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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 27 febbraio 2014

Ucraina: i giorni del braccio di ferro

Ucraina
Quo vadis Kiev?
Gian Luca Bertinetto
25/02/2014
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Sarebbe stato difficile tre mesi fa pensare che le manifestazioni di Euromaidan potessero durare fino ai tragici scontri che hanno portato alla caduta del Presidente Yanukovich.

Per noi occidentali, la comprensione degli avvenimenti in Ucraina è resa difficile dalle avverse propagande, ma sopratutto dalla disinformazione esercitata da fonti filo-russe (secondo una tradizione che risale ai tempi dell’Urss). Per facilitare un giudizio sugli avvenimenti, conviene cercare di fare chiarezza su alcuni aspetti.

Davanti a un bivio
L’Ucraina si trova di fronte alla scelta fra avvicinarsi all‘Europa occidentale o rientrare nell’orbita russa. Di solito ci si limita a descrivere semplicisticamente un Paese diviso in due: una parte occidentale che guarda all’Europa e una sud-orientale che guarda alla Russia.

Per meglio comprendere la realtà, occorre distinguere almeno cinque zone (Ucraina occidentale, centrale, sud orientale, sud-occidentale e Crimea), in ciascuna delle quali si mescolano varie tendenze, in proporzione diversa. Ci sono patrioti fieri della loro lingua e altri meno sensibili alla questione linguistica, ma aperti all’Occidente. C’è poi chi si sente ucraino, ma restano nostalgico dell’ultimo periodo sovietico ed altri legati alla Russia per motivi culturali ed economici. Vi è infine una minoranza (circa 12%) di etnia russa (concentrati nel sud-est ed in Crimea).

Tirando le somme, si può ritenere che una buona maggioranza della popolazione guarda all’Europa, e la percentuale sale molto fra i giovani. Restano però contrapposizioni molto pronunciate, per il peso della tragica storia del secolo scorso.

Protesta filo-europea
La protesta filo-europea nasce dall’aspirazione di trasformare l’Ucraina da un Paese post-sovietico, in mano ad oligarchi avidi e corrotti, in una moderna democrazia. I primi a rispondere all’appello sono stati giovani e studenti, presto raggiunti da gente di ogni settore della società, piccoli imprenditori, intellettuali.

La richiesta di Europa è stata presto associata alla rivendicazione dell’indipendenza ucraina: per un Paese che si sente minacciato da un potente vicino, la difesa dell’indipendenza non è di per sé espressione di nazionalismo, ma rientra nelle aspirazioni che hanno spinto i paesi europei a ricercare nell’integrazione il superamento dei nazionalismi.

È stata l’immediata, dura reazione governativa a radicalizzare la protesta. Nella convinzione che solo manifestazioni massicce e prolungate potessero indurre un governo autoritario al compromesso, i manifestanti hanno cominciato ad organizzarsi, erigendo barricate ed occupando palazzi attorno alla Piazza di Kiev e poi anche in varie città del paese.

Il governo che avrebbe potuto rasserenare la situazione con qualche gesto di conciliazione, ha aumentato la repressione. A fine dicembre la repressione ha assunto aspetti ripugnanti: violenze mirate contro giornalisti e attivisti, rapimenti e omicidi, arresti negli ospedali, impiego di malviventi a pagamento (titushki).

Poi il 16 gennaio è stato fatto approvare dal Parlamento un pacchetto di leggi contro la libertà di espressione e di manifestazione, ricalcate su norme in vigore in Russia e in Bielorussia, mentre si moltiplicavano segnali di un possibile ricorso alla legge marziale. Da quel momento la protesta si è fatta più dura, vi sono stati scontri con la polizia, con alcune vittime.

Eredità sovietica
Milioni di persone sono morte in Ucraina orientale nella carestia provocata dalla repressione stalinista negli anni ’20 (e sono stati poi sostituiti da immigrati russi). In Ucraina occidentale, una organizzazione clandestina (l’Oun-Upa di Stepan Bandera) ha lottato per l’indipendenza a partire dagli anni ’30, prima contro i dominatori polacchi e poi, dopo il patto Ribbentrop-Molotov, contro i sovietici.

E infine anche contro i tedeschi: milizie locali ucraine hanno collaborato alle atrocità naziste, ma l’Oun-Upa è stata presto sciolta dai nazisti, per aver proclamato l’indipendenza dell’Ucraina, e Bandera è stato internato a Sachsenhausen, dove sono morti due suoi fratelli.

I nazisti lo hanno poi rimesso in libertà alla fine del 1944, perché potesse guidare le forze ucraine contro l’offensiva finale dell’Armata Rossa. L’Upa ha continuato a combattere anche dopo il ritiro delle truppe tedesche. Nessuno in Occidente ha prestato attenzione alla repressione sovietica in Ucraina occidentale, ma i combattimenti sono durati fino al 1956, e, secondo studiosi ucraini, l’Armata Rossa ha avuto perdite comparabili a quelle sofferte in Afghanistan.

La propaganda sovietica ha avuto 40 anni di tempo per inculcare nella popolazione ucraina ed in Occidente tremende accuse contro la resistenza. In Ucraina occidentale la memoria delle violenze subite è però rimasta viva, e purtroppo, come in Yugoslavia, è ancora pronta ad emergere in situazioni di confronto esasperato.

Gruppi estremisti
Progressivamente sono comparse nelle manifestazioni varie associazioni organizzate con disciplina militare, capaci di tenere testa alle forze di polizia per notti intere a temperature sottozero. Alcune, fortemente patriottiche, nate per reazione alle violenze della polizia (Settore Destra, Audifesa Maidan), altre dichiaratamente nazionaliste (Una-Unso, Spilna Sprava). È stato difficile per i leader dell’opposizione democratica tenerle a freno, ma senza di loro le manifestazioni non avrebbero potuto durare così a lungo.

Sono state lanciate indiscriminatamente contro queste forze accuse di fascismo e antisemitismo. Occorre fare chiarezza e mettere le cose in prospettiva. La propaganda sovietica ha per decenni equiparato i sostenitori dell’indipendenza ucraina a fascisti ed antisemiti. Anche dopo la fine dell’Urss è stato facile per certi politici al potere proseguire su questa linea, montando operazioni di “disinformazione e provocazione” contro i loro avversari politici, tramite formazioni in tenuta e con gesticolazioni naziste, appositamente organizzate (come contro il democratico Yuschenko, alle elezioni del 2004).

Quanto alle accuse di antisemitismo rivolte ai manifestanti, la propaganda delle fonti filogovernative e russe è oggi sostanzialmente smentita dai principali esponenti della comunità ebraica ucraina. L’accusa più stravagante è quella di razzismo antirusso: caso mai si potrebbe dire che russi ed ucraini sono accomunati da tentazioni razziste contro altri popoli ex Urss (georgiani e soprattutto ceceni e tagiki).

L’Ucraina non è suddivisa in identità nazionali contrapposte, basate su razza e religione, come l’ex Yugoslavia. La virulenza di certe reazioni antirusse, e le incomprensioni fra ucraini, derivano dalle ferite del secolo scorso.

Per l’opposizione filo-europea resta comunque una fonte di imbarazzo il fatto che il partito Svoboda (Libertà), di base in Ucraina occidentale, aveva assunto negli anni ‘90 posizioni estremiste, ed era stato inquinato da elementi antisemiti.

Polemiche fra Russia e Occidente
Quanto al contesto internazionale, possiamo limitarci a ricordare che la Russia è impegnata nello sforzo di recuperare il suo status di grande potenza. Ottenere successi in questo campo è importante per il presidente Valdimir Putin anche per assicurare il suo potere all’interno. Dall’inizio della crisi, Putin ed il suo ministro degli Esteri hanno moltiplicato i duri avvertimenti all’Occidente a non interferire in Ucraina.

In realtà l’Ue si è sempre mossa con prudenza e non senza dissensi interni. Dagli organi dell’Unione sono venuti solo inviti alla moderazione ed alla conciliazione: il messaggio è sempre stato che il popolo ucraino deve poter decidere autonomamente la sua strada. Gli Stati Uniti hanno mantenuto sostanzialmente una posizione analoga, con qualche incoraggiamento verbale più pronunciato.

Solo di fronte alle ultime tragiche violenze, Stati Uniti e Ue hanno accolto le richieste dell’opposizione ucraina di adottare sanzioni economiche contro gli oligarchi ucraini ed i responsabili delle violenze. L’efficacia di queste sanzioni era chiara da tempo: gli oligarchi ucraini per timore di essere colpiti si sono affrettati a pubblicizzare posizioni concilianti, ed hanno esercitato pressioni in tal senso sull’ormai ex presidente Viktor Yanukovich.

Fortunatamente, durante tutto lo sviluppo della crisi sono mancate le condizioni per un intervento diretto russo. Da ultimo, la gravità della situazione ha indotto la Germania a prendere l’iniziativa, supplendo all’inerzia della “politica estera” dell’Ue.
La missione dei ministri degli Esteri tedesco, francese e polacco ha avuto un ruolo importante per facilitare la transizione, al momento decisivo. Assente e silenzioso il governo italiano. Resta da vedere se Stati Uniti e Ue sapranno ora far fronte alla responsabilità di sostenere l’Ucraina con aiuti economici, e instaurare un clima di cooperazione con la Russia, fatto salvo il diritto dell’Ucraina di scegliere la sua strada.

Gian Luca Bertinetto è Ambasciatore d’Italia.
 
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Tra Europa e Eurasia, Kiev al bivio, Gian Luca Bertinetto


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mercoledì 26 febbraio 2014

Ireland: 28 february 2014.

Speech by
EAMON GILMORE
Deputy Prime Minister and
Foreign Affairs Minister of Ireland
on
Ireland's economic recovery and
the 2014 EU agenda

Welcome and opening address 
Ettore Greco
Director, Istituto Affari Internazionali

Friday, 28 February 2014
10:45 - 12:00
Piazza Monte Citorio, 123/A
 - Rome

Working language: English

Only those registered will be able to enter


Ireland’s experience of recent years and emergence from its EU-IMF programme have been crucial turning points both for the country and for the Eurozone. Despite huge internal and external challenges, Ireland has managed to successfully exit its Programme, to return to growth and, crucially, to start creating jobs once again. These achievements have been hard won, at a high price. Ireland and the EU as a whole need to build upon this progress if the tentative recovery now underway is to be sustained. 2014 will be a critical year. 2014 will also see major institutional changes in the EU which will have implications for all Member States, not least Italy which assumes the Presidency in July. There are great opportunities for progress as Europe undergoes these changes but the right mix of wise policies and perseverance will be needed so that the EU and its Member States emerge stronger than before.
____________________________________
Istituto Affari Internazionali (IAI) via A. Brunetti 9, I-00186 Roma

Tel.       +39 063224360 (Switchboard)
Fax      +39 063224363
E-mail   iai@iai.it
Web     www.iai.it
Twitter  @iaionlie
_____________________________________

martedì 11 febbraio 2014

Regno Unito: tensione nella coalizione governativa

Regno Unito e Europa
Brexit or not Brexit, questo il dilemma
David Ellwood
05/02/2014
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Alta tensione nella coalizione di governo inglese. A fare aumentare la febbre tra conservatori e liberali è la notizia della bocciatura, da parte della Camera dei Lords, del progetto di referendum sui rapporti della Gran Bretagna con l’Unione europea (Ue).

Se si aggiunge il peso del referendum sull’indipendenza della Scozia – che si tiene in settembre - si può capire che la scena politica inglese stia conoscendo una fase di grande movimento. Per una volta, le questioni principali non sono economiche e finanziarie, ma riguardano le basi costituzionali del Regno Unito, la sua integrità come stato, la sua identità nazionale e il suo ruolo nel mondo.

Europa sconvolgente
La bocciatura - il 31 dicembre - del progetto referendario può anche essere il risultato di imbarazzanti errori procedurali. Il primo ministro ha subito detto che andrà avanti lo stesso, ma la vicenda conferma fino a che punto la ‘questione europea’ riesce a sconvolgere l’azione di qualsiasi governo o partito inglese. Dopo anni di dibattiti, sussulti e tensioni con gli altri membri dell’Ue, la questione europea sta convergendo rapidamente verso un singolo quesito: la Gran Bretagna vuole o non vuole rimanere dentro le istituzioni dell’Unione?

Le elezioni europee del prossimo maggio si avvicinano e tutte le indicazioni prevedono un’affermazione senza precedenti del partito per l’indipendenza del regno Unito (United Kingdom Independence Party - Ukip). Nato pochi anni fa e considerato del tutto marginale ed eccentrico fino all’epoca di Cameron, l’Ukip è dato dai sondaggi al 25%, il doppio rispetto a un’elezione generale nazionale.

Ukip ha fatto della ‘Brexit’ - l’uscita dall’Unione - la sua ragion d’essere, ed è comunque riuscito a concentrare l’attenzione degli altri partiti - soprattutto quello conservatore - su questa questione come nessuna altra forza politica.

Davanti all’ascesa dell’Ukip - ma soprattutto davanti alle simpatie sempre più evidenti per la ‘Brexit’ tra le file degli elettori, dei deputati, dei giornali conservatori e dei finanziatori del partito Tory - Cameron ha fatto la sua mossa, promettendo il referendum da tenere entro il 2017. Per ora la manovra ha fallito e l’ascesa continua degli ‘euroscettici’ in tutte le loro forme rischia di costare a Cameron le elezioni del 2015.

Unionisti vs separatisti
Cominciano le grandi manovre. I capi di Ford, Unilever e Vodafone in Gran Bretagna si sono espressi per la continuità della Gb dentro l’Unione, come hanno fatto governi come quelli australiani e giapponesi, e naturalmente quello degli Stati Uniti.

Ogni governo americano dall’epoca del Piano Marshall in poi ha tentato di convincere - senza alcun successo - gli inglesi che non hanno alternative al di fuori del progetto europeo. Sin da quando si iniziava a parlare di integrazione, i governi inglesi hanno fatto capire che ‘non se lo sentivano nelle loro ossa’, come ebbe a dire l’ex-ministro degli esteri Anthony Eden nel 1949, ed è tutt’ora l’istinto che sembra prevalere in tanti esponenti della classe politica e nel mondo dei media.

Per loro, il progetto non sarà mai altro che un sistema di libero commercio. È per questo che i 95 deputati conservatori che hanno scritto ultimamente a Cameron chiedendo un radicale ri-negoziato della posizione inglese puntano sull’eliminazione di qualsiasi obbligo in materia di welfare e giustizia, l’uscita dalla Carta europea dei diritti umani, radicali limiti sui movimenti dei lavoratori dentro l’Unione e, soprattutto, un veto parlamentare sull’applicazione delle leggi Ue in Gran Bretagna.

Tanti inglesi ‘euroscettici’ parlano di re-negoziazione o addirittura di rifondazione dell’Unione. Più alzano i toni, più diminuiscono però le loro probabilità di trovare ascolto tra gli altri 27 membri, come ha confermato il presidente francese François Hollande nel suo più recente incontro con Cameron.

Nessuna cessione di potere
Quello che gli inglesi condividono con le due altre grandi potenze dell’Ue è il rifiuto assoluto di concedere a Bruxelles e Strasburgo un quoziente di potere maggiore rispetto a quello che loro immaginano di possedere come singole potenze nazionali.

L’inconsistenza britannica tra una disponibilità di vendere qualsiasi struttura, servizio o azienda nazionale allo straniero nel nome del libero mercato, e un protezionismo militante sui fronti del mercato del lavoro, del welfare, della giustizia, dell’idea di sovranità nazionale, stride però a molti orecchi europei. Anche perché spesso è accompagnata dall’antica tendenza inglese a fare le prediche agli altri - e all’Ue nel suo insieme - sui loro difetti, presunti o reali.

Tesa tra un’America che non vuole sapere dei loro guai, e un’Europa che non le interessa, si può capire perché tanta cultura inglese si rivolga sempre di più a quel passato tanto glorioso che non delude mai.

David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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Italia: il mondo politico in agitazione

Unione europea
Elezioni europee, fermenti nei partiti, il Pd nel Pse
Giampiero Gramaglia
23/01/2014
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Dentro il Pse per cambiare il partito e l’Europa: le dichiarazioni di Matteo Renzi sono sempre ambiziose, quale che ne sia il contesto. Il segretario del Pd scioglie, a parole, il nodo dell’adesione dei democratici al Partito socialista europeo, che s’era ingarbugliato, tra pro, contro e reticenze, nella stagione delle primarie.

Il mese prossimo, il 18 e 19 febbraio, Renzi si recherà a Bruxelles insieme alla responsabile Europa e Esteri del Pd Federica Mogherini, che è già stata in avanscoperta a sondare il terreno e che tornerà nella capitale Ue la prossima settimana.

E il 28 febbraio e 1º marzo il Pd ospiterà a Roma il congresso del Pse: lancio della campagna per le europee e ufficializzazione della candidatura del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, socialdemocratico tedesco, alla presidenza della Commissione europea.

Il sì di Renzi all’adesione del Pd al Pse rispecchia la posizione già espressa dal suo predecessore Guglielmo Epifani, che aveva impegnato il partito a sostenere la candidatura di Schulz. Prima di andare a Bruxelles, Renzi, tuttavia, intende dedicare una direzione ad hoc al tema, perché – dice - "credo sia doveroso e naturale che se ne discuta".

I più europeisti della sua squadra non s’accontentano di parole e vogliono fatti. La Mogherini, secondo cui "l’Europa non è un capitolo degli Esteri, ma piuttosto della politica interna", sostiene che "una cessione di sovranità economica all’Unione europea è, in realtà, un recupero di sovranità", rispetto alla perdita di sovranità cui la dimensione nazionale condannerebbe i singoli Stati Ue nell’era della globalizzazione.

Per la Mogherini, presidente della delegazione parlamentare italiana all’Assemblea atlantica, proprio la crisi ha dato piena consapevolezza all’opinione pubblica che le scelte fatte a Bruxelles contano. Il fatto che molte scelte siano state sbagliate, oltre che impopolari, ha però peggiorato percezioni e giudizi sull’integrazione europea.

In vista delle elezioni europee (22 e 25 maggio) e della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue (2° semestre), Sandro Gozi è fra i ‘renziani’ che ‘mordono il freno’: l’ex collaboratore di Romano Prodi quand’era presidente della Commissione europea confida agli ex allievi del Collegio di Bruges di essere stufo della retorica e dell’ottimismo europei di facciata dell’attuale governo e vuole dare concretezza allo spartiacque che, per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, le elezioni segneranno tra il rigore e la crescita.

Spinelli, 30 anni dopo, fermenti tra Roma e Strasburgo
Una sortita italiana per rilanciare l’integrazione europea e un dibattito a Roma fra candidati alla presidenza della Commissione: entrambe le iniziative potrebbero concretizzarsi tra il 22 e il 25 marzo. Se ne parla, nel calderone dei progetti intorno al 30º anniversario dell’anniversario dell’approvazione a Strasburgo, da parte del Parlamento, del progetto di Trattato per l’Unione europea concepito da Altiero Spinelli e votato, a larga maggioranza, il 14 febbraio 1984.

All’inizio dell’anno, il Consiglio italiano del Movimento europeo (Cime) aveva inviato al premier Enrico Letta (e per conoscenza al ministro degli Esteri Emma Bonino) una lettera aperta, suggerendo di rilanciare, in un Consiglio europeo in programma proprio il 14 febbraio, l’iniziativa per una "Repubblica europea federale, democratica e solidale", dando al nuovo Parlamento missione costituente.

Venuta meno l’ipotesi d’un Vertice il 14, l’anniversario spinelliano sarà celebrato a Roma con un evento nell’Auletta dei Gruppi della Camera e sarà elemento focale nella visita che il Napolitano farà a Strasburgo il 4 febbraio. Una giornata che fonti del Quirinale dicono "europea a 360 gradi": al mattino, discorso in plenaria; nel pomeriggio, un evento con il presidente del Parlamento Schulz, Giuliano Amato e il presidente del Cime Virgilio Dastoli.

Letta, intanto, starebbe riflettendo all’ipotesi di sortita europeista suggerita dal Cime: l’iniziativa potrebbe concretizzarsi il 22 e 23 marzo, quando a Bruxelles si farà il Consiglio europeo, a ridosso dell’anniversario della firma a Roma, il 25 marzo ‘57, del Trattati istitutivi delle Comunità europee.

E proprio al 25 marzo il Cime guarda per proporre ai candidati alla presidenza della Commissione europea un dibattito in Campidoglio sui loro programmi.

Già praticamente sicure le candidature di Schulz (Pse), Gui Verhofstadt (Alde) e Alexis Tsypras (Gue), saranno già state decise a quella data quelle dei Verdi, impegnati in questi giorni nelle primarie, e del Ppe, che dovrebbe pronunciarsi il 6 marzo.

Ppe, nel segno dell’incertezza e delle tensioni
L’incertezza maggiore riguarda proprio il Ppe, traversato anche da tensioni italiane: se nel Pse c’è, oggi, carenza d’Italia, nel Ppe ve n’è eccesso, almeno a livello di sigle vecchie e nuove.

E quando in una riunione del partito il presidente della Commissione europea Manuel Barroso critica l’Italia, dove le riforme sono "scarse" e il governo non ha "coraggio" sul debito, la polemica s’infiamma: Raffaele Baldassarre, Forza Italia, lo riferisce; Giovanni La Via, Ncd, lo accusa di fare "interessi di parte", screditando il governo.

Il Ppe non ha ancora un candidato alla presidenza della Commissione: fra i nomi citati, si fa avanti il commissario europeo per il Mercato interno Michel Barnier, che in un’intervista a Le Figaro, dice: "Sono pronto a impegnarmi". Barnier è certo che il presidente francese François Hollande lo sosterrà, come Nicolas Sarkozy sostenne il socialista Dominique Strauss-Khan alla guida del Fondo monetario internazionale.

Alde, Rehn lascia, Verhofstadt è solo
Il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn si ritira dalla corsa alla nomination nel gruppo Alde, lasciando via libera all'altro candidato, l'ex premier belga Guy Verhofstadt.

Il passo indietro di Rehn è stato annunciato dal presidente dell'Alleanza dei liberali e democratici europei Graham Watson: il finlandese sarà il “candidato del partito” a ‘ministro europeo’ dell’economia o degli esteri. L’ufficializzazione verrà da un congresso, il 1° febbraio, a Bruxelles.

Gue, intellettuali per Tsypras
La candidatura ‘euro-critica’ del leader di Siriza Alexis Tsypras, espressa dal gruppo della sinistra al Parlamento europeo, suscita consensi in Italia. E un appello perché si formi una lista di cittadinanza ‘pro Tsypras’ arriva da Andrea Camilleri, Paolo Flores D'Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale.

"L’Europa è a un bivio, i cittadini devono riprendersela", scrivono su Micromega. E indicano i punti del programma della lista: no al Patto di Bilancio che "unisce il Sud dell'Europa" e che potrebbe avere ripercussioni anche sulla capacità di sviluppo economico degli stati europei più solidi; e ancora un ripensamento del ruolo e delle funzioni della Banca centrale europea; nuovi investimenti a difesa dell'ambiente e per la green economy.

Il tutto nella cornice dell'Unione politica: dare all'Ue una nuova Costituzione, scritta non più dai governi ma dal Parlamento, dopo ampie consultazioni.

Euroscettici, Le Pen e Salvini consolidano alleanza
Intanto, il neo-segretario della Lega Nord Matteo Salvini rafforza i legami con il Front National di Marine Le Pen: in un incontro a Strasburgo i due discutono "di piani e azioni congiunte in Italia e in Francia". Salvini concretizza così intenzioni già manifestate.

A differenza delle altre formazioni politiche europee, gli euroscettici non si daranno un candidato alla presidenza della Commissione "perché - spiega Salvini - si tratta di un organo anti-democratico: l'unica istituzione che riconosciamo democratica è il Parlamento europeo".

La Le Pen indica le "inquietudini comuni" ai movimenti euroscettici: dalla battaglia contro l’euro all'immigrazione. "Non accettiamo l’immigrazione di massa, l’apertura delle frontiere generalizzata, l’arrivo massiccio di rom o di altri popoli che non possiamo più accogliere perché non ne abbiamo più i mezzi".

Grillini, i sette punti
Pure Beppe Grillo prepara la campagna europea: un manifesto in sette punti e l’immagine di un Europarlamento "Grand Hotel … o sontuoso cimitero degli elefanti".

In attesa delle consultazioni online, la bozza dei sette punti prevede il referendum per la permanenza nell’euro; l'abolizione del Patto di Bilancio; l'adozione degli eurobond; una alleanza mediterranea per una politica comune; l’esclusione dal limite del 3% di deficit degli investimenti in innovazione e per nuove attività produttive; finanziamenti per attività agricole finalizzate ai consumi interni; e l'abolizione del vincolo di pareggio di bilancio.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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Ucraina: la frattura non si ricompone

Ucraina
Kiev, campo di battaglia post-sovietica
Paolo Calzini
26/01/2014
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Il drammatico intensificarsi delle manifestazioni in Ucraina, contro il governo e in particolare il Presidente Yanukovich, accrescono l'incertezza europea sul da farsi, dopo la "sorpresa" del gran rifiuto di Kiev di firmare l'accordo di associazione con l'Unione Europea.

È stato dimostrato quanto possano influire sugli orientamenti di politica estera dell’Ucraina quel mix di pressioni e di agevolazioni in campo economico portato avanti dalla Russia per bloccare l’iniziativa europea.

Di fronte all’inattesa svolta politico-diplomatica di Kiev (ancora alla vigilia del vertice di Vilnius del 28 29 novembre l’accordo era generalmente dato per acquisito) la reazione è stata di generale sorpresa. Proprio tale sorpresa finisce però per far apparire di maggior rilievo l’aspetto politico, poiché mette in luce quanto carente sia la consapevolezza da parte occidentale degli elementi di precarietà presenti in Ucraina e, più in generale, nell’area europea dello spazio post-sovietico.

Si tratta di una zona di grande importanza strategica situata tra la Russia e la Ue che comprende Bielorussia, Ucraina, Moldavia e i tre stati caucasici. Essa è stata affrettatamente considerata come “normalizzata” dopo la fase di turbolenza delle “rivoluzioni colorate” del 2004-05. Tale convinzione ha fatto però sottovalutare i fermenti di opposizione, di cui quelli ucraini rappresentano oggi l’espressione più vistosa, ma che sono presenti in varia misura in tutto il gruppo di paesi a ridosso della linea di frontiera che li separa dal resto dell’Europa.

Lasciti della Guerra fredda
Per poter valutare il peso dei vincoli determinati da uno stato di costrizione radicato nella collocazione geopolitica di questi paesi è opportuno tener presente il corso degli eventi che ha determinato il contesto nel quale si sono venuti a trovare nell’ultimo periodo. All’origine figura il lascito irrisolto della guerra fredda; una collocazione politico-strategica tenuta ferma allo scopo di mantenere quella stabilità degli equilibri continentali che era giudicata elemento necessario per garantire la pace tra gli stati europei.

Trascorsi venticinque anni dalla dissoluzione dell’Urss e del Patto di Varsavia, relegati nel dimenticatoio, dopo una serie di negoziati inconcludenti, i progetti di costituzione di un assetto unitario paneuropeo, l’Europa resta divisa in due regioni distinte. Una divisione ben consolidata, anche se da più parti contestata, dovuta alla presenza di due formazioni contrapposte, che operano in un clima di diffidenza motivata da preoccupazioni relative alla sicurezza reciproca e dalla persistenza di contrasti di natura ideologica.

Da un lato abbiamo l’Ue, ispirata a una concezione istituzionale di tipo nuovo, che prevede un intreccio di legami inter - e trans-governativi fra gli stati membri, e dall’altro una formazione di tipo tradizionale che fa capo alla Russia, decisa a esercitare la sua egemonia sul gruppo degli stati post-sovietici più vicini in termini di prossimità geografica.

Questi ultimi sono così impegnati a sostenere, con formule diverse, adattate ai propri interessi nazionali specifici, una politica bilanciata, in equilibrio tra la volontà di fondo di aprirsi all’Europa e l’esigenza di tener conto dei legami, ritenuti indispensabili, con la controparte russa.

La crisi divampata con il caso ucraino ha reso palesi a tutti le diverse strategie perseguite dalla Russia e dall’Ue, in aperta competizione tra loro per lo spazio post-sovietico, evidenziando la fragilità degli equilibri regionali esistenti. Consapevole del suo ruolo, l’Ue non ha rinunciato, nonostante un diffuso sentimento di “affaticamento da allargamento” e alcune evidenti divisioni al suo interno sugli orientamenti e la conduzione della politica verso l’Est, a una linea di avvicinamento ai paesi limitrofi.

Ha infine scelto però di ripiegare, considerandola l’unica opzione praticabile in questa fase, su una politica di compromesso, caratterizzata da un forte ridimensionamento degli obiettivi iniziali, ridotti a quelli di un “allargamento minus”, ben differenziato dall’idea originaria di un “allargamento” a parte intera.

Partenariato orientale
Prende cosi inizio, nel 2009, il Partenariato orientale che prevede di arrivare mediante gli accordi di Associazione con i sei paesi vicini a una sostanziosa collaborazione sul piano economico e amministrativo-istituzionale, condizionata alla realizzazione di radicali riforme dei singoli assetti istituzionali interni, ma lasciando in sospeso la prospettiva di integrazione a parte intera nell’Ue.

Una linea ambigua, non sostenuta da un’adeguata offerta di risorse economiche, ispirata a una gestione morbida del processo di avvicinamento, ma infine dimostratasi, nel caso dell’Ucraina, del tutto contraddittoria. La crisi che ne è conseguita ha infatti, da un lato confermato la persistente forza di attrazione del progetto europeo, rivelando dall’altro le insufficienze di una linea politica diplomatica che non era in grado di sostenerla ed affermarla.

Confrontato agli effetti politici che l’adesione all’accordo di Associazione con l’Ue, con le condizionalità che l’accompagnano, avrebbe avuto per le forze di governo, il presidente ucraino Viktor Janukovic ha optato per il rifiuto, con le conseguenze che ne sono derivate sul piano interno e internazionale. A spingerlo in questa direzione è stata la convinzione che, dati i rapporti di forza prevalenti nell’area post-sovietica, considerata l’impraticabilità di un diretto intervento occidentale in appoggio al movimento di opposizione, era possibile procedere alla sua neutralizzazione.

Un sostegno decisivo a favore di tale scelta, che ha segnato la fine del tentativo praticato con molti ondeggiamenti dai precedenti dirigenti ucraini di gestire a proprio vantaggio una politica bilanciata tra Occidente e Russia, è stato assicurato da parte russa. Il massiccio aiuto economico fornito per evitare la bancarotta del regime di Kiev, che ha caratterizzato il riallineamento dell’Ucraina sul piano internazionale, risponde all’esigenza esplicitamente manifestata da Mosca, di assicurarsi un forte margine d’influenza sull’unica media potenza presente in quest’area.

Unione economica euroasiatica 
Confortato da un rafforzamento di immagine, dovuto ad alcune riuscite iniziative diplomatiche e ad una apparente stabilizzazione del quadro politico interno, il regime russo appare fortemente impegnato a consolidare il suo ruolo di grande potenza regionale. L’iniziativa, adottata nel 2009, indirizzata alla costituzione dell’Unione economica euroasiatica, formata da Russia, Kazakhistan e Bielorussia, mira a estendere il processo di integrazione ad altri paesi della regione partendo da questo primo nucleo.

Fondamentale in questa prospettiva si conferma l’inclusione dell’Ucraina, pedina decisiva per il completamento del progetto, considerato a rischio nel caso si fosse arrivati all’accordo di Associazione con l’Ue, primo passo di un progressivo slittamento in direzione opposta, verso l’orbita occidentale.

Venuto meno, o comunque rimandato a una data indefinita in occasione della conferenza di Bucarest del 2008, il progetto di allargamento della Nato verso Est, è andata crescendo negli ultimi anni l’opposizione russa nei confronti della politica intrapresa in parallelo dall’Ue.

Essa è infatti giudicata particolarmente insidiosa, come sembra provato anche dai recenti avvenimenti, perché valutata assai più positivamente dalla maggioranza dell’opinione pubblica, e da una parte delle stesse élite post-sovietiche per i suoi contenuti economici e civili, privi di quei coinvolgimenti di carattere militare previsti da eventuali accordi con la Nato.

Le motivazioni di fondo alla base della contrapposizione che ha caratterizzato i rapporti tra le parti in tutti questi anni restano ben presenti, evidenziando gli elementi di precarietà di una condizione di stabilita insoddisfacente e potenzialmente insicura sul continente.

Il risultato positivo ottenuto da Mosca sarà sicuramente di stimolo a proseguire nella politica di promozione della propria influenza regionale, né d’altra parte Bruxelles appare rassegnata, nonostante le frustrazioni subite, a rinunciare alla politica di avvicinamento agli stati post-sovietici nel suo vicinato.

La situazione resta dunque aperta, con le forze di opposizione in Ucraina decise a sostenere le proprie rivendicazioni e l’iniziativa diplomatica degli stati post-sovietici in dinamica evoluzione come dimostra l’adesione di Georgia e Moldavia all’accordo di Associazione all’Ue. Una decisione destinata, nella logica della competizione regionale in atto tra Russia e Ue, a suscitare allo stesso tempo le pressioni russe e il sostegno occidentale.

Paolo Calzini è Adjunct Professor di Studi europei alla Johns Hopkins University Bologna Center e Senior Adviser dell'Ispi.
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Europa: i giochi olimpici invernali, un affare geopolitico

Olimpiadi di Sochi 
L’ombra del jihad ceceno sui giochi di Putin
Giovanna De Maio
27/01/2014
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Con 51 miliardi di euro spesi, i giochi di Sochi, i primi dopo la fine dell’Urss, saranno i più costosi della storia. A sollevare polemiche non è solo la questione economica. Definiti dal signore della guerra ceceno Doku Umarov come “danze sataniche sulle ossa dei nostri antenati”, i giochi, che si terranno dal 7 al 23 febbraio, sono accompagnati dalle minacce dei jihadisti del Caucaso. I recenti attentati di Volgograd e Machačkala sono solo le più recenti manifestazioni di questo allarme.

Spettro terrorismo
La problematicità di Sochi è insita nella sua posizione geografica: non solo è vicina alle instabili repubbliche di Cecenia, Daghestan, Inguscezia a prevalenza musulmana, ma è anche a pochi chilometri dal confine con la repubblica di Abkhazia, nata dal conflitto russo-georgiano del 2008 che ancora non gode di un riconoscimento internazionale.

Sochi è blindata. Per la sua sicurezza, Mosca ha speso 2,5 miliardi di euro, i servizi segreti hanno avuto carta bianca su intercettazioni, raccolta dati, fermi, arresti. “ Se volete eliminare qualcuno, uccidetelo”, così il ministro degli Interni ceceno Apti Alaudinov ha esortato i suoi uomini a usare ogni metodo per sventare gli attacchi terroristici.

Tuttavia nel mirino dei terroristi non c’è stata fino ad ora Sochi. Le località più colpite sono state Volgograd, ex Stalingrado, testimone di tre attentati in tre mesi, Pjatigorsk, il Dagestan e Kabardino-Blakaria, scenario di una guerra che uccide circa 700 persone all’anno e che l’International Crisis Group non ha esitato a definire “il più sanguinoso conflitto esistente in Europa”.

Nel silenzio della stampa il Bin Laden russo, Doku Umarov, lancia i suoi appelli alla solidarietà islamica internazionale, facendo leva sull’incredibile caleidoscopio di etnie che abitano quelle terre come ceceni, cabardini, abkhazi, circassi (di cui quest’anno ricorre il 150esimo anniversario della cacciata dal Caucaso e del “genocidio circasso”) e tanti altri.

Tra gli irriducibili di Umarov, quello che colpisce è il numero di donne, le cosiddette vedove nere o shahidki, donne martire. Sono per la maggior parte giovani e acculturate che hanno visto morire nella guerriglia padri, fratelli amici e per le quali il terrorismo a volte è un modo per calmare la sete di vendetta, altre volte è invece l’unica strada per riguadagnare il proprio onore dopo uno stupro, in una società chiusa e conservatrice come quella cecena.

Tassello siriano 
Alla base degli attentati, in realtà, non ci sono solo le ragioni separatiste. Nel teatro caucasico le questioni legate agli interessi strategici della Russia si intersecano nello scontro tra sciiti e sunniti nel quale Mosca si è impelagata dai tempi della guerra in Afghanistan nel ‘79.

L’appoggio incondizionato del Cremlino in favore del regime siriano di Bashar al-Assad non è stata una mossa gradita ai separatisti che si sono diretti in centinaia verso Damasco per sostenere la rivolta dei loro fratelli siriani.

La questione è tuttavia più complicata e lega la Russia agli affari economici di Arabia Saudita e Qatar. Questi ultimi paesi avevano precedentemente offerto a Damasco non solo l’equivalente di tre anni di bilancio, ma anche la propria disponibilità a domare la rivolta se Assad si fosse allontanato dall’Iran, arci-nemico dei sunniti. Così non è stato e pertanto il principe Bandare Bin Sultan, capo dei servizi sauditi, si è visto con il presidente russo lo scorso luglio ed è tornato a incontrarlo il mese scorso.

Vladimir Putin avrebbe chiesto ai sauditi un sostanziale via libera sui loro gasdotti e un aiuto nel controllare i terroristi ceceni che minacciano i giochi. In cambio, il principe avrebbe domandato la cessazione del sostegno russo al regime di Assad e il rinvio della conferenza di pace sulla Siria, Ginevra 2.

Islamismo a freno
Ora però la Russia non ha alcuna intenzione di cedere, soprattutto alla luce del buon lavoro diplomatico svolto sulla Siria. Sostenere i regimi sciiti dalla Siria all’Iran è per la Russia un modo per frenare l’influenza dell’islamismo nazionalista nel Caucaso: un’eventuale caduta incontrollata di Assad verrebbe interpretata come una breccia nel muro del sistema di difesa interno, minacciato dagli islamici e dai loro alleati.

Intanto i ceceni continuano i loro attacchi per vendicare vent’anni di massacri e da qui alle Olimpiadi sarà un incubo infinito di sangue. Putin potrà anche riuscire a blindare Sochi, ma finché alla violenza si risponderà con la violenza sarà impossibile creare le basi per la pace. E di certo non è possibile blindare tutta la Russia.

Giovanna De Maio è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI (Twitter: @Giovgenius).
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martedì 4 febbraio 2014

Europa. La questione della Difesa

Mercato della difesa 
Quo Vadis Europa?
Michele Nones
08/01/2014
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Se si valutano i risultati del Consiglio europeo di dicembre sulla difesa non si può manifestare soddisfazione. Se si considera la distanza percorsa dall’Europa nei quattordici anni trascorsi dal precedente vertice su questo tema si possono però registrare alcuni positivi cambiamenti.

Integrazione
Considerando la posizione assunta da alcuni paesi, fra cui soprattutto il Regno Unito, poteva andare anche peggio, ma il prezzo pagato per arrivare a un accordo è stato molto alto. Ci si deve domandare se ormai l’unica soluzione nel campo della difesa non sia quella di cercare la convergenza solo con i paesi willing and able (disposti e capaci).

Senza cambiamenti si procederà, invece, sulla strada dell’integrazione del mercato senza inserirlo in un generale processo d’integrazione della politica della difesa, ripetendo l’errore dell’euro in campo monetario ed economico. Così si crea, però, uno squilibrio fra la struttura economica e industriale sempre più integrata e la sovrastruttura politica divisa. Un sistema squilibrato è però sempre instabile e poco efficiente. Alla fine o lo squilibrio viene risolto (e quando è troppo ampio, rischia di esserlo in modo traumatico) o il sistema implode.

La costruzione dell’Europa della difesa è uno dei traguardi più ambiziosi dell’integrazione e irto di ostacoli. Peraltro, a causa delle crisi economica e finanziaria fuse con quella politica, l’Unione europea conosce uno dei suoi momenti più difficili. Pesano, infine, gli attori. Sul palcoscenico europeo non si vedono protagonisti destinati a passare alla storia né in generale, né nel campo della difesa.

Il risultato del vertice europeo di dicembre è stato inevitabilmente condizionato da questo quadro complessivo, anche per quanto riguarda il terzo punto delle Conclusioni relativo al rafforzamento dell’industria europea della difesa. Sul piano generale, le dichiarazioni restano chiare e teoricamente potrebbero essere il presupposto per future concrete iniziative:

“L'Europa ha bisogno di una base industriale e tecnologica di difesa (Edtib) più integrata, sostenibile, innovativa e competitiva per sviluppare e sostenere le capacità di difesa. Ciò può altresì rafforzare la sua autonomia strategica e capacità di agire con i partner. È opportuno rafforzare l'Edtib per assicurare l'efficacia operativa e la sicurezza dell'approvvigionamento, rimanendo al contempo competitivi a livello mondiale e stimolando l'occupazione, l'innovazione e la crescita in tutta l'Ue. Occorre che tali sforzi siano inclusivi, con opportunità per l'industria della difesa nell'Ue, equilibrati e nel pieno rispetto del diritto dell'Ue. Il Consiglio europeo sottolinea la necessità di sviluppare ulteriormente le necessarie competenze individuate come essenziali per il futuro dell'industria europea della difesa”.

Ribadendo l’importanza di un mercato della difesa efficace e aperto, il Consiglio europeo ha accolto con favore la Comunicazione della Commissione intitolata "Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente", prendendo atto dell'intenzione della Commissione di elaborare, in stretta cooperazione con l'alto rappresentante e l'Agenzia europea per la difesa, una tabella di marcia per la sua attuazione.

Il Consiglio ha sottolineato l'importanza di garantire la piena e corretta attuazione ed applicazione delle due direttive in materia di difesa del 2009, tra l'altro al fine di aprire il mercato ai subfornitori di tutta Europa, assicurare economie di scala e consentire una migliore circolazione dei prodotti della difesa.

Se non altro si è, quindi, lasciata la porta aperta alla Commissione, all’Eda e all’Alto rappresentante per muoversi nell’ambito delle proprie competenze e per tornare a discuterne fra un anno e mezzo.

Obiettivi
Per quanto riguarda le principali aree di intervento, il Comunicato indica la necessità di un maggiore impegno nella ricerca e, in particolare, nella convergenza fra il settore civile e quello della difesa. Di qui l’appoggio all’intenzione della Commissione di valutare in che modo i risultati ottenuti nell'ambito di Orizzonte 2020 possano andare anche a vantaggio delle capacità industriali nel settore della difesa e della sicurezza e il via libera alla proposta della Commissione di definire un'azione preparatoria sulla ricerca connessa alla Politica di sicurezza e difesa comune, Psdc.

Un secondo obiettivo è quello del rafforzamento delle piccole e medie imprese, Pmi. “Le Pmi sono un elemento importante della catena di approvvigionamento della difesa, fonte di innovazione e fattori chiave per la competitività. Il Consiglio europeo sottolinea l'importanza che riveste per le Pmi l'accesso al mercato transfrontaliero e l'opportunità di avvalersi appieno delle possibilità offerte dal diritto dell'Ue in materia di subappalti e di licenze generali di trasferimento”.

A questo fine la Commissione è invitata a vagliare la possibilità di misure supplementari che aprano le catene di approvvigionamento alle Pmi di tutti gli stati membri, fra cui anche il sostegno alle reti regionali di Pmi e ai cluster strategici.

Un terzo punto riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti: “Il Consiglio europeo sottolinea l'importanza delle disposizioni volte a garantire la sicurezza dell'approvvigionamento per lo sviluppo della cooperazione e pianificazione a lungo termine, nonché per il funzionamento del mercato interno della difesa”.

Di qui l’invito alla Commissione a elaborare, insieme agli stati membri e in cooperazione con l'alto rappresentante e l'Agenzia europea per la difesa, una tabella di marcia per “un regime globale di sicurezza dell'approvvigionamento a livello di Ue, che tenga conto della natura globalizzata delle catene di approvvigionamento critiche”.

Capacità europee 
In realtà vanno, però, considerati anche alcuni impegni che il Consiglio europeo ha preso al secondo punto delle conclusioni perché impatteranno sull’industria europea a livello di programmi con lo sviluppo di sistemi aerei a pilotaggio remoto (Rpas) nel periodo 2020-2025 e l’elaborazione di un programma Rpas europeo di prossima generazione di "media altitudine e lunga autonomia" con la creazione di una comunità di utenti Rpas fra gli stati membri partecipanti che posseggono e usano questi sistemi; la preparazione della comunicazione satellitare statale di prossima generazione mediante una stretta cooperazione fra gli stati membri, la Commissione e l'Agenzia spaziale europea; lo sviluppo della cyber-difesa con l’elaborazione di una tabella di marcia e di progetti concreti incentrati sulla formazione e su esercitazioni, il miglioramento della cooperazione civile/militare sulla base della strategia dell'Ue per la cyber-sicurezza, nonché la protezione dei mezzi nelle missioni e operazioni dell'Ue.

Quella che, però, per ora manca è soprattutto la consapevolezza che il motore dell’integrazione europea nella difesa non può essere solamente migliorato e reso più efficiente con nuove regole e nuovi impegni operativi e politici.

Ha anche bisogno di nuovo carburante per poter funzionare. Questo significa investire nei programmi europei della difesa. L’Europa ha intaccato in questi ultimi anni il suo patrimonio tecnologico e industriale. Se non ricomincia a ricostituirlo, rischia di perderlo definitivamente.

Michele Nones è Direttore dell’Area Sicurezza e Difesa, IAI.
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