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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 30 novembre 2015

La svolta della diplomazia europea nel conflitto siriano

di
 Alessandro  Ugo Imbriglia


Da diverse settimane tutte le forze regionali e internazionali coinvolte direttamente o indirettamente nel conflitto siriano provano ad accordarsi sulle modalità politiche e strategiche per mettere fine al conflitto. Il 14 novembre, Vienna ha ospitato per la terza volta sia la Russia e l’Iran sciita, alleati di Bashar al Assad, sia i rappresentanti dell’occidente e i paesi del golfo, che al contrario premono per un’immediata uscita di scena del premier siriano. Nella trattativa le strategie delle potenze internazionali stanno prendendo una direzione univoca e una progressiva adesione verso una politica comune, poiché i russi hanno constatato che Assad è troppo debole per poter essere salvato. A Mosca non resta che capitalizzare al massimo il suo ruolo militare e strategico nel conflitto, quindi rafforzare il proprio potere di contrattazione nello scenario diplomatico internazionale ed esercitare un’influenza significativa sulle sorti siriane nel dopo Assad. Dalla conferenza di Vienna è stato tracciato l’iter da seguire, che prevede dapprima l’apertura di un dialogo tra i ribelli sunniti e il regime alauita, un cessate il fuoco definitivo in un secondo momento e, infine, delle elezioni a cui non è chiaro se Assad potrà partecipare. Gli attentati di Parigi, compiuti il giorno precedente all’incontro di Vienna, hanno spinto le incompatibilità strategiche dei due blocchi contrapposti verso una progressiva convergenza, evidenziando la necessità di un’alleanza di tutte le potenze regionali e internazionali contro il gruppo Stato islamico. Dunque la Russia non considera più i ribelli sunniti come “terroristi” e nuovi margini di manovra sono apparsi chiari dall’intento condiviso tra Obama e Putin di arrivare alla risoluzione del conflitto attraverso un compromesso. Per tal motivo François Hollande ha colto la palla al balzo, annunciando che si sarebbe recato a Washington e a Mosca per definire un fronte comune capace di concentrare tutte le sue forze (comprese quella della Russia) contro i jihadisti. Inoltre la Francia si è appellata all’articolo 42.7 del trattato di Lisbona che “nel caso in cui uno stato membro sia vittima di un’aggressione armata” implica un’azione degli altri stati dell’Unione per “aiutarlo e assisterlo”. Prima d’ora nessun paese dell’Unione aveva fatto ricorso a questo articolo e  per la prima volta nella sua storia l’Unione ha deciso unanimemente di assumere una posizione condivisa nel campo della difesa, fuori dal contesto Nato. 
18 novembre 2015
 Alessandro Imbriglia
(ugo1990@hotmail.it)

venerdì 27 novembre 2015

Europa: quale strade prendere

Guerra al Califfato
Dopo Parigi, parlare di guerra può indurre in errore
Stefano Silvestri
16/11/2015
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La parola più usata è “guerra”. Ma siamo sicuri che si tratti della parola giusta? E comunque, cosa vogliamo dire, in realtà?

Di “guerra”, al terrore, parlammo anche dopo l’attacco di Al-Qaida, l’11 settembre 2001, tanto che gli alleati offrirono agli Stati Uniti la solidarietà dell’art.5 del Trattato di Washington, la mobilitazione della Nato.

Allora gli statunitensi preferirono seguire altre strade per condurre il loro attacco ad Al-Qaida e al governo dei talebani, in Afghanistan, che offriva ai terroristi rifugio ed aiuto. La Nato intervenne in quel paese solo più tardi, per condurre un processo di stabilizzazione e state-building che è ancora oggi in forse.

La Turchia ha chiesto la solidarietà della Nato, sulla base dell’art.5, contro gli attacchi terroristici, non solo dell’Isis e di Al-Qaida, ma anche, secondo Ankara, dei curdi del Pkk e, indirettamente, del governo di Bashar el Assad, in Siria. Gli alleati hanno espresso solidarietà, ma non hanno avviato una mobilitazione collettiva.

Nessuno ha ancora parlato ufficialmente dell’art.5 e della Nato per rispondere agli attacchi terroristici di Parigi, ma molte voci si sono levate per sostenere che la guerra all’Isis dovrebbe diventare compito della Nato. Non è chiaro se questa responsabilità della Alleanza dovrebbe estendersi solo all’Iraq, anche alla Siria e infine a tutti o ad alcuni degli altri territori controllati da affiliazioni dell’Isis come ad esempio in Libia, nel Sinai, in Yemen, in Nigeria o altrove.

Le due facce del terrorismo
Il problema ha due facce, una interna e una internazionale. Esse sono collegate, ma restano tra loro molto diverse ed autonome. Da un lato ci sono i terroristi che hanno colpito la Francia e che potranno domani colpire altri paesi, europei e non. Questi terroristi pongono un grosso problema di sicurezza interna, ma non una minaccia di tipo militare.

Essi sono ispirati dall’Isis, ma sono anche autonomi, e il loro reclutamento è in genere opera di predicatori e “cattivi maestri” insediati in Europa, anche se si nutrono dei proclami e degli slogan che circolano su Internet e che sono elaborati e diffusi dalla centrale propagandistica dell’Isis.

Con qualche forzatura, volendo restare nella logica della “guerra”, potremmo definirli una “quinta colonna”. La lotta contro di loro richiede un’intensa azione investigativa e di intelligence oltre ad una forte opera di contro-propaganda e di mobilitazione sociale, soprattutto all’interno delle comunità etniche e religiose d’origine.

Quadro delle alleanze adatte ai nostri fini 
Dall’altro lato ci sono l’Isis e i territori controllati dalle sue bande e da quelle ad esso affiliate. In questi casi è necessario un intervento militare, per spezzarne l’iniziativa e per negare loro il controllo del territorio. Questo potrebbe anche divenire compito della Nato, ma solo a condizione che l’arrivo dell’Alleanza non complichi la condotta politico-strategica delle operazioni, invece di semplificarla (come certamente avverrebbe sul piano meramente operativo e tattico).

In altri termini, bisogna valutare qual è il quadro delle alleanze che riteniamo più adatto ai nostri fini e, su questa base, decidere anche del ruolo e delle responsabilità della Nato.

Così, ad esempio, quali saranno i nostri alleati regionali? Ce ne sono molti, forse troppi, dalla Turchia all’Iran, dall’Arabia Saudita ad Israele, dall’Egitto alla Russia, oltre ai curdi (di varia estrazione e fede politica), al governo di Baghdad e alle tante fazioni siriane. Molti di essi sono tra loro incompatibili ed ognuno ha le sue priorità e i suoi obiettivi, diversi l’uno dall’altro, e spesso dai nostri.

È chiaro come sia necessario esercitare una dura pressione militare sull’Isis annullando la sua attuale immagine “vincente” - che alimenta il suo reclutamento internazionale - e distruggendo quanto più possibile delle sue capacità militari, finanziarie e propagandistiche.

Tuttavia è chiaro che questo potrà avere successo solo assicurando un realistico e stabile controllo dei territori che verranno man mano “liberati”: cacciarlo da quei territori è il primo passo necessario, impedirgli di ritornare è il secondo, ed è qui che diventa determinante la scelta degli alleati, visto che nessuno pensa di rimettere in piedi un sistema coloniale.

Parlare di “guerra” può dare idee semplicistiche e sbagliate. Così, ad esempio, c’è chi pensa che un eventuale intervento alleato in Siria ed Iraq potrebbe essere analogo all’intervento alleato in Germania durante la II Guerra Mondiale, terminato con la suddivisione della Germania in territori affidati alla responsabilità primaria di una delle potenze vincitrici, che ha rapidamente portato alla creazione delle due Germanie, quella democratica occidentale e quella comunista orientale e, dopo il crollo del muro di Berlino e del blocco comunista, alla loro finale riunificazione.

Lotta al brigantaggio, non guerra
In questa ipotesi si procederebbe (un po’ come è avvenuto per l’ex-federazione jugoslava) ad affidare porzioni di territorio all’autogoverno delle fazioni o delle etnie dominanti in quell’area al termine delle operazioni militari, magari sotto il controllo tutelare delle Nazioni Unite o degli alleati.

Questa situazione è però molto diversa da quelle, e stiamo vedendo anche in Europa i problemi che la crescente frammentazione di stati nazionali, dal Regno Unito alla Spagna, rischia di porre. Moltiplichiamoli per cento e vediamo che cosa potrebbe accadere in tutto il Medio Oriente ed in Africa. Chi pensa di poter governare un simile processo?

Ed infine, veramente vogliamo regalare a questi terroristi e a queste bande di assassini sanguinari, che non rispettano né le leggi di guerra né gli stessi precetti umanitari della loro religione, la dignità di definirli come un nemico legittimo?

Dobbiamo forse inviare una formale dichiarazione di guerra all’Isis, o non dobbiamo piuttosto condurre una muscolosa e decisa operazione di polizia internazionale per mettere fine al controllo su estesi territori da parte di bande di briganti?

Questa è lotta al brigantaggio, non guerra.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 18 novembre 2015

Ucraina. Responsi elettorali

Elezioni locali in Ucraina
Se Poroshenko perde terreno 
Giovanna De Maio
03/11/2015
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Perde terreno. Nelle elezioni locali del 25 ottobre, il presidente ucraino Petro Poroshenko ha perso punti. Rispetto alle parlamentari dello scorso anno, Poroshenko ha fatto guadagnare punti non solo ai suoi alleati di governo minori, come Yulia Timoshenko (Patria) e Andrii Sadovii (Samopomich), ma anche alle forze radicali e nazionaliste di opposizione.

Il tutto in un paese non ancora normalizzato a causa della situazione del Donbass. Le urne non si sono infatti aperte in tutta l’Ucraina e circa 1,2 miliardi di sfollati si sono visti negare il diritto di voto.

Ucraina spaccata
Ancora una volta i risultati parlano di un'Ucraina divisa tra le tendenze filo-occidentali e quelle filo-russe. Il Blocco di Poroshenko (composto dal partito del presidente Solidarietà, dal partito Auto-Aiuto del sindaco di Lviv Andry Sadovy e quello dell'ex premier Yulia Tymoshenko, Patria) trionfa nelle regioni centrali e occidentali.

Tuttavia, la scarsa affluenza alle urne (circa il 46%) è indice di un'insoddisfazione generale dovuta alla guerra nel Donbass e alle disastrose condizioni economiche.

Il Blocco di Opposizione, che è il successore del partito delle regioni facente capo all'ex presidente Viktor Yanukovich ha saputo cavalcare l'onda dell'insoddisfazione delle regioni orientali, inserendosi nelle piaghe della politica di Kiev, incapace di proporre un progetto politico di riunificazione nazionale.

A Dnipropetrovsk è arrivato primo con oltre il 30% e il suo candidato sindaco a Odessa, Gennady Trukhanov ha sconfitto il candidato sostenuto dal governatore della regione Mikheil Saakashvili (Blocco Poroshenko). Quest'ultimo ha denunciato presunti brogli e ha paragonato gli uomini di Trukhanov ai soldati russi che hanno occupato la Crimea, alimentando non poco la tensione già in atto nella città tra nazionalisti ucraini e filo-russi.

Donbass, seggi solo in parte aperti
Nella regione del Donabass le elezioni si sono svolte soltanto nella parte di territorio controllata dal governo di Kiev. Non sono però mancate polemiche. A Mariupol per esempio, che è stata liberata dai ribelli filo-russi nell'estate 2014, le urne non si sono aperte perché la commissione elettorale locale si è rifiutata di usare le schede elettorali stampate da una società legata all'oligarca Rinat Akhmetov, che sostiene il Blocco di Opposizione.

Più complicata è la situazione delle aree controllate dai filo-russi. Le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk avevano minacciato di tenere autonome elezioni rispettivamente il 18 ottobre e il 1 novembre, ma su invito di Mosca hanno desistito.

Qualora si tenessero votazioni senza il consenso delle autorità di Kiev si comprometterebbero gli accordi di Minsk e Mosca non riuscirebbe a realizzare il suo obbiettivo di ottenere una qualche forma di riconoscimento dell'autonomia di queste aree da parte del governo centrale.

L'idea di posporre il voto al febbraio e all'aprile 2016 risponde dunque alla logica del Cremlino di recuperare un po' di tempo per far pressione su Kiev e ottenerne il consenso per le elezioni locali. Questo preserverebbe l'unità del paese de iure, ma de facto si tradurrebbe in un'accettazione e in un congelamento della situazione.

Tuttavia ci sono alcune importanti precisazioni, che il presidente russo Vladimir Putin ha tenuto ad elencare nel corso dell'annuale conferenza al Valdaj Club: l'Ucraina deve emendare la costituzione in modo permanente e negoziare con i rappresentanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk uno stato speciale di autonomia. Inoltre, Putin ha chiesto un'amnistia collettiva per coloro che sono sospettati di aver commesso crimini di guerra.

Oltre la spaccatura
Parlare esclusivamente di divisione est-ovest potrebbe essere molto riduttivo rispetto alla complessità della realtà ucraina che sfugge a semplificazioni basate sulla lingua, comportamenti elettorali e religiosi. Esistono differenze da regione a regione, ma anche all'interno della stessa oblast come quella Odessa, dove le tendenze filo-russe sono concentrate nel centro e al nord, mentre in altre parti non è così evidente.

Il governo di Kiev ha finora impostato la sua visione monista tesa a definire il proprio percorso verso la modernità e a costruire un'identità inequivocabile e libera dal peso del passato sovietico. Per il momento quest'impostazione non ha prodotto risultati positivi, incidendo anzi sulle rivendicazioni dei ribelli del Donbass.

Senza un'adeguata politica di pacificazione nazionale, che sappia invece proporre una visione pluralista di accettazione della complessità della composizione della società ucraina dal punto di vista linguistico, sociale, culturale, i tempi per la normalizzazione del Donbass e quindi del paese sono destinati a dilatarsi.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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martedì 10 novembre 2015

Agugliano 30 ottobre 2015 Seminario. Scenari Geopolitici

Stabilandia e Caoslandia.

 In una visione globale, oggi il mondo si presenta in due parti ben distinte: una serie di Stati, che hanno il potere di decidere che sono in aree di sicurezza, stabili e in pine pace: sono Gli Stat Uniti, l’Europa, la Cina La Russia, l’India ed il Sud Africa, a cui si deve aggiungere i Brasile ed il resto dei paesi della America Latina meridionale. Il resto è una regione in cui non esiste più lo stato come tale, imperversa la guerra, la violenza, la mancanza di sicurezza, la certezza del diritto; in cui vi sono fenomeni estesi di corruzione, criminalità organizzata, archi di crisi, di conflitti e di tensioni, pirateria, dove le popolazioni cercano in ogni modo di sfuggire, dando origini a fenomeni migratori di larghissime proporzioni. Area che definiamo Caoslandia


Se vediamo che l’Islam presenta cinque colori, ci risulta che abbiamo  l’Islam Nero, l.Islam Arabo, L’Islam Russo-Mongolo, L’Ilam Iraniano Indiano e l’Islam Indonesiamo.

Confrontiamo le due carte vediamo che tutto il mondo islamico è in pieno caos.

La cartina descrive i confini di caoslandia. I maggiori fenomeni si riscontrano in alcune aree che ancora chiamiamo con il vecchio nome di Stati, ma che tali non sono più.

Siria, che ormai come stato si è diviso in almeno quattro nuove entità sottostatuali: quello che rimane dello stato di Assad, arroccato sull’asse Aleppo Damasco, nell’area a maggioranza aluita appoggiato e difeso dalla Russia, che vuole mantenere in attività le sue basi a Tartus e Latakia, , che potremo definire non più Siria, ma “Aluitistan”; la Siria in mano alle forze ribelli al già potere centrale, la cui configurazione è tutta da definire; la Siria Curda, che si allaccia alla area curda  dell’Iraq, con ideali e concreti collegamenti con i curdi in Turchia e in Iran, ovvero quelle componenti del Kurdistan che è nei sogni ed aspirazioni di tutti i Curdi dalla dissoluzione dell’impero Ottomano. Infine la Siria in mano allo Stato Islamico, come da cartina 2, che occupa l’area per lo più desertica della ex Siria, ma che ha l’appoggio delle popolazioni locali che non accettano più l’autorità, da sempre lontana, ne di Damasco ne di Bagdad.

Libia: in mano a tre entità: quella tripolitina, quella cirenaica, e quella del derseto meridionale3, per essere ottimistici, ma che in realtà la frantumazione si è attestata nel sottostato tra le principali tribu e clan .

Israele: l’ennesima intifada porta lo stato ebraico a chiedere quale è la sua prospettiva di sicurezza

Queste le principali aree, poi l L’Ira, l’Afganistan, e tutta l’area subsaariana per finire in Nigeria che è tutta in pieno caos. Ed  andando sia a destra, per arrivare nel sud-est asiatico,  e a sinistra oltre atlantico con il mediterraneo caraibico , con la Colombia ed il problema della droga, le Farce cc, completano il quadro.

E l’Italia?

Il nostro paese è al limite: mentre il centro nord è acorato all’area di stabilità, il meridione e sempre più vicino a caoslandia. Per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti.

Mentre le Grandi Potenze rimeditano su come gestire questo caso, che può andare bene anche così, perché loro sono al sicuro e gli altri nel caso, l’Italia deve comprendre che le attuali alleanza hanno eprso collante, in primo luogo la Nato, che occorre ricordalo, è nata per difendersi dalla espanzione del comunismo e dell’Unione Sovietica; ora che entrambi on ci sono più, è rimasta in piedi e completamente trasformata. Che fa il nostro paese se l’Lo stato Islamanico attacca la Turchia, paese Nato?
Il rischio concreto di essere risucchiati da caoslandia sono concreti. Secondo analisti strategici[1] da sola non potrà mai farcela. “ma illuderci che “amici ed alleati” vengano spontaneamente in nostro soccorso è assolutamente da escludere. Se vuoi farti aiuta e comincia ad aiutarti  Smettere di partecipare alla disgregazioe degli stati intorno a noi, come fatto dai governi italiani passati, a cominciare dalla Jugoslavia per finire alla Libia. Cercare di collaborare con quei stati europei che mostrano, solo per spirito di conservazione, di coltivare interessi più ampio di quelli che oggi li racchiudono in spazi ristretti, come l’esperienza degli  immigrati ( muri, Marsiglia, Caen sono esempi chiari) . Questa è la speranza che coltiviamo
 Ma sicuramente tutto dipenderà da chi sarà il prossimo presidente statunitense: se vorrà imboccare la strada della strategia dell’ordine e ridurre gli spazi di Caoslandia ( è l’entrata in scena della Russia sulla crisi siriana, potrebbe aiutare su questa strada) la speranza di un futuro si può coltivare. Altrimenti i tempi che oggi giudichiamo così negativi, li rimpiangeremo.

Massimo Coltrinari

Agugliano 30 ottobre 2015



[1] Limes, Redazionale, n.6  2015

venerdì 6 novembre 2015

Polonia: la svolta destra

lezioni in Polonia
Assist polacco al Brexit
Maria Elena Sandalli
29/10/2015
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Una conversione politica che fa paura. È quella della Polonia, l'unico paese dell'Unione europea, Ue, a non aver conosciuto neanche un trimestre di recessione dopo il 2008.

Una svolta, quella sugellata il 25 ottobre dalla vittoria del partito conservatore Diritto e Giustizia, PiS, già annunciata nel maggio 2015 dalla ascesa alla presidenza del leader di questo partito, Andrezj Duda.

Avanzata degli euroscettici 
I risultati delle elezioni in Polonia si collocano in misura preoccupante nel quadro politico europeo. Il continente sta infatti attraversando una fase di profonda sfiducia nel progetto europeo resa evidente dall'avanzata degli euroscettici in diversi paesi tra cui spiccano Ungheria e Gran Bretagna, quest'ultima pronta a issare la bandiera della Brexit.

Dinanzi all'ascesa dell'Ukip e alle simpatie elettorali per la Brexit, Cameron ha infatti promesso di tenere il referendum entro il 2017. L'interrogativo riguarda da vicino integrità e autonomia statali, ossia il rifiuto di concedere a Bruxelles maggiore potere rispetto alle singole potenze nazionali.

Non a caso uno degli slogan del PiS è stato "Portiamo Budapest a Varsavia", un auspicio affinché si insedi la controparte polacca di Viktor Orbàn, capace di guidare da sola il paese verso gli stessi obiettivi di politica estera europea quali respingimento dei migranti, maggiore autonomia bancaria e rimozione di misure di austerity a favore della politica sociale.

È trascorso giù un mese da quando le elezioni regionali in Catalogna hanno lasciato l'Europa con il fiato sospeso.

La vittoria degli indipendentisti catalani con il 47,8% delle preferenze ha prodotto una crepa non solo negli equilibri politici spagnoli, ma anche nel più ampio quadro identitario dell'Ue. Ultimamente infatti, le ambizioni federaliste che per lungo tempo hanno caratterizzato la politica comunitaria hanno ceduto il posto a tecnicismi di natura top-down fomentando divisioni interne e sentimenti nazionalisti.

E il voto in Polonia ne è la prova più recente. Rappresenta una nuova grana per Bruxelles che va a sommarsi alla rimonta dei moti secessionisti e all'ipotesi Brexit, contribuendo in misura importante allo sfaldamento della coesione europea.

La Polonia contro l’Ue interventista
In questo frangente, i rapporti tra Polonia e Gran Bretagna potrebbero presto assumere una nuova direzione. Per la prima volta nella Polonia post-comunista, nessuna forza di sinistra siederà in Parlamento, dove entreranno cinque formazioni definibili di centro o di destra. La neopremier Beata Szydlo avrà quindi il via libera nella formazione di un governo di destra.

E all’orizzonte già si intravede un'alleanza tra Polonia e Regno Unito in tema di Brexit.

I vertici del Pis già condividono alcune richieste di David Cameron. Ad esempio potrebbero concordare su alcune proposte di riforma dei trattati, come l’eliminazione della clausola su un’Ue sempre più stretta, una maggiore liberalizzazione del mercato unico, un più intenso controllo dei parlamenti nazionali sulla Commissione europea e quindi un restauro delle sovranità nazionali.

Infatti anche Varsavia ritiene che le istituzioni europee interferiscano troppo nella politica interna degli Stati membri e reclama a tal proposito una Commissione meno intrusiva e una maggiore partecipazione dei parlamenti nazionali nel procedimento legislativo dell'Ue.

Inoltre, il PiS potrebbe approfittare della pretesa del Regno Unito di venire meno alla clausola “ever-closer union” per vedersi riconosciuti degli opt-out ad hoc.

Non da ultimo, rendere l'Unione più competitiva,così come proposto da Cameron, tagliando la burocrazia e rafforzando l'economia interna è al centro degli interessi polacchi dati i chiari benefici del mercato unico.

Dal 2003 al 2014, le esportazioni polacche verso il resto dell'Ue sono infatti triplicate fino a raggiungere quota 114 miliardi di euro. Come i Tories, anche il PiS, contrario alla moneta unica, respinge una maggiore integrazione dell'Eurozona in grado di alterare i meccanismi del mercato interno.

Polacchi residenti oltre-Manica 
Non mancano tuttavia le divergenze d'opinione. Il governo britannico ha fatto capire che non sopporta l'ipocrisia di Ungheria e Polonia che difendono i propri confini con ogni mezzo dai migranti extra-Ue mentre insistono sulla validità del sistema di Schengen e la libertà di movimento.

Tenuto conto dei 700 mila polacchi residenti nel Regno Unito, difficilmente il PiS accetterà limitazioni alla libera circolazione delle persone e tagli nei servizi di assistenza sociale ai non-cittadini, tanto più che i polacchi residenti oltre-Manica hanno diritto di voto nelle elezioni parlamentari in Polonia e potrebbero dirottare le loro preferenze ad altri partiti nell'eventualità che il PiS accetti le condizioni di Cameron sull'immigrazione.

La vittoria del partito di Kaczynski potrebbe dunque costare cara a Bruxelles che rischia di subire il colpo di grazia alla sua dimensione sovranazionale a favore di un ritorno alle dinamiche tra stati sovrani.

Maria Elena Sandalli è stagista area Europa dello IAI.
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Varsavia: La svolta a destra

Elezioni in Polonia
Se Varsavia vira verso Budapest
Daniele Fattibene
26/10/2015
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Anche la Polonia vira a destra. Dopo otto anni di dominio, il partito del Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska - PO) ha perso la maggioranza dei seggi del Parlamento polacco.

Il premier uscente Ewa Kopacz è stata infatti sconfitta da Beata Szydło, esponente del partito conservatore Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość - PiS) di Jarosław Kaczyński. Secondo gli ultimi exit poll, il PiS avrebbe infatti ottenuto il 37.7 per cento dei voti, ben 14 punti in più rispetto al PO, con un’affluenza attestatasi al 51 per cento, in aumento rispetto alle precedenti elezioni del 2011. Questo dovrebbe consentire al PiS di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi (232).

Gli altri partiti che dovrebbero entrare in parlamento sono il Kukiz’15 della rock star Paweł Kukiz che ha ottenuto l’8.7 per cento dei voti, il partito neoliberale ModernPL (NowoczesnaPL) dell’economista Ryszard Petru - allievo del celebre Ministro delle Finanze degli anni della transizione Balcerowicz - con il 7.7 per cento e con ogni probabilità il Partito Popolare polacco (Polskie Stronnictwo Ludowe – PSL) che dovrebbe superare di poco la soglia minima dell’8 per cento prevista per i partiti.

Dèbacle dei moderati e della sinistra
La vittoria del PiS non è stata una sorpresa, ma segue un trend che ha visto crescere il sostengo dei conservatori sin dalle elezioni europee e che è sfociato nell’elezione di Andrzej Duda alla carica di Presidente della Repubblica.

La vittoria del PiS avrebbe tuttavia un valore storico. È infatti dal 1989 che un partito politico non ottiene la maggioranza assoluta dei seggi. La vera incognita sarà capire quanto la Szydło saprà mantenere la sua indipendenza da Kaczyński, vero leader indiscusso del PiS.

Il rischio è che possa verificarsi una situazione simile al 2005-2006 quando l’allora Primo Ministro Marcinkiewicz fu sostituito proprio da Kaczyński dopo un breve periodo alla guida del Paese.

Le elezioni parlamentari sono state una batosta sia per i moderati che per i movimenti di sinistra. I primi non sono riusciti a dimostrare agli elettori quanto di buono sia stato fatto in questi otto anni.

Il Pil polacco - che è cresciuto del 24 per cento dal 2008 - dovrebbe crescere oltre il 3 per cento sia nel 2015 che nel 2016, mentre la disoccupazione è scesa sotto il 10 per cento. I secondi, che si sono presentati nella coalizione Sinistra Unita (Zjednoczona Lewica - ZL), rischiano di non superare la soglia dell’8 per cento prevista per le coalizioni e non di non essere rappresentati in Parlamento.

Rischio di orbanizzazione
Il PiS di Kaczyński ha trionfato con un programma molto nazionalista, con proposte che in molti hanno paragonato alla politiche del premier ungherese Viktor Orbán. Lo stesso Kaczyński nel 2011 aveva detto che un giorno avrebbe “portato Budapest a Varsavia”.

In realtà i toni della campagna elettorale del PiS sono stati abbastanza moderati. Il partito ha promosso un programma fatto di ricette semplici e diretto a quei polacchi che si sentono ancora esclusi dal processo di crescita economica del Paese. Tra le tante promesse, c’è l’espansione della spesa pubblica, l’aumento del salario minimo, la riduzione dell’età pensionabile, un maggiore sostengo per le famiglie (120 euro al mese per figlio), e l’aumento delle tasse per banche, imprese straniere e centri commerciali.

Rapporti con Ue 
Sul piano esterno non dovrebbero verificarsi cambiamenti radicali, anche se il PiS ha mostrato negli ultimi anni un forte euroscetticismo e una tendenza a privilegiare i rapporti transatlantici rispetto a quelli intra-europei (in particolare con Francia e Germania). Diversi sono i motivi di attrito con l’Unione europea (Ue), dall’immigrazione alla politica energetica.

Il PiS è stato tra i principali sostenitori delle manifestazioni contro la decisione del Governo Kopacz di ospitare 7.000 migranti sul territorio nazionale. Il partito di Kaczyński è anche un grande oppositore delle politiche energetiche dell’Ue che fissano un obiettivo del 27 per cento di energie rinnovabili entro il 2030 e una progressiva de-carbonizzazione delle economie dei Paesi membri.

Sul fronte militare Varsavia continuerà a ricavarsi un ruolo chiave all’interno della Nato, proponendosi come Paese leader nell’Europa centro-orientale, seguendo il vecchio sogno di Piłsudski di creare un blocco dal Baltico al Mar Nero (il cosiddetto “Intermarium”).

Daniele Fattibene è Assistente alla Ricerca presso il programma “Sicurezza e Difesa” dello IAI (Twitter: @danifatti).
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