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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 21 gennaio 2016

Gran Bretagna: nuovi orizzonti di grande potenza

Gran Bretagna
L’ombra di Brexit sulla grandeur inglese
Stefano Marcuzzi
15/01/2016
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Rilanciare il suo status di grande potenza. È questo il primo obbiettivo di Londra. La Strategic Defence and Security Review, Sdsr, annunciata il 3 novembre scorso dal governo Cameron segna infatti un’inversione di tendenza rispetto a quella del 2010 che tagliava drasticamente gli investimenti in sicurezza e difesa.

Questo avverrà attraverso un approccio che Sir Nicholas Houghton, Capo di stato maggiore, ha definito “olistico”. Dopo un taglio netto (8%) nel 2010, il budget della Difesa crescerà del 5% entro il 2021. L’esercito britannico sarà stabilizzato a 82mila unità e la riserva accresciuta a 30mila.

Verranno create due “Strike Brigades” di 5000 uomini ciascuna, appoggiate da nuovi elicotteri d’assalto Apache. Entro il 2020, l’investimento in equipaggiamenti aumenterà di £12 miliardi (per un totale di 178). Verranno modernizzati i veicoli corazzati Warrior e sviluppati i missili Stormshadow e Brimstone. L’obiettivo è di riuscire a schierare in un’operazione militare 50mila uomini, contro i 30mila schierabili al momento.

Royal Navy e Raf beneficeranno di un aumento di personale (700 unità). Nel 2020 verranno varate le due super-portaerei classe Queen Elizabeth, forti di 42 F-35, e cinque nuove navi da pattugliamento.

Londra manterrà la sua politica di deterrenza nucleare, affidata a quattro sottomarini classe Vanguard. Verranno costituiti tre nuovi squadroni aerei (Eurofighter Typhoons e F-35 Lightnings); nove P-8 da ricognizione marittima sostituiranno il progetto Nimrod; e verranno acquisiti 20 droni Protector. Ben 3,2 miliardi saranno investiti in sicurezza cibernetica, dedicando l’1,2% del budget della Difesa alla ricerca scientifica e tecnologica.

Lacune della Sdsr
Londra intende accrescere la propria resilienza e aumentare la flessibilità e la capacità delle sue forze armate di affrontare guerre asimmetriche in ogni parte del globo con un’autentica indipendenza d’azione. Tuttavia, la nuova Sdsr presenta significative lacune che fanno sorgere dubbi sulla sua reale efficacia.

Il suo programma è strutturato per una realizzazione in cinque anni, ma nel 2020 le minacce che identifica oggi potrebbero essersi evolute in modo imprevedibile.

I tagli previsti alle forze di polizia impatteranno negativamente sulle attività anti-terrorismo, così come la mancanza di significativi stanziamenti alla Border Police.

Inoltre, la flotta F-35per le super-portaerei non sarà interamente disponibile prima del 2025. Le forze anfibie verranno penalizzate: alcune navi, come la HMS Ocean, terminato il servizio, non saranno rimpiazzate. Questo minerà la capacità di condurre operazioni anfibie - e renderà complicato l’eventuale impiego delle Strike Brigades.

Le fregate Type 23 e le cacciatorpediniere Type 45 resteranno in servizio per 35 anni (erano designate per 15), moltiplicando i propri compiti fino al varo delle nuove corvette e fregate Type 26.

I ritardi del programma Successor prolungheranno il servizio dei Vaguard fino agli anni ’30. Gli squadroni Typhoon saranno portati da 5 a 7, ma la riduzione da 24 a 12 degli apparecchi per squadrone implica, di fatto, una riduzione dei mezzi. Nel 2019 il numero di Typhoon sarà calato da 156 a 108; entro lo stesso periodo, 76 Tornado finiranno fuori servizio: il che significa una perdita di quasi il 50% degli aerei da combattimento.

In definitiva, il massiccio investimento nella difesa non accrescerà significativamente le potenzialità operative inglesi nel breve-medio termine, ma solo nel medio-lungo.

Sottovalutata l’interdipendenza tra sicurezza interna e internazionale
Veniamo, infine, al nodo cruciale della Sdsr 2015. I pericoli che essa identifica (terrorismo, emergenze umanitarie e migratorie, l’aggressivo atteggiamento della Russia, minacce cibernetiche, instabilità energetica, cambiamenti climatici) sono globali, non squisitamente inglesi. La Sdsr sottolinea l’interdipendenza tra sicurezza interna e internazionale, ma si stenta a trovare una traduzione di questo principio nella strategia proposta dal documento.

Nel 2010, il ruolo di Londra nella Nato era considerato vitale come supporto agli alleati. Oggi, l’enfasi sembra piuttosto su ciò che la Nato può fare per la Gran Bretagna. Un'incognita ancora maggiore riguarda i rapporti di Londra con i partner europei, dal momento che la stessa appartenenza alla Ue viene oggi messa in discussione.

L’incognita “Brexit” affliggerà quattro aspetti su cui poggia la nuova strategia inglese.

Incognita Brexit 
Primo, il rilancio dello status di “grande potenza”. Se Londra uscisse dall’Ue, Parigi diverrebbe l’unico rappresentante permanente dell’Unione nel Consiglio di Sicurezza Onu, minando la pretesa inglese di restare il più influente attore europeo in quello e altri consessi internazionali.

Secondo, l’atlantismo: gli Stati Uniti hanno incoraggiato l’integrazione e l’allargamento europeo, un’azione unilaterale inglese che minasse, forse irreparabilmente, questo percorso, peggiorerebbe le relazioni anglo-americane.

Terzo, il ruolo-chiave che Londra spera di giocare nella geopolitica europea: una Gran Bretagna fuori dall’Ue difficilmente potrebbe realizzare questo obiettivo.

Infine, la stabilità interna dello stesso Regno Unito: “Brexit” rischia di provocare un altro referendum in Scozia e forse in Irlanda del Nord, a favore della permanenza nell’Ue, determinando scenari imprevedibili.

Benché Londra sia l’unica potenza europea che rispetti i parametri Nato, investendo in difesa il 2% del Pil, e quelli Onu, investendone lo 0,7 in progetti internazionali di sviluppo, l’ombra di Brexit rischia di compromettere seriamente la sua strategia di sicurezza e difesa.

Stefano Marcuzzi, University of Oxford
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Svizzera: nuovi rapporti fiscali con l'Italia

Svizzera
Roma e Berna, nuova intesa sulla fiscalità 
Cosimo Risi
11/01/2016
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Si procede per approssimazioni successive, fra Italia e Svizzera, nel negoziato fiscale della svolta. Lo scorso febbraio i Ministri delle Finanze concordarono la road map di un percorso comune che avrebbe dovuto portare alla sistemazione globale del contenzioso. Scambio d’informazioni in materia fiscale, convenzione contro la doppia imposizione, regime fiscale dei lavoratori frontalieri, status di Campione d’Italia.

Soluzione euro-compatibile
La premessa alla base della road map era l’accettazione svizzera degli standard Ocse sullo scambio d’informazioni, che faceva seguito alle vertenze di alcune banche con il fisco degli Stati Uniti.

Sullo sfondo si profilavano certe misure discriminatorie assunte a livello cantonale riguardo ai frontalieri: l’obbligo di presentare i certificati del casellario giudiziale e dei carichi pendenti (obbligo poi limitato al primo documento); il moltiplicatore delle tasse comunali.

Sullo sfondo ancora si situava la trattativa fra Berna e Bruxelles per una soluzione “euro-compatibile” alla legislazione da adottare nel 2017, a seguito del referendum contro l’immigrazione di massa.

La soluzione “euro-compatibile”, nel linguaggio ormai in uso, significa che bisogna conciliare le limitazioni da apportare alle immigrazioni anche dagli stati membri e la libera circolazione delle persone, una delle quattro libertà dell’acquis europeo di base.

Ai negoziatori delle due parti si è presentato un quadro talmente articolato che soltanto un supplemento d’istruttoria sarebbe stato in grado di chiarire. Il supplemento c’è stato ed è durato sino alla fine dello scorso anno.

Regime fiscale dei frontalieri e doppie imposizioni
Di nuovo chiusa al Ministero Economia e Finanze come nel 2014, e come allora in attesa della pausa natalizia, la delegazione italiana ha scambiato messaggi e documenti in teleconferenza con la delegazione svizzera, a sua volta chiusa in un palazzo federale. Lo scambio di messaggi ha portato all’intesa siglata il 22 dicembre, che sarà sottoposta alla firma dei Ministri quando saranno date certe condizioni. Solo allora il testo sarà reso pubblico, ora bisogna limitarsi ai comunicati stampa diramati da Berna e Roma.

L’intesa di dicembre riguarda il regime fiscale dei lavoratori frontalieri ed un protocollo che modifica le relative disposizioni della Convenzione contro le doppie imposizioni. Contempla per Campione d’Italia un percorso in due fasi: la prima dovrebbe concludersi per l’estate 2016 con una soluzione pragmatica al problema delle imposizioni indirette che la Svizzera applica al Comune italiano; la seconda dovrebbe portare ad una definizione dello status dell’exclave (un punto controverso da decenni).

Le agreed minutes sono accompagnate da due dichiarazioni unilaterali dell’Italia di cui la Svizzera prende nota. La prima introduce una clausola di salvaguardia, che subordina la firma e la ratifica “all’assenza di ogni forma di discriminazione ed all’individuazione di una soluzione euro-compatibile” al risultato del 9 febbraio 2014.
La seconda riguarda le infrastrutture di trasporto di particolare interesse per le zone frontaliere e per il grande asse nord-sud segnato dal sistema di base di Alptransit, fra cui la galleria ferroviaria del San Gottardo in procinto di essere inaugurata a giugno per divenire operativa a dicembre.

Comitato congiunto su Campione d’Italia
Le delegazioni si sono date appuntamento per metà gennaio per costituire il comitato congiunto su Campione e scambiare le prime valutazioni circa i tempi della firma. La complessità dello schema si spiega con la complessità delle trattative.

La road map aveva ottimisticamente fissato all’estate 2015 la fine delle trattative. Queste sono slittate all’inverno senza peraltro concludersi del tutto. Fra i fattori d’incertezza spicca l’andamento della trattativa con l’Unione europea per la soluzione “euro-compatibile”. È auspicio generale che la soluzione si trovi: che la Svizzera resti collegata al quadro europeo e la rete degli accordi bilaterali si confermi e si allarghi.

La determinazione mostrata nella lunga stagione 2015 accende la speranza per il 2016.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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lunedì 11 gennaio 2016

A LUGLIO 2015 DISOCCUPAZIONE STABILE NELL’AREA OCSE


Nell’area Ocse, che comprende 34 paesi, il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 6,8%. Dal picco di gennaio 2013, 8,1%, la riduzione del tasso di disoccupazione è scesa del 1,3%. LA disoccupazione giovanile (età tra 15-24 anni) è scesa dal 14,3 al 14%.Solo sei paesi registrano una dissocupazione a doppia cifra: Spagna 22,2, Portogallo, 12,1, Italia 12, Slovacchia 11,7, Francia 10,4 e Grecia di cui non si dispone del dato di luglio, ma sicuramente a doppia cifra ( a giugno era del 25%). LA Turchia non ha comunicati i dati, ma si presume che sia inotnro al 10%
Il tasso di disoccupazione lo si registra in Giappone (3,3%) in Corea del Su (3,7%) in Islanda ( 4,1%) Messico (4,4), ed in Germania ($,7)
L’Italia ha avuto il maggiore  calo di disoccupati (143.000) seguita dalla Spagna (57000) e dalla Corea del Sud (43000)
Nell'area OCSE il numero delle persone in cerca di lavoro sono 41,6 milioni, circa 7,3 milioni in meno rispetto a luglio 2008 vigilia della crisi economico-finanziaria scoppiata negli Stati Uniti

Massimo Coltrinari


giovedì 7 gennaio 2016

Russia: Mosca è tornata ad essere protagonista

Medio Oriente
Sempre più Russia in Siria
Mario Arpino
06/01/2016
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Se per Barack Obama Putin sta trascinando la Russia in un futuro pantano siriano, l’immagine che balza agli occhi degli esperti - evidenza condivisa in privato anche da funzionari governativi e della Nato - appare, almeno al momento, alquanto diversa.

Militarmente la missione è bene organizzata, dotata di mezzi e relativi sistemi di comando e controllo efficienti e opera secondo obiettivi tattici ben definiti. Anche la strategia è bene in linea con gli obiettivi a lungo termine appena annunciati da Vladimir Putin con il suo nuovo piano strategico nazionale: “…la priorità della Russia è confermare il suo status di potenza globale di primo piano”. Quindi, nessun arretramento. Il riferimento ad Ucraina e Siria è piuttosto chiaro.

Incremento strisciante
Tuttavia, siccome di fronte alla realtà operativa “nessun piano si è mai rivelato davvero valido”, è probabile che la Russia si sia ben resa conto di come, in Siria ma anche altrove, alla distanza solo un intervento concomitante aereo e di forze terrestri sia in grado di influenzare la situazione in favore del regime alauita. Quindi, proxi e Forze Speciali.

L’ “endgame non cambia”, dice Yuri Barmin, analista politico intervistato da The Moscow Times. “Mosca vuole che il regime di al-Assad sopravviva, e per questo - sebbene nelle sedi diplomatiche ostenti moderazione e continui a giocare su ogni tavolo - continuerà ad investire risorse consistenti per garantire la riuscita dello sforzo operativo”.

Ad esempio, inizialmente erano stati schierati solamente pochi aerei da combattimento (poi aumentati a 30) e 20 elicotteri multiruolo sull’aeroporto di Latakia, tenuto da forze del regime. In novembre,la Russia incrementava la campagna aerea con 25 bombardieri strategici, alcuni dei quali già a suo tempo impiegati in Afghanistan, come il quadrimotore turboelica Tu-95.

Offensiva militare e diplomatica
La decisione di introdurre in teatro i bombardieri strategici era stata nominalmente fatta passare come risposta all’abbattimento dell’aereo civile nel Sinai. Vladimir Frolov, altro esperto russo intervistato da The Moscow Times, è convinto che la Russia sia invece ben determinata a prevalere comunque, mettendo già nel conto un impegno assai lungo.

La macchina diplomatica lavora di conserva. Dopo gli attentati a Parigi, la Russia coopera con la Francia sopra tutto per facilitare un accordo operativo con la coalizione occidentale, che opera nel medesimo spazio aereo. Ed è merito della diplomazia russa se il 25 gennaio, alla ripresa dei colloqui di Ginevra, al tavolo sarà presente anche il governo siriano.

Parallelamente, dopo l’abbattimento da parte turca del Sukhoi-24 russo, il potenziamento prosegue con l’aggiunta di sistemi missilistici S-400, basati a Latakia, in grado di assicurare copertura antiaerea allo spazio aereo siriano, e la scorta ai bombardieri con caccia supersonici Su-30. Ciò vanifica l’obiettivo turco di creare nell’area nord della Siria una “no-fly zone”.

Tra i graduali potenziamenti, va anche ricordato che a inizio dicembre un sommergibile della classe Kilo, posizionato davanti alle coste siriane, ha lanciato diverse salve di missili cruise verso aree non precisate, mentre al largo dell’isola di Lemnos (Egeo) il cacciatorpediniere Smelivy sparava colpi di avvertimento in direzione di un peschereccio turco che attraversava la rotta. “Mosca sta ora tentando di rispondere ad Ankara anche sul terreno, con attacchi contro i gruppi di guerriglia supportati dai turchi”, sentenzia il già citato Yuri Barmin.

Si profila un doppio fronte
“Mentre prima dell’incidente la Russia stava cercando di fare pressioni sulla Turchia per persuaderla a lasciare al-Assad al potere almeno temporaneamente, ora sta già facendo mostra di procedere senza tenere in alcun conto la posizione turca al riguardo”, aggiunge l’analista.

Ricordando la vecchia campagna in Afghanistan, combattere questo tipo di guerra senza dubbio implica la consapevolezza di dover impegnare le forze in Siria molto a lungo, considerando anche che i progressi territoriali di al-Assad sono lenti e discontinui. Ma ci sono. Ciò spiega, in parte, gli incrementi.

Nel contempo, circolano voci non confermate sulla presenza di carri armati russi T-90 ben oltre i limiti dell’area di Latakia, perimetro entro il quale erano stati collocati a difesa terrestre della base. Questo non significa che Mosca si stia già impegnando direttamente sul terreno, ma rende evidente che la campagna aerea “concomitate”con la battaglia terrestre di al-Assad e delle forze che lo sostengono continuerà ad espandersi anche nel prossimo futuro.

Lenta “afghanizzazione” del conflitto?
Ritornando a Frolov, la Russia non corre ancora il rischio di essere accusata di protezione “sproporzionata” delle sue installazioni e dei suoi mezzi, ma resta il fatto che l’ambiguità turca e la situazione di semi-stallo sul terreno - con il conseguente incremento del supporto militare - stanno a ben significare che i russi non prevedono, né ora, né per il futuro, alcuna strategia di uscita. Il biglietto sembra essere di sola andata.

Barack Obama invece ritiene che, con questo continuo potenziamento e allargamento, la Russia finirà per incagliarsi in uno scenario di tipo afghano. Nessuno lo può escludere. Ma, al momento, sembra che ad esserne convinto ci sia solo lui.

Ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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domenica 3 gennaio 2016

Gran Bretagna: i difficili rapporti con Bruxelles

Gran Bretagna
Brexit, gli strumenti giuridici per un accordo
Gian Luigi Tosato
27/12/2015
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Le richieste del governo britannico ai partner dell’Unione sollevano problemi di contenuto e di forma circa l’accordo da raggiungere. Evidentemente sono problemi collegati. Certi contenuti si possono attuare solo utilizzando determinati strumenti giuridici; per converso, questi ultimi condizionano i contenuti che in essi si possono versare.

Gli strumenti giuridici utilizzabili
La via maestra sarebbe una revisione dei Trattati, necessaria anche per la modifica o aggiunta di Protocolli (che hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati). Né potrebbe bastare una procedura di revisione semplificata che non copre le modifiche in discussione.

I tempi di una revisione ordinaria non sono però in linea con quelli del referendum britannico. Ci si dovrebbe quindi limitare a una dichiarazione solenne, con l’impegno di attuare dopo il referendum il piano di riforme prestabilito. Non si tratterebbe peraltro di un atto giuridicamente vincolante, altrimenti da assimilare a una revisione dei Trattati (con le relative conseguenze).

Si prospetta a questo punto un corto circuito. Il premier David Cameron vorrebbe portare al referendum un accordo fermo e vincolante. Gli impegni degli altri Stati membri sono però necessariamente in funzione di un esito positivo del referendum.

Si prospetta quindi l’esigenza di un doppio condizionamento: le riforme dell’Unione subordinate a un sì referendario, e quest’ultimo condizionato a sua volta all’attuazione del piano di riforme concordato. Anche una soluzione del genere richiederebbe un preventivo interpello dei parlamenti nazionali, ma in forma più rapida e agevole rispetto alla procedura di revisione.

Altro problema è quello relativo al modo di attuare successivamente il piano in precedenza concordato. Non si deve pensare in ogni caso a una revisione dei Trattati: potrebbero bastare accordi inter-istituzionali o anche solo dichiarazioni interpretative dei Trattati o dei Protocolli.

La governance economica e il mercato unico
Il governo britannico invoca principi giuridicamente vincolanti per dare atto che: nell’Unione esiste più di una moneta; gli Stati non euro non devono subire discriminazioni, né essere vincolati da decisioni degli Stati euro; gli sviluppi dell’Eurozona non devono pregiudicare l’integrità del mercato unico; le questioni di interesse generale devono essere decise da tutti gli Stati membri.

Questi principi non sono estranei all’ordine giuridico attuale dell’Unione. L’euro è la moneta dell’unione monetaria: in principio tutti ne dovrebbero far parte, ma Regno Unito e Danimarca godono di un’esenzione permanente; e, anche senza esenzioni, un Paese (la Svezia) se ne tiene deliberatamente fuori.

L’Unione comprende dunque in fatto e in diritto più di una moneta. Quanto ai rapporti fra Stati euro e non euro, va da sé che i primi non possono adottare misure obbligatorie o onerose per i secondi, che deve essere rispettata l’integrità del mercato unico, che decisioni rilevanti non solo per l’Eurozona necessitino il concorso di tutti gli Stati membri.

Si tratta di principi generali, desumibili dai Trattati, puntualmente richiamati negli atti degli Stati euro e tutelabili in via giurisdizionale. Le richieste britanniche in materia possono essere dunque soddisfatte con una dichiarazione puramente confermativa della situazione esistente, senza particolari formalità a livello nazionale.

La conclusione appena delineata vale a fortiori per le richieste in materia di mercato unico. Non sono certo in contrasto con i Trattati politiche che promuovano crescita, produttività, occupazione; che mirino a frenare normative non necessarie, a ridurre oneri e vincoli per le imprese, a incentivare la competitività dell’Unione nel suo insieme, a perseguire strategie commerciali di apertura verso i mercati esteri.

I Trattati non si oppongono, anzi favoriscono politiche del genere. Queste possono essere dunque ribadite, senza particolari requisiti formali; ma resta necessario il bilanciamento nell’Unione fra libertà economiche e diritti sociali.

Tutela della sovranità nazionale
Qui le questioni sollevate sono tre: l’esonero formale e definitivo del Regno Unito dall’impegno per “un’unione sempre più stretta”; l’attribuzione ai parlamenti nazionali del diritto di bloccare legislazioni europee non gradite; un’applicazione del principio di sussidiarietà che limiti l’intervento europeo ai soli casi di effettiva necessità.

L’obiettivo di “un’unione sempre più stretta” forma oggetto nei Trattati di una norma programmatica, di per sé non costitutiva di obblighi specifici. Non c’è dubbio tuttavia che, specie se combinata con il generale dovere di leale collaborazione, essa crei l’obbligo per gli Stati membri di adoperarsi in vista di quell’obiettivo.

Il Regno Unito non pare essersi conformato fin qui a tale obbligo, senza peraltro incorrere in contestazioni formali. Per l’esenzione esplicita ora richiesta serve tuttavia un apposito Protocollo o un’integrazione di quello sull’euro. Non basta infatti una dichiarazione per quanto solenne e collettiva.

In principio, un’integrazione di Protocolli esistenti appare necessaria anche per l’attribuzione della c.d. “red card” ai parlamenti nazionali. Potrebbe peraltro soccorrere anche un accordo inter-istituzionale a tre (Commissione, Parlamento Europeo, Consiglio), con l’impegno di non dare seguito a proposte legislative contestate da una maggioranza qualificata di parlamenti nazionali. Gli accordi inter-istituzionali - come è noto - sono previsti e autorizzati dai Trattati e possono assumere efficacia vincolante.

Una semplice dichiarazione interpretativa deve ritenersi per contro sufficiente sul punto della sussidiarietà. In effetti già dai Trattati si desume che, fin dove possibile, il legislatore nazionale prevale nell’esercizio di competenze concorrenti. È vero che nella prassi si propende piuttosto per la legislazione europea, ma si tratta di ricondurre la sussidiarietà a un’interpretazione più rispettosa della sua funzione originaria.

Limiti alla circolazione intra-comunitaria delle persone
Il governo britannico invoca limiti in materia per frenare sia abusi del diritto di libera circolazione sia flussi nel Paese di dimensione abnorme e non prevista. Propone, fra l’altro, che i benefici del welfare per chi entra nel Regno Unito siano subordinati a previe contribuzioni per almeno quattro anni.

La questione è assai delicata. Si dovrebbe introdurre, con apposito Protocollo, un regime speciale per il Regno Unito. Per giustificarlo, il governo britannico sembra appellarsi alla nota clausola rebus sic stantibus (i flussi imprevedibili di cui si è detto). Ma la libera circolazione intracomunitaria delle persone costituisce un elemento essenziale dell’Unione e del mercato unico.

Appare dunque giuridicamente problematica una disciplina derogatoria; dovrebbe trattarsi comunque di una disciplina temporanea, a livello di norme primarie o secondarie che non discrimini fra cittadini europei a seconda della loro nazionalità.

I rilievi fin qui svolti - preme sottolinearlo - attengono unicamente agli strumenti giuridici utilizzabili a fronte delle richieste britanniche. Non entrano minimamente nel merito di tali richieste, sulla opportunità o meno di accoglierle e, quindi, sul contenuto di un eventuale accordo.

Gian Luigi Tosato è Professore Emerito di Diritto dell’Unione Europea, Università “Sapienza” di Roma.
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