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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 29 giugno 2016

Gran Bretagna. Brexit XI Riflessi sulla difesa

Brexit
Londra divorzia, come salvare mercato della difesa Ue
Michele Nones
27/06/2016
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L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, Ue, è destinata a ripercuotersi anche sul mercato europeo della difesa e sul processo in corso per una sua progressiva integrazione.

Il ruolo del Regno Unito nel mercato europeo della difesa
Il mercato europeo della difesa si è cominciato a costruire a partire dal 1998 con la Letter of Intent firmata dai sei maggiori Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito) al fine di integrare i loro mercati, a cui è seguito l’Accordo Quadro del 2000.

Francia, Germania, Italia e Regno Unito, a cui si sono poi aggiunti nel 2003 il Belgio e nel 2005 la Spagna, hanno poi costituito l’Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di armamenti, Occar, al fine di gestire i programmi di collaborazione intergovernativa. Con la costituzione dell’European Defence Agency, Eda, nel 2004 si è offerto a tutti gli Stati membri un’agenzia per sviluppare e mettere in comune le capacità di difesa (solo la Danimarca ha preferito non parteciparvi).

Con il riconoscimento dell’importanza tecnologica e industriale del settore della sicurezza e difesa per il mercato unico europeo e per la stessa sicurezza e difesa europea, ma anche della necessità di rispettarne le specificità, dal 2006 è entrata in campo la Commissione europea che nel 2009 ha finalizzato le due Direttive sulle acquisizioni di equipaggiamenti militari e di sicurezza e sui relativi trasferimenti intra-comunitari. Nel frattempo, nel 2008, è intervenuta la Posizione Comune dell’Ue sulle esportazioni ai Paesi terzi.

In tutte queste iniziative il Regno Unito è stato uno dei protagonisti, portando la sua esperienza e competenza, acquisite nello sviluppare significative capacità tecnologiche e industriali, e dando il suo contributo per favorire un’impostazione pragmatica e aperta alla collaborazione transatlantica. Non è quindi casuale che il Paese depositario dell’Accordo Quadro sia proprio il Regno Unito, né che il primo Direttore esecutivo dell’Eda sia stato un inglese.

Ma il Regno Unito è anche il più importante partner tecnologico del velivolo da combattimento Eurofighter (con Germania, Italia e Spagna), il principale successo europeo in campo aeronautico, e partecipa ad alcuni importanti programmi gestiti da Occar: il velivolo da trasporto strategico A400M, il sistema missilistico antiaereo Paams, il sistema antimine navali Mmcm.

Inoltre, va considerata la forte partecipazione inglese al programma americano-internazionale per il velivolo da attacco al suolo F35, in cui sono coinvolti anche Danimarca, Italia e Olanda.

Sul piano industriale, molte imprese inglesi sono integrate con altre europee come nell’elicotteristica con l’ex-Agusta Westland-UK e nell’elettronica con l’ex-Selex Electronic Systems-UK (a sua volta ex-BAe) in Leonardo-Finmeccanica e, sempre nell’elettronica, con la divisione inglese (ex-Racal) in Thales. A queste si aggiunge la concentrazione delle attività missilistiche inglesi con quelle francesi e italiane in Mbda (controllata da BAe Systems, Airbus e Leonardo-Finmeccanica).

Oltre agli aspetti quantitativi della presenza inglese, bisogna considerare anche quelli qualitativi. È riconosciuto da tutti che nei velivoli da combattimento le competenze europee (compreso il personale tecnico più qualificato) sono concentrate soprattutto nel Regno Unito e in Francia. Lo stesso vale anche nell’avionica e in parte dei sistemi elettronici. Non a caso i due Paesi avevano sottoscritto nel 2010 il Trattato di Lancaster House per rafforzare la collaborazione bilaterale, fra il resto, nel campo dei velivoli da combattimento a pilotaggio remoto e dei sistemi missilistici (anche se poi non tutto è filato liscio ed ora tutto potrebbe essere rimesso in discussione).

La collaborazione italo-inglese
Emerge da quanto ricordato sopra che, nel quadro europeo, Italia e Regno Unito hanno un forte rapporto di collaborazione sia a livello governativo sia industriale. Non va dimenticato che la nostra industria aerospaziale entra nella maturità tecnologica negli anni Settanta con il programma del cacciabombardiere Tornado (con Regno Unito e Germania) e nel decennio successivo con l’elicottero medio-pesante AW 101 (con il Regno Unito), diventando transnazionale con la concentrazione delle sue attività missilistiche in Mbda da parte di Finmeccanica nel 2001 e con la sua acquisizione di Westland nel 2000 e della parte avionica dell’ex Marconi Electronic Systems nel 2005.

Anche per queste ragioni è importante puntare a mitigare l’impatto della Brexit nell’interesse dell’Italia, dell’Ue e dello stesso Regno Unito. Il mondo della difesa inglese si era schierato per il “Remain” e non per il “Leave” nella consapevolezza che quest’ultima scelta avrebbe creato seri problemi per la sicurezza e la difesa inglese, ormai fortemente integrata a livello europeo. Nei prossimi due anni dovranno, quindi, essere trovate adeguate soluzioni per poter continuare la collaborazione, seppure in un nuovo quadro.

Uno nuovo quadro per la futura collaborazione con il Regno Unito
In prima approssimazione si possono ipotizzare questi interventi per consolidare la futura collaborazione. Per l’Ue, le tre principali aree interessate sono:
a) Acquisizioni (Direttiva 2009/81), dove bisognerà garantire reciprocità di accesso al mercato inglese e a quello europeo, salvaguardando la rispettiva sicurezza degli approvvigionamenti;
b) Trasferimenti intra-comunitari (Direttiva 2009/43) ed esportazioni a Paesi terzi (Posizione Comune 15972/1/08), dove bisognerà creare un regime speciale di estensione all’UK;
c) Programma Quadro attuale e futuro 2021-2027 per la ricerca e l’innovazione, dove bisognerebbe creare un regime per la partecipazione inglese agli oneri finanziari e, conseguentemente, al suo utilizzo, per lo meno per le imprese che fanno parte di gruppi transnazionali europei.

Per l’Eda non vi dovrebbero essere particolari problemi in quanto già vi sono associati Paesi non-Ue. Dato il peso e il ruolo inglese bisognerà, caso mai, definire una sua trasformazione al fine di creare due diversi livelli di partecipazione (uno per i Paesi che vogliono marciare sulla strada dell’integrazione e uno per quanti si vogliono limitare alla collaborazione), soprattutto per quanto attiene le procedure decisionali.

Per l’Occar non vi sono problemi in quanto il suo Trattato istitutivo non è giuridicamente legato a quello Ue. Solo sul piano tecnico-operativo bisognerà probabilmente intervenire per proseguire i programmi in corso o avviarne di nuovi, tenendo conto della condizione extra-Ue del Regno Unito.

Per l’Accordo Quadro-LoI non sembrano presentarsi problemi in quanto anche il suo Trattato istitutivo non è giuridicamente legato a quello Ue. In questo caso andrà, al contrario valutato, se, essendo l’unico specifico accordo per la collaborazione nel mercato della difesa, non potrebbe essere rivitalizzato dopo un decennio di attività a basso regime. Andrebbe quindi studiata la possibilità di utilizzare le sue potenzialità, senza modificarlo giuridicamente, ma, caso mai, intervenendo sui Regolamenti attuativi e sulle modalità di funzionamento.

Molto lavoro da fare, dunque, ma è indispensabile per rimanere, nell’interesse d tutti, buoni amici anche dopo la separazione.

Michele Nones è consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.
 

Gran Bretagna. Brexit X. La Global Strategy dell'Europa

Alto rappresentante
Mogherini, una Strategia per lo sprint Ue
Azzurra Meringolo
29/06/2016
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L’ultimo atto con la firma dei 28 stati dell’Unione europea. Ad approvarlo è oggi il Consiglio europeo, il primo dopo il referendum sulla Brexit. È in questo quadro di frammentazione che l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha deciso di lanciare la sua Global Strategy, documento che le era stato commissionato dai governi dell’Unione lo scorso anno.

L’Europa di Solana e quella di oggi 
Il documento segue quello varato nel 2003 da Xavier Solana. All’epoca, attraverso il multilateralismo efficace si cercava di ricompattare un’Europa spaccata dalla guerra in Iraq che aveva lasciato da una parte Francia e Germania e dall’altra il Regno Unito.

Oggi, invece, la ricerca del consenso si deve confrontare con spaccature molteplici e meno nitide che necessitano di risposte operative, capaci di andare oltre la condivisione di storia e valori. È per questo che la Strategia è globale non solo nella sua dimensione geografica, ma anche nella vasta gamma di politiche e strumenti attraverso cui cerca di realizzare la sua missione.

In un’epoca di crisi esistenziale del demos europeo, il documento - che questa volta coinvolge anche la Commissione, visto che la Mogherini ha usato il suo cappello da vicepresidente di questa istituzione - parte dal riconoscimento e dalla riaffermazione di interessi e principi condivisi come pace, sicurezza e prosperità. In tale ottica, viene riconosciuta la necessità di sostenere, tutti insieme, un ordine globale che si basi su regole in grado di garantire il multilateralismo, l’unico modello valido in un mondo sempre più complesso e interconnesso.

L’ambizione di fondo è quella di dare un’autonomia strategica al patto europeo, cercando di rispondere ai problemi che generano ansia nei cittadini, in primis quelli relativi alla sicurezza, sempre più a rischio a causa di minacce reali e ibride.

Difesa, tra accelerazioni e reticenze
Non a caso, il capitolo sulla Difesa è stato uno dei più problematici da affrontare. Se da una parte alcuni Stati, capitanati dalla Francia, hanno spinto sull’acceleratore, dall’altra ci sono state reticenze non solo da parte di Londra, ma anche di Svezia e paesi non Nato contrari a ulteriori passi in avanti.

In questo clima, la Strategia affronta non solo le minacce terroristiche sotto gli occhi di tutti, ma anche quelle cibernetiche, climatiche, energetiche e derivanti tanto dal crimine organizzato come dalla volatilità economica. Pur riaffermando l’importanza di lavorare in stretta collaborazione con i partner dell’Unione, Nato in prima battuta, la Strategia pone l’accento sulla necessità di dotarsi di strumenti autonomi, ad esempio rendendo davvero operative le forze di reazione rapida europee (EU Battlegroups), eliminando tutte le barriere che da tempo impediscono la creazione di un sistema di difesa europeo al 100%.

Attraverso questi strumenti, l’Unione dovrebbe innanzitutto essere in grado di prevenire i conflitti, rispondendo a quelli più violenti che minacciano gli interessi comunitari attraverso un approccio integrato ed esauriente. Nel farlo, si propone di utilizzare tutte le politiche a sua disposizione, guardando anzitutto ai confini orientali e meridionali dell’Unione, rivitalizzando la politica di vicinato e investendo nel potere attrattivo dell’Ue in quei paesi.

Dopo difficoltà iniziali, è stato fatto un passo in avanti grazie al raggiungimento di un compromesso anche sulla relazione con la Russia, descritta come una sfida strategica. Ribadendo il non riconoscimento dell’ammissione della Crimea, la Strategia ammette l’esigenza di un cambiamento sostanziale nelle relazioni bilaterali, ovviamente vincolato al rispetto del diritto internazionale.

Immigrazione, cercasi politica più efficace
Guardando a sud, tanta l’attenzione riservata all’immigrazione, altro tema di frizione tra i diversi paesi, soprattutto a causa di quegli Stati che volevano trattare il tema guardando solo le frontiere esterne. Parlando di una più efficiente politica migratoria e affrontando la questione anche da un punto di vista interno all’Ue, si insiste sull’importanza della collaborazione con i paesi di origine dei migranti, al fine di prevenire le cause di spostamento, gestire i flussi e combattere anche la criminalità transfrontaliera.

La Strategia scommette su una stabilità di lungo periodo, basata sul riconoscimento dei diritti umani di tutti i cittadini e sulla collaborazione non solo con le organizzazioni regionali, ma anche con le diverse società civili.

Il contributo dello IAI
Ed è sempre a queste ultime, stavolta quelle dei paesi comunitari, che la Strategia si rivolge per trasformare la sua visione in azione, per fare dell’Ue un’Unione coerente e coordinata che guadagni credibilità (attraverso il rafforzamento del suo apparato di Difesa) e utilizzi la Cooperazione allo sviluppo in modo più flessibile, reattivo ed efficace.

Questo appello alla collettività della cittadinanza europea è la diretta conseguenza del coinvolgimento della società civile nella realizzazione dell’intera Strategia. Partendo dal presupposto che la politica estera riguarda non solo i governi, ma anche ogni singolo cittadino, Federica Mogherini ha chiesto costantemente agli europei di esprimere, attraverso l’apposito sito, la loro opinione su alcune questioni al centro del Documento.

Suggerimenti più specializzati sono invece arrivati da esperti dei diversi settori interessati. Come ribadito dalla stessa Lady Pesc in una lettera ufficiale di ringraziamenti, il contributo dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) è stato determinante. Non solo perché la stesura del testo è stata affidata alla vicedirettrice Nathalie Tocci, adviser della Mogherini già quando era ministro degli Esteri, ma anche perché l’intero team di ricerca ha contribuito, con le sue competenze, all’architettura di questa Strategia.

Partecipando alla stesura di questo documento, primo seme di rilancio con il quale Bruxelles cerca di elaborare il divorzio da Londra, anche lo IAI spera di scongiurare pericolosi contagi, facendosi promotore di una Strategia che si propone di fare un salto in avanti, trasformando in azione quella che per ora è solo una visione comune.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

martedì 28 giugno 2016

Gran Bretagna. Brexit IX

Brexit
L’Ue accelera, Cameron tempo scaduto
Ettore Greco
26/06/2016
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Che David Cameron, il grande artefice del disastro Brexit, resti al suo posto per altri tre mesi, e oltre, è francamente impensabile. Era scontato che, se gli elettori avessero optato per l’uscita dall’Ue, le prime mosse sarebbero spettate a Londra. La prima è stata proprio del premier britannico che ha annunciato che si dimetterà, e che non sarà quindi lui, ma il suo successore, a guidare i negoziati con Bruxelles per il recesso dall'Unione. Ma quel che ha aggiunto non è affatto piaciuto agli altri leader europei.

Secondo Cameron, il nuovo capo del governo dovrebbe essere scelto “entro ottobre”, quando si terrà la conferenza del partito conservatore. Solo a quel punto le sue dimissioni diverrebbero effettive. Tempi decisamente troppo lunghi, che fanno a pugni con la necessità, evocata all’unisono da tutti gli altri leader europei, di fare in fretta per evitare pericolosi vuoti legali e una prolungata incertezza politica.

In verità, Cameron non ha escluso che il cambio della guardia a Downing Street si realizzi prima di ottobre, ma, dichiarando di ritenere prematuro un “calendario preciso”, ha suscitato il legittimo timore che il futuro dell’Unione possa nuovamente diventare ostaggio delle convulsioni interne al Partito conservatore. Proprio quel che è successo quando Cameron, per contenere la fronda della fazione euroscettica dei tories, ha preso, con un madornale errore di calcolo politico, la fatale decisione di promettere il referendum sulla Brexit.

Braccio di ferro sui tempi
È sui tempi, quindi, che si è già virtualmente aperto il primo braccio di ferro tra Londra e i vertici dell’Unione, sostenuti dai leader degli altri principali paesi membri, in particolare da quelli dei sei fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi), i cui ministri degli Esteri sono stati i primi a riunirsi all’indomani del voto.

Nessuno, beninteso, contesta che la scelta del nuovo premier spetti al partito conservatore, che, grazie all’inaspettata vittoria alle elezioni del 2015, dispone di poco più di metà dei seggi alla Camera dei Comuni (330 su 650). Bruxelles sta però moltiplicando gli appelli a fare in fretta, perché ha urgente bisogno di poter contare su un interlocutore politico pienamente legittimato.

Tuttavia, non solo Cameron, che vuole ancora dire la sua, ma anche i leader tory del fronte pro-Brexit, come l’ex-sindaco di Londra Boris Johnson, uno dei candidati più quotati per la nuova premiership, la vogliono, sembra, tirare per le lunghe.

La resa dei conti nel partito conservatore non è faccenda da poco, ci sono delle procedure da rispettare, e chi aspira alla leadership ha bisogno di tempo per assicurarsi il consenso necessario ad ottenerla. A riprova che le dinamiche della politica nazionale sono tutt’altro che facili da conciliare con quelle europee (come la crisi greca ha dimostrato ad abundantiam).

Melina britannica 
Sul piano procedurale, i leader Ue vorrebbero che il governo britannico notificasse al più presto la decisione di uscire dall’Unione, attivando così l’art. 50 del trattato di Lisbona, ovvero il meccanismo attraverso cui il recesso viene negoziato. La speranza è che, una volta avviato il processo negoziale, l’estrema incertezza che si vive in questi giorni si attenui gradualmente.

D’altra parte, non c’è alcuna scadenza temporale per la notifica della decisione di recesso: teoricamente potrebbe essere rimandata a tempo indeterminato. E i leader conservatori della Brexit vorrebbero compiere questo passo più in là, non solo per le ragioni di politica interna summenzionate, ma anche perché, una volta attivato il processo, ci saranno solo due anni per raggiungere un accordo, salvo proroghe non facili da ottenere (servirebbe l’unanimità dei 27 membri restanti).

Allo scadere dei due anni, se non si fosse ancora trovato l’accordo, i trattati europei non si applicherebbero più alla Gran Bretagna, che resterebbe quindi priva di legami contrattuali con il resto dell’Europa. Johnson e gli altri conservatori pro-Brexit temono che Bruxelles possa usare questo scenario come arma di ricatto e non vogliono sedersi al tavolo delle trattative prima di avere un obiettivo chiaro in mente - ancora, sembra, non ce l’hanno - e il relativo mandato politico.

Iter complesso e insidioso
Bisogna inoltre tener conto che il referendum era consultivo: il suo esito non ha quindi un immediato effetto legale. Rimetterlo in discussione sarebbe un suicidio politico, ma resta il fatto che il governo britannico deve innanzitutto definire una proposta per l’attivazione dell’articolo 50 e sottoporla al voto del Parlamento. E si torna così alla questione cruciale della scelta di un nuovo leader con un chiaro mandato politico per iniziare i negoziati.

Peraltro, c’è da aspettarsi che il Parlamento britannico, dove una larga maggioranza avrebbe voluto che il Regno Unito rimanesse nell’Ue, svolgerà un ruolo attivo nei passaggi - e non sono pochi - che lo vedranno come protagonista. Certo non si limiterà a dare il suo avallo a soluzioni preconfezionate, tanto più in quanto i leader pro-Brexit non hanno indicato uno sbocco univoco per il voto referendario.

Né si può del tutto escludere che, per un impasse nel partito conservatore o in Parlamento, si decida alla fine di andare ad elezioni anticipate, un passaggio prima o poi obbligato per qualsiasi nuovo leader in cerca di legittimazione popolare. Se malauguratamente ciò avvenisse prima che si fosse impostato il negoziato, la situazione si complicherebbe ulteriormente.

Anche perché, più i tempi si allungano, più cresce il rischio di atti unilaterali, da una parte o dall’altra. Le improvvise dimissioni di Lord Jonathan Hill, il membro britannico della Commissione europea responsabile dei servizi finanziari, segnalano quanto concreto sia questo rischio. Anche alla luce di questo episodio, che potrebbe essere il primo di una lunga serie, riesce difficile immaginare che tutto possa restare congelato per mesi, in attesa che i tories trovino la quadra.

Convergenze parallele
Hanno quindi ragione da vendere i leader delle istituzioni europee quando esortano Londra a “dare effetto alla decisione del popolo britannico appena possibile”, anche se passerà inevitabilmente un certo tempo per i necessari chiarimenti e scelte politiche oltre Manica. È opportuno però che i leader europei associno, a questa fermezza sui tempi, un atteggiamento flessibile su altri aspetti.

In particolare, sarebbe importante che, parallelamente al negoziato sull’accordo di recesso, si avviino colloqui anche sui nuovi rapporti che dovranno instaurarsi tra il Regno Unito e l’Ue, come vorrebbe Londra. Le due trattative sono formalmente distinte, ma funzionalmente collegate. Anche l’art. 50 stabilisce che l’accordo sul recesso deve tenere conto del “quadro delle future relazioni con l’Unione”.

Un atteggiamento punitivo verso Londra sarebbe altamente controproducente. Si manderebbe un messaggio sbagliato anche al popolo britannico, che, non va dimenticato, continuerà ad essere uno dei protagonisti di questa vicenda, e sarà chiamato, prima o poi, in una forma o nell’altra, a pronunciarsi nuovamente sul futuro del suo paese.

Ettore Greco è direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).

Gran Bretagna. Brexit VIII

Brexit
Londra divorzia dall'Ue: catastrofe in vista 
Riccardo Alcaro
25/06/2016
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E così alla fine è successo, la Brexit è realtà. Per la prima volta nella storia uno stato membro lascerà l’Unione europea. E che stato membro: il Regno Unito è la seconda economia dell’Unione, la sua principale potenza militare (insieme alla Francia), un paese dal considerevole peso geopolitico, con una politica estera di orizzonti globali e un corpo di funzionari e diplomatici esperti e capaci di iniziativa.

La variegata compagine a favore della Brexit, che include i nazionalisti xenofobi dello UK Independence Party (Ukip) e la frangia dei Tories ultra-liberista che considera l’Ue un freno all’economia britannica, festeggia un risultato impensabile qualche anno fa.

Così fanno pure i movimenti che hanno fatto dell’opposizione all’immigrazione e dell’euroscetticismo la loro bandiera: il Front National (Fn) di Marine Le Pen in Francia, il PVV di Geert Wilders nei Paesi Bassi, la Lega Nord di Matteo Salvini in Italia. Anche Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza Usa, ha salutato la Brexit come una ‘grande cosa’.

Rischio contagio
Il resto del mondo (e del Regno Unito) è stordito, come titola il New York Times. Ci si domanda che effetti la Brexit avrà sull’economia britannica, su quella dell’eurozona e di conseguenza mondiale. Ci si chiede come Regno Unito e Ue potranno reimpostare le loro relazioni politiche ed economiche, quali opzioni l’Ue abbia a sua disposizione per evitare un ‘effetto contagio’ e quindi la sua frammentazione politica, cosa resti della capacità di leadership dell’Occidente nella governance globale.

Queste preoccupazioni sono più che legittime. Senza usare mezzi termini, la Brexit è un colpo durissimo al Regno Unito, all’Unione Europea, all’ordine liberale internazionale. Peggio, è un colpo durissimo che può innescare una reazione a catena verso il disastro.

Nello spazio di una notte, il Regno Unito è precipitato in una gravissima crisi costituzionale. Il crollo del cambio sterlina-dollaro - al punto più basso in 30 anni - ha fatto scivolare il Pil britannico sotto a quello francese in sole due ore. Ci vorrà tutta la potenza di fuoco della Banca d’Inghilterra (e non solo) per scongiurare il rischio di una nuova Lehman Brothers.

Può darsi che le fosche previsioni del Tesoro britannico, che prevedeva il Regno Unito in recessione già quest’anno in caso di Brexit, siano esagerate. Ma di certo il prossimo premier - David Cameron ha già annunciato che si dimetterà entro ottobre - dovrà gestire mercati volatili e un’economia più fragile.

Regno disunito
E lo dovrà fare tentando di unire non solo un Partito conservatore diviso come non mai tra euroscettici e pro-Ue, ma anche e soprattutto un paese diviso tra vecchi (in maggioranza pro-Brexit) e giovani (in larga parte contro), campagna (a favore) e città (contro), inglesi e gallesi (a favore) e nord-irlandesi e scozzesi (contro).

Quest’ultimo fronte di divisione non resterà senza conseguenze: il Partito nazionalista scozzese ha già annunciato che intende riproporre il referendum per l’indipendenza. La Scozia ha votato a larga maggioranza contro la Brexit. Destinato in ogni caso ad essere meno influente fuori dall’Ue - e probabilmente più povero - il Regno Unito rischia di subire a sua volta una secessione interna.

Per l’Ue il colpo non è meno duro. Ai leader dei 27 stati membri restanti spetta il difficile compito di gestire il divorzio con Londra e, soprattutto, la ridefinizione della relazione contrattuale Ue-Gb. L’economia britannica è integrata con quella Ue e, pertanto, ‘punire’ il Regno Unito imponendogli termini onerosi - per esempio escludendolo del tutto dal mercato unico - è controproducente. Ma allo stesso tempo i leader Ue devono prevenire l’eventualità che termini troppo blandi invitino altri stati a seguire la stessa strada. Il rischio di contagio è altissimo.

Rinazionalizzazione dell'Ue alle porte 
Il ciclo elettorale non aiuta. Il prossimo autunno l’Italia potrebbe trovarsi senza governo, se gli elettori bocceranno la riforma costituzionale su cui il premier Matteo Renzi si gioca la sua carriera politica. Le incertezze sulla capacità dell’Italia di governare la sua economia si rifletteranno sui mercati, tornando a far salire lo spread e mettendo a rischio la tenuta dell’eurozona, come e forse più che nel 2011.

La prossima primavera si vota nei Paesi Bassi e in Francia, e a settembre 2017 in Germania. Wilders e Le Pen volano nei sondaggi e promettono a loro volta un referendum se restare o meno nell’Ue. Angela Merkel è stanca e indebolita e potrebbe uscire di scena, lasciando dietro di sé un cancelliere più euroscettico e più anti-immigrazione. La rinazionalizzazione dell’Europa sarebbe alle porte, e con essa la fine del progetto di integrazione.

Un’Ue frammentata e divisa cesserebbe di essere un attore internazionale di rilievo. L’influenza degli europei nella governance globale, nelle istituzioni multilaterali e nei grandi negoziati internazionali si ridurrebbe al minimo. Invece di un partner, gli Usa avrebbero nell’Europa un problema, e la solidità dell’Occidente - così come la sua capacità di esercitare una leadership - si incrinerebbe.

L’idea che le relazioni internazionali debbano essere governate da istituzioni multilaterali, alleanze, regole e pratiche condivise perderebbe vigore a vantaggio di una visione del mondo basata sulla forza militare ed economica. L’ordine liberale, già incrinato dagli eccessi unilateralisti americani e dall’emergente multipolarità, potrebbe cessare di funzionare.

Questo scenario catastrofico non è scritto. Ma come evitarlo è materia di un altro articolo. Oggi è il momento di prendere coscienza che le implicazioni della Brexit non riguardano solo i conservatori britannici, il Regno Unito o l’Ue. Riguardano, anzi minacciano, la tenuta dell’economia e l’ordine globali.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai.

Spagna: le elezioni per uscire dalla crisi

Spagna al voto
Madrid: nuovo Parlamento, solita incertezza
Federico Delfino
24/06/2016
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Spagnoli nuovamente al voto, dopo “el fracaso”, il fallimento della formazione del governo seguito alle ultime elezioni del dicembre scorso.

La Camera bassa fuoriuscita dall’ultima tornata elettorale è quanto di più frammentato la storia della Spagna democratica abbia mai visto. Abituati a un sistema di alternanza bipartitico Partido Popular, Pp, - Partido Socialista Obrero Español, Psoe, solo il 28% degli elettori ha confermato il Pp e solo il 22% il Psoe.

I due volti nuovi della politica spagnola, Podemos e Ciudadanos, hanno raggiunto rispettivamente il 20% e il 14%.Nessuno è stato dunque in grado di raggiungere la maggioranza assoluta e i tentativi di mediazione sono falliti. Ciò ha costretto il sovrano a sciogliere la Camera e indire nuove elezioni.

Podemos si allea con Izquierda Unida
I sondaggi concordano nell’indicare una sostanziale stabilità dell’elettorato rispetto alle scorse elezioni. L’unica novità di rilievo riguarda l’accordo di sinistra stipulato tra Podemos e Izquierda Unida, coalizzatisi in Unidos Podemos, Up, che sembra aver portato risultati tangibili facendo crescere la coalizione del 4% pescando soprattutto tra i movimenti indipendentisti baschi e catalani.

Il cuatripartidismo sembra il naturale risultato di tutto questo. I sondaggi attestano il Pp al 29,8% (121-126 seggi), Up al 24,9% (80-84 seggi), Psoe al 22% (83-86 seggi) e Ciudadanos al 13,8% (35-36 seggi). Qualora questi dati venissero confermati, l’ingovernabilità sarebbe il “nuovo-vecchio” scenario, e le Cortes, chiamate a riunirsi entro fine luglio, non sarebbero in grado di formare un nuovo Esecutivo prima di settembre. Insomma, nove mesi senza un governo con pieni poteri.

Le maggiori novità in termini di spostamento dei voti si potrebbero registrare nelle regioni irredentiste, dove Up ha buone probabilità di raggiungere la maggioranza. Secondo i sondaggi, nei Paesi Baschi, con 29,2% dei voti,sarà il primo partito davanti alPartito nazionalista basco (23,5%). In Catalogna, Up dovrebbe essere il primo partito con il 27,5%, seguito dalla Sinistra Repubblicana Catalana (19,5%)).

In entrambe le regioni Up è stato abile a cavalcare la spinta separatista promettendo un referendum sull’indipendenza, sul modello scozzese, in caso di vittoria. Resta da vedere se alle parole seguiranno i fatti. Tutti sanno, compreso il leader di Podemos Pablo Iglesias, che senza le industrie di Barcellona e le banche di Bilbao alla Spagna resta ben poco in termini finanziari e produttivi. Il referendum sembra quindi più una trovata elettorale che una realtà plausibile.

Europa assente dalla campagna elettorale
Assente dalla campagna elettorale l’Europa. Recentemente Bruxelles ha richiamato la Spagna alla riduzione del debito pubblico. In altri tempi forse la sanzione sarebbe già scattata, ma oggi Madrid gode di una certa benevolenza dalla Commissione.

La prospettiva di un nuovo fracaso preoccupa e non poco le cancellerie europee e l’Unione. Madrid sotto Mariano Rajoy era per la Germania un fedele alleato. Grossa parte del debito pubblico spagnolo rimane in mano tedesca, che non ha fatto mancare liquidità (40 miliardi) per salvarne le banche. Inoltre, neppure quest’anno la Spagna rispetterà i vincoli del Patto di Stabilità e Crescita registrando un rapporto Deficit/Pil superiore al 3% ed una disoccupazione giovanile al 45%.

Ma se gli impegni con gli elettori vengono sbandierati, le trattative con Bruxelles avvengono al limite della segretezza.Il 5 maggio scorso ha suscitato molto scalpore la pubblicazione di una lettera, da parte di El Pais, nella quale Rajoy si è impegnato di fronte alla Commissione europea ad attuare ulteriori tagli di bilancio se rimarrà alla guida del governo, in aperto contrasto con il suo programma elettorale.

Scenari possibili
Alla luce dei sondaggi, considerati i falliti accordi tra i partiti, gli scenari plausibili per formare un governo si riducono ulteriormente. L’ipotesi più razionale è un accordo Pp-Ciudadanos, politicamente affini, ma penalizzati dai numeri. Discorso simile può essere fatto per un’eventuale alleanza Psoe-Up.

L’unica alternativa percorribile resta la Große Koalition con un’assunzione di responsabilità sia da parte del Psoe, che dovrebbe rinunciare ad alcune politiche anti-austerity, sia da parte del Pp nel trovare un leader alternativo a Rajoy.

In un Paese ancora legato alle ideologie e a cleavages storico-politici, lo scoglio da superare è anzitutto culturale. Una grande coalizione tra popolari e socialisti non fa parte della cultura politica del Paese. “Avremo un Parlamento all’italiana, ma senza italiani” aveva previsto l’ex premier Felipe Gonzalez. Il rischio che anche la Spagna dopo le elezioni si ritrovi in situazioni di instabilità politico-economica simili a quelle di Atene esiste e non andrebbe sottovalutato.

Sicuramente Pp e Psoe dovranno accettare la morte del bipartitismo e adeguarsi al parlamentarismo razionalizzato interno ad un sistema di cuatripartidismo. Ispirarsi al modello tedesco non significa solo copiarne e modellarne le istituzioni, ma farne proprie le dinamiche funzionali e comportamentali dei partiti, comprendendone strategie e compromessi al fine di far funzionare le istituzioni.

Un ruolo fondamentale sarà quello di Re Felipe VI nell’esercitare il suo “potere di arbitraggio”, sconosciuto al padre, abituato al sistema bipartitico che consegnava sempre un vincitore chiaro. La corsa alla Moncloa resta dunque più aperta (e incerta) che mai.

Federico Delfino è stagista dell’area Europa.

Gran Bretagna. Brexit VII

Brexit
Londra ci lascia, l’Ue continua?
Gianni Bonvicini
24/06/2016
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Tanto tuonò che piovve. L’irresponsabile azzardo di David Cameron di proporre un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea, Ue, è clamorosamente fallito. A nulla è valso il patetico tentativo di rinegoziare un nuovo accordo fra Regno Unito e Ue alla vigilia della campagna referendaria.

Ora, scontato un periodo di ovvia tempesta sui mercati finanziari e in attesa di aprire la procedura di abbandono prevista dall’art. 50 del Trattato di Lisbona, la palla torna nel campo di un’Unione a 27. Che fare?

Ue sempre meno attraente
Tutto ciò avviene in uno dei periodi più cupi della storia dell’integrazione europea. L’Unione europea è visibilmente bloccata. Non si riesce a concludere l’Unione bancaria, la riforma del regolamento Dublino 2 sull’immigrazione è di là a venire, non vi è traccia di una comune lotta contro il terrorismo.

Anche l’ordinaria attività legislativa di Bruxelles è in vistoso calo. Dopo Londra tutti guardano adesso alle elezioni di domenica nell’ingovernabile Spagna e, con lo sguardo un po’ più lungo, all’esito del referendum costituzionale in Italia, ma soprattutto agli appuntamenti elettorali del prossimo anno in Francia e Germania.

L’Ue sembra davvero non vivere più di vita propria, ma delle vicende interne dei singoli stati membri. Il che non è certo una novità, ma sottolinea ancora una volta il fatto che il progetto europeo, malgrado l’Euro, Schengen e il Trattato di Lisbona, non ha fatto altro che sopravvivere agli eventi interni ai propri partner, dalla Grecia alla Gran Bretagna, dall’Austria alla Polonia.

Il governo dell’Unione si dedica essenzialmente ad una funzione di “crisis management” ed a farlo non è in primis la Commissione, ma il Consiglio europeo con le sue regole consensuali dettate però dalla leadership, per quanto “riluttante”, di Berlino.

Per di più la vicenda inglese, ma non solo essa, ha chiaramente evidenziato la sempre minore “attractiveness” dell’Ue nei confronti non solo dei paesi esterni, ma addirittura dei membri che ne fanno già parte.

Il tempo degli allargamenti è fatalmente passato. Oggi il tema centrale è semmai quello del “restringimento” a gruppi più limitati di paesi o addirittura ad un “core group” che decida di muoversi con maggiore decisione e velocità per completare alcune delle politiche e iniziative che nella sua interezza l’Ue non è più in grado di prendere.

Questa problematica non è davvero nuova ed essa valeva sia che a Londra prevalessero i “remain” o i “leave”. Ma quella della differenziazione, a parte l’Euro e la traballante Schengen, è una strada molto complicata da perseguire: le attuali regole previste dal Trattato di fatto scoraggiano il ricorso alle cooperazioni rafforzate, anche se le differenziazioni stanno poi nei fatti come bene ci illustrano le resistenze all’accoglimento delle quote di rifugiati.

Va poi tenuto presente che una forte iniziativa verso una maggiore integrazione porterà inevitabilmente ad accrescere le differenziazioni all’interno dell’Ue. Il che porrà nuovamente il tema del “governo” di questa varietà di gruppi. Tuttavia è anche abbastanza chiaro che lo status quo istituzionale non potrà fare altro che portare alla frammentazione e al collasso dell’intero edificio.

Quindi la ripresa di un percorso dinamico verso gradi maggiori di integrazione si impone con urgenza. Non è davvero pensabile che la Germania e la stessa Francia possano starsene ferme, come hanno fatto fino ad oggi per evitare accuse di eccessiva interferenza nella campagna referendaria inglese, dopo che il risultato inglese è stato acquisito.

Chi rilancia l’integrazione Ue?
Qui nasce in effetti un altro problema. Quale potrà essere il gruppo di riferimento di un eventuale rilancio dell’integrazione. Il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha resuscitato alcuni mesi fa il gruppo dei Sei fondatori. Ma ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie. A guardare bene i sei, infatti, solo Italia, Germania, Belgio e Lussemburgo sembrano tenere ancora al disegno di un’unione più stretta, mentre vi sono molti dubbi sulla stessa Francia alle prese con una drammatica crisi politica interna e l’Olanda che ormai si colloca più vicina a Londra che a Bruxelles.

Non bisogna per di più dimenticare che questi due paesi hanno respinto con referendum nel 2005 il Trattato costituzionale dell’Ue, che tante speranze aveva suscitato. Perciò bisogna forse guardare al di fuori dei confini dei paesi fondatori e individuare qualcun altro che segua una strategia di rilancio politico della ormai asfittica Ue. Ma verso chi? Più facile da dire che da fare.

Un ulteriore problema da risolvere è da dove ricominciare. E’ evidente a tutti che il primo passo da fare è quello di rilanciare le prospettive economiche, che erano state alla base del successo dell’Ue alcuni anni fa: crescita economica, competitività e impiego.

Altrimenti l’opinione pubblica non seguirà più il tragitto verso un’unione più stretta. Gli strumenti per farlo ci sono, basta avere la volontà di riavviarli, a cominciare come si diceva dal completamento dell’Unione bancaria e dalla semplificazione delle regole di convergenza che fra six pact, two pact e Fiscal compact ci impongono percorsi ambigui e confusi.

Ripartire dalla strategia globale di sicurezza
Ma il passo più grande e urgente da intraprendere riguarda la sicurezza sia interna che esterna all’Unione: immigrazione, terrorismo, conflitti alle frontiere dell’Unione sono le sfide dell’oggi e del domani. Non occorre, anche qui, modificare i Trattati: i meccanismi ci sono già tutti, ma nessuno messo fino ad oggi in pratica. Non vi è più neppure l’alibi inglese, quando si diceva che sicurezza e difesa non potevano essere avviate senza la partecipazione di Londra.

Il destino dell’Europa non passa più per la Gran Bretagna, ma è unicamente nelle mani di quei pochi paesi europei ancora coscienti che lo status quo nuoce all’Unione e che solo il dinamismo verso un traguardo comune politico può salvarla dal fallimento.

Si riparta quindi dalla nuova “strategia globale di sicurezza” dell’Ue che Federica Mogherini ha pronta sul proprio tavolo. La sicurezza dell’Europa, che è stata all’origine dell’integrazione europea, può essere il nuovo volano per il futuro e il modo migliore per assorbire il definitivo allontanamento di Londra.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

Gran Bretagna. Brexit VI

Brexit
Cameron verso una vittoria di Pirro?
Ettore Greco
22/06/2016
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Con buona parte dei più recenti sondaggi che danno di nuovo la Brexit in leggero svantaggio, ci si torna ad interrogare su cosa accadrebbe, in concreto, se la maggioranza degli elettori britannici votasse a favore della permanenza nell’Ue.

È certo infatti che non si avrebbe un mero ritorno allo status quo ante. A parte gli scossoni che potrebbe subire, anche in questo caso, il quadro politico interno - a cominciare dalla resa dei conti, a parte invertite, fra i tories - David Cameron dovrebbe darsi da fare per ottenere l’attuazione, quanto più rapida e completa, dell’accordo del febbraio scorso con gli altri leader europei che mira a rimodellare i rapporti tra Regno Unito e Ue. È esibendo questo accordo, non va dimenticato, che il premier britannico ha chiesto ai suoi concittadini di bocciare la Brexit.

Gianfranco Uber, www.gianfrancouber.eu.

Ostacoli politici e procedurali
C’è chi scommette che, in caso di vittoria del “Remain”, la partita si riaprirebbe dopo qualche tempo, visti gli umori di fondo dell’elettorato britannico, ma è chiaro che una nuova spinta pro-Brexit sarebbe tanto più potente quante più difficoltà incontrasse Cameron nell’incassare quanto concordato al Vertice Ue lo scorso 19 febbraio. Il problema è che, in effetti, vari ostacoli, politici non meno che procedurali, potrebbero complicare l’attuazione dell’accordo.

Occorre distinguere tra le disposizioni dell’accordo che avrebbero effetto immediato - dopo la formale notifica all’Ue del risultato referendario da parte di Londra - quelle che prevedono una modifica dei trattati e quelle, infine, che richiedono l’adozione di atti rientranti nella legislazione secondaria.

Alla prima categoria appartiene l’interpretazione restrittiva che l’accordo dà alla clausola della “Unione sempre più stretta”, stabilendo che essa non costituisce di per sé una base legale per estendere i poteri dell’Unione né esclude che questi ultimi possano essere ridotti e restituiti agli Stati membri. Nulla di veramente nuovo sul piano legale, ma che consolida il principio - già enunciato in precedenza dal Consiglio europeo - che gli Stati membri possono seguire diversi percorsi di integrazione. Principio caro a Cameron, ma che fa temere agli integrazionisti una pericolosa deriva verso un’ingovernabile Europa “á la carte”.

Sempre in materia di “sovranità”, l’accordo introduce un nuovo meccanismo che mira a rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo legislativo europeo, conferendo ad essi un inedito potere di veto. Alcuni critici dell’accordo denunciano il rischio che tale meccanismo possa aprire la strada a un progressivo indebolimento del Parlamento europeo, ma la sua efficacia pratica è molto dubbia poiché richiede un livello di coordinamento e convergenza tra i parlamenti nazionali che, l’esperienza insegna, è difficilmente alla loro portata. In realtà la questione di come garantire un più efficace coinvolgimento dei parlamenti nazionali rimarrebbe irrisolta.

È inoltre prevista l’immediata entrata in vigore di un nuovo meccanismo che mira a dare voce in capitolo al Regno Unito e agli altri paesi non euro nelle deliberazioni relative al funzionamento dell’eurozona e dell’Unione bancaria, per consentirgli di tutelarsi da misure discriminatorie, ma senza potere di veto. Si tratta di una ragionevole soluzione di compromesso, ma che lascia aperto il problema se si possa mantenere un quadro istituzionale comune per tutti i paesi membri, qualora la differenziazione tra i due gruppi - euro e non euro - si approfondisse, come prefigura lo stesso accordo.

Una parte dell’accordo sulla “sovranità” richiede invece, come detto, una modifica dei trattati. È quella che stabilisce che il Regno Unito non è tenuto a prendere parte a “un’ulteriore integrazione politica nell’Unione europea” e a perseguire “un’unione sempre più stretta”. In tal modo verrebbe riconosciuto al Regno Unito uno status speciale che lo metterebbe al riparo, almeno nelle intenzioni di Cameron, da ogni obbligo di cedere nuove porzioni di sovranità a Bruxelles. L’accordo stabilisce che questa integrazione ai trattati avverrebbe “in occasione della loro prossima revisione”.

Dossier spinoso
È però altamente improbabile che si riesca a mettere mano ai trattati prima del 2018, tenuto anche conto che c’è una diffusa - e comprensibile - riluttanza a riaprire questo dossier prima dei due appuntamenti politici cruciali del 2017: le elezioni presidenziali francesi (maggio) e quelle parlamentari tedesche (ottobre). È questo, d’altronde, anche l’orizzonte temporale delineato dall’ultimo documento dei “cinque presidenti” sul completamento dell’Unione economica e monetaria.

Peraltro, ogni processo di revisione dei trattati è sempre a forte rischio di deragliare, essendo richiesto il consenso unanime dei paesi membri, ciascuno dei quali decide in base alle proprie regole costituzionali. Sia i tempi che l’esito del processo non si possono quindi dare per scontati.

C’è poi la parte dell’accordo sull’immigrazione, che è la più controversa, sia legalmente che politicamente, perché introduce la possibilità di restringere l’accesso dei lavoratori migranti Ue alle prestazioni sociali dello Stato ospitante. Per la sua entrata in vigore è necessaria l’adozione di appositi atti legislativi attraverso la procedura ordinaria che prevede il voto favorevole del Parlamento europeo. Per completare l’iter legislativo ci vorrebbero diversi mesi, probabilmente più di un anno e, data la materia incandescente, non si possono escludere battute d’arresto o incidenti di percorso.

Tutt’altro che una marcia trionfale
Infine, benché il Consiglio europeo abbia presentato l’accordo come “pienamente compatibile coi trattati”, potrebbero scattare dei ricorsi alla Corte di giustizia europea per violazione di alcune norme dei trattati. In particolare, le disposizioni sull’immigrazione potrebbero risultare in contrasto con principi fondamentali, come quello di non discriminazione fra i cittadini Ue e la libera circolazione delle persone.

In conclusione, anche nel caso di una vittoria del “Remain”, per Cameron sarebbe tutt’altro che una marcia trionfale. Molto dipenderebbe ovviamente dal margine con cui l’uscita dall’Ue verrebbe bocciata (e se fosse troppo risicato, la sua leadership sarebbe tutt’altro che al sicuro).

In ogni caso, l’attuazione dell’accordo sui nuovi rapporti tra il Regno Unito e l’Ue presenta, come si è visto, non poche insidie ed incognite e potrebbe dare adito a tensioni in seno all’Unione. Pertanto, anche se il referendum premiasse, con un sì all’Europa, lo spirito di compromesso mostrato dai leader europei con l’accordo dello scorso febbraio, essi dovrebbero affrontare seriamente un problema: come evitare che lo scampato pericolo si trasformi in una vittoria di Pirro.

Ettore Greco è direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).

Gran Bretagna. Brexit V

Brexit
Se Londra divorzia dall’Ue, poco male
Roberto Nigido
07/06/2016
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Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli appelli, sulle due sponde dell’ Atlantico e anche ai livelli più elevati, perché i cittadini del Regno Unito si pronuncino in favore della sua permanenza nell’ Unione europea, Ue. Sono stati in particolare sottolineati i gravissimi danni che una decisione contraria comporterebbe sia per il Regno Unito che per l’Ue.

A parere di chi scrive queste preoccupazioni sono esagerate e vanno ridimensionate. Quelle relative ai danni per il Regno Unito sono meno ingiustificate e più comprensibili, nell’ottica di chi, per vari motivi, vorrebbe che Londra continuasse a partecipare all’ integrazione europea, sia pure ridotta ai minimi termini per la Gran Bretagna dopo le intese sollecitate e ottenute al Consiglio europeo di febbraio (e per ora provvisorie in attesa dei risultati del referendum).

Le preoccupazioni relative ai danni per l’ Ue appaiono invece poco convincenti, in particolare se espresse da questa parte della Manica, e strumentali al tentativo di giustificare le straordinarie concessioni fatte al Regno Unito dagli altri membri dell’Unione per facilitare una risposta positiva dell’ elettorato britannico il 23 giugno.

Alle origini del disagio inglese 
Il Regno Unito ha aderito nel 1973 alla allora Comunità europea dopo dodici anni di negoziati, interrotti a più riprese, con l’obiettivo di: essere parte di un esperimento al quale all’inizio non aveva creduto, ma che stava avendo successo; beneficiare di un vasto mercato senza barriere doganali; e “last but not least“ entrare nella libera circolazione europea dei capitali.

Quest’ ultimo obiettivo era vitale allora per il Regno Unito, al fine di“ affogare” nel mercato unificato europeo la montagna di sterline ancora in circolazione nel mondo dopo che la moneta nazionale aveva perso il ruolo di importante valuta di riserva (e il Regno Unito quello di prima economia mondiale).

Sin dall’ inizio gli inglesi si sono sentiti a disagio nella Comunità europea: troppo dirigismo francese, troppa regolamentazione tedesca, troppa improvvisazione italiana. E ancor meno soddisfatti sono stati degli sviluppi successivi verso forme più avanzate di integrazione sovranazionale, totalmente contrarie al senso britannico di indipendenza e sovranità. Così hanno costantemente rinegoziato la loro partecipazione al progetto europeo a ogni stadio del suo avanzamento.

Attualmente sono fuori dalla moneta unica, dalla libera circolazione delle persone e, con gli ultimi accordi di febbraio, anche dalle disposizioni finanziariamente più costose in materia di libera circolazione dei lavoratori. Ma rimangono presenti a pieno titolo in tutte le istituzioni europee con diritto di voto e, dove previsto, di veto.

Divorzio dall’Ue, ripercussioni per Londra
Uscire dall’ Ue non cambierebbe drammaticamente le cose per la Gran Bretagna, ma certamente avrebbe pesanti ripercussioni. Se Londra concludesse immediatamente un accordo con l’Ue per rimanere nel mercato unico e nella libera circolazione dei capitali, non avrebbe più voce, come del resto nemmeno norvegesi e svizzeri, nelle decisioni relative.

È anche da mettere in conto che Londra perderebbe una parte, ma solo una parte, della sua importanza come grande mercato finanziario. La conseguenza più negativa, quella sì veramente seria, sarebbe la prevedibile secessione della Scozia.

E per l’Ue, quali sarebbero le conseguenze della perdita della Gran Bretagna? Da oltre trent’anni, esaurito il ruolo certamente positivo svolto da alcuni dei primi commissari britannici (vanno ricordati in particolare Jenkins, Thompson e Cockfield ), il Regno Unito non ha più dato alcun apporto significativo al progresso dell’ integrazione europea, nemmeno in materia di sicurezza e di difesa, e ha fatto invece di tutto per frenarlo. Né ha voluto contribuire agli equilibri politici complessivi in Europa: obiettivo sul quale avevano puntato molto, alle origini, Italia e Paesi Bassi.

Sul piano politico, non si vede quale indebolimento della posizione dell’Ue nel mondo produrrebbe l’uscita del Regno Unito, visto che Londra non ha mai voluto operare per sostenere e rafforzare questa posizione.

Sul piano degli scambi, il Regno Unito continuerebbe, come si è detto, a far parte del mercato unico. Mentre, in materia finanziaria, il sostanziale diritto di veto attribuito al Regno Unito dalle intese di febbraio potrebbe essere utilizzato da Londra per ostacolare ogni eventuale tentativo dell’Unione di mettere ordine e di far pulizia nella situazione di caos speculativo ora esistente nei mercati finanziari come conseguenza della “deregulation” selvaggia a suo tempo inventata dagli ambienti anglo-sassoni del settore.

I benefici di un’Ue più piccola
È stato sostenuto infine che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione creerebbe un incentivo per altri Paesi membri di seguirne l’esempio. È opinione di che scrive che un rimpicciolimento delle dimensioni dell’Unione potrebbe essere benefico per la sua coesione interna, dopo l’ampliamento della metà degli anni 2000 che fu operato in modo affrettato e senza introdurre più adeguate regole istituzionali.

Mentre le deroghe ad hoc concesse alla Gran Bretagna in febbraio costituirebbero un precedente difficilmente opponibile per ogni Paese che volesse un trattamento specifico e differente dalla regola generale.

In conclusione, ogni popolo deve sentirsi libero di decidere democraticamente del proprio destino, quali ne siano le conseguenze.

Roberto Nigido è Ambasciatore d’Italia.

Gran Bretagna. Brexit IV

Brexit
L'azzardo di Cameron e la riforma dell'Ue
Ettore Greco
27/02/2016
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Non sarà facile per David Cameron convincere l’elettorato che, se la Brexit fosse bocciata al referendum del 23 giugno, il Regno Unito farebbe parte, grazie all’accordo raggiunto all’ultimo Consiglio europeo, di un’Unione europea, Ue, “riformata”, come ha ripetutamente sostenuto in questi giorni. Nella Decisione approvata a Bruxelles si fa infatti molta fatica a trovare traccia di effettive misure di “riforma” dell’Unione.

C’è chi aveva dato credito all’afflato riformatore di Cameron, sperando che il negoziato per evitare la Brexit potesse almeno dare impulso ad alcuni utili cambiamenti al modus operandi dell’Ue. Ma già le concrete richieste avanzate da Cameron il 10 novembre scorso, tutte incentrate su preoccupazioni e interessi tipicamente britannici, avevano spento ogni illusione.

La foglia di fico della riforma
Larga parte di quelle richieste sono state recepite nella Decisione assunta dal Consiglio Europeo il 19 febbraio. È positivo che si sia trovato un compromesso, evitando rotture traumatiche e potenzialmente destabilizzanti, ma da qui a dire che si è così aperta una qualche apprezzabile prospettiva di “riforma” dell’Ue ce ne corre.

Al Vertice è anzi emerso plasticamente lo iato tra le questioni, di portata tutto sommato limitata, su cui si è laboriosamente negoziato con Londra, e i paralleli tentativi di trovare una soluzione a problematiche di urgenza estrema - a partire dalla crisi migratoria- che stanno rimettendo in causa la stessa ragion d’essere dell’Ue. Di qui anche l’atmosfera un po’ surreale dell’incontro.

La Decisione del Consiglio Europeo include, a dire il vero, una sezione, quella sulla competitività, dedicata a un aspetto cruciale della riforma dell’Ue, ma si tratta della parte più debole del documento, essendo del tutto priva di efficacia cogente.

I 28 si sono infatti limitati a reiterare in una “Dichiarazione” l’impegno alla semplificazione burocratica e legislativa - peraltro parte integrante del programma della Commissione Europea - senza offrire nuove indicazioni o strumenti per il superamento degli ostacoli politici e tecnici che ne hanno finora frenato l’attuazione.

Integrazione differenziata
In realtà, quando Cameron parla di “Unione riformata”, sembra aver in mente soprattutto la sezione del documento sulla “sovranità” che sancisce, fra l’altro, lo status speciale del Regno Unito all’interno dell’Ue, con i suoi vari “opt-outs”, esentando Londra dall’impegno a realizzare un’”unione sempre più stretta”, e riconosce la possibilità che i paesi membri seguano differenti percorsi d’integrazione.

Quest’ultimo punto non è una grande innovazione: già nelle conclusioni dell’incontro del 26-27 giugno 2014 il Consiglio Europeo aveva esplicitamente ammesso la possibilità di un’integrazione differenziata, sminuendo la portata della clausola dell’”unione sempre più stretta”. Cameron può però legittimamente sostenere che questa volta il principio della differenziazione è stata formulato in modo più netto.

Un contributo alla chiarezza, se si vuole, ma resta da capire se e come una progressiva differenziazione – ammesso che questo sia il destino dell’Ue – sia compatibile con il mantenimento di un quadro istituzionale coerente. Anche perché il documento approvato al vertice sottolinea al contempo la necessità che, in ossequio ai trattati, si sviluppi ulteriormente il processo di integrazione dell’eurozona. Le nuove forme di governance da adottare per un’Unione a integrazione differenziata restano un nodo ancora tutto da sciogliere. Tuttavia, si può sostenere che l’accordo del 19 febbraio contribuisce a dare maggiore risalto alla questione.

Mossa difensiva
Quanto allo status speciale per il Regno Unito, si tratta di una mossa difensiva che ha ben poco a vedere con la “riforma” dell’Ue. L’obiettivo dichiarato di Londra è di proteggersi dalla prospettiva di un’ulteriore integrazione politica, mettendo al sicuro i suoi residui poteri sovrani. Molti dubitano però che l’esenzione dalla clausola dell’Unione più stretta serva davvero allo scopo. Sarebbe peraltro incorporata nei trattati solo in occasione della loro “prossima revisione”, cioè in un futuro imprecisato.

Molto più significativa e concreta è la parte della Decisione che mira a salvaguardare gli interessi e i diritti dei Paesi che non fanno parte dell’eurozona, evitando discriminazioni, ma anche escludendo ogni potere di blocco da parte dei non-euro su ulteriori progressi nell’ambito dell’Unione economica e monetaria. Su questo aspetto si è, in effetti, raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio fra opposte esigenze.

L’accordo non prevede in ogni caso alcun rimpatrio di poteri da Bruxelles - men che meno il ripristino della supremazia delle leggi nazionali su quelle comunitarie - con grande scorno degli euroscettici, almeno di quelli che si erano fatti delle illusioni, e che ora accusano Cameron, non del tutto infondatamente, di aver tradito le promesse elettorali. D’altronde, non è mai stata formulata, neanche da parte dei tories, un’indicazione precisa sui poteri che Londra dovrebbe riprendersi. Siamo insomma lontani da quel “cambiamento fondamentale” nelle relazioni tra Regno Unito e Ue che Cameron aveva baldanzosamente prospettato.

Incognite
L’accordo è stato presentato dai 28 come legalmente vincolante e perfettamente compatibile con i trattati, ma restano alcune incognite sulla sua attuazione che verranno inevitabilmente rinfacciate a Cameron durante la campagna referendaria. Due soprattutto.

Per entrare in vigore, alcune disposizioni, in particolare quelle che limitano l’accesso dei lavoratori migranti Ue alle prestazioni sociali richiedono modifiche di non poco conto alla legislazione secondaria (anche se difficilmente Cameron riuscirà a dimostrare che possono produrre un effettivo alleggerimento della pressione migratoria).

Per la loro entrata in vigore è quindi necessario l’assenso del Parlamento europeo che non si può dare per scontato. Inoltre, è probabile che scatterebbero alcuni ricorsi alla Corte di giustizia europea che, come paventato, fra gli altri, dal ministro della Giustizia Michael Gove, uno dei membri del gabinetto Cameron favorevole alla Brexit, potrebbe trovare alcune delle nuove norme in contrasto con i trattati (in particolare con il principio di non discriminazione e con quello della libera circolazione delle persone). Già adesso, d’altronde, la disputa politica s’intreccia con quella legale.

Cameron inedito
L’argomento dell’Unione “riformata” grazie all’accordo appare dunque quanto meno stiracchiato. Ed è perciò prevedibile che alla fine non sarà su quello che Cameron farà leva per conquistare gli indecisi. Ben altra presa potrà avere l’evocazione del “salto nel buio” in caso di Brexit a cui infatti il premier britannico sta ricorrendo con crescente intensità.

Cameron si sta in realtà già impegnando in una campagna positiva volta a sottolineare i vantaggi della permanenza nell’Ue. Di più: si è lanciato in un’inedita denuncia dell’”illusione della sovranità” in caso di Brexit, il che equivale a una sorprendente riabilitazione della sovranità condivisa. Resta da vedere come verrà accolto dall’elettorato questo drastico cambiamento di retorica politica dopo anni in cui i leader conservatori, e non solo, hanno condotto una sistematica denigrazione dell’Ue.

Ettore Greco è direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).

Gran Bretagna. Brexit III

Brexit
Ue-Uk: che relazione dopo l’eventuale divorzio
Marco Gestri
20/06/2016
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David Cameron ha dichiarato di fronte al Parlamento che il risultato del referendum del 23 giugno sarà definitivo e che, in caso di vittoria del fronte Brexit, attiverà la procedura prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea, Ue. Che cosa comporterebbe tale processo? Ci si interroga anche su possibili modelli per inquadrare, nell’ipotesi di divorzio, le relazioni tra Ue e Uk.

Il recesso in base ai trattati
Il Trattato di Lisbona ha per la prima volta previsto, all’art. 50 Tue, che uno Stato membro possa recedere dall’Ue. Prima del 2009 molti consideravano l’appartenenza all’Unione un “fatto irreversibile” (anche la Corte del Lussemburgo sembrava implicitamente riconoscerlo).

Altri sostenevano che il recesso fosse comunque possibile, rimanendo gli Stati, come affermato dalla Corte costituzionale tedesca, “padroni dei trattati” europei. Del resto, l’Ue non è uno Stato federale, ma un’organizzazione internazionale.

Oggi l’art. 50 prevede un’apposita procedura per la quale le modalità del recesso dovrebbero essere stabilite da uno specifico accordo concluso tra l’Unione e lo Stato interessato.

Per l’Ue, l’accordo è negoziato dalla Commissione, sulla base di orientamenti definiti dal Consiglio europeo (col consenso di tutti gli Stati rimanenti), e concluso dal Consiglio, che decide a maggioranza qualificata (almeno 20 Stati a favore, rappresentanti il 65% della popolazione), previa approvazione del Parlamento europeo. Una volta stipulato l’accordo, i trattati Ue cessano di applicarsi allo Stato interessato.

Per la conclusione dell’accordo è previsto un termine di due anni, decorso il quale il recesso si perfezionerebbe comunque. Dunque, uno Stato può recedere dall’Unione ad libitum, anche senza il consenso di quest’ultima o degli altri Stati membri.

Una tale eventualità (uscita “al buio”) sembra inimmaginabile per il Regno Unito, per l’insostenibile incertezza che determinerebbe sul piano economico-finanziario. L’art. 50 prevede comunque che il termine possa essere prorogato (è richiesta l’unanimità degli Stati rimanenti). Crediamo che difficilmente l’accordo potrebbe esser concluso nei due anni e una proroga risulterebbe l’unica via d’uscita.

L’art. 50 fa cenno alla definizione di un “quadro delle future relazioni” tra lo Stato che recede e l’Ue. Questo potrebbe esser stabilito nello stesso accordo sul recesso o, più probabilmente, in un accordo separato. In ogni caso, i negoziati richiederebbero molti anni (si parla addirittura di più di un decennio).

Quando la popolazione della Groenlandia votò a favore dell’uscita dall’Ue (1982), la definizione dei relativi aspetti tecnici richiese tre anni (nonostante non si trattasse di uno Stato, ma di una regione polare, checomunque acquisì lo status di Territorio d’oltremare).

Il modello norvegese e lo Spazio economico europeo
Già vengono discussi alcuni possibili scenari alternativi riguardo alle relazioni tra Uk e Ue in caso di Brexit. Il modello più contemplato è quello norvegese, che vedrebbe l’adesione del Regno Unito allo Spazio economico europeo (See, di cui fanno parte anche Islanda e Liechtenstein).

Ciò consentirebbe all’Uk di godere di gran parte dei vantaggi legati all’accesso al mercato unico europeo (di cui lo See è sostanzialmente un’estensione), ritenuti vitali dalle imprese situate nel Regno Unito (in particolare nel settore dei servizi ma anche da quelle automobilistiche) che al momento accedono a un mercato di 500 milioni di individui. Il modello presenterebbe però alcuni aspetti problematici.

Gli Stati non-Ue parti dello See devono accettare a scatola chiusa la legislazione elaborata dalle istituzioni Ue in tutti settori attinenti al mercato unico (i tre quarti del totale delle norme europee!) e garantire la libera circolazione e soggiorno dei cittadini Ue (argomento cui gli inglesi sono sensibili).

La Norvegia è poi tenuta a contribuire alle spese dell’Ue (quasi alla stregua degli Stati membri). Certamente il Regno Unito cercherebbe di ottenere vantaggi speciali, ma è da vedere se gli altri Stati sarebbero disposti a concederli. Anzi, non è affatto scontato che in caso di Brexit gli Stati rimanenti concedano al Regno Unito di mantenere l’accesso al mercato interno.

Accordo bilaterale o di libero commercio 
In alternativa il Regno Unito potrebbe negoziare un accordo bilaterale con l’Ue. Il precedente più avanzato è offerto dalla Svizzera (che ha concluso accordi che la pongono in una posizione simile a quella della Norvegia, anche se con un minore accesso al mercato unico, tra l’altro in materia di servizi). Ma tale modello è entrato in crisi a seguito del referendum, approvato in Svizzera nel 2014, per l’introduzione di quote per il soggiorno di cittadini Ue.

Vi è infine la possibilità di negoziare un semplice accordo di libero commercio tra Ue e Regno Unito. Significativo quello negoziato dall’Ue con il Canada. Esso ha comunque richiesto più anni, pur non prevedendo un accesso al mercato unico europeo né norme sulla libera circolazione. La riproposizione di un simile modello per le future relazioni tra Regno Unito e Ue pare un salto nel passato.

Tutti gli scenari appena descritti comportano problemi e una pericolosissima incertezza. Anche per l’Ue e gli Stati membri l’uscita del Regno Unito risulterebbe molto “costosa”, altresì in termini politici. Il pragmatismo britannico rappresenta spesso l’ultimo baluardo rispetto a politiche europee che, in alcuni settori chiave (lotta al terrorismo, controllo dell’immigrazione), sembrano distaccarsi dalla realtà dei fatti.

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.

Gran Bretagna. Brexit II

Economia
Brexit, i mercati nervosi non aiutano l’Italia
Marco Magnani
20/06/2016
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Leave or Remain. Indipendentemente dalla scelta che i cittadini britannici faranno al referendum del 23 giugno, vi saranno costi politici ed economici da una parte e dall’altra della Manica. Ed è molto probabile che l’attuale clima d’incertezza continuerà, con conseguenze negative sui mercati finanziari di tutta Europa.

Regno Unito spaccato in due
Dalle indicazioni di voto emerge un paese profondamente diviso. Da un punto di vista anagrafico, perché nel Regno Unito è contrario all’Ue soprattutto chi ha più di 44 anni (nell’Europa continentale, invece, sono i più giovani a mettere in discussione il progetto europeo).

Da un punto di vista politico, perché Cameron - che in caso di Brexit dovrebbe dimettersi - avrà grosse difficoltà a governare tanto il paese quanto il partito anche se i Remaindovessero prevalere con stretto margine.

Le tensioni sono evidenti. Nel marzo scorso, il segretario di Stato per il Lavoro Ian Duncan Smith si è dimesso. L’attuale ministro della Giustizia Michael Gove sta facendo campagna elettorale pro-Brexit. Così come l’eclettico Boris Johnson, fino a qualche settimana fa sindaco di Londra e ora aspirante leader dei Conservatori. La triplice spaccatura nel partito, nel governo e nel Paese è fonte d’incertezza politica con inevitabili ripercussioni economiche.

A tutto ciò si aggiunge l’incognita Scozia. Dopo il referendum del settembre 2014, in cui prevalsero i no all’indipendenza di Edimburgo con poco più del 55%, i separatisti potrebbero tornare alla carica. Lo faranno certamente in caso di vittoria di Brexit, ma forse anche in caso contrario. È evidente che questo clima d’incertezza politica non è terreno fertile per la crescita economica e per la stabilità dei mercati finanziari.

Londra: i costi di un’uscita
Il costo economico dell’uscita sarebbe nel breve termine soprattutto del Regno Unito, il cui Pil potrebbe diminuire dell’1%-1,5%. Nulla d’irrimediabile per un’economia importante come quella britannica, che peraltro è in condizioni migliori del resto d’Europa. Tuttavia, soprattutto in tempi in cui la crescita si misura in decimali, si tratta di contrazione significativa.

L’Europa sarebbe a sua volta penalizzata soprattutto nelle esportazioni verso il Regno Unito, dato che la sterlina - in queste settimane già svalutatasi nei confronti dell’euro - si deprezzerebbe ulteriormente. Con ripercussioni anche su investimenti e movimenti di capitali tra Regno Unito e area euro.

La piazza finanziaria di Londra, la più importante d’Europa e una delle maggiori al mondo, sarebbe ridimensionata. È possibile che la fuga delle istituzioni finanziarie da Londra verso Parigi e Francoforte non sia così massiccia e rapida come paventato, ma certamente diventerebbe più complesso e costoso per banche, assicurazioni e multinazionali mantenere nella capitale inglese il proprio quartier generale. L’occupazione non ne gioverebbe.

Da notare, poi, che il governo britannico potrebbe incontrare difficoltà nel rinegoziare in modo rapido e soddisfacente accordi, sia con i paesi Ue sia con quelli extra-Ue, su materie di non poco conto come la circolazione di merci, capitali e persone.

Le difficoltà potrebbero arrivare da un lato perché il clima internazionale è oggi meno favorevole che in passato ad accordi di commercio e scambio, e dall’altro perché potrebbero emergere rancori e risentimenti nei confronti di Londra da parte di alcuni dei 27 paesi rimasti nell’Unione.

Nuovi equilibri nel Vecchio continente
In caso di Brexit, il sogno europeo subirebbe un grave danno d’immagine in un momento già molto delicato. Si aprirebbe un capitolo ricco d’incognite che potrebbe portare addirittura a un processo di disgregazione politica, con evidenti implicazioni economiche.

Altri paesi, come l’Olanda, potrebbero essere tentati dalla possibilità di uscita. Paesi che storicamente guardano a Londra come punto di riferimento in Europa - come Polonia e Paesi Baltici - stanno già dando segni di nervosismo.

Alcuni analisti ritengono, al contrario, che una riduzione delle dimensioni dell’Unione potrebbe facilitare la sua coesione politica ed economica interna e creare le condizioni per un salto di qualità. È possibile. Tuttavia, è indubbio che in caso di Brexit cambierebbero significativamente gli equilibri nel Vecchio continente.

Nonostante la sua posizione distaccata nei confronti dell’Europa, il Regno Unito è stato storicamente un importante contrappeso di Francia e Germania, non solo militare e politico ma anche economico.

Un’Europa senza Londra avrebbe una politica estera ancor più debole e sarebbe meno credibile sul tema della difesa comune a causa della predominanza di Parigi. La Francia rimarrebbe poi l’unico paese dell’Ue membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Da un punto di vista economico aumenterebbe la dipendenza dalla Germania.

Passo indietro su libero mercato e concorrenza
Nell’eventualità di una Brexit, risulterebbe indebolito il fronte che all’interno dell’Ue sostiene l’aumento del mercato e della libera concorrenza. Il Regno Unito è infatti sempre stato un fermo fautore del mercato unico e un ostinato nemico di aiuti di Stato, eccessivi regolamenti e burocrazia.

In un’Europa in cui il processo decisionale si spostasse ancor più tra Parigi, Berlino e Bruxelles, chi impugnerebbe la bandiera del libero mercato? La questione non è di poco conto, dato che il mercato unico europeo è oggi quasi inesistente in settori quali servizi, libere professioni ed energia.

D’altra parte, gli equilibri europei sarebbero precari e l’integrazione europea difficile anche nel caso in cui il Regno Unito rimanesse nell’Unione. Le generose deroghe concesse dall’Ue a Londra nel febbraio scorso con l’obiettivo di depotenziare gli argomenti del fronte Brexit al referendum, sono un precedente pericoloso che apre la strada ad altre richieste di eccezioni agli accordi. Inoltre, il Regno Unito continuerebbe a opporsi a qualsiasi tentativo di far avanzare il processo d’integrazione economica europea.

Piazze finanziarie in ansia
L’incertezza sul risultato del referendum britannico ha messo in fibrillazione i mercati finanziari. In caso di vittoria del Leave, il nervosismo aumenterà. Ma anche in caso contrario la volatilità continuerà.

Troppe sono le incognite politico-economiche dei prossimi mesi. Dai problemi della Grecia, che sono tutt’altro che risolti, alle elezioni presidenziali statunitensi di inizio novembre. Dal faticoso negoziato per il Ttip alla fragilità del sistema bancario.

Anche il referendum costituzionale italiano dell’ottobre 2016, al quale sono state legate le sorti del governo, diventerà presto elemento d’incertezza e fonte di nervosismo per le piazze finanziarie. Il 2017 sarà poi un anno elettorale in importanti Paesi europei, fra cui la Francia.

Questi continui appuntamenti densi d’incertezze, che peraltro avvengono in un contesto economico fortemente indebolito da anni di grave crisi, sono causa di volatilità sui mercati, influenzano le decisioni delle Banche centrali e condizionano le scelte di investimento delle imprese e quelle di consumo dei cittadini.

Ognuno di questi passaggi è come una miccia accesa che rischia di infiammare i mercati europei e mondiali. L’Italia, con il suo enorme debito pubblico, ha tutto l’interesse che non scoppino incendi.

Marco Magnani è Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School. Ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (Utet), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan), “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (Utet) e collabora con IlSole24Ore. Nell’autunno 2016 offrirà il corso Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della LUISS (twitter @marcomagnan1; www.magnanimarco.com).

Gran Bretagna. Brexit I

Brexit
Londra sogna Hong Kong ma rischia Little England 
Marinella Neri Gualdesi
20/06/2016
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Anche se David Cameron ha ottenuto dai partner un accordo che allarga ulteriormente le eccezioni alle regole comuni e rafforza lo status particolare di cui già gode il Regno Unito, l’esito del referendum del 23 giugno è quanto mai incerto.

Che cosa è realmente in gioco per l’Unione europea, Ue, e per il Regno Unito? La fiducia nel disegno di unificazione per la prima e un bene tangibile per il secondo, ovvero la sua prosperità.

Una caricatura dell’Ue sotto esame
Per l’Ue l’eventuale vittoria del “leave” rafforzerebbe ancora di più la crisi del progetto europeo, alimentando l’incertezza sulla tenuta del percorso d’integrazione. La crisi in realtà è iniziata prima del referendum britannico.

Il voto del 2005 in Francia e in Olanda contro il trattato costituzionale è stato un segnale di allarme sottovalutato dalle classi dirigenti europee. Va anche detto che, allora come oggi, i cittadini votano non tanto sul contenuto reale delle scelte oggetto di referendum, ma su temi “metapolitici”, identitari, su una caricatura dell’Ue rappresentata come il male assoluto e fonte solo di problemi.

La svalutazione del significato storico del processo di integrazione europea è particolarmente preoccupante, nel momento in cui nel dibattito pubblico riemergono dai meandri più scuri del Novecento europeo temi e pulsioni nazionaliste che hanno portato a due tragiche guerre civili europee.

Per il Regno Unito è in gioco la prosperità economica. Le valutazioni degli organismi economici internazionali e dello stesso cancelliere dello scacchiere George Osborne sono concordi nel prevedere per il periodo post-uscita la perdita della tripla A, inflazione e svalutazione della sterlina, caduta del Pil, disoccupazione, una perdita di reddito per ogni famiglia britannica.

Il premier Cameron ha parlato di Brexit come una “bomba economica”. Soprattutto, il Regno Unito perderebbe i concreti vantaggi del mercato unico e del sistema di intermediazione e di scambio su scala europea.

Cosa succederebbe in concreto nel caso prevalessero i favorevoli a abbandonare l’Ue ? L’art. 50 del trattato di Lisbona disciplina la procedura di uscita di uno stato membro. Il governo del Paese che intende uscire dall’Unione notifica al Consiglio europeo la sua decisione. A quel punto deve essere negoziato e concluso un accordo per definire le modalità del recesso.

Il Consiglio europeo autorizza l’avvio dei negoziati e designa il negoziatore o il capo della squadra negoziale dell’Unione che negozierà secondo l’art 218, par. 3. L’accordo è concluso dal Consiglio che vota a maggioranza qualificata (72% dei membri dei paesi membri, che rappresentino il 65% della popolazione), previa approvazione del Parlamento europeo.

Il Regno Unito dovrebbe rinegoziare con l’Ue 80 mila pagine di accordi, scegliendo quelli da mantenere e quelli da lasciare. Due anni dopo la notifica i trattati cessano di essere applicabili, a meno che il Consiglio europeo non conceda una proroga.

Anni di incertezza all’orizzonte
Resta da vedere se in due anni l’Ue e il Regno unito troveranno un accordo. Si aprirà comunque una fase di grande incertezza. Particolarmente difficile un’intesa sul piano commerciale. Il 44% delle esportazioni del Regno Unito vanno verso l’Europa, mentre l’ammontare delle esportazioni europee in Gran Bretagna è solo l’8%.

È Londra ad aver bisogno dell’accordo. Ancor più complessa un’intesa sui servizi finanziari, con altri Paesi (Germania, Irlanda) interessati a sottrarre il settore delle transazioni finanziarie e delle commodities alla City di Londra.

In assenza di accordo due opzioni principali si delineano. La prima potrebbe consentire a Londra di partecipare allo Spazio economico europeo, con uno statuto simile a quello della Norvegia. L’accesso al mercato unico sarebbe garantito, ma Londra dovrebbe accettare la libertà di movimento dei lavoratori, pagare un contributo all’Ue e potrebbero esservi comunque barriere non tariffarie. In ogni caso Londra dovrebbe sottoscrivere regole europee senza avere nessuna voce in capitolo nel definirle.

Nella seconda opzione, il Regno Unito dovrebbe negoziare un accordo commerciale con l’Unione e con i paesi fuori dell’Ue basato sulle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, tenendo presente che l’Ue ha circa 100 accordi commerciali con paesi esterni che andrebbero quindi rinegoziati.

Perdere un partner riluttante
Nel Regno Unito la Brexit avvierebbe una guerra interna al partito conservatore e l’uscita dall’Ue significherebbe soprattutto una perdita di status e di potere negoziale. In una fase storica di ritorno a protezionismi e chiusure Londra, costretta a rinegoziare con l’Ue e tutti i partner commerciali nuovi accordi si troverà “in coda”, come ha detto il presidente Usa Barack Obama, e in un ambiente meno favorevole alle aperture commerciali.

Il Regno Unito sembra inseguire il ruolo di una grande Hong Kong al largo dell’Europa, ma rischia di ritrovarsi a essere solo una Little England.

Per l’Ue le conseguenze possono essere meno negative. Certo si aprirà una fase di incertezza, si potrebbe innescare una reazione a catena, un effetto emulazione, con altri paesi tentati dal seguire l’esempio inglese. Cosa che spingerà i partner europei a irrigidire la loro posizione nel negoziare l’accordo post-uscita, proprio per dimostrare che lasciare l’Ue ha un costo molto elevato.

Anche se per paesi come l’Olanda o l’Ungheria la perdita dell’accesso al mercato unico europeo avrebbe conseguenze ancora più pesanti che per il Regno Unito e quindi la temuta emulazione è più teorica che reale.

Dal 1973 a oggi, in Europa Londra ha agito prevalentemente come un freno, opponendosi al rafforzamento dell’integrazione, richiedendo eccezioni, deroghe, status speciali come prezzo per avere la partecipazione britannica nell’Ue. Perdere un partner riluttante può non avere conseguenze negative.

Contemporaneamente però l’Europa deve aprire il cantiere delle riforme per correggere e aggiornare le politiche dell’Ue. Dare soluzioni ai problemi dei cittadini europei, ridurre la burocrazia, abbandonare il paradigma economico dell’austerità, sono questi i problemi che i leader europei devono affrontare. Il risultato avvelenato del referendum britannico sarà di rendere tutto questo non facile, se prevarranno le turbolenze sui mercati e non le ragioni dello stare insieme.

Marinella Neri Gualdesi è Professore di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Pisa.