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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 14 novembre 2011

Nucleare pro o contro

Il professor Franco Battaglia è sotto tiro per le sue posizioni a sostegno del nucleare.
Domani sabato 12 novembre 2011 sarà intervistato nel corso del programma “Tra calcio e realtà”
condotto in studio dalle ore 15.00 alle 18.00 su http://www.radiopowerstation.com/

da Norberto Nicolai

(Roma 11 novembre 2011) - Il Comitato Italiano per il Rilancio del Nucleare (Cirn) rende noto che domani 12 novembre 2011 nel corso del programma radiofonico “Tra Calcio e Realtà” dell’emittente romana Radio Power Station FM 100.500, sul web all’indirizzo http://www.radiopowerstation.com/, il conduttore Norberto Nicolai si collegherà in diretta telefonica con il professor Franco Battaglia, Docente all’Università di Modena ed editorialista del quotidiano “il Giornale”, per commentare con il diretto interessato e con il Segretario del Cirn ingegner Giorgio Prinzi, ospite in studio, le azioni di cui è stato oggetto per le sue posizioni favorevoli al rilancio in Italia del Nucleare e fortemente critiche nei confronti delle fonti da intemperie. Il collegamento è previsto tra le 15,45 e le 16,15 nel corso della trasmissione che va in onda, come tutti i sabati, dalle ore 15.00 alle ore 18.00.

Si tornerà pertanto a parlare di nucleare, del suo rilancio appena la situazione politica contingente sarà stata superata, del paradosso del referendum in materia del 12 e 13 giugno che, avendo abrogato la sua abrogazione, ha giuridicamente reintrodotto confermato l’opzione nucleare, addirittura rendendo più spedita la prassi per la sua auspicata ripartenza. Un paradosso che non risolve il problema del consenso, ma che elimina ogni ostacolo giuridico al rilancio dell’opzione quando si riproporrà l’opportunità politica.

In questi giorni il nucleare è purtroppo tornato di attualità a seguito della pubblicazione (premere per scaricare il documento) del Rapporto della Iaea sul programma nucleare militare iraniano.

I rischi che la situazione di tensione conflittuale, creatasi a seguito della pubblicazione del rapporto Iaea, comporta per la stabilità dell’aerea e per la pace mondiale vengono illustrati in un ampio ed articolato servizio giornalistico (premere per scaricare l’articolo), con collegamenti a pregressa documentazione, in gran parte pubblicata su “Agenzia Radicale”, testata culturalmente ispirata ad una cultura che ripudia la violenza e l’uso della forza militare. Uno di questi documenti, ancora disponibili su internet, è un articolo a firma di Giorgio Prinzi ripreso nel novembre del 2005 dal sito della Resistenza Iraniana in esilio. All’epoca il politicamente corretto negava ogni risvolto militare del programma nucleare iraniano.

Altra materia, divenuta quanto mai attuale, su cui si richiama l’attenzione è quella Protocollo Aggiuntivo al Trattato di non Proliferazione, integrato da una normativa Europea, che ha di fatto introdotto l’obbligo della tracciabilità e del controllo sull’uso finale effettivo dei prodotti ad uso bivalente (Dual Use, nella definizione inglese), che possono venire indifferentemente usati sia per usi pacifici e persino umanitari, che per usi bellici devastanti, quali la realizzazione di armi di distruzione di massa. La relativa documentazione, dalla normativa internazionale e nazionale italiana sino alla modulistica per gli adempimenti, è scaricabile dal sito del Ministero per lo Sviluppo alla pagina web http://www.mincomes.it/dualuse/dualuse.htm.

La questione viene ampiamente trattata in un articolo (premere per scaricare il testo) che prende lo spunto da un convegno di approfondimento in materia svoltosi presso il Centro Enea della Casaccia. Meglio prevenire, evitando che materiale impiegabile per la produzione di ordigni di distruzione di massa venga in possesso di mani aggressive, che dovere poi fare uso della forza militare per difendersi da queste mani, magari da noi stessi armate.

Per intervenire in diretta su Radio Power Station comporre lo 06.3600.4073; per inviare un sms 338.17.70.400

giovedì 20 ottobre 2011

Turchia

Elezioni Politiche del Giugno 2012
FONTE: La Civiltà Cattolica 2011, III, 186-195, Quaderno 3866 16 luglio 2012

Il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) ha vinto per la terza volta consecutiva dal 2002, le elezioni politiche turche. Grazie al boom economico l’Akp ha ottenuto il 49,95% del voto ( 3,3% punti in più rispetto al 2007).

Questo partito islamico moderato è stato fondato nel 2001 da Recep Erdogan, che lo guida come indiscusso leader carismatico
Due le grandi sfide del nuovo governo monocolore: 1) La Stesura di una nuova Costituzione, scritta in chiave liberale che presuppone la riconciliazione politica e culturale con la minoranza Curda; 2 Il sostegno, soprattutto alla Siria, alle popolazioni arabe nelle varie “primavere” pur tutelando la stabilità dei suoi confini
Primo test: la riconciliazione di Erdogan con i deputati curdi che stanno boicottando i lavori della nuova legislatura.

martedì 19 luglio 2011

3 La Russia e le relazioni con i paesi ex Comunisti Parte III

LE RELAZIONI TRA LA RUSSIA E I PAESI DELL’EX URSS

Stefano Silvestri

 
Lo spazio postsovietico, ancora in preda alle convulsioni della rapida e per certi versi imprevista disgregazione dell’URSS, è costituito da 15 Stati indipendenti: Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Moldova, Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan (Schede Paese in ordine alfabetico da Allegato 3 ad Allegato 17).

La caratteristica peculiare di questo spazio, e allo stesso tempo quella che emerge immediatamente, è il fatto che esso è lo spazio dell’ex-URSS, ma l’URSS stessa è sorta sul territorio dell’ex impero russo che aveva gradualmente allargato i propri confini a spese dei suoi deboli vicini. Questo è il contrassegno oggettivo che permette di delineare lo spazio in esame. Le relazioni fra i Paesi sorti su di esso sono molteplici e spesso strette, ma la fonte di queste relazioni è sostanzialmente l’aver fatto parte dell’impero russo e dell’URSS, con tutte le conseguenze del caso. Per le altre caratteristiche la Repubblica russa di Buriazia lamaistica (citato Allegato1) difficilmente può far parte di una stessa comunità con l’Estonia protestante e l’Azerbaijan sciita, peraltro geograficamente distanti.

L’aver fatto parte dell’Impero e dell’URSS ha creato questo spazio, cioè ne ha definito i confini e determinato le caratteristiche strutturali. L’Impero russo, come ogni altro impero, aveva naturalmente un gran numero di tratti unici. In particolare, esso era una formazione compatta, nella quale i territori annessi non si trovavano al di là dei mari e degli oceani in diverse parti del mondo, come negli imperi coloniali creati dalle potenze europee occidentali, ma erano direttamente contigui al nucleo statale, quello della Russia, costituendone la periferia. E il nucleo era abbastanza pesante: i russi erano circa la metà della popolazione e le terre russe occupavano più della metà del territorio, mentre le periferie erano estremamente variegate, abitate da una molteplicità di popoli poco numerosi e molto diversi tra loro. Questa stessa organizzazione – un pesante nucleo russo ed una periferia variegata – è stata poi ereditata dall’URSS e tale, in sostanza, si conserva anche oggi se si esamina lo spazio postsovietico come un tutto unico. Ma è chiaro che a questa genesi e a questa praticamente costante organizzazione di tale spazio devono corrispondere adeguate caratteristiche delle relazioni interne ad esso.

Sullo spazio postsovietico un’integrazione di tipo europeo occidentale cozzerebbe inevitabilmente con l’effettiva e profonda diversità di peso specifico dei diversi Stati, con il retaggio del passato e con le vecchie abitudini che rendono in generale complessa l’instaurazione di relazioni paritarie. La struttura psicologica di questo spazio è assai diversa da quella europea occidentale ed è incomparabilmente più complessa e gravida di potenziali, e non solo, conflitti. La sua stessa natura (peculiarità della genesi e rapporti di forza esistenti) presuppone l’abitudine a dominare della Russia, la paura delle altre Repubbliche di fronte all’ex padrona, che continua ad essere un vicino molto forte, l’esacerbato amor proprio degli ex subordinati, alcuni dei quali non emancipatisi fino in fondo dal loro complesso di inferiorità, la tendenza a ricordare alla Russia le passate offese e a sforzarsi di mostrare all’ex padrona che non è più padrona per niente .

Per assurdo, l’unica integrazione che appare possibile è una “unificazione intorno alla Russia”, proprio ciò che spaventa e non vogliono gli altri Paesi che, peraltro, o hanno poco da spartire tra loro o, al contrario, hanno motivo di stabilire stretti rapporti e/o di creare comunità integrate. Si tratta di relazioni al di fuori della Russia che oggettivamente sostituiscono quelle con la Russia, si contrappongono ad esse e nell’insieme disintegrano lo spazio postsovietico. Quindi, l’organizzazione formale e simbolica di questo spazio in qualche misura si è andata conformando alla sua struttura reale. Le Repubbliche Baltiche hanno, infatti, interrotto definitivamente i legami formali con il resto dello spazio e sono destinate ad uno stabile sviluppo. Esse si sono mostrate organismi nazionali più preparati alla vita autonoma. I fattori più importanti in questo grado di preparazione non sono l’estensione del territorio o il numero degli abitanti e neanche la presenza di risorse naturali, quanto piuttosto fattori culturali e psicologici, il grado di autocoscienza nazionale la capacità di organizzarsi. Tutte le altre Repubbliche come abbiamo visto sono entrate, più o meno convintamente, a far parte della CSI nella quale formalmente sono tutti uguali, ma l’uguaglianza formale, in presenza di una notevole sostanziale disuguaglianza, si trasforma in una finzione e l’Organizzazione semplicemente non funziona e viene sostituita da un sistema di relazioni bilaterali della Russia con ciascuno degli altri membri.

Peraltro, la Russia come già evidenziato si trova attualmente in uno stato di transizione mentre le altre Repubbliche ex-sovietiche della CSI, con l’eccezione del Kazakistan che mostra un notevole dinamismo, si possono definire Stati mancati o in una situazione di costante debolezza. Inoltre, questi Paesi vedono il loro rapporto con Mosca da un’angolazione limitata e non scevra da dubbi. Particolare preoccupazione suscita la Bielorussia che è diventata terreno di particolare competizione/scontro tra la Federazione Russa, gli USA e la UE. In definitiva, si deve constatare che tra Mosca e le Repubbliche della CSI restano legami forti ma insufficienti a ricostruire una casa comune e che lo spazio postsovietico si è sfaldato e si sfalderà ulteriormente: i Paesi del GUAM non sono disposti a restare nell’orbita esclusiva di Mosca, ma guardano ad ovest; il Kazakistan guarda allo stesso tempo in tre diverse direzioni (Mosca, Washington e Pechino) e, più in generale, in Asia Centrale la Russia deve accettare il condominio con la Cina attraverso l’Organizzazione di Shanghai ; l’UE e la NATO impegnano regolarmente nel dialogo politico i paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. Pertanto, per la Russia lo scopo principale non può più essere di ristabilire una qualsiasi forma di controllo sullo spazio postsovietico, ma quello di trasformarlo attraverso nuovi rapporti, basati sull’indubbio fattore di vantaggio della prossimità e sull’interazione economica sociale e culturale, ed insieme ad esso trasformare anche lo spazio circostante – Europa, Medio Oriente e Cina – in un buon vicinato.

In tale contesto, la politica estera di Mosca, che indubbiamente sta acquisendo un nuovo prestigio internazionale, verso l’“estero vicino” – locuzione che designa lo spazio postsovietico (Allegato 18) – è recentemente entrata in una nuova fase a seguito delle cosiddette “rivoluzioni colorate” contro i regimi filosovietici in Ucraina, Georgia e Kirghizistan, appoggiate dall’Occidente, e all’allargamento sia della NATO sia dell’UE. In sostanza la Russia ha rinunciato ad “integrarsi” nell’Occidente ed ha cominciato a creare un proprio sistema di relazioni imperniato su Mosca. Per la prima volta dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, i rapporti con le Repubbliche ex sovietiche sono diventati prioritari per Mosca che, altresì, al di là dell’”estero vicino” vede progressivamente ridursi in alcune aree l’influenza degli USA e considera la UE come un’entità economica, ma non politica e militare, e ritiene che rimarrà concentrata su se stessa e sul proprio sviluppo ancora per qualche tempo .

La ragione di questa nuova fiducia in se stessa sta in larga parte nella notevolmente migliorata situazione finanziaria della Russia, grazie in particolare all’incremento del prezzo delle risorse energetiche, e nel consolidamento del potere nelle mani dell’attuale èlite di governo.

In merito a questo “cambiamento” gli USA e la UE piuttosto che protestare - capitoli particolarmente controversi sono le violazioni dei diritti umani e ministati di Transdnistria, Ossezia del Sud, Nagorno-Karabakh e Abkhazia che si sono auto proclamati indipendenti con la protezione russa - dovrebbero riconoscere che i termini dei rapporti con la Russia, definiti concettualmente al tempo del collasso dell’URSS e rimasti pressoché immutati, sono cambiati in modo sostanziale. Oggi è necessario accettare che Mosca ben difficilmente si schiererà automaticamente a fianco dell’Occidente sulle più importanti questioni internazionali, ma si dovrà ricercare di volta in volta il maggiore grado di collaborazione possibile. La Russia di oggi, insomma, magari non è filo-occidentale, ma neanche anti-occidentale. Le prosieguo degli articoli si tratteranno i Paesi Europei (Estonia, Lettonia Lituania, Bileorussia, Moldova e Ucraina) e i Paesi caucasico (Georgia, Armenia e Azerbaijan.) ed i paesi Asiatici

2 La Russia e le relazioni con i Paesi ex Comunisti Parte II

IL SISTEMA POLITICO-COSTITUZIONALE DELLA FEDERAZIONE RUSSA

Stefano Silvestri

L’abbandono dei principi dello stato socialista, dell’unità del potere statale, della doppia dipendenza e del centralismo democratico per muovere verso l’accoglimento, almeno formale, della divisione dei poteri proclamato nella Dichiarazione sulla sovranità della Federazione Russa del giugno 1990, ha determinato non solo la modifica della forma di stato e di governo della ex-Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia, ma anche la conseguente evoluzione delle forme di stato e di governo di quelli che, dopo la stipula del Patto Federativo del 1992, sono diventati gli attuali 89 Soggetti “componenti della Federazione Russa” (21 “Respubliki” (Repubbliche), 6 “Kraj” (Territori), 10 “Okrugi” (Circondari Autonomi), 49 “Oblasti” (Regioni), 1 “Oblast” autonoma e 2 Città di rilevanza federale, Mosca e San Pietroburgo - Allegati 1 e 2).

Tale processo di superamento, nei soggetti della Federazione Russa, dello schema basato sui “soviet”, non si è svolto in modo indipendente, ma è stato dettato dal centro tranne che nelle “Respubliki”. Mentre queste ultime hanno potuto, infatti, eleggere per la prima volta il proprio organo monocratico al vertice del potere esecutivo, previsto dalla Costituzione Russa e comunemente chiamato “governatore”, sulla base delle disposizioni emanate dai propri organi legislativi-rappresentativi, gli altri Soggetti della Federazione Russa hanno eletto i loro “governatori” in ossequio a quanto stabilito da specifici decreti del Presidente della Federazione pro tempore. Ciò è sostanzialmente riconducibile sia alla posizione di relativo privilegio di cui le “Respubliki” già godevano nel sistema sovietico, sia alla ricerca da parte di Eltsin del loro sostegno nella lotta contro il Presidente Gorbaciov in cambio di quella che potremo chiamare “diversa sovranità”.

Peraltro, l’introduzione in tutti i Soggetti della Federazione Russa - sulla base di un processo più o meno guidato dal centro - di organi monocratici a capo dell’esecutivo locale, non ha condotto nei medesimi alla stessa configurazione e dei rapporti tra questo ed il proprio organo legislativo-rappresentativo, cioè alla definizione di forme di governo locale tra loro omogenee.

Già nel processo di realizzazione appaiono evidenti la complessità, i limiti e la contraddittorietà, se non ambiguità, del sistema politico-costituzionale russo che è lungi dal provvedere ad un vero equilibrio tra i poteri dello Stato e lascia ampio spazio ad ogni genere di accomodamento. In tale contesto, il potere nella Russia post-comunista continua ad essere fortemente personalizzato attorno alla figura del Presidente-leader, mentre le varie istituzioni e strutture politiche fanno solo da contorno al potere centralizzato.

(1) Lo Stato

La Federazione Russa è un ordinamento giuridico di diritto civile di impostazione romanistica con una carta costituzionale scritta che stabilisce i fondamenti dello stato e la struttura normativa.

La legislazione russa rappresenta una sistema strutturalmente complesso di atti legislativi gerarchicamente organizzati a livello federale e locale e la Costituzione occupa il gradino più alto nella gerarchia delle fonti del diritto, seguita dalle Leggi Federali.

La Costituzione Russa, composta da 137 Articoli e 9 Disposizioni Finali e Transitorie, è stata promulgata il 12 dicembre 1993, dopo mesi di intenso confronto fra il Presidente Eltsin e il Parlamento, e sancita da un referendum popolare. Essa definisce la Federazione Russa - Russia - uno Stato di diritto, federativo, democratico con forma di governo repubblicana, in cui il potere è esercitato dal Presidente, dall’Assemblea Federale (Consiglio della Federazione e Duma di Stato), il Governo Federale ed i Tribunali Federali.

La Russia è una democrazia presidenziale in cui il Presidente occupa un ruolo autonomo e superiore fra i poteri dello Stato; egli è il Capo dello Stato, il Capo delle Forze Armate ed il garante della Costituzione, dei diritti umani e civili e delle libertà, nomina tra gli altri, il Capo del Governo Federale, di cui può presiedere le sedute, i Giudici dei Tribunali Federali e le alte gerarchie militari, mentre propone agli organi legislativi le candidature per molte altre importanti cariche quali i Giudici della Corte Costituzionale, del Tribunale Supremo e della Procura Generale, scioglie la Duma e indice nuove elezioni, dichiara lo stato di emergenza e la legge marziale, gode dell’immunità.

La Costituzione indica, altresì, i poteri dei singoli Soggetti della Federazione Russa per i quali, peraltro, non definisce la struttura delle forme di governo. Piuttosto sembra preoccuparsi principalmente di garantire l’unità della linea verticale del potere esecutivo dal livello centrale a quello locale. Stabilisce, infatti, che nelle materie di competenza congiunta, il Governo Federale e quello dei singoli Soggetti formano il sistema unitario del potere esecutivo in Russia, cosa che di per sé sembra comportare, in uno Stato che si proclama federale, una forte limitazione dell’autonomia delle sue parti componenti, tanto più che la Carta Costituzionale prevede anche che gli organi centrali del potere esecutivo e quelli locali possono delegarsi reciprocamente l’esercizio delle loro funzioni.

Come già precedentemente rilevato, la Costituzione non definisce la struttura degli organi esecutivi e legislativi-rappresentativi dei Soggetti, essa si limita ad affermare che il sistema di tali organi deve essere stabilito autonomamente dai Soggetti stessi e rinvia alla Legge Federale la fissazione dei principi generali in materia. Tale fondamentale legge per il funzionamento della Federazione è stata approvata solo nell’autunno del 1999 – la Costituzione è del 1993 – e disciplina in modo assai dettagliato gli organi in questione, non prevedendo invece la formazione di un sistema giurisdizionale nell’ambito dei Soggetti ove, pertanto, operano i Tribunali Federali. Proprio la l’ampiezza e la puntigliosità della legge in questione fanno, peraltro sorgere il dubbio che si tratti di una legge che enuncia solo principi e quindi inadeguata. E’, infatti, difficile riscontrare in altri Stati federali una regolamentazione di tale estensione disposta dallo Stato centrale nei confronti degli Stati membri. Appare, inoltre, paradossale, anche se lo è certamente meno se si considera l’evoluzione storica della struttura federativa russa, il fatto che mentre negli altri Stati federali – basti pensare agli USA ed alla Germania – le forme di governo locali sono omogenee sia tra loro sia rispetto a quella centrale, ancorché con alcune diversità, nella Federazione Russa invece, le forme di governo dei vari Soggetti presentano tra loro numerose e significative differenze e solo alcune di esse si avvicinano sensibilmente a quella della Federazione, nonostante una Legge ampia e dettagliata.

Al riguardo, ad esempio, la Costituzione da un lato proclama l’uguaglianza di tutti i Soggetti della Federazione nei rapporti reciproci con gli organi federali, mentre dall’altro consente di avere proprie costituzioni e lingue di stato alle “Respubliki” che spesso, anche se non costituzionalmente previsto ma non vietato dalla Legge Federale, hanno istituito anche una propria cittadinanza, ciò in contrapposizione con gli altri membri della Federazione le cui leggi fondamentali hanno solo il rango di “statuti” e non hanno il diritto di istituire lingue di stato o, tanto meno, proprie cittadinanze.

Un elemento di uniformità nelle varie forme di governo locali, al di là del presupposto dell’elezione diretta del capo dell’organo esecutivo e dei membri dell’organo legislativo-rappresentativo, è invece individuabile nell’obbligo di prevedere dei meccanismi di controllo reciproco tra detti organi per garantire il rispetto della Costituzione federale, delle Leggi Federali e delle costituzioni/statuti locali. Tuttavia, tali meccanismi hanno evidenziato una scarsa operatività.

Almeno formalmente, proprio le preoccupazioni sull’osservanza della Costituzione e delle Leggi Federali, hanno ispirato l’introduzione di un ulteriore elemento di uniformità tra tutti i membri della Federazione riconducibile a quella che viene chiamata “ingerenza federale”. In base alla modifica voluta da Putin nel 2000 della Legge Federale del 1999, infatti, il Presidente russo può, dopo che i competenti organi giurisdizionali abbiano accertato una violazione della Costituzione o della Legge Federale, rimuovere direttamente un “governatore” o chiedere alla Duma lo scioglimento di un organo legislativo-rappresentativo locale.

Infine le ultime modifiche alla Costituzione introdotte da Putin tra il 2002 e il 2003, relative a nuove modalità di formazione del Consiglio della Federazione, appaiono finalizzate soprattutto a diminuire il peso politico dei capi del potere esecutivo locale annullando la possibilità per gli stessi di essere contemporaneamente membri dell’organo legislativo-rappresentativo locale, della Duma e, in particolare, del Consiglio della Federazione nonché di poter essere eletti per più di due volte consecutive.

(2) Il Potere

Per analizzare la vera natura del potere russo, di capirne l’evoluzione, i limiti e le possibilità, si deve fare riferimento essenzialmente al potere del Presidente della Federazione, in quanto personificazione del potere russo.

Se, per una maggiore comprensione del modello presidenziale russo, si volesse compiere un accostamento con altri modelli più noti e consolidati quali quello americano e francese, rifacendosi al sistema legislativo russo (Costituzione, Leggi Federali, ecc.) appare evidente che il sistema di governo russo si avvicina di più al modello semipresidenziale francese. Questo in virtù della presenza di un Presidente della Repubblica Capo dello Stato e di un Governo distinto che necessita della fiducia del Parlamento, anche se solo per la figura del Capo del Governo.

Tuttavia, non si può sostenere che quella russa sia una sintesi tra sistema presidenziale e sistema parlamentare o che in Russia vi sia alternanza tra fasi parlamentari e fasi presidenziali.

Gli anni novanta dello scorso secolo non hanno visto fiorire una democrazia liberale di tipo occidentale, né si poteva pretendere che ciò accadesse cancellando d’improvviso secoli di storia nazionale e cultura politica russe.

In Russia vi è sempre e comunque un potere presidenziale molto forte, un sistema di iperpresidenzialismo con un premier debole ed un parlamento decorativo dalle funzioni molto limitate. Si è registrata in tal modo una impressionante, sproporzionata concentrazione di poteri nelle mani del Presidente.

Il presidenzialismo russo ha assunto, inoltre, caratteri assolutistico-autoritari, legati al fenomeno della personalizzazione della politica in Russia. I due Presidenti succedutisi in questi anni, in più occasioni, hanno ignorato ogni forma di legalità e mortificato le prerogative del Parlamento, riducendolo ad un ruolo notarile e provocando la periferizzazione del ruolo dei partiti nel sistema politico.

Il sistema politico eltsiniano era un misto di nuovo pluralismo, di oligarchia e di monarchia; Putin, appena salito al vertice della Federazione Russa, ha messo le cose in chiaro: la politica è una cosa, l’economia e il ruolo internazionale della Russia un’altra. Così chi ha voluto intromettersi nelle faccende del Cremlino ha rischiato una brutta fine, agli altri è stata garantita libertà d’azione con l’impegno di non intralciare la strategia di rinascita della Russia sullo scacchiere internazionale.

In aderenza a tale linea, Putin, pur conservando e consolidando il concetto di potere personalizzato, ha fatto della burocrazia la risorsa centrale e il sostegno base del suo potere. Tuttavia, ha creato una macchina burocratica del potere ancor più inaccessibile e lenta di quella sovietica e poco capace di reagire efficacemente sia agli impulsi esterni sia alle situazioni di crisi. Di fatto ha realizzato un centralismo ancora più ferreo del suo predecessore, facendo dipendere tutte le strutture locali da Mosca e dal Presidente . In sostanza,potenziando questo principio di centralismo-burocratico, non ha fatto altro che rafforzare l’idea di un potere basato su una nuova forma di autoritarismo.

Questa spinta autoritaria potrebbe interpretarsi come una deformazione del sistema russo in sé, ma, molto più semplicemente, appare la logica conseguenza dell’eredità del socialismo e dell’eltsinismo. Il sistema attuale nel suo complesso rimane ibrido, riconcilia il controllo statale dei principali assets del potere con gli spazzi autonomi per la classe media emergente e almeno una parte della società civile.

Putin ha realizzato diverse riforme politiche spesso in contrasto con la Costituzione e con la stessa struttura federativa della Russia. In certi casi hanno addirittura assunto i connotati di una svolta autoritaria: repressione della libertà di stampa, uso politico della giustizia, restrizioni sull’attività delle ONG, arbitraria rinazionalizzazione di importanti settori dell’economia. La scomparsa delle reti di informazione indipendenti e la liquidazione dell’opposizione appaiono però un chiaro segnale che il potere russo si sta staccando dalla società; inoltre, l’assenza di istituzioni realmente autonome, dimostra che la lotta politica si svolge dietro le quinte e che di conseguenza è impossibile prevedere lo sviluppo del processo politico, anche nella considerazione che gli attuali meccanismi costituzionali non permettono l’esistenza di una reale opposizione.

Si noti comunque che anche con Putin il potere in Russia, nonostante l’impressione di una certa esteriore compattezza , continua a non essere solido. Il problema non sono soltanto le contraddizioni interne a tale potere; bensì l’autoritarismo scelto da Putin come strumento di regolamentazione dei rapporti tra potere e società che contraddice le sue aspirazioni di modernità e, in qualche modo, lo rende anche vulnerabile e instabile. Al riguardo, non va dimenticato che a suo tempo, come si è visto, lo Stato sovietico crollò come un castello di carte anche perché era costruito in “verticale”. Quanto alle aspirazioni di modernità, appare innegabile che con Putin la Russia stia affrontando l’esperimento di dimostrare se sia possibile modernizzare la società senza le libertà politiche, allo stesso modo di quello che sta avvenendo in Cina e che, per un certo verso, fu il tentativo di Gorbaciov; peraltro, anche questa volta come nel 1991 l’insuccesso può spingere il Cremlino a cercare una nuova via d’uscita dal sistema tradizionale del potere personalizzato.

Un argomento, del resto, si può portare a favore di Putin: governare un Paese, che finora non aveva mai conosciuto un sistema democratico, come se si trattasse di uno con capitalismo sviluppato e democrazia consolidata sarebbe impossibile.

Allo stato attuale, realisticamente parlando, eventuali profonde riforme istituzionali in senso “democratico” hanno davanti un percorso molto, forse troppo complesso: sono molteplici gli impedimenti e innanzitutto gli eccessivi ostacoli previsti per revisionare in maniera parziale o completa la Costituzione. Non va ignorato, inoltre, che in Russia è sentita vivamente, almeno da una parte della popolazione, l’esigenza di una “mano forte”, di un “salvatore della patria”, di un governatore forte. Il popolo russo, infatti, si è pronunciato a favore dell’elezione diretta del Presidente, ha sancito l’entrata in vigore dell’attuale Costituzione presidenzialista ed ha comunque scelto e riconfermato prima Eltsin e poi Putin. La massa dei Russi rimane profondamente patriottica e vorrebbe recuperare rango e rispetto mondiale, nonché i simboli di un passato ritenuto glorioso.

A meno di due anni dall’appuntamento delle elezioni per la Duma e soprattutto da quelle presidenziali, è già in pieno svolgimento l’operazione successione. Infatti, Putin nel 2008, salvo improbabili colpi di scena (unione tra Russia e Bielorussia, nascita di un’altra entità post sovietica, modifica della Costituzione che permetta un nuovo mandato), dovrà lasciare la Presidenza della Federazione Russa e, in questo momento, appare realistico immaginare per il dopo uno scenario che vede la Russia traghettata verso una vera democrazia e un vero libero mercato in seguito ad un ulteriore periodo come quello attuale, pseudodemocratico. Per seguire questo auspicabile cammino è necessario il contributo dell’Occidente e, in particolare , dell’Europa che deve sforzarsi di capire cosa e perché succede a Mosca, anche a tutela dei propri interessi che non riguardano solo l’approvvigionamento energetico, ma anche la lotta al terrorismo islamico, la proliferazione nucleare in Medio Oriente e la stabilità dell’Asia Centrale, area fondamentale per lo sviluppo dei futuri rapporti con la Cina e l’India, problematiche in cui Mosca costituisce un attore di fondamentale importanza. Del resto, il Presidente russo recentemente ha fatto capire che la Russia si considera parte dell’Europa, senza però negare le differenze strategiche tra le parti. Al riguardo, basta seguire il dibattito interno russo per capire la direzione presa dalla grande nazione slava ed ortodossa. Il concetto di “democrazia sovrana”, ora di moda tra le elite putiniane, è illuminante. Piuttosto che estendere la democrazia il Cremlino ritiene prioritario rafforzare la sovranità del Paese. La Russia, pur non condividendo del tutto i valori della comunità occidentale, appare comunque pronta a dare il suo contributo alla soluzione dei problemi continentali e globali.

I La Russia e le relazioni con i paesi ex Comunisti Parte I


LA DISSOLUZIONE DELLA URSS E LA COMUNITA’ DEGLI STATI INDIPENDENTI

Stefano Silvestri

Due elementi sono stati peculiari del periodo storico apertosi nel 1945: il sistema internazionale fondato sul bipolarismo e la guerra fredda e lo sviluppo economico realizzato fino al 1970 dai sistemi del capitalismo e del socialismo.

Le loro storie sono corse a lungo parallele, fino a che è resistita l’autarchia voluta dall’URSS con il rifiuto di entrare nel sistema di “Bretton Woods” .

La convergenza cominciò al principio degli anni settanta, quando con la distensione l’Unione Sovietica dovette aprirsi alle relazioni economiche con il mondo capitalista. Nel corso degli anni settanta-ottanta, però, l’URSS non riuscì a compiere il cruciale passaggio alla terza rivoluzione industriale, ma dovette fare i conti con la globalizzazione e la sua sola potenza militare si rivelò una carta di basso valore. Finiva un epoca storica dei rapporti fra sistema internazionale sviluppo economico, segnata da sostanziale stabilità.

L’epoca successiva è quella del capitalismo globale e della rivoluzione telematica, con il multipolarismo economico (Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, India) e l’unipolarismo politico-militare degli USA tentati dalla carta unilaterale, ma in difficoltà nel governare un mondo reso fortemente instabile dal moltiplicarsi dei conflitti locali e dal terrorismo.

a. La crisi e la dissoluzione dell’URSS

Tra il 19 e il 21 agosto 1991 venne intrapreso a Mosca un tentativo di colpo di stato. Sono stati giorni cruciali per la fine dell’URSS. Molti forse pensarono che in tre giorni si potessero gettare le basi di una democrazia in un paese che tali basi non ne ha mai avute storicamente.

Eppure quei tre giorni, con Gorbaciov imprigionato nella sua dacia in Crimea e i carri armati per le strade di Mosca, furono l’alba abortita della democrazia russa ed il tramonto dell’esperienza sovietica.

Gorbaciov sostiene da anni che, se non fosse stato per il famigerato Comitato per lo Stato di Emergenza e suoi carri armati, le sue riforme avrebbero prodotto gli effetti sperati e, forse, la storia dell’URSS sarebbe potuta essere diversa. D’altronde oltre il 70% dei cittadini sovietici, interpellati nel referendum del 17 marzo 1991 aveva espresso il proprio sostegno ad una rinnovata Unione Sovietica.

In quei giorni sembrava imminente la firma di un nuovo patto federativo fra le Repubbliche Sovietiche che, nelle intenzioni di Gorbaciov, sarebbe dovuto diventare il trampolino per il nuovo futuro del paese più grande del mondo, finito invece in tragica macchietta: generali ubriachi a cui tremavano le mani durante la conferenza stampa, carri armati con musiche di pace, proclami di Eltsin, ordini di manette per tutti, generali galantuomini che si sparavano. Nel contempo, c’era tanta, tanta gente per le strade a difendere qualcosa che non aveva ben chiara in mente, pronta a morire per un ideale fumoso e confuso, ma con un idea apparentemente chiara in testa: indietro non si torna.

Le vicende del “golpe” e del “controgolpe” hanno d’altronde dimostrato come gli organi esecutivi del potere, tutti in mano ai cospiratori, non rispondessero più ai loro ordini, automaticamente e disciplinarmente come un tempo, e come, avendo rinunciato perciò ad utilizzarli per reprimere l’opposizione, sia stato facilissimo per il “controgolpe” demolire completamente gli organi di comando (Partito, KGB, Stati Maggiori e Governo) senza quasi reazione; di conseguenza tutte le Repubbliche dello Stato multinazionale sovietico hanno dichiarato immediatamente la loro indipendenza, sostituendosi al potere centrale ormai inesistente.

Il processo storico che ha condotto a tale esito si è svolto nel contesto di una sfida globale tra due mondi, o “imperi”, nella quale ha avuto un ruolo fondamentale la crisi di stagnazione dell’economia, dei valori, dello sviluppo sociale e della politica estera del blocco Orientale, compromettendone, di fatto per sempre, il futuro.

In sostanza, la rapida dissoluzione dello Stato multinazionale sovietico e del suo “Impero del Male” , verificatasi praticamente senza spargimento di sangue, ha avuto fattori lontani e profondi nonché cause prossime contingenti.

Con la facile “scienza del poi” si può affermare che negli anni di Brezniev si sono via via accumulati i presupposti della crisi della società comunista, cioè si è assistito alla lenta maturazione di una crisi potenziale.

In essa non c’era più uno Stato al servizio della società ma, al contrario, una società divenuta il materiale e il campo per l’attività dello Stato, il mezzo per soddisfarne ambizioni ed esigenze. Tutti gli aspetti della vita sociale erano ricaduti sotto la sua attenzione, compresi l’ideologia, la politica, l’economia, la cultura e lo sport; cioè tutto ciò che poteva avere importanza per la vita delle persone e per la società nel suo complesso.

Nel sistema brezneviano l’apparato del Partito assunse un superpotere nello Stato sopra delineato, con metodi di gestione conservatori e burocratici. L’ingranaggio era mastodontico e non poté che rivelare agli occhi di milioni di sovietici il suo scandaloso distacco dalla realtà, avviando un inarrestabile declino morale e ideale della società .

Di rilevante importanza nel processo di spinta verso la deflagrazione della crisi dell’URSS è stato anche il prolungato periodo di “guerra fredda” in cui l’economia di sussistenza dell’Unione Sovietica ha sostenuto spese superiori alle sue reali capacità, per assicurare al suo apparato militare le risorse necessarie per cercare di mantenere il passo con lo sviluppo degli armamenti attuato dall’Occidente e dagli USA in particolare (Scudo Stellare), in prospettiva di una possibile futura guerra contro l’Occidente stesso che Lenin aveva dichiarato “inevitabile”.

In tale contesto si inquadrano anche gli oneri di circa nove anni di guerra in Afghanistan che avevano visto, altresì, diffondersi largamente nell’URSS il risentimento nazionale per la perdita di vite sovietiche in una guerra straniera dagli incerti obiettivi e di grande costo materiale. Le truppe sovietiche completarono il loro ritiro il 15 febbraio 1989, ma l’URSS continuò a sostenere il regime fantoccio di Najibullah, insediato a Kabul, con cospicui aiuti economici e militari fino alla fine del 1991.

Si può quindi affermare che il sistema sovietico è invecchiato fino alla decrepitezza e non è stato capace di rinnovarsi, come anche la stessa società sovietica richiedeva, tanto da morire rapidamente per esaurimento prima che Gorbaciov, almeno nelle intenzioni, riuscisse a rianimarlo.

L’ascesa al potere di Gorbaciov rappresentò, in qualche modo, un cambio di generazione e diede un nuovo impulso alle riforme che erano sostanzialmente entrate in stallo nel periodo 1964 – 1982. Tuttavia, paradossalmente causa contingente del crollo subitaneo dello Stato Sovietico e dell’Impero è stata proprio il tentativo gorbacioviano di salvare il sistema politico e l’economia al collasso per mezzo di due principi:

• Perestrojka , quale processo di ristrutturazione della gestione del potere e dell’amministrazione dello Stato, a partire dal 1986, al fine di dare vita ad un nuovo sistema economico più efficiente e redditizio, basato sul decentramento, sull’iniziativa degli enti locali periferici e su quella privata;

• Glasnost , entrata nel linguaggio politico dal 1987, con riferimento alla necessità di rendere pubblici, trasparenti, gli atti del Governo e del Partito; diventata poi sinonimo di libertà di stampa, di parola, ecc.. Strumento per cambiare la mentalità della gente, coinvolgerla e renderla partecipe del processo generale di rinnovamento del Paese.

Concedere autonomie ed alcune libertà e limitare poteri e possibilità di azione degli organi ed apparati che avevano tenuto fino ad allora sotto controllo centrale tutti i Paesi e le Istituzioni della galassia sovietica, impedire o frenare le forze di repressione, ha fatto cessare la paura, uno dei collanti del sistema, ha fatto emergere le opposizioni ed ha consentito il rinascere ed il riaffermarsi degli antichi sentimenti nazionali e degli antichi rancori e contrasti di interessi .

In definitiva, i programmi politici di Gorbaciov sono stati una sorta di trappola, in quanto ebbero effetti negativi sulla economia sovietica, che già soffriva di una forte inflazione nascosta e di una diffusa carenza di approvvigionamenti, e non hanno salvato il sistema comunista, anzi hanno aggravato ulteriormente la crisi già prima in atto.

Oggi la fine dell’Impero Russo, già zarista, già sovietico, ci appare come una formidabile cesura storica. Un dramma ancora in atto, che evoca scenari complessi e preoccupanti per il mondo e anzitutto per l’Europa.

b. La Comunità di Stati Indipendenti (CSI)

Dopo la disgregazione dell’URSS e la formazione di 15 repubbliche indipendenti, concretizzatesi tra febbraio e dicembre 1991, la sussistenza di un sistema economico integrato in piena crisi produttiva, costruito su un’interconnessione industriale, commerciale e finanziaria, favorì la costituzione fra 12 delle citate ex Repubbliche sovietiche della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Organismo interstatale, egemonizzato da Mosca, dalla natura, caratteristiche e strutture in costante evoluzione.

(1) Gli accordi precedenti allo Statuto del 1993.

L’Accordo di Minsk dell’8 dicembre 1991, sottoscritto dalle tre Repubbliche “slave” dell’ex URSS (Russia, Bielorussia e Ucraina) chiude un’epoca storica e ne apre una nuova. Infatti, sancisce la fine dell’Unione Sovietica come soggetto di diritto internazionale e da vita alla Comunità degli Stati Indipendenti .

L’Accordo è il risultato finale di un processo storico-politico iniziato nel 1989 con lo scopo, ufficialmente dichiarato dai protagonisti, di riformare il Trattato d’Unione del 1922 da cui era nata l’URSS. Il negoziato durò circa due anni, messo in pericolo, ma non interrotto, dal “golpe” del 19 agosto 1991, caratterizzato dal continuo operare di forze centrifughe e da uno scontro tra la volontà dell’Unione Sovietica di salvare se stessa e l’inaccettabilità di tale disegno per le Repubbliche che nel frattempo si erano dichiarate sovrane. Tale scontro ebbe termine con la dissoluzione della struttura statale e politico-ideologica dell’URSS, il superamento dell’obiettivo di riforma del Trattato del 1922, l’abbandono del federalismo sovietico e l’adozione dell’Accordo di Minsk.

In sostanza, esso nasce dalla necessità di riordinare le relazioni economiche e soprattutto di suddividere le eredità sovietiche basandosi sul principio della convivenza pacifica e secondo le esigenze di “sovranità economica”, oltre che “politica”, dei nuovi Stati indipendenti.

La CSI in versione “slava” si era impegnata a promuovere riforme economiche coordinate, a costruire rapporti economici e contabilità sulla base di una moneta unica, il rublo, a controllare emissione e massa monetaria, a concordare la riduzione dei rispettivi deficit, a fissare un sistema unico per i pagamenti e a realizzare comuni politiche doganali, fiscali, dei prezzi, sociali approntando al più presto meccanismi per la realizzazione degli accordi interrepubblicani . Resteranno in gran parte intenzioni, anche dopo l’entrata in vigore nel 2005 di una zona di libero scambio ed unione economica fra gli stati membri dell’attuale CSI.

L’Accordo di Minsk fu accolto dalla maggior parte delle altre Repubbliche – esclusi i tre Stati Baltici e la Georgia – che dichiararono però di volervi aderire come membri fondatori originari. In particolare, l’Armenia mostrò da subito un sostanziale favore all’Accordo, non altrettanto può dirsi della prima reazione avuta dalle cinque Repubbliche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) indisposte per essere state escluse dal negoziato che aveva prodotto l’Accordo. Tuttavia, non potendo ignorare le conseguenze negative che avrebbe comportato la mancata partecipazione al processo di integrazione fra gli Stati dell’ex URSS e valutati gli aspetti positivi dell’Accordo, si allinearono a questo processo a condizione però che ciò avvenisse in qualità di membri fondatori originari e che fosse riconosciuta la loro integrità territoriale.

Il 21 dicembre 1991, in occasione del vertice di Alma-Ata (città kazaka), la CSI, avvalendosi della possibilità riconosciuta dall’Accordo di Minsk, accolse altre 8 Repubbliche (Azerbaijan, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldova, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan), la Georgia inviò soltanto propri osservatori. L’ingresso dei nuovi Stati fu sancito dalla sottoscrizione, anche da parte dei tre Stati contraenti l’iniziale Accordo di Minsk, di vari documenti che, tra l’altro, riaffermavano che con la nascita della CSI cessava di esistere l’URSS.

Gli Accordi di Minsk e Alma-Ata partono dalla presa di coscienza e dal riconoscimento dei fortissimi legami venutisi a creare fra i rispettivi popoli nel corso della storia, per dichiarare la convinzione che il rafforzamento delle relazioni di amicizia, buon vicinato e cooperazione corrisponde agli interessi fondamentali di ciascuna nazione. Gli stessi documenti però precisano che gli Stati membri della CSI intendono sviluppare i loro rapporti sulla base del rispetto reciproco, della propria sovranità statale, dell’uguaglianza e della non ingerenza negli affari interni altrui. Allo stesso modo gli Accordi prevedono che la CSI svolga le sue attività su base paritaria, tramite istituzioni comuni, ma nel contempo precisano che la Comunità non è uno Stato né una struttura sopranazionale.

Questa continua ambivalenza fra disponibilità a cooperare e rispetto della reciproca indipendenza, è la prova che l’obiettivo degli Stati membri della CSI era più quello di garantire una separazione pacifica ed una convivenza rispettosa della reciproca libertà d’azione appena conquistata, piuttosto che una sostanziale collaborazione; una sorta di sistema di coordinamento, insomma, da cui tutti avrebbero dovuto trarre utilità e convenienza.

L’istituzionalizzazione della CSI proseguì lentamente per l’opposizione dell’Ucraina, della Moldova e del Turkmenistan alla costituzione di nuovi organi di coordinamento, che temevano potessero condurre a limitazioni di sovranità. Tali stati si mostrarono interessati ad una cooperazione di tipo essenzialmente economico.

Per superare la situazione di stallo creata dallo scontro di opposte tendenze e rilanciare il processo di graduale rafforzamento della CSI, la ricerca della collaborazione per il mantenimento della pace e della sicurezza all’interno degli Stati membri apparve il modo migliore. Peraltro, già con la firma nel 1991 dell’Accordo di Alma-Ata erano stati attribuiti alla Russia sia il controllo sul deterrente nucleare ex sovietico di cui, in tal modo, si garantiva la sopravvivenza sia il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, già dell’URSS. In tale quadro, il 20 marzo 1992 a Kiev (capitale ucraina) ed il successivo mese di maggio a Tashkent (capitale uzbeka) vennero rispettivamente stipulati l’Accordo e i relativi Protocolli attuativi che istituivano un sistema di garanzia comune per prevenire o risolvere eventuali conflitti interni alla CSI, attraverso la costituzione e l’utilizzo di gruppi di osservatori militari e di forze di peace-keeping. I documenti furono sottoscritti da tutte le 10 Repubbliche che all’epoca aderivano alla CSI, con alcuni distinguo da parte dell’Ucraina e dell’Azerbaijan tese ad affermare la propria libertà decisionale anche in tale materia.

Già nell’estate 1992 Mosca, anche sulla base degli Accordi stipulati, mise in moto un minimo dialogo interstatale tentando di circoscrivere le diverse crisi (Transcaucasica, Asia Centrale e Moldova) impiegando inizialmente le forze ex-sovietiche ancora presenti in quei territori, successivamente affiancandogli contingenti di interposizione della CSI. L’istituzione di queste forze multilaterali non ha comunque significato il contestuale ritiro dai vari territori dei contingenti russi che, anzi, si sono andati trasformando in presenza militare federale stabile svolgendo anche una funzione residuale di peace-keeping (peace-enforcement, ove necessario) e di tutela delle popolazioni russe residenti in diverse Repubbliche ex-sovietiche, attraverso una serie di intese che la Russia ha progressivamente stipulato con questi membri della CSI che le hanno concesso l’uso di basi militari per le quali, in qualche caso, in anni recenti è stato avviato un processo di smantellamento tuttora in corso.

Questa particolare situazione ha di fatto istituito una sorta di droit de regard da parte della Russia nei confronti delle Repubbliche ex-sovietiche, nonostante le proteste nelle sedi internazionali ONU, OSCE e Consiglio d’Europa, che si sono viste limitare la loro capacità d’azione. Mosca ha consentito solo la presenza di missioni di osservazione e buoni uffici, ma ha sempre posto un fermissimo veto allo schieramento di forze militari internazionali extra CSI .

(2) Lo Statuto del 1993.

Il secondo e decisivo passo verso lo sviluppo della collaborazione interna alla CSI fu la decisione del Consiglio dei Capi di Stato della Comunità, presa al citato vertice di Tashkent del 15 maggio 1992, di conferire ai Ministri degli Affari Esteri e al Segretario il compito di elaborare il progetto di un nuovo Trattato. Il 22 gennaio 1993, durante il vertice di Minsk, venne firmato lo Statuto della CSI da 7 Stati (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan ed Uzbekistan), i quali approvarono anche una dichiarazione unitamente alla Moldova, alla Ucraina e al Turkmenistan in cui questi ultimi, che avevano preso parte solo alla discussione per la ratifica dello Statuto senza firmarlo, manifestavano fiducia sulle potenzialità della CSI riservandosi il diritto di sottoscrivere lo Statuto in data posteriore. L’Azerbaijan si era nel frattempo ritirato dalla Comunità.

Lo Statuto è stato successivamente ratificato anche dalla Moldova, dall’ Azerbaijan, che era rientrato nella Comunità, dall’Ucraina, dal Turkmenistan e in fine nel dicembre 1993 anche dalla Giorgia, in circostanze controverse a seguito di una guerra civile nella quale intervennero truppe russe. Del tutto estranee a questo processo sono invece sempre rimaste le tre Repubbliche Baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania).

Lo Statuto riafferma la natura volontaristica della CSI, che “non è uno Stato e non ha mandati sopranazionali” (Art. 1, par. 3), ed il principio di uguaglianza assoluta di tutti i membri, quali soggetti indipendenti e paritari di diritto internazionale. Le finalità della Comunità, oltre alla prevenzione o soluzione pacifica delle controversie e dei conflitti intestini, comprendono la collaborazione in campo politico, economico, giuridico, ecologico, umanitario, culturale e “in altri campi” (Art. 2). Quest’ultima disposizione di fatto lascia aperta la possibilità di cooperare per altre finalità che emergessero in futuro.

Artefici principali della collaborazione in tutte le suddette aree sono i due organi di vertice della CSI, il Consiglio dei Capi di Stato ed il Consiglio dei Capi di Governo . Il primo è l’organo direttivo della Comunità e svolge essenzialmente il ruolo politico di analizzare, decidere e/o risolvere le questioni di principio, mentre il secondo ricopre sostanzialmente il ruolo di coordinare l’operato dei vari esecutivi nazionali. Entrambe i Consigli adottano le decisioni con il metodo del consenso che consiste nel deliberare in assenza di qualsiasi obiezione che ostacoli la decisione stessa. Inoltre, lo Statuto prevede anche il principio della parte interessata che consente a qualunque Stato di dichiarasi disinteressato ad una questione senza che ciò ostacoli l’adozione della decisione i cui effetti non si estendono nei suoi confronti. Dalla combinazione delle due regole paradossalmente proprio gli Stati non interessati ad un problema possono, di fatto, esercitare un diritto di veto che di per se non sarebbe previsto. L’ambiguità di queste procedure incide negativamente sulle capacità della CSI di raggiungere obiettivi concreti, ammesso che questa sia la volontà di tutti i firmatari dello Statuto. Infatti, se da una parte si favorisce la stipula del maggior numero possibile di accordi tra gli Stati membri, dall’altra si tratta di accordi realisticamente difficili da realizzare e che potrebbero essere conclusi anche da due soli Stati membri pregiudicando il formarsi di una chiara ed univoca volontà della Comunità e finendo per ostacolare il suo stesso funzionamento.

Va altresì sottolineato che fra gli organi della CSI non esiste nessun tipo di collegamento, se non la possibilità di sottoporre ogni questione al Consiglio dei Capi di Stato che definisce in via esclusiva le norme procedurali per il funzionamento di ogni altro organo.

Nonostante la CSI abbia pochi poteri sopranazionali è comunque qualcosa di più che una organizzazione simbolica, in quanto ha un potere di coordinamento nel commercio, nelle finanze, nel campo legislativo e nella sicurezza. Tuttavia, ha vissuto e vive precariamente soprattutto per volontà di almeno qualcuno degli stessi Stati membri che teme di rientrare pesantemente sotto l’egemonia della Russia, la quale già occupa una posizione economica dominante nella CSI. Basti ricordare che le sue esportazioni verso i Paesi della Comunità sono costituite per circa il 70% da merci strategiche, quali materie prime e risorse energetiche, e la sua bilancia commerciale con gli stessi presenta negli anni 2003/2004 (ultime stime disponibili) un avanzo di circa 9 miliardi di dollari.

In sostanza, nonostante la struttura formalmente paritaria e le finalità istitutive, la CSI non è stata e non è né un foro consultivo né, tantomeno, un organismo decisionale costantemente capace di mediare i complessi e, tal volta, conflittuali rapporti tra la Russia e le Repubbliche ex-sovietiche, che più spesso si sono svolti in un sistema di relazioni bilaterali. Nonostante tutto, la capitale della CSI non è Minsk, come prevede lo Statuto, ma Mosca.

domenica 29 maggio 2011

BELGIO

Area : Area totale : 30528 km², 30278 terrestre, 250 di acqua.

Popolazione : 10403951 (fonte Cia Luglio 2008).

Scenario storico : Il paese è indipendente dai Paesi Bassi dal 1830. occupato della Germania durante le due guerre mondiale. Dopo la seconda guerra mondiale, la politica della neutralità venne abbandonata, e il Belgio entro nella NATO e nella Comunità Economica Europea. La storia del paese del XX secolo è sempre più dominate dalla crescente autonomia delle sue due comunità principali che ha in particolare provocato una riforma costituzionale nel 1993.

Aspetto :

• Geografia Fisica : il paese, poco esteso, può essere suddiviso in tre principali regioni fisiche : la piana costiera, situata a nord-ovest, la pianura centrale e la regione collinare delle Ardennes, che si estende a sud-est. La piana costiera è bassa e sabbiosa, caratterizzata localmente da dune di sabbia e polder (terreni sotto il livello del mare, strappati al mare e protetti tramite dighe. La pianura centrale non oltrepassa 100m di altitudine e è composta da fertili vallate, irrigate da corsi d’acqua e da canali artificiali. La regione delle Ardennes è relativamente accidentata, rocciosa, inadatta a un’agricoltura estensiva, caratterizzata da foresta, e ha una bassa densità abitativa. Il punto piu alto è ad 694m di altura. I principali fiumi belgi, Schelda, Mosa e Sambre sono navigabili e costituiscono importanti vie di comunicazione. Sono legate tra di loro da un sistema di canali. Il clima è di tipo atlantico. Le precipitazioni sono bene distribuite.

• Geografia Umana: Situato al confine tra l’Europa germanofona e l’area linguistica e culturale romanza. La parte settentrionale la popolazione è di lingua fiamminga (58% del totale), la parte meridionale francofona (32% della popolazione totale). La regione più popolata è quella fiamminga (6 120 000 ab.), con maggiore popolamento nella area costiera e urbana (Anversa, Gand Bruges...). Nella regione vallona risiede un terzo della popolazione (3 435 000 ab.). La concentrazione geografica è massima nella regione urbana di Bruxelles, l’agglomerato bruxellese supera il milione di abitanti, quasi un decimo della popolazione. La densità di popolazione del Belgio (342 ab/km²) è la terza piu elevata nell’Unione Europea. La struttura per età mostra una popolazione piuttosto interessata dal problema dell’invecchiamento, senza grande differenza regionali : la classe di età compresa tra i 15 e 65 anni rappresenta circa di 65% del totale, mentre quale dei giovani al di sotto dei 15 anni raggiunge 17.5% con tendenza a riduzione. La speranza di vita non mostra divari regionali significativi e si assestata a 76 anno per gli uomini e 82 per le donne. La popolazione Belga comporta un importante percentuale di residenti di origine straniera (9.8% - terzo più elevato di Europa). Il cattolicesimo è la religione principale (75-80%). Islam e Protestantesimo sono diffuse. La religione fu una causa della partizione con i Paesi Bassi.

• Geografia Economica: l’economia belga, nonostante alcune debolezza strutturali, è una delle più avanzate d’Europa. Il paese gode di una posizione geografica stretegica nell’area economicamente più dinamica del continente europeo e dispone di una efficiente rete di collegamenti marittimi, fluviali e terrestri, che rendono possibile un alto grado di integrazione economica con Paesi limitrofi. Tuttavia emergono significative divergenze regionali : la Vallonia ha sofferto della crisi del settore siderurgico e ha un livello di sviluppo inferiore, con maggiore tasso di disoccupazione. La Regione di Bruxelles è fortemente orientata verso il terziario avanzato, trae beneficio dall’UE. Le Fiandre sono l’area forte del paese, con una economia orientata all’esportazione.

La risorse tradizionale del belgio è il carbone, negli bassini del Haine-Sambre-mosa e delle Campine. Il primo non più sfruttato, il secondo conserva una modesta attività. Le miniere di gesso e di calcare rimangono significativi. Le risorse idriche sono concentrate nel meridione ma equilibratamente distribuite. La principale fonte di energia elettrica è nucleare (due terzi del fabbisogno nazionale – il restante è soddisfatto dalle centrale termoelettriche).

L’agricoltura è di tipo intensivo ma marginale nell’economia (1% del Pil, 2% della forza di lavoro). La regione la più interessata nell’attività è le Fiandre. Il posto di rilievo è l’orticultura. La principale voce del settore ‘ l’allevamento del bestiame.

La base industriale è ancora solida, nonostante la crisi siderurgica. Occupa 25% della popolazione attiva e contribuisce a 25% della formazione del Pil. I principali settori sono l’agroalimentare, la chimica, la metallurgia e la meccanica, la petrolchimica, l’elettronica e l’elettrotecnica. Anversa è il principale polo manufatturiero.

Il principale settore economico del Belgio è il terziario. La sua più importante branca è il commercio di macchinari, mezzi di trasporto, prodotti chimici e farmaceutici, pietre preziose e tessile. I maggiori partner sono paesi dell’Unione Europea. Bruxelles è l’area di maggiore concentrazione del terziario (relazione internazionali, assicurazione, banche, organizzazioni internazionali).

• Geografia Politica: Il Belgio, ufficialmente Regno del Belgio è uno stato dell’Europa occidentale che confina a nord con i Paesi Bassi, a est con la Germania e con il Lussemburgo, a sud e sud-est con la Francia e a nord-ovest si affaccia sul Mar del Nord. Il Belgio è diviso in tre regioni. Le Fiandre (di lingue fiamminga), la Vallonia (francofona) e la regione di Bruxelles, ufficialmente bilingue. Il Belgio è una monarchia parlamentare federale. Il potere legislativo è bicamerale. Il Belgio è stato tra i fondatori dell’Unione europea e la capitale Bruxelles è sede di varie istituzioni comunitarie. Le lingue olandese, francese e tedesco sono lingue ufficiali. Dal 1970 non esistono più partiti nazionali in Belgio ma solo partiti fiamminghi o valloni. Il panorama politico mostra un sistema duale. Ogni dei tre maggiori gruppi linguistici è chiamato comunità, che corrisponde a una suddivisione culturale amministrativa all’interno dello stato federale, accanto ad una ulteriore suddivisione della Federazione in tre Regioni. La comunità si occupa degli argomenti scolastici e culturali. La regioni organizzano la vita economica.


ANALISI DEI FATTORI DI SVILUPPO

1 Fattore storico: conflitti +4 : nessuno conflitto dopo 1945. Coinvolgimento nella decolonizzazione in Africa.

2 Paesi limitrofi in conflitto +4 : nessun paese limitrofo in conflitto dopo 1968. La classificazione di conflitto per la situazione in Francia nel 1968 del Centro per Systemic Peace pare eccessiva dal momento che non si è riportato nessuna morte.

3 Rifugiati (migliaia) +4 : nessuno rifugiato riportato dalla Cia

4 Disoccupazione (%) +4 : 7.5% (2007 est.). Fenomeno che comporta uno divario regionale.

5 Sfruttamento petr/oro/diam +4 : assenza di disponibilità notevole di petrolio oro e diamanti

6 Area geografica (migliaia Kmq) +4 : 30.530 Kmq

7 Area forestale (migliaia Kmq) +4 : 6.670 Kmq

8 Fazioni etniche/religiose 0 : nessuno gruppo a rischio di discriminazione riportato dalla University del Maryland. Argomento etnico legato a quello linguistico (fiammingo, francese, tedesco). Relazione tra fiamminghi e vallone puntualmente conflittuali.

9 Mov. Int. strati pop. (migliaia) +4 : nessuno movimento interno riportato dalla Cia

10 Regime Politico (-10 a +10) +4 : Regime completamente democratico. Monarchia parlamentare federale. Costituzione modificata nel 1993 in favore del federalismo per evitare la rottura tra comunità fiamminga e vallone.

11 Nuovi Stati formazione instabile +4 : nessuna instabilità. Indipendenza dal 1830.

12 Corruzione (1-10) +4 : 7.3

13 PNL pro-capite (US$) +4 : $32119

14 Crescita economica (%) 0 : 1.7. Questo valore relativamente basso sicuramente peggiorerà con la crisi economica internazionale.

15 Forza lavoro in agricoltura (%) +4 : 2%

16 Aiuto Estero (% PNL) +4 : Nessuno aiuto estero

17 HIV/AIDS (%) +4 : 0.3

18 Spesa militare (% PNL) +3 : 1.3% del Pil

19 Disastri Naturali +2 : inondazioni e tempeste.

20 Isolamento geografico +4 : posizione centrale e eccellente infrastrutture di trasporti (portuale, fluviale stradale e aeroportuale) che è uno punto di forza del paese.

21 Indice sviluppo umano +4 : 0.946

22 Popolazione (milioni) +3 : 10.4. (cf geografia umana)

23 Crescita demografica (%) +3 : 0.2%

la politica Belga è profondamente legata alle sue appartenenze alla NATO e all’Unione Europea. La presenza di una forte migrazione e la rivalità tradizionale tra le tre componente linguistiche del paese danno un peso politico notevole ai movimenti fiamminghi in favore di una maggiore autonomia. Il passato coloniale del Belgio, in particolare nel Congo le fa giocare un ruolo nella regione dei grandi laghi in assenza di ambizione economiche o geopolitiche che ha superato le conseguenze negative del coinvolgimento nelle crisi passate in Ruanda e Zaire.

BIBLIOGRAFIA

Human Development Report 2005 (UNDP)

Center for Systemic Peace

The World Factbook – CIA

The world Bank

University of Maryland’s Center for International Development & Conflict Management

Transparency International Corruption Perceptions Index 2005

Banca Mondiale

United Nations Conference on Trade and Development

Enciclopedia Microsoft ENCARTA 2008

Enciclopedia Wikipedia

L’année stratégique 2009 – Ed Dalloz

Reviste Limes / Géopolitique / La Revue Internationale et Stratégique.

Atlas du Monde Global – Boniface Védrine – Armand Colin

venerdì 27 maggio 2011

Il Dossier 2010 sull’Immigrazione
Michele Simone S.I.

Materiale di Approfondimento

Articolo

La cronaca riprende alcuni fondamentali dati presentati dal Dossier Caritas –Migrantes, giunto alla sua ventesima edizione. Sono 4.919.000gli immigrati residenti in Italia: il 35% nel Nord ovest, il 26,6% nel Nord est, il 25,3 nel Centro, il 9,3% nel Sud, ed il3,8% nelle Isole. Il Dossier mette in evidenza il fatto che gli immigrati versano nelle casse pubbliche più di quanto ricevono come fruitori di prestazioni; fra l’altro hanno contribuito al risanamento del Bilancio dell’INPS. Infine rifiuta, sulla base dei dati, l’equiparazione tra immigrazione e criminalità fatta da molti italiani, non foss’altro perché gli immigrati si rilevano ogni giorno di più indispensabili al funzionamento del Paese.

Articolo. La Civiltà Cattolica, Anno 161 2010 I 497-503, quaderno 3851 4 dicembre 2010
Sito web. www.laciviltàcattolica.it; e mail civcatt@laciviltàcattolica.it

venerdì 20 maggio 2011

Incontri con la Polonia a Roma

INTERVENTO DI MAREK BUDZYNSKI

giovedì 26 maggio 2011, ore 14.30

Auditorium Goethe-Institut Rom, Via Savoia, 15 - Roma

ingresso libero

Giovedì 26 maggio, ore 14.30 all'Auditorium Goethe-Institut Rom, in Via Savoia 15, si terrà il convegno internazionale: "Cities, Spaces, Libraries. Tendenze architettoniche", con la partecipazione del prof. Marek Budzynski, architetto della Biblioteca Universitaria di Varsavia. [info]



INAUGURAZIONE CORSO POLONIA 2011

giovedì 26 maggio 2011, ore 19.00

Istituto Polacco di Roma, Via Vittoria Colonna, 1 - Roma

ingresso libero



E’ una tradizione, ormai, inaugurare il Festival Corso Polonia con un evento multietnico. L’anno scorso l’apertura della rassegna è stata dedicata alla presenza della comunità polacca ad Haiti, quest’anno inauguriamo il Festival con una serata Rom. In programma: mostra fotografica di Maria Stefanek e il concerto del gruppo Caci Vorba. [info]





Istituto Polacco di Roma - Via Vittoria Colonna, 1 - Roma

tel. 06 36 000 723 / fax 06 36 000 721

www.istitutopolacco.it

giovedì 19 maggio 2011

Italia


Declino Demografico e immigrazione in Italia

Gianpaolo Salvini S.I.

La cronaca , raprendo la tesi di due demografi, espone il tema del calo della natalità in Italia, accompagnato da una rapida immigrazione dall’estero proveniente in particolare dai Paesi poveri. Questa è l’unica in grado di mantenere l’equilibrio della popolazione in Italia, almeno per qualche decennio. E’ perciò necessario predisporre le norme opportune a aiutare il cambio di mentalità necessario per accogliere questi stranieri, destinati ad essere i nuovi italiani, senza i quali attualemtne il nostro paese non ha futuro. Infatti il drastico e inarrestabile calo demografico ha sempre accompagnato le epoche di declino della varie civiltà

Articolo La Civiltà Cattolica, Anno 161 2010 IV 71-81, quaderno 3847, 2 ottobre 2010

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martedì 22 marzo 2011

L'Italia e la crisi nel Mediterraneo

Che fare del trattato con la Libia

Natalino Ronzitti

28/02/2011

I drammatici eventi libici hanno rimesso in gioco il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, ma entrato in vigore il 2 marzo 2009. Per la verità le polemiche non si sono mai fermate, ma ora hanno assunto toni più aspri. Si è giunti ad affermare che il Trattato impedirebbe qualsiasi azione militare in partenza da basi italiane in virtù del principio di non ingerenza e che esso sarebbe di ostacolo ad un intervento umanitario.



Ormai i difensori del Trattato sono praticamente scomparsi, mentre ieri se ne osannava l’origine bipartisan. Gli oppositori ne chiedono l’abrogazione o quantomeno la sospensione. Esponenti della maggioranza di governo affermano che non ce n’è bisogno, poiché il Trattato è di fatto sospeso o inoperante.



Vediamo di procedere con ordine, con un’analisi giuridica, finora completamente trascurata.



Non ingerenza e rispetto dei diritti umani

Il primo punto è che i trattati, benché materialmente stipulati dagli organi di rilevanza internazionale dello Stato (Ministro degli Affari Esteri, Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica e, ove costituzionalmente richiesta, autorizzazione parlamentare) vincolano gli Stati. Il Trattato del 2008 non vincola Berlusconi e Gheddafi, ma l’Italia e la Libia.



Il secondo punto è che i trattati vanno correttamente interpretati. Tutta la discussione di questi giorni è incentrata sugli articoli 3 e 4 del Trattato. Il primo obbliga le due parti a non ricorrere alla minaccia e all’impiego della forza ed è ripetitivo dell’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite. Le parti non si sono assunte nessun nuovo obbligo.



Il secondo stabilisce il principio di non ingerenza, e anche in questo caso si tratta praticamente di una ripetizione della Carta delle Nazioni Unite e degli strumenti adottati posteriormente, come la risoluzione sulle relazioni amichevoli adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.



L’obbligo di non porre il proprio territorio a disposizione per atti ostili contro l’altro stato, stabilito dall’art. 4, par. 2, del Trattato di Bengasi, deriva già dal diritto internazionale. L’obbligo in questione è peraltro qualificato dal “rispetto dei principi della legalità internazionale”.



Ciò significa che l’Italia potrebbe mettere a disposizione dei paesi alleati le proprie basi, qualora venisse attaccata dalla Libia (o fosse attaccato un suo alleato), agisse cioè in legittima difesa, oppure quando dovesse partecipare ad un intervento umanitario in Libia, qualora questo fosse autorizzato dal Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite o dal governo provvisorio libico, sempre che si consolidasse (un riconoscimento del Consiglio di Sicurezza contribuirebbe a dargli effettività). Ma la risoluzione 1970 (2011) approvata sabato scorso dal CdS non menziona né una zona di interdizione aerea (no-fly zone) né un intervento umanitario.



Va aggiunto che non sarebbe in contrasto con il Trattato neppure un intervento volto a salvare e evacuare cittadini italiani in Libia che si trovassero in pericolo di vita. L’azione è conforme al diritto internazionale e non necessita né del consenso libico né di un’autorizzazione del CdS. Stesse considerazione per azioni militari volte a tale scopo effettuate da paesi alleati a favore dei loro cittadini.



Le disposizioni sulla cooperazione militare previste dal Trattato non ostano all’esecuzione da parte dell’Italia di misure di embargo sulle armi disposte dalla risoluzione 1970, poiché le disposizioni delle Nazioni Unite prevalgono su ogni altra disposizione eventualmente contraria.



Ripudiare il trattato?

Ma veniamo al problema del ripudio del Trattato.

Il Trattato prevede solo la possibilità di una sua modifica previo accordo delle parti (art. 13, par. 4). Si tratta in sostanza di emendamenti: sono cosa ben diversa dalla rinegoziazione, che ne comporterebbe l’intera riscrittura. Beninteso, se lo desiderano, Italia e Libia, sempre di comune accordo, potrebbero stipulare un nuovo trattato in sostituzione del precedente.



Può l’Italia decidere unilateralmente di sospendere o estinguere il Trattato? Sul punto occorre far riferimento alle cause di estinzione e sospensione previste per i trattati secondo il diritto internazionale. Talune cause sono solo estintive, altre lasciano la possibilità di chiedere l’estinzione oppure la semplice sospensione del trattato.



a) La denuncia del Trattato di Bengasi non è prevista, ed essa può avvenire solo per mutuo consenso, tranne che tale facoltà si deduca dalla natura del Trattato o si dimostri che questa corrispondeva all’intenzione delle parti (cosa ben difficile da dimostrare).



b) Il Trattato non prevede neppure la possibilità di una sua sospensione, peraltro ammissibile solo con il consenso delle parti.



c) L’estinzione o la sospensione può aver luogo qualora l’altra parte si sia resa responsabile di una “violazione sostanziale” del trattato. Occorrerebbe dimostrare che la violazione dei diritti dell’uomo, richiamati dall’art. 6 del Trattato di Bengasi, imputabile alla Libia costituisca una violazione sostanziale. Ma l’Italia si è astenuta da qualsiasi denuncia ed anzi nella prima parte dell’azione repressiva non ha voluto neppure “disturbare” il dittatore libico.



d) Impossibilità di esecuzione: è causa di estinzione o di sospensione del trattato, ma nel caso concreto la ribellione contro il regime e il caos che ne è seguito non costituiscono fondamento per denunciare il Trattato. Tra l’altro tale causa dovrebbe essere invocata dalla Libia e non dall’Italia.



e) Anche il mutamento fondamentale delle circostanze è allo stesso tempo causa di sospensione ed estinzione. Ma è una causa difficilmente accettata dalla giurisprudenza internazionale e non mi sembra che le circostanze esistenti al momento della negoziazione del Trattato di Bengasi - ovvero l’esistenza di un regime autoritario - sia stata una circostanza essenziale per concludere il Trattato! Forse la questione potrebbe essere tirata di nuovo in ballo qualora la Libia si dividesse in due stati (Cirenaica e Tripolitania). Questo evento renderebbe ancora più complicato lo scenario. A supporre che la Tripolitania fosse lo stato continuatore della Libia, la Cirenaica non sarebbe vincolata dal Trattato di Bengasi. Ma le cose non sono così semplici, specialmente per i crediti vantati dalle nostre imprese, i contratti di concessione petrolifera per lo sfruttamento di pozzi in Cirenaica e la sorte dei 5 miliardi di dollari per progetti infrastrutturali.



In punto di diritto

Coloro che vogliono una denuncia immediata del Trattato si sono dimenticati di un fatto molto importante. La Libia ha aderito alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati il 22 dicembre 2008. La Convenzione era già stata ratificata dall’Italia nel 1974 ed è quindi applicabile nei rapporti tra i due stati.



Poiché il Trattato di Bengasi è entrato in vigore il 2 marzo 2009, esso è assoggettato alla disciplina della Convenzione di Vienna, che detta una complessa procedura per far valere l’estinzione di un trattato, proprio allo scopo di evitare ogni unilateralismo e a protezione del principio pacta sunt servanda.



Punto strenuamente difeso dagli occidentali, inclusa l’Italia, che ebbe l’onore di presiedere la Conferenza che portò alla conclusione della Convenzione sul diritto dei trattati. Vogliamo ora far appello a un unilateralismo che non è nella nostra tradizione giuridica?



In conclusione, prima di compiere mosse affrettate occorre attendere la conclusione dell’attuale fase di transizione, che dovrebbe portare all’instaurazione di un nuovo governo. Gli interessi economici italiani in Libia sono cospicui e la loro difesa è conforme all’interesse nazionale, in cui rientra però anche la tutela dei diritti umani, fondamento di un partenariato effettivo e durevole.


Natalino Ronzitti è professore di Diritto Internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Luiss ''Guido Carli'' di Roma e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.

Da Newslettere Istituto Affari Internazionali
XIV


LE RELAZIONI TRA LA RUSSIA E I PAESI DELL’EX URSS

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La crisi del debito greco e dell’Euro

Luciano Larivera S.I.


Il 13 ottobre 2009 il uovo premier greco G. Papandreu, raddoppiava la stima del deficit di bilancio per il 2009. Si scopriva, così, che Atene manipolava i conti pubblici da anni ed aveva una spesa pubblica fuori controllo. Si teme che lo Stato Ellenico non sia capace di rimborsare i suoi debiti in scadenza, salvo offrire ai mercati tassi di interesse insostenibili per la finanza pubblica. L’Unione Europea in due Consigli, a febbraio e a marzo 2010, si è impegnata con formulazioni diverse a impedire che la Grecia fallisca, se Atene attuerà un efficace piano anti-deficit. La Germania, alla vigilia di un appuntamento elettorale, è stata particolarmente severa nei confronti di Atene, L’11 aprile 2010 i ministri dell’Eurogruppo hanno deciso d mettere a disposizione della Grecia 30 miliardi di euro ad un tasso del 5%



Articolo La Civiltà Cattolica, Anno 161 2010 II 182-191, quaderno 3850, 17 aprile 2010
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giovedì 17 marzo 2011

Italia.

L’Italia che non cresce. Il 44° rapporto CENSIS

Michele Simone S.I.

La presentazione dei passaggi più significativi del Rapporto Censis due dei tanti fenomeni sociali dell’attuale società italiana, la disoccupazione giovanile e il problema delle carceri. La cronaca si conclude con qualche accenno alle Cnsideraziioni generali. Qui si constata che la società italiana dell’ultimo decennio è stata capace di difendersi dalla crisi, ma non sembra in grado di far ripartire una ripresa reale. Inoltre la cultura socio-politica non è stata in grado di elaborare idee e prassi adatte al policentrismo esistente. Un fenomeno caratteristico dell’oggi è la mancanza di regolazione:tutto sembra aelatorio

Articolo La Civiltà Cattolica, Anno 161 2010 IV 601-606, quaderno 3852, 18 dicembre 2010
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martedì 15 marzo 2011

Bosnia Erzegovina.
Materiale di Approfondimento

“Situazione incerta in Bosnia Erzegovina” di
 Giovanni Sale S.I.

Il 3 ottobre 2010 in Bosnia Erzegovina si è tenuta la sesta consultazione elettorale generale dal 1996. Le elezioni hanno prodotto alcune novità, ma si è pure confermato lo stallo politico e il timore che le attese riforme costituzionali saranno ancora difficili. Il seggio mussulmano alla presidenza tripartita è andato al centrista Bakir Izetbegovic considerato un moderato e disposto al dialogo con i serbi. L’etnia croata si ritiene mal rappresentata perché il suo seggio presidenziale è stato vinto con i voti dei mussulmani. Tra le molte difficoltà di convivenza, è però comune a tutti i bosniaci l’aspirazione a entrare nella Unione Europea. La Comunità internazionale sembra favorire questo passo in modo unanime, ma probabilmente nel 2011 il Paese sarà ancora sotto il protettorato internazionale deciso dagli accordi di pace di Dayton nel 1995.

Articolo La Civiltà Cattolica, Anno 161 2010 IV 400-409, quaderno 3850, 20 novembre 2010
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giovedì 10 marzo 2011

Economia Italia Fonti Rinnovabili

Il Comitato Italiano per il Rilancio del Nucleare (Cirn) ha puntualizzato la sua posizione in materia di incentivi alle cosiddette fonti rinnovabili con un articolo pubblicato a pagina 10 del quotidiano “L’opinione delle Libertà” di ieri mercoledì 9 marzo 2001. La pagina in formato pdf si aprirà premendo sul sottostante collegamento:

«Con i cosiddetti “incentivi” alle “fonti da intemperie” si è innescato un pernicioso sistema che si sostiene su interessi convergenti - sostiene l’ingegner Giorgio Prinzi, Segretario del Comitato Italiano per il Rilancio del Nucleare (Cirn) - il quale tra l’altro, come appare evidente dalle monocordi generalizzate posizioni al riguardo dei media, condiziona pesantemente l’informazione in tema di energia e di scelte energetiche anche a causa dei fluenti rami di questo fiume di danaro che finiscono in inserzioni a pagamento, così indirettamente condizionando la linea editoriale di una miriade di testate che andrebbero in sofferenza in caso del loro venire meno».
«Si tratta ora di agire con determinazione - prosegue il Segretario del Cirn - eliminando al più presto le costosissime regalie che hanno consolidato potentati e gruppi di interesse non in grado di stare sul mercato».
«Nella consapevolezza della forza delle nostre argomentazioni, che peraltro sembrano venire recepite a livello di Governo, e della nostra capacità a divulgarle nelle Sedi competenti e responsabili - conclude l’ingegner Giorgio Prinzi, - siamo certi che, pur perdurando la generalizzata, ma con significative lodevoli eccezioni, congiura mediatica nei nostri confronti, riusciremo passo dopo passo, taglio dopo taglio, aggiustamento dopo aggiustamento, ad estirpare il pernicioso cancro delle fonti da intemperie e a rilanciare l’opzione nucleare nel nostro Paese, sfatando anche il mito della verità di fede del cosiddetto “effetto serra”, una obsoleta teoria formulata in modo immaginifico nel 1824. Al riguardo rimandiamo alla nostra documentazione tecnica».