, stretto, difficile e privo di illusioni, non consentiva deviazioni.

Al termine dell’ultima tornata del Quartetto il 25 febbraio, Merkel è sbottata in una frase mirabile per incisività e sintesi: vogliamo la sicurezza in Europa con la Russia e non contro la Russia, ma per garantire la pace vanno rispettati i confini.

La road map di Minsk
A Minsk, Merkel ha preso non pochi rischi. Negoziando per la prima volta in un inedito ‘Quartetto’ direttamente con Mosca, ma senza Washington, e per conto di un’Europa visibilmente divisa tra quanti per ragioni storiche e geografiche paventano un’aggressione russa e quanti preferirebbero tornare rapidamente agli affari, accettando magari come male minore un altro ‘conflitto congelato’, ha portato a casa un risultato minimo, tutto da verificare nel concreto, ma pur sempre un risultato.

Minsk è l’avvio di un processo. A partire dal cessate-il-fuoco, ritiro degli armamenti pesanti dalla linea del fronte, monitoraggio Osce, scambio di prigionieri, statuisce che l’Ucraina riguadagnerà il controllo delle frontiere orientali con la Russia solo dopo aver organizzato elezioni e negoziato uno ‘statuto speciale’ nelle regioni Donesk e Luhansk, entro il 2015.

La sequenza è cruciale. Più di una pietra di inciampo è contenuta nella concatenazione dei passi da intraprendere. Anche ipotizzando che i primi passi vengano intrapresi, che il cessate-il-fuoco si faccia strada e che vengano ritirati anche armamenti che Mosca sostiene non siano mai confluiti, rimarrebbe la grande incognita della riforma costituzionale da negoziare tra Kiev e i ‘separatisti’.

E peraltro, questi passi sono soggetti alla tentazione dei ‘ribelli’ di perseguire una continuità dei territori orientali (con la Crimea) proprio in vista della riforma costituzionale e del controllo dei confini.

Di più. Perché Petro Porošenko ha in mente una decentralizzazione, e le controparti una federalizzazione che conferirebbe loro un diritto di veto sulle decisioni del centro.

Il meno che si possa dire è che la partita potrebbe avere tempi lunghi, e che occorreranno non pochi interventi del ‘Quartetto’ per venirne a capo. E molti dibattiti in Occidente sull’opportunità o meno di ulteriori sanzioni a Mosca, forniture di armamenti a Kiev, rafforzamento dell’apparato difensivo Nato. E difficili negoziati sull’energia, quella diretta a Kiev e quella che transita da Kiev verso l’Europa. Ma non c’è, allo stato, un piano B.

Il futuro di Putin è il passato della Russia
Cosa ha spinto Vladimir Putin a confrontare di nuovo l’Occidente (Georgia, 2008) in modo così clamoroso, pur sapendo che il prezzo da pagare rischiava di accelerare il declino economico del Paese?

Molti pensano che si tratti di una strategia diversiva per distrarre la gente dai problemi della vita quotidiana e rafforzare il proprio potere. Anche. Ma la risposta è più semplice, addirittura banale.

La forza di attrazione dell’Occidente, e in particolare dell’Europa, è ancora altissima presso coloro che guardano da Est. Interloquire con l’Europa significa accettarne regole e valori, che non sono negoziabili perché frutto di una faticosa conquista e di tragiche vicende del passato.

La Russia di Putin ha rinunciato all’idea scaturita dagli accordi di Helsinki di ‘wider Europe’, che comporterebbe una riedizione epocale, economica e politica, dello Stato, così come all’idea di partecipare alla governance mondiale nel ruolo di gregaria nel consolidamento di valori universali dominati dall’Occidente.

Ha ripiegato verso la logica di Yalta. In altri termini, dividiamoci le sfere di influenza, e separiamo i rispettivi destini. Nulla di più chiaro delle recenti parole del portavoce russo che ne ha esplicitamente evocato il modello, o di quelle dell’ex-Ministro degli Esteri, Igor Ivanov, che, nel rilanciare l’idea di un ‘nuovo ordine mondiale’, ha richiamato il meccanismo di consultazione Mosca-Washington invalso durante la Guerra Fredda. Ancora più esplicito Putin, al congresso sindacale di Soci: no a un mondo unipolare.

La sfida è dunque il ritorno della Russia allo status di grande potenza. In grado di dettare le regole del gioco come attore co-primario, partecipando a pari merito alla governance mondiale e alla “attualizzazione” del diritto internazionale.

Per anni, non a caso, Mosca ha perseguito all’Onu l’adozione di risoluzioni che sancissero i “valori tradizionali”, quale sostanziale attenuazione dei “valori universali” intesi come concepiti e governati dall’Occidente.

Putin semplicemente non vuole “questo” ordine internazionale. A tali condizioni, è disponibile a collaborare nei teatri di crisi del vicinato, contro il terrorismo, e nelle grandi cause della sicurezza internazionale.

Diversamente, sarà acerrimo concorrente entro e fuori del Continente europeo, a partire dal Mediterraneo, avvalendosi del seggio permanente in CdS e di un potenziale militare certo non indifferente.

Percorrere una strada realistica, priva di illusioni
L’assassinio di Boris Nemtsov - chiunque ne sia responsabile - è frutto di un fervore nazionalista incalzante, alimentato e coltivato nel Paese. La Russia è alle prese con i bassi prezzi dell’energia, le sanzioni, la debolezza del rublo, l’arretratezza di un sistema economico basato sulla monocultura energetica, ma non è al collasso.

Putin è all’acme del consenso popolare. Anche l’ultima vittima eccellente verrà gestita con abilità, ricorrendo a un formale rigore legalistico. Un “regime change”, che forse qualcuno oltre atlantico sta immaginando, non è nelle carte.

Ha ragione la Merkel, anche se avremmo preferito che a guidare i negoziati fossero le istituzioni europee. Cerchiamo una via di uscita per questa Russia frustrata e pericolosamente assertiva, senza rinunciare ai principi basilari della nostra cultura politica, ma ribadendo che il recupero del suo ruolo globale non può che partire dal rispetto delle regole, oggi e nel futuro, e non dal suo passato.

Evitiamo i rischi di uno stato permanente di conflitto. Dannoso per tutti noi, per la stessa Russia, per l’Ucraina, e per gli altri Paesi del vicinato, ivi incluso nei Balcani, Caucaso e Asia Centrale, che stanno tentando con difficoltà un bilanciamento nella loro proiezione esterna.

Sensibilizziamo gli Stati Uniti perché rimangano impegnati in Europa, armonizzando con noi le posizioni in un’ottica di realpolitik.

E soprattutto, restiamo solidali tra europei nel perseguimento del tracciato di Minsk, per quanto lungo e difficile, e pensiamo a sostenere l’Ucraina nel cammino delle riforme e della costruzione di uno stato di diritto. Un cammino, con tutta evidenza, altrettanto lungo e difficile.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu Ginevra.
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venerdì 6 marzo 2015

Russia:Leader dell'opposizione assassinato

Il 28 febbraio Boris Nemtsov, leader di spicco dell'opposizione ed ex vice primo ministro, è stato ucciso nel centro di Mosca. Nonostante una grande affluenza per una marcia commemorativa tenutasi due giorni dopo, l'uccisione è improbabile che abbia ripercussioni politiche immediate. Tuttavia, si getta in forte rilievo la violenza sempre più e l'intolleranza del discorso politico della Russia. L'omicidio alza la posta in gioco sia per l'opposizione e chi detiene il potere, e riduce la possibilità che il cambiamento politico potrebbe in futuro essere raggiunto attraverso negoziati pacifici.
L'uccisione sembrava avere le caratteristiche di un successo professionale, ma era anche straordinariamente sfacciato. Si è svolto nel centro della città, in vista delle torri del Cremlino, su uno dei principali ponti che portano a Piazza Rossa. L'area è strettamente controllato dai servizi di sicurezza e il signor Nemtsov sarebbe passato da molte telecamere di sicurezza mentre si dirigeva verso il ponte. Come membro di spicco dell'opposizione, a causa di condurre una "anti-crisi" manifestazione per protestare contro le politiche del governo su Ucraina il 1 ° marzo, può anche essere stato sotto sorveglianza da parte delle agenzie di intelligence.
I critici del Cremlino hanno accusato i funzionari, se non di complicità diretta, che per lo meno di produzione di un clima di odio in cui tale omicidio potrebbe avvenire. Da quando Vladimir Putin è stato rieletto per un terzo mandato come presidente nel 2012, il Cremlino ha usato la mano pesante in modo aggressivo su tutte le forme di dissenso. I media ritrae regolarmente l'opposizione come agenti di potenze straniere intenzionate a destabilizzare il paese, e questa retorica è anche entrato discorso ufficiale. Nel suo discorso il 18 marzo 2014 dopo l'annessione della Crimea, il Presidente Putin ha avvertito della minaccia interna rappresentata da una "quinta colonna" e "gruppo eterogeneo di" traditori nazionali ". Secondo Novaya Gazeta, un giornale indipendente, il canale televisivo controllato dallo Stato NTV tranquillamente cadere un documentario sul link dell'opposizione a servizi segreti stranieri che era a causa di aria il 1 ° marzo.
Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha respinto i suggerimenti di qualsiasi coinvolgimento ufficiale nell'omicidio, descrivendo l'attacco come "pura provocazione".Piuttosto, i funzionari ei media hanno avanzato una serie di teorie plausibili, suggerendo che potrebbe essere opera di forze ucraine radicali o estremisti islamici.Pubblicamente, i ricercatori hanno finora evitato di linee di indagine che collegano l'omicidio di attività politiche del sig Nemtsov. Secondo conoscenti del signor Nemtsov, il politico è dovuto a pubblicare una relazione che illustra prove dettagliate del coinvolgimento della Russia nella guerra in Ucraina.
Dopo l'omicidio del signor Nemtsov, la manifestazione "anti-crisi", che avrebbe dovuto aver luogo, alla periferia della capitale è stata annullata a favore di una marcia commemorativa che attraversava il centro della città. Organizzatori rivendicati circa 50.000 hanno partecipato alla marcia (polizia ha dato una cifra di 15.000). Questo lo rende il più grande protesta pubblica a Mosca dal momento che la manifestazione Bolotnaya piazza nel maggio 2012, che si è conclusa in scontri con la polizia e una serie di prove di attivisti dell'opposizione. Nonostante le dimensioni del 1 ° marzo di protesta, la morte del signor Nemtsov è improbabile che avere ripercussioni politiche immediate oltre aggiungendo al clima di paura e intimidazione che è emerso dopo il ritorno di Putin alla presidenza.
Alzare la posta in gioco
Chiunque fosse dietro l'omicidio del signor Nemtsov, la sua morte evidenzia tendenze pericolose in politica e nella società russa. Durante il terzo mandato di Putin, il discorso politico della Russia è diventato sempre più aggressivo e intollerante. Per molti anni, il Cremlino ha coltivato una serie di attori non statali, nel tentativo di manipolare e la società della disciplina. Come il suo ansia per la minaccia di una rivoluzione in stile Maidan è cresciuta, i gruppi pro-regime hanno acquisito un carattere sempre più thuggish e paramilitare. Alcuni di loro hanno avuto un ruolo diretto nella "guerra ibrido" del Cremlino in Ucraina orientale. Non è difficile immaginare come il discorso ufficiale di "nemici interni" e il sostegno del Cremlino per i gruppi nazionalisti intransigenti potrebbero generare un ambiente in cui l'omicidio del signor Nemtsov potrebbe avvenire.
L'omicidio di un ex vice primo ministro ed ex insider del Cremlino una volta considerato un potenziale successore di Boris Yeltsin come presidente alza la posta in gioco sia per l'opposizione e quelli attualmente al potere. Come ha osservato l'accademico Samuel Greene in un articolo il 28 febbraio, l'omicidio rappresenta una ulteriore tappa nel spostamento del linguaggio con la violenza nella legittimazione del potere. L'uccisione aumenta il costo di opposizione politica, ma aumenta anche il prezzo potenziale di perdere il potere a coloro che attualmente detengono esso. Chi è al potere può essere ora più inclini a usare la violenza per rimanere lì, temendo che altrimenti potrebbero incontrare lo stesso destino Mr Nemtsov. Quelli si oppongono al regime, nel frattempo, saranno visibili meno prospettive di un cambiamento politico pacifico. Questo è un passo potenzialmente pericoloso cambiamento nella politica della Russia, che potrebbe ridurre le possibilità di raggiungere un cambiamento politico attraverso il compromesso e la negoziazione.

TRADUZIONE AUTOMATICA DALL'INGLESE.
 dA eCONOMIST inTELLIGENCE unIT 6.3.2015

Regno Unito:Elezioni 2015: Parlamento appeso, con i conservatori avanti


(traduzione automatica dall'inglese)
Fonte: The Economist INtelligence UNit. 27 febbraio 2015)

Il risultato di prossime elezioni generali del Regno Unito, prevista per il 7 maggio 2015, è una delle più imprevedibili della storia recente. A livello nazionale i sondaggi indicano un aumento in sostegno ai partiti più piccoli, con un conseguente ampio del solito dispersione dei voti. Ciò significa che è altamente improbabile che una delle due parti principali sarà ottenere una maggioranza parlamentare. La nostra previsione di base è che il governo del partito conservatore sarà nuovamente emergere con la maggioranza dei seggi, ma ben al di sotto della maggioranza assoluta. Questa proiezione-soggetto a rischi significativi data la febbrile politico fondale-disegna in evidenza dal livello elettorale sondaggi, che indicano grandi cambiamenti nel panorama elettorale dopo le ultime elezioni, nel 2010. Tra questi, un crollo nel supporto per il Liberal Democratici, perdite significative in Scozia per l'opposizione del partito laburista, e la vulnerabilità dei conservatori al crescente supporto per l'anti-establishment UK Independence Party (UKIP). La nostra previsione assume anche una modesta oscillazione pre-elettorale dal partito laburista. Il tipo di distribuzione dei seggi parlamentari che stiamo proiettando avrà gravi implicazioni per la formazione e la stabilità del prossimo governo del Regno Unito. Ci sarà a breve pubblicheremo la nostra visione su chi formerà il prossimo governo e quanto tempo è destinata a durare.
In sondaggi nazionali di opinione, il governo di centro-destra del partito conservatore e l'opposizione laburista di centro-sinistra hanno una quota storicamente basso combinato del voto, a poco più del 60%. Ciò riflette l'aumento della popolarità di partiti più piccoli come UKIP, che negli ultimi sondaggi ha aumentato la sua quota di voto dal 3,1% nelle elezioni del 2010 al 14-15%. I due partiti principali sono anche in linea di massima parità: vantaggio dei laburisti nei conservatori si è ridotto da circa 7-9 punti percentuali nei primi mesi del 2014 a 0-3 punti percentuali ora. A meno che non vi è una grande svolta verso uno dei due principali partiti prima delle elezioni, che non è quello che ci aspettiamo, nessuno dei due otterrà la maggioranza assoluta, con conseguente un parlamento appeso.
Tuttavia, i sondaggi a livello nazionale possono essere fuorvianti, in gran parte perché il sistema elettorale first-past-the-post del Regno Unito (FPTP) distorce il modo in cui le azioni voto parti si traducono in rappresentanza in parlamento: i partiti più piccoli tendono a ricevere una quota sproporzionatamente piccola quota di seggi in parlamento perché il loro supporto a livello nazionale è troppo sottilmente sparsi in tutto il paese per loro di venire prima in numerosi concorsi a livello elettorale. Per questo motivo, a livello di circoscrizione polling fornisce un indicatore molto più sfumata di quanto non facciano i sondaggi nazionali delle probabili implicazioni del cambiamento degli atteggiamenti degli elettori.
Grandi vincitori e vinti, ma senza maggioranza assoluta
Sondaggi-in particolare a livello di Circoscrizione quelle condotte da Lord Ashcroft, ex vice-presidente del partito conservatore ma ora un rispettato indipendente sondaggista-hanno catturato molto chiaramente alcuni dei più grandi tendenze di questo ciclo elettorale. Uno dei più significativi è il crollo del sostegno al partito di governo minore, i liberaldemocratici, che rischia di perdere la metà o più dei suoi seggi nel 2015 elezioni. Secondo sondaggi di opinione nazionale, il sostegno del partito è sceso dal 23,6% nelle ultime elezioni, nel 2010, ad appena il 6-7% nel mese di febbraio 2015. Questo corrisponde a grandi linee con i risultati di sondaggi condotti da Lord Ashcroft in 114 seggi marginali; i sondaggi indicano che i liberaldemocratici avrebbero perso 22 dei 38 seggi che detiene nei 114 collegi elettorali. Anche se il partito dovesse tenere a tutti i suoi seggi rimanenti, ciò equivarrebbe ad una perdita di quasi il 40% del totale di 56 seggi in parlamento.Factoring in perdite probabile aggiuntivi per il Partito nazionale scozzese (SNP) in post-referendum Scozia (dove i liberaldemocratici attualmente detengono dieci posti), sconfitta nel 50% dei seggi del partito è facile da prevedere. I sondaggi indicano che la maggior parte di questi posti saranno vinti dal partito conservatore.
Il crollo nazionale dei Liberal Democratici potrebbe essere abbinato, se non superato dal crollo del partito laburista che ci aspettiamo in Scozia. La regione è stata a lungo una roccaforte laburista, ma tutto lo slancio politico ora riposa con il SNP dopo il referendum per l'indipendenza che si è tenuto il 18 settembre 2014. Anche se l'indipendenza è stata respinta, il referendum zincato sentimento nazionalista scozzese, e la popolarità del SNP da allora ha continuato ad aumentare. Il partito laburista ora conduce da 10-20 punti percentuali in Scozia, secondo i sondaggi regionali. Secondo un'altra serie di sondaggi a livello di circoscrizione da Lord Ashcroft, lo swing dal Labour al SNP potrebbe avere un impatto drammatico sulla ripartizione dei seggi scozzesi, con la perdita del lavoro ben 35 dei suoi 41 seggi scozzesi al SNP se l'altalena sono stati replicati in modo uniforme in tutta la Scozia.Tuttavia, uno swing uniforme è improbabile, e le circoscrizioni oggetto di sondaggi scozzesi del Signore Ashcroft fosse sbilanciata verso altri distretti pro-indipendenza.Tuttavia, anche se Labour dovesse perdere 25 delle sue sedi scozzesi, che equivarrebbe a un terremoto politico in Scozia e avrebbe probabilmente fa l'SNP il partito di maggior successo in tutto il Regno Unito nel mese di maggio.
Lavoro sarà in grado di compensare le perdite con i guadagni radicali in Inghilterra e Galles. Queste vittorie arriveranno in gran parte a spese del partito conservatore, che è anche destinato ad essere vittima della ondata di sostegno per UKIP dopo le ultime elezioni. Secondo i sondaggi sia da ICM e YouGov, due dei principali istituti di sondaggio di opinione, il 17% di coloro che hanno votato per il partito conservatore nel 2010, ha detto che avrebbero ora votare per UKIP. Solo intorno al 6-7% di coloro che hanno votato per il lavoro nel 2010, ha detto che avrebbero fatto lo stesso.Questo porterà a un cambiamento significativo del numero di seggi detenuti dai due partiti principali dopo il maggio. Ci aspettiamo di lavoro per fare plusvalenze nette su la sua posizione oggi, ma ci aspettiamo che il partito conservatore di emergere dalle elezioni con almeno 20 posti in meno rispetto alla 302 che detiene ora, lasciando più lontano dal garantire i 326 seggi necessari per la maggioranza assoluta in parlamento.
Ciò non significa che si sta per essere più facile per il partito laburista a vincere la maggioranza assoluta. Le sue probabili perdite in Scozia saranno danneggiare gravemente le sue prospettive, anche se fa guadagni significativi dai conservatori altrove. Se Labour perde tra metà e tre quarti dei suoi seggi in Scozia, poi il partito avrebbe bisogno di un guadagno netto di 90-100 posti in Inghilterra e Galles per raggiungere il 326 necessario per la maggioranza (che attualmente detiene 256).Secondo la maggior parte le previsioni, questo è un ordine alto del Lavoro. I proventi netti di circa 40-50 seggi in Inghilterra e nel Galles sono fattibili ma, ipotizzando una perdita di circa il 60% dei suoi posti scozzesi, sarebbe ancora lasciare il partito circa 50 posti a breve di una maggioranza.
I conservatori di uscire in anticipo, appena
Sulle tendenze di cui sopra, né i conservatori né lavoro sono intese a garantire una maggioranza parlamentare, e le due parti potrebbe finire con numeri molto simili di sedili. Ma chi dei due riesce a bordo del concorso e garantire il maggior numero di seggi sarà ben posizionato per entrare governo. Non c'è nulla nella costituzione non scritta del Regno Unito secondo la quale la maggior parte ha il diritto di formare il prossimo governo, ma la cultura politica maggioritaria del paese significa che sarebbe stato difficile per gli altri partiti per formare un governo di coalizione con esclusione del partito "vincente". Un tale governo avrebbe lotta per la legittimità in un paese in cui il sistema politico è orientato verso fornire il partito più popolare una solida maggioranza (una caratteristica del sistema che ha abbattuto con la frammentazione delle intenzioni degli elettori).
A conti fatti, crediamo che il partito conservatore spingerà avanti del partito laburista nelle elezioni generali. In primo luogo, anche se la diapositiva in sostegno per i liberaldemocratici consegnerà posti in più per i conservatori, la minaccia posta al partito UKIP è poco probabile che in molti posti persi. In un recente sondaggio di quattro circoscrizioni marginali conservatori-UKIP, Lord Ashcroft ha scoperto che in ogni caso i conservatori avrebbero mantenere il sedile, nonostante le grandi oscillazioni (compresi tra il 13-25%) nei confronti UKIP. Diversamente l'ondata di sostegno per l'SNP, che si concentra in Scozia e quindi dà il partito nazionalista di una maggiore possibilità di posti da lavoro vincente, la dispersione geografica più ampia di UKIP voti significa che il partito si lotta per battere i conservatori in molte singole circoscrizioni . In ultima analisi, ciò significa che anche una quota 14-15% dei voti maggio potrebbe solo guadagnare UKIP altri due o tre posti, portando la propria rappresentazione totale in parlamento per cinque o sei. Il partito non sarà eccessivamente preoccupati per questo-UKIP è in fase di costruzione di sostegno (in particolare in alcune regioni del nord dell'Inghilterra), e aver raggiunto il secondo posto in molte circoscrizioni nel 2015, sarà in buona posizione per vincere questi seggi nelle elezioni successive .
Un secondo fattore che ci aspettiamo a bordo le elezioni per i conservatori è una più amorfo relativa alle percezioni delle parti e di modelli storici di elettori votanti comportamento come si avvicinano le elezioni. Ad esempio, l'esistenza di "timidi" elettori conservatori è ben-individui affermati che non vogliono ammettere di voto conservatore e così mascherare la loro preferenza se rispondere a un sondaggio sondaggio. Più in generale, gli storici punti di registrare su un altalena frequente il partito in carica negli ultimi mesi di campagna elettorale del Regno Unito. E 'possibile che un pregiudizio tale operatore storico sarà più forte del solito quest'anno, dato che il recupero dell'economia è un fenomeno relativamente recente.
Infine, a nostro avviso i conservatori potranno beneficiare in modo significativo da incertezza elettori del leader del partito laburista, Ed Miliband. Anche se la mancanza di popolarità di Miliband ha ancora deliberato un dividendo significativo per i conservatori, ci aspettiamo che diventi un problema più saliente, come si avvicina l'elezione e la prospettiva di Miliband guidare il paese diventa più concreto. Secondo un sondaggio di Ipsos / MORI nel mese di novembre 2014, grado di soddisfazione netto Miliband si attesta a -44%, il più basso registrato da un leader dell'opposizione nella corsa alle elezioni dal 1978. Detto questo, alcuni dei guadagni dei conservatori da il "fattore Miliband" sono suscettibili di essere compensati da problemi di immagine del partito. Una quota significativa dell'elettorato è profondamente ostile al partito per il suo approccio duro alla spesa pubblica, in particolare dato che molti dei personaggi di spicco dei conservatori sono indipendentemente estremamente ricchi.


Info: geografia2013@libero.it

lunedì 2 marzo 2015

La Georgia e i suoi conflitti: Intervista a Gochia Trinzkilizade

a cura di Federico Salvati

La seguente intervista è stata condotta a Tbilisi a maggio del 2014. Uno degli “officals ” del Ministero degli Interni della Repubblica Georgiana ha accettato di parlare con me in merito ai conflitti Georgiani, una volta saputo che stavo svolgendo un lavoro di ricerca sul Caucaso. La situazione è abbastanza tranquilla Mr Trinzkiladze mi fa entrare nel suo ufficio dopo una breve anticamera. Egli è un omino piccolo dall'aria solare ma dalla maniera in cui tutti si rivolgono a lui si nota subito che sto parlando con una personalità all'interno del Ministero (più tardi verrò a sapere che è a capo di un importante dipartimento del Ministero degli Interni).
Dopo alcune chiacchiere di circostanza e un buon tè la conversazione parte spontanea e l'intervista comincia:

APRIAMO CON UNA DOMANDA ABBASTANZA SCONTATA: PER RISOLVERE UNA CONFLITTO BISONGA ANDARE SEMPRE ALLA BASE DI QUESTO E PARTIRE DAI BISOGNI E DAGLI INTERESSI PRIMARI CHE MUOVONO L'AZIONE. LA MIA DOMANDA È PROPRIO QUESTA: QUALI SONO QUESTI INTERESSI?

È difficile spiegare determinate dinamiche a chi non viene dal Caucaso. Se dovessi individuare il problema con una sola parola direi: riconoscimento. I gruppi combattono per un problema di riconoscimento. In questo momento i russi sono stati più bravi di noi a dare questo riconoscimento e ci troviamo nella situazione attuale.

POCO TEMPO FA HO INTERVISTATO IL PROFESSOR MARSKHILADZE CHE IN RELAZIONE A QUESTA DOMANDA CI HA DETTO QUESTO: PER CAPIRE IL CAUCASO NON DEVI UTILIZZARE HUNTINGTON MA UNA CARTA ETNIGRAFICA. CONCORDA CON QUEST'AFFERMAZIONE?

Assolutamente. Le relazioni tra le persone sono la cosa più importante del Caucaso e non c'è nessuna teoria alternativa che possa spiegare in altro modo le relazioni tra i popoli se non le nostre dinamiche interne.

PASSIAMO AD UNA DOMANDA PIÙ CONCRETA MA PIÙ AMPIA: LA POSIZIONE DELLA RUSSIA.

Questo è il centro della questione. Durante la cronologia del conflitto nel 2008 è chiaro come siano ben presenti delle prove che dimostrano la provocazione russa riguardo la guerra di Agosto. La situazione della Giorgia e il suo rapporto con le nazioni separatiste erano sicuramente in fase di miglioramento prima di allora. Dopo gli eventi del 2008 questi si sono riaggravati facendo dei considerevoli passi in dietro rispetto al punto dove si era arrivati. Partiamo dall'assunto che l'obbiettivo di Mosca è quello di riconquistare il potere e l'influenza persa con la caduta dell'Unione sovietica. L'enigma delle regioni occupate in Georgia è spiegabile semplicemente in quest'ottica. In un primo momento la strategia di Mosca si basava sul riconoscimento delle repubbliche come enti autonomi. Una volta che la comunità internazionale avesse definito queste come “sovrane”, si sarebbe quindi dovuti passare all'annessione dei territori secessionisti tramite “referendum” popolare. La strategia è fallita dal momento che quasi nessun paese ha riconosciuto l'Abkhazia e l'Ossetia come repubbliche autonome. La politica di Mosca in merito è quindi cambiata. Oggi il Kremlino punta soprattutto all'isolamento delle comunità dal resto della Madrepatria........

….....IN QUESTO MODO SI CREA POLARIZZAION E IL CONFLITTO DIVENTA MENO TRATTABILE.

Esattamente. Una volta che la situazione sarà polarizzata la Russia provvederà alla sicurezza di queste “nazioni” (un enfasi particolare sull'inappropriatezza del termine “nazioni” traspare dal tono di voce dell'intervistato ). Questo è dimostrato dalla costruzione di basi russe in territorio abkhazo e ossezo; le quali basi costituiranno l'avamposto della Russia nel Caucaso e in Georgia.

QUAL'È QUINDI LA STRATEGIA D'INGAGGIO DELLA GEORGIA PER QUESTO PRBLEMA.

Dopo il 2008 la Georgia ha adottato una nuova strategia d'ingaggio. A centro di questa c'è il riavvicinamento delle popolazioni attraverso una riconciliazione della base sociale. Centrale nella nostra politica sarà il rapporto con l'UE che è l'unico soggetto che potrà provvedere i mezzi necessari per realizzare il nostro progetto. Democrazia e sviluppo sono le nuove parole chiave per il nostro popolo. Dobbiamo creare opportunità di sviluppo ed un ambiente favorevole al riavvicinamento delle persone tra di loro. Vogliamo creare una Georgia in cui tutti possano vivere beneficiando dei frutti della ricchezza economica che la partnership con Bruxelles potrà darci. Non dobbiamo dimenticare che la Georgia in questo momento ha al suo interno quasi un milione di sfollati e che queste persona hanno bisogno di essere inserite all'interno del contesto sociale in maniera efficace. Non possiamo rischiare di creare altri problemi interni trascurando questa situazione. Al tempo stesso dobbiamo dare una prospettiva di rientro a queste persone altrimenti il ponte tra noi e i territori occupati sarà per sempre reciso. Su questo piano le relazioni con Mosca continuano ad essere complesse. La Russia, soprattutto dal punto di vista mediatico, ha un'azione più diretta è più di successo. Mi diceva prima lei che si è occupato anche del conflitto azero-armeno. La Georgia non è di certo l'Azerbaijan e non abbiamo le stesse risorse che ha questa nazione da investire in tale campo. Nonostante questo il nostro ministero per la riconciliazione si impegna giorno dopo giorno a raggiungere gli obiettivi prefissati con una strategia che noi giudichiamo appropriata e vincente.

QUAL'È DUNQUE IL PROBLAMA PRINCIPALE DA AFFRONTARE ADESSO?

Sicuramente ristabilire la libertà di movimento tra le frontiere. In questo momento tra Ossetia e Georgia ad esempio c'è un solo checkpoint che non è sempre aperto. Il ruolo della missione di osservazione dell'EUMM rimane un'imprescindibile risorsa che non deve essere sottovalutata. Abbiamo bisogno di ristabilire anche un la presenza internazionale sul territorio. Mentre parliamo le frontiere dei territori occupati sono pattugliate da guardie dell' FSB e non si permette che informazioni e notizie entrino o escono in nessuno modo. Per questo motivo noi non sappiamo con esattezza cosa stia succedendo all'interno e quale sia la situazione. Dobbiamo rompere lo stato d'isolamento ma questo è possibile solo con l'appoggio dei mostri partner, l'aiuto della popolazione e della società civile. I russi sanno che quando avremmo libertà di movimento e d'informazione i numeri non saranno più dalla loro parte  e perderanno le leve che hanno acquistato negli anni contro di noi e contro i territori occupati stessi......

….IN CHE SENSO “CONTRO I TERRITORI OCCUPATI STESSI”?

Be, perché in questa storia Mosca è l'unica vincitrice. I territori occupati sono ostaggi delle strategie del Kremlino e si sono ritrovati strumento della politica russa.

PER CHIUDERE UN COMMENTO SULLA SITUAZIONE UCRAINA


La questione ucraina è sicuramente correlata allo scenario georgiano. La situazione si risolverà nel migliore dei modi se la popolazione giocherà un ruolo più attivo al suo interno. Come in Ucraina anche in Georgia, Mosca ha bisogno di una leva si cui appoggiarsi nello scenario. Un ruolo più attivo della popolazione potrà eliminare la leva strategica per la Russia e ricomporre lo scenario.  Non esiste una formula standard per questo ma molto dipenderà dall'impegno sociale. D'altro canto un'azione che dia risultati da parte dell'occidente rimane un fattore irrinunciabile per la buona riuscita della questione.

Federico Salvati federicoslvt@gmail.com

Grecia: alla disperata ricerca di una uscita

Crisi del debito e riparazioni di guerra
La Grecia batte cassa alla Germania
Rodolfo Bastianelli
25/02/2015
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La richiesta di riparazioni per i danni subiti nel corso del secondo conflitto mondiale avanzata da Atene nei confronti della Germania mostra, per l’ennesima volta, come i rapporti all’interno dell’Unione europea (Ue) siano orientati a toni più di confronto che di collaborazione.

Riparazioni di guerra tedesche alla Grecia
Sollevata una prima volta nel corso della campagna elettorale di tre anni fa dal leader di “Greci indipendenti” (Anel), l’attuale ministro della difesa Panos Kammenos, la questione del pagamento delle riparazioni è da allora apparsa prepotentemente sulla scena politica greca ed europea.

Successivamente, nell’aprile di due anni fa, l’allora premier Antonis Samaras incaricò un gruppo di esperti, guidato dal direttore generale della Corte dei conti presso il Ministero delle finanze Panagiotis Karakousis, di preparare una stima delle riparazioni che la Grecia avrebbe potuto richiedere alla Germania.

Il rapporto riservato quantificò la cifra nella somma astronomica di 162 miliardi di euro (pari a circa l’80% del Pil greco), nella quale erano incluse anche le spese sostenute da Atene per la ricostruzione delle infrastrutture attuata nel dopoguerra. Su quali basi giuridiche poggia la richiesta greca e quali effetti provocherebbe un eventuale pagamento dei danni di guerra?

Piano Marshall e indennizzi
Come ha sottolineato un’analisi di Albrecht Ritschl della London School of Economics recentemente riportata dal Wall Street Journal, la pretesa di Atene sul piano legale è molto debole, in quanto le condizioni del Piano Marshall contenevano proprio una disposizione che accantonava ogni decisione in merito alle riparazioni di guerra fino alla firma del trattato di pace.

Lo stesso accordo firmato nel settembre 1990 poco prima della riunificazione tedesca dai governi di Bonn e Pankow e da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna ed Unione Sovietica non riportava alcun riferimento alla questione, dichiarando come le potenze Alleate rinunciavano a tutti i diritti e le prerogative che avevano tenuto fino ad allora in Germania.

Per Berlino la questione dei danni di guerra è chiusa e la domanda è quindi irricevibile. La Germania sottolinea poi come nel 1960 Bonn versò 115 milioni di marchi d’allora a titolo d’indennizzo alle vittime dei crimini di guerra, risarcendo individualmente anche gli internati nei campi di lavoro.

La stessa cifra avanzata dalla Grecia nel rapporto redatto nel 2013 è poi, a detta di molti esperti, da ritenersi inesatta.

Il governo di Atene, difatti, richiede formalmente il rimborso del prestito di 476 milioni di marchi che durante l’occupazione nazista la Banca centrale ellenica fu obbligata a concedere alla Germania e con il quale furono acquistati beni e proprietà greche: un valore calcolabile oggi tra 8,25 miliardi di euro (stima effettuata dal Bundestag nel 2012) e 11 miliardi di euro (stima del governo greco); una cifra elevata, ma assolutamente irrilevante se si pensa come lo stock del debito pubblico greco ammonti a 300 miliardi di euro.

Tsipras mira alla moratoria
La questione è quindi essenzialmente politica, in quanto l’obiettivo del premier Alexis Tsipras e del ministro delle finanze Yanis Varoufakis - convinti come molti altri analisti che il debito di Atene sia insostenibile e di conseguenza non rimborsabile -, sarebbe quello di arrivare a una “moratoria” sul debito sul modello di quella raggiunta a Londra nel 1953, quando fu siglata un’intesa tra il governo di Bonn e i creditori internazionali.

In base a questa moratoria, il debito estero tedesco contratto prima del 1933 sarebbe stato ridotto del 50% e dilazionato in trent’anni, mentre per quello sottoscritto negli anni successivi le condizioni sarebbero state definite da una conferenza convocata subito dopo la riunificazione del paese.

Avvenuta la riunificazione, la conferenza non è però mai stata tenuta e l’accordo “2 più 4” del settembre 1990 prima citato non contiene nessuna disposizione in merito ai pagamenti del debito tedesco.

Nell’ipotesi poi - al momento del tutto irrealistica - che la Germania accettasse di pagare alla Grecia anche una parte delle riparazioni, gli effetti sull’economia europea sarebbero, paradossalmente, assai più eclatanti di quelli provocati da un’eventuale uscita della Grecia dall’euro.

Precedente pericoloso
Il pagamento aprirebbe infatti la strada alle richieste di risarcimento degli altri paesi occupati nel corso del conflitto, a cominciare dalla Francia; richieste che, stando ad una prima valutazione, raggiungerebbero la somma di 2 milioni di miliardi di euro, una cifra pari al 70-80% del Pil tedesco e di fatto insostenibile per la Ue.

Se fosse invece Atene a dover cedere alle condizioni imposte da Bruxelles e dalla “troika” non è escluso che vi possano essere forti ripercussioni politiche in Grecia e che la stessa alleanza tra Syriza e la destra euroscettica e nazionalista di Anel possa entrare in crisi, portando Tsipras a formare una nuova coalizione con l’appoggio degli europeisti di To Potami oppure costringendolo a nuove elezioni.

Rodolfo Bastianelli, giornalista e professore a contratto di storia delle relazioni internazionali, collabora con “L’Occidentale”, “Informazioni della Difesa”, “Rivista Marittima”, “Limes” ed “Affari Esteri”. Ha curato la politica estera per “Ideazione” e la rivista “Charta Minuta” della fondazione “Fare Futuro”.
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L'Energia al centro di qualche novità

Energia
L’Unione energetica tra passato e futuro dell’Ue
Lorenzo Colantoni, Nicolò Sartori
24/02/2015
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Un elemento risolutivo nel panorama tormentato della politica energetica europea, un esperimento ambizioso o semplicemente un nuovo nome per vecchie politiche?

Per sapere che cosa sarà l’Unione energetica bisognerà aspettare la comunicazione con la quale, il 25 febbraio, la Commissione europea chiarirà la sua natura. Quello che è certo è che il vice presidente Maroš Šefčovič guiderà una delle più importanti e dibattute novità introdotte dalla squadra di Jean Claude Juncker.

L’idea dell’Unione energetica è nata lo scorso aprile, su impulso dall’attuale presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. È stata poi accolta ufficialmente nei ranghi della Commissione con la distribuzione delle nomine fatte da Juncker il 10 settembre 2014.

Da allora, le informazioni sulla natura e sul contenuto dell’Unione energetica sono emersi in modo informale, fino alla pubblicazione di un documento di lavoro della Commissione trapelato il 30 gennaio.

Oltre a elencare dodici punti su cui intende focalizzarsi l’iniziativa, questo ha specificato che l’obiettivo dell’operazione è l’unione tra politiche energetiche e climatiche. Un elemento non del tutto inaspettato, se si considera la fusione voluta da Juncker dei portafogli Clima ed Energia della Commissione in un unico Commissario, Miguel Arias Cañete.

European energy trilemma
Nelle intenzioni della Commissione, l’Unione energetica dovrà essere lo strumento per risolvere il cosiddetto European Energy trilemma: unire sostenibilità ambientale, competitività economica e sicurezza energetica. Un proposito non semplice che dovrà sciogliere alcuni dei nodi fondamentali dell’energia in Europa e in cui finora l’Ue ha fallito.

In primis, l’effettiva realizzazione del mercato unico che doveva essere completato già entro il 2014, ma è stato ostacolato dall’incompleta liberalizzazione dei mercati nazionali e le inadeguate infrastrutture energetiche europee.

L’Unione energetica dovrà poi affrontare l’implementazione degli obiettivi su energia e clima per il 2030 che il Consiglio europeo ha deciso il 23 ottobre 2014: 40% di emissioni in meno rispetto al 1990 e un target del 27% per rinnovabili ed efficienza energetica.

Un compito difficile, dato che questi obiettivi sono obbligatori a livello europeo, ma non definiti a livello nazionale. Spetterà alla Commissione coordinare gli sforzi per raggiungere questi obiettivi. Il tutto in un contesto, quello post-crisi, più difficile del 2007, quando l’ultima strategia fu decisa.

Sempre sull’unione di clima ed energia, l’Unione energetica dovrà discutere della riforma del mercato europeo per l’emissions trading system, il sistema europeo di scambio di quote di emission (Ets).

Infine, dovrà affrontare il tema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, ed in particolare la possibilità che l’Unione europea (Ue) agisca come acquirente unico dell’energia che importa, quantomeno nel settore del gas naturale.

Freni all’Unione energetica
I primi ostacoli alla realizzazione dell’Unione energetica rischiano di essere le stesse disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Ue, che - art 194. E artt. 216-218 - attribuisce poteri limitati all’Ue in materia di energia. L’Unione energetica dovrebbe quindi proporre o un’interpretazione forzata o un’inverosimile modifica.

Inoltre, l’iniziativa della Commissione potrebbe soffrire della forte eterogeneità degli Stati membri in ambito energetico e, di conseguenza, delle differenti interpretazioni dell’Unione energetica da parte di quest’ultimi.

Mentre da un lato il Regno Unito tende a escludere poteri legislativi in capo all’Unione energetica, dall’altro la Germania insiste su una governance dell’Unione energetica che non sia semplicemente un soft law process.

L’enfasi su temi quali l’acquirente unico o il mercato del gas rischiano poi di accentuare la natura anti-russa dell’Unione energetica, indebolendone la visione olistica e di lungo termine, una questione già sollevata durante la discussione del pacchetto 2030.

Nome nuovo per vecchie politiche?
Sebbene le sfide siano molteplici, le opportunità non sembrano mancare. Per quanto riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti, l’Unione energetica potrebbe favorire un’azione esterna forte dell’Ue sui temi dell’energia e del clima, convogliando i poteri di un altro Vice presidente della Commissione, l’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Questo potrebbe garantire un approccio olistico nei confronti dei partner energetici internazionali, in particolare con i paesi confinanti con l’Ue.

Sul fronte interno sarà necessario sviluppare un approccio integrato, in cui i meccanismi di solidarietà, l’interconnessione e l’elasticità del sistema siano centrali sia per il settore del gas che dell’elettricità. In questo ambito, l’Unione energetica dovrebbe pensare a stimolare gli investimenti in settori chiave, evitando la dispersione del budget.

Per promuovere questi sviluppi, la priorità è che l’Unione energetica non diventi - volontariamente o meno - un nome nuovo per vecchie politiche e che la Commissione non venga relegata a un ruolo di consulenza o coordinamento degli interessi nazionali, con obiettivi ambiziosi, ma irrealizzabili.

La perdita di competitività europea determinata dal costo dell’energia, le tensioni con paesi fornitori come Russia e Libia, e l’avvicinarsi della conferenza di Parigi sul clima, rendono il momento ideale per un passo storico nella definizione di una vera politica energetica europea che superi - coordinandolo e integrandolo - l’agire singolo dei suoi Stati membri.

Starà alla Commissione dare una risposta a tutto questo, non solo con la Comunicazione del 25 febbraio, ma con il coraggio che dimostrerà negli anni a seguire.

Lorenzo Colantoni è consulente di ricerca dell’Istituto Affari Internazionali.
Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori)
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