Leave or Remain. Indipendentemente dalla scelta che i cittadini britannici faranno al referendum del 23 giugno, vi saranno costi politici ed economici da una parte e dall’altra della Manica. Ed è molto probabile che l’attuale clima d’incertezza continuerà, con conseguenze negative sui mercati finanziari di tutta Europa.
Regno Unito spaccato in due Dalle indicazioni di voto emerge un paese profondamente diviso. Da un punto di vista anagrafico, perché nel Regno Unito è contrario all’Ue soprattutto chi ha più di 44 anni (nell’Europa continentale, invece, sono i più giovani a mettere in discussione il progetto europeo).
Da un punto di vista politico, perché Cameron - che in caso di Brexit dovrebbe dimettersi - avrà grosse difficoltà a governare tanto il paese quanto il partito anche se i Remaindovessero prevalere con stretto margine.
Le tensioni sono evidenti. Nel marzo scorso, il segretario di Stato per il Lavoro Ian Duncan Smith si è dimesso. L’attuale ministro della Giustizia Michael Gove sta facendo campagna elettorale pro-Brexit. Così come l’eclettico Boris Johnson, fino a qualche settimana fa sindaco di Londra e ora aspirante leader dei Conservatori. La triplice spaccatura nel partito, nel governo e nel Paese è fonte d’incertezza politica con inevitabili ripercussioni economiche.
A tutto ciò si aggiunge l’incognita Scozia. Dopo il referendum del settembre 2014, in cui prevalsero i no all’indipendenza di Edimburgo con poco più del 55%, i separatisti potrebbero tornare alla carica. Lo faranno certamente in caso di vittoria di Brexit, ma forse anche in caso contrario. È evidente che questo clima d’incertezza politica non è terreno fertile per la crescita economica e per la stabilità dei mercati finanziari.
Londra: i costi di un’uscita Il costo economico dell’uscita sarebbe nel breve termine soprattutto del Regno Unito, il cui Pil potrebbe diminuire dell’1%-1,5%. Nulla d’irrimediabile per un’economia importante come quella britannica, che peraltro è in condizioni migliori del resto d’Europa. Tuttavia, soprattutto in tempi in cui la crescita si misura in decimali, si tratta di contrazione significativa.
L’Europa sarebbe a sua volta penalizzata soprattutto nelle esportazioni verso il Regno Unito, dato che la sterlina - in queste settimane già svalutatasi nei confronti dell’euro - si deprezzerebbe ulteriormente. Con ripercussioni anche su investimenti e movimenti di capitali tra Regno Unito e area euro.
La piazza finanziaria di Londra, la più importante d’Europa e una delle maggiori al mondo, sarebbe ridimensionata. È possibile che la fuga delle istituzioni finanziarie da Londra verso Parigi e Francoforte non sia così massiccia e rapida come paventato, ma certamente diventerebbe più complesso e costoso per banche, assicurazioni e multinazionali mantenere nella capitale inglese il proprio quartier generale. L’occupazione non ne gioverebbe.
Da notare, poi, che il governo britannico potrebbe incontrare difficoltà nel rinegoziare in modo rapido e soddisfacente accordi, sia con i paesi Ue sia con quelli extra-Ue, su materie di non poco conto come la circolazione di merci, capitali e persone.
Le difficoltà potrebbero arrivare da un lato perché il clima internazionale è oggi meno favorevole che in passato ad accordi di commercio e scambio, e dall’altro perché potrebbero emergere rancori e risentimenti nei confronti di Londra da parte di alcuni dei 27 paesi rimasti nell’Unione.
Nuovi equilibri nel Vecchio continente In caso di Brexit, il sogno europeo subirebbe un grave danno d’immagine in un momento già molto delicato. Si aprirebbe un capitolo ricco d’incognite che potrebbe portare addirittura a un processo di disgregazione politica, con evidenti implicazioni economiche.
Altri paesi, come l’Olanda, potrebbero essere tentati dalla possibilità di uscita. Paesi che storicamente guardano a Londra come punto di riferimento in Europa - come Polonia e Paesi Baltici - stanno già dando segni di nervosismo.
Alcuni analisti ritengono, al contrario, che una riduzione delle dimensioni dell’Unione potrebbe facilitare la sua coesione politica ed economica interna e creare le condizioni per un salto di qualità. È possibile. Tuttavia, è indubbio che in caso di Brexit cambierebbero significativamente gli equilibri nel Vecchio continente.
Nonostante la sua posizione distaccata nei confronti dell’Europa, il Regno Unito è stato storicamente un importante contrappeso di Francia e Germania, non solo militare e politico ma anche economico.
Un’Europa senza Londra avrebbe una politica estera ancor più debole e sarebbe meno credibile sul tema della difesa comune a causa della predominanza di Parigi. La Francia rimarrebbe poi l’unico paese dell’Ue membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Da un punto di vista economico aumenterebbe la dipendenza dalla Germania.
Passo indietro su libero mercato e concorrenza Nell’eventualità di una Brexit, risulterebbe indebolito il fronte che all’interno dell’Ue sostiene l’aumento del mercato e della libera concorrenza. Il Regno Unito è infatti sempre stato un fermo fautore del mercato unico e un ostinato nemico di aiuti di Stato, eccessivi regolamenti e burocrazia.
In un’Europa in cui il processo decisionale si spostasse ancor più tra Parigi, Berlino e Bruxelles, chi impugnerebbe la bandiera del libero mercato? La questione non è di poco conto, dato che il mercato unico europeo è oggi quasi inesistente in settori quali servizi, libere professioni ed energia.
D’altra parte, gli equilibri europei sarebbero precari e l’integrazione europea difficile anche nel caso in cui il Regno Unito rimanesse nell’Unione. Le generose deroghe concesse dall’Ue a Londra nel febbraio scorso con l’obiettivo di depotenziare gli argomenti del fronte Brexit al referendum, sono un precedente pericoloso che apre la strada ad altre richieste di eccezioni agli accordi. Inoltre, il Regno Unito continuerebbe a opporsi a qualsiasi tentativo di far avanzare il processo d’integrazione economica europea.
Piazze finanziarie in ansia L’incertezza sul risultato del referendum britannico ha messo in fibrillazione i mercati finanziari. In caso di vittoria del Leave, il nervosismo aumenterà. Ma anche in caso contrario la volatilità continuerà.
Troppe sono le incognite politico-economiche dei prossimi mesi. Dai problemi della Grecia, che sono tutt’altro che risolti, alle elezioni presidenziali statunitensi di inizio novembre. Dal faticoso negoziato per il Ttip alla fragilità del sistema bancario.
Anche il referendum costituzionale italiano dell’ottobre 2016, al quale sono state legate le sorti del governo, diventerà presto elemento d’incertezza e fonte di nervosismo per le piazze finanziarie. Il 2017 sarà poi un anno elettorale in importanti Paesi europei, fra cui la Francia.
Questi continui appuntamenti densi d’incertezze, che peraltro avvengono in un contesto economico fortemente indebolito da anni di grave crisi, sono causa di volatilità sui mercati, influenzano le decisioni delle Banche centrali e condizionano le scelte di investimento delle imprese e quelle di consumo dei cittadini.
Ognuno di questi passaggi è come una miccia accesa che rischia di infiammare i mercati europei e mondiali. L’Italia, con il suo enorme debito pubblico, ha tutto l’interesse che non scoppino incendi.
Marco Magnani è Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School. Ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (Utet), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan), “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (Utet) e collabora con IlSole24Ore. Nell’autunno 2016 offrirà il corso Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della LUISS (twitter @marcomagnan1; www.magnanimarco.com).
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