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Con buona parte dei più recenti sondaggi che danno di nuovo la Brexit in leggero svantaggio, ci si torna ad interrogare su cosa accadrebbe, in concreto, se la maggioranza degli elettori britannici votasse a favore della permanenza nell’Ue.
È certo infatti che non si avrebbe un mero ritorno allo status quo ante. A parte gli scossoni che potrebbe subire, anche in questo caso, il quadro politico interno - a cominciare dalla resa dei conti, a parte invertite, fra i tories - David Cameron dovrebbe darsi da fare per ottenere l’attuazione, quanto più rapida e completa, dell’accordo del febbraio scorso con gli altri leader europei che mira a rimodellare i rapporti tra Regno Unito e Ue. È esibendo questo accordo, non va dimenticato, che il premier britannico ha chiesto ai suoi concittadini di bocciare la Brexit. Ostacoli politici e procedurali C’è chi scommette che, in caso di vittoria del “Remain”, la partita si riaprirebbe dopo qualche tempo, visti gli umori di fondo dell’elettorato britannico, ma è chiaro che una nuova spinta pro-Brexit sarebbe tanto più potente quante più difficoltà incontrasse Cameron nell’incassare quanto concordato al Vertice Ue lo scorso 19 febbraio. Il problema è che, in effetti, vari ostacoli, politici non meno che procedurali, potrebbero complicare l’attuazione dell’accordo. Occorre distinguere tra le disposizioni dell’accordo che avrebbero effetto immediato - dopo la formale notifica all’Ue del risultato referendario da parte di Londra - quelle che prevedono una modifica dei trattati e quelle, infine, che richiedono l’adozione di atti rientranti nella legislazione secondaria. Alla prima categoria appartiene l’interpretazione restrittiva che l’accordo dà alla clausola della “Unione sempre più stretta”, stabilendo che essa non costituisce di per sé una base legale per estendere i poteri dell’Unione né esclude che questi ultimi possano essere ridotti e restituiti agli Stati membri. Nulla di veramente nuovo sul piano legale, ma che consolida il principio - già enunciato in precedenza dal Consiglio europeo - che gli Stati membri possono seguire diversi percorsi di integrazione. Principio caro a Cameron, ma che fa temere agli integrazionisti una pericolosa deriva verso un’ingovernabile Europa “á la carte”. Sempre in materia di “sovranità”, l’accordo introduce un nuovo meccanismo che mira a rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo legislativo europeo, conferendo ad essi un inedito potere di veto. Alcuni critici dell’accordo denunciano il rischio che tale meccanismo possa aprire la strada a un progressivo indebolimento del Parlamento europeo, ma la sua efficacia pratica è molto dubbia poiché richiede un livello di coordinamento e convergenza tra i parlamenti nazionali che, l’esperienza insegna, è difficilmente alla loro portata. In realtà la questione di come garantire un più efficace coinvolgimento dei parlamenti nazionali rimarrebbe irrisolta. È inoltre prevista l’immediata entrata in vigore di un nuovo meccanismo che mira a dare voce in capitolo al Regno Unito e agli altri paesi non euro nelle deliberazioni relative al funzionamento dell’eurozona e dell’Unione bancaria, per consentirgli di tutelarsi da misure discriminatorie, ma senza potere di veto. Si tratta di una ragionevole soluzione di compromesso, ma che lascia aperto il problema se si possa mantenere un quadro istituzionale comune per tutti i paesi membri, qualora la differenziazione tra i due gruppi - euro e non euro - si approfondisse, come prefigura lo stesso accordo. Una parte dell’accordo sulla “sovranità” richiede invece, come detto, una modifica dei trattati. È quella che stabilisce che il Regno Unito non è tenuto a prendere parte a “un’ulteriore integrazione politica nell’Unione europea” e a perseguire “un’unione sempre più stretta”. In tal modo verrebbe riconosciuto al Regno Unito uno status speciale che lo metterebbe al riparo, almeno nelle intenzioni di Cameron, da ogni obbligo di cedere nuove porzioni di sovranità a Bruxelles. L’accordo stabilisce che questa integrazione ai trattati avverrebbe “in occasione della loro prossima revisione”. Dossier spinoso È però altamente improbabile che si riesca a mettere mano ai trattati prima del 2018, tenuto anche conto che c’è una diffusa - e comprensibile - riluttanza a riaprire questo dossier prima dei due appuntamenti politici cruciali del 2017: le elezioni presidenziali francesi (maggio) e quelle parlamentari tedesche (ottobre). È questo, d’altronde, anche l’orizzonte temporale delineato dall’ultimo documento dei “cinque presidenti” sul completamento dell’Unione economica e monetaria. Peraltro, ogni processo di revisione dei trattati è sempre a forte rischio di deragliare, essendo richiesto il consenso unanime dei paesi membri, ciascuno dei quali decide in base alle proprie regole costituzionali. Sia i tempi che l’esito del processo non si possono quindi dare per scontati. C’è poi la parte dell’accordo sull’immigrazione, che è la più controversa, sia legalmente che politicamente, perché introduce la possibilità di restringere l’accesso dei lavoratori migranti Ue alle prestazioni sociali dello Stato ospitante. Per la sua entrata in vigore è necessaria l’adozione di appositi atti legislativi attraverso la procedura ordinaria che prevede il voto favorevole del Parlamento europeo. Per completare l’iter legislativo ci vorrebbero diversi mesi, probabilmente più di un anno e, data la materia incandescente, non si possono escludere battute d’arresto o incidenti di percorso. Tutt’altro che una marcia trionfale Infine, benché il Consiglio europeo abbia presentato l’accordo come “pienamente compatibile coi trattati”, potrebbero scattare dei ricorsi alla Corte di giustizia europea per violazione di alcune norme dei trattati. In particolare, le disposizioni sull’immigrazione potrebbero risultare in contrasto con principi fondamentali, come quello di non discriminazione fra i cittadini Ue e la libera circolazione delle persone. In conclusione, anche nel caso di una vittoria del “Remain”, per Cameron sarebbe tutt’altro che una marcia trionfale. Molto dipenderebbe ovviamente dal margine con cui l’uscita dall’Ue verrebbe bocciata (e se fosse troppo risicato, la sua leadership sarebbe tutt’altro che al sicuro). In ogni caso, l’attuazione dell’accordo sui nuovi rapporti tra il Regno Unito e l’Ue presenta, come si è visto, non poche insidie ed incognite e potrebbe dare adito a tensioni in seno all’Unione. Pertanto, anche se il referendum premiasse, con un sì all’Europa, lo spirito di compromesso mostrato dai leader europei con l’accordo dello scorso febbraio, essi dovrebbero affrontare seriamente un problema: come evitare che lo scampato pericolo si trasformi in una vittoria di Pirro. Ettore Greco è direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). |
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1 giorno fa
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