Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 23 settembre 2016

Europa: ancora senza strategia per l'immigrazione. Conseguenze

Rotta balcanica
Immigrazione, Ue ostaggio della Turchia
Enza Roberta Petrillo
21/09/2016
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Parola d’ordine appeasement. Dopo due mesi di crisi diplomatica seguita alla repressione scatenata dal presidente turco Racep Tayip Erdogan dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio, Unione europea, Ue, e Turchia sono tornate a confrontarsi sul piano comune per la gestione dei flussi migratori.

Deposte le armi, è spettato all’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, in conferenza stampa congiunta ad Ankara con esponenti del governo turco,chiarire che la stagione della diffidenza e dei sospetti (per il momento) è congelata.

“Nel rapporto tra Ue e Turchia dovremmo parlare di più tra di noi e meno di noi, sempre con rispetto e chiarezza”. Parole misurate che segnano una chiusura delle ostilità imposta dall’impennata di migranti arrivati in Grecia e Bulgaria nelle settimane concitate seguite al tentativo di golpe e alla stabilizzazione manu militari.

Sbloccato l’Emergency Social Safety Net 
Di fatto, nonostante l’accordo Ue-Turchia entrato in vigore lo scorso aprile, la rotta est-mediterranea (più conosciuta come quella balcanica) non si è estinta.

Stando ai dati diffusi dall’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’UnioneFrontex, ad agosto 2016 nelle aree frontaliere comprese tra Turchia, Grecia e Bulgaria sono transitati 169.152 migranti. Dato che sebbene di misura, supera persino quello della pluri-attenzionata rotta centro-mediterranea che approda in Italia, dove ad agosto 2016 gli sbarchi registrati sono stati 116.705.

A far tremare le vene a Bruxelles sono stati, in particolare, i 122. 079 migranti che sono riusciti a proseguire il viaggio lungo la rotta balcanica. Un flusso che per quanto contenuto è stato stigmatizzato dal gruppo di Visegrad come la conferma dell’inanità europea.

Per questo la risposta dell’Ue non si è fatta attendere. All’unisono, Mogherini e il Commissario per gli Aiuti umanitari e la gestione delle crisi Christos Stylianides, l’8 settembre hanno annunciato lo sblocco dell’Emergency Social Safety Net, Essn. Un programma da 348 milioni di euro che l’Unione realizzerà insieme al Programma mondiale alimentare e in partnership con le autorità turche e la Mezzaluna rossa per garantire ai migranti ospitati in Turchia un contributo finanziario per fronteggiare autonomamente le necessità quotidiane connesse al sostentamento, all’istruzione e all’abitazione.

Per ridurre i costi intermedi connessi alla gestione da parte delle autorità locali e massimizzare i benefici per i destinatari, il contributo verrà elargito mensilmente su carte di debito che saranno consegnate, entro il primo trimestre 2017, a circa un terzo dei tre milioni di migranti, per lo più siriani, residenti in Turchia.

I ricollocamenti che non decollano
La contropartita della più imponente operazione umanitaria mai realizzata dall’Unione, dovrebbe essere il riavvio dei controlli frontalieri al valico turco-greco-bulgaro. Un impegno che nelle intenzioni di Bruxelles dovrebbe servire almeno a contenere l’emergenza accoglienza fronteggiata dalla Grecia.

A un anno dall’accordo Ue sul piano biennale per il ricollocamento di circa 160 mila migranti, secondo l’UNHCR solo 4.776 richiedenti asilo sono stati trasferiti da Grecia e Italia.

La stessa Commissione ha recentemente ammesso che il numero dei posti messi a disposizione dagli stati membri per ospitare i rifugiati continua ad essere del tutto inadeguato. Di qui le difficoltà registrate in Grecia, dove ad oggi, circa 57mila migranti restano intrappolati in strutture di accoglienza sovraffollate e potenzialmente incandescenti.

A metà settembre,nel centro di accoglienza di Moria, nell’isola di Lesbo, si sono registrati scontri tra migranti e forze dell’ordine a margine di una manifestazione di protesta organizzata dai migranti dopo la diffusione di notizie su imminenti respingimenti forzati verso la Turchia.

L’asse protezionistico serbo ungherese
Anche se, rispetto allo scorso anno, il percorso lungo la rotta balcanica verso il nord Europa è diventato più pericoloso e più costoso, chi può, abbandona la Grecia attraversando la Macedonia e la Serbia con l’aiuto di trafficanti locali.

Per molti migranti la prima criticità arriva in Ungheria. Qui, stando all’UNHCR dal 5 luglio scorso è in vigore una legge estremamente repressiva che ha inasprito i controlli nelle aree a ridosso del confine sud dove la polizia sta effettuando sistematicamente respingimenti oltre-confine spesso in aree remote e senza servizi.

Ogni giorno soltanto 30 persone vengono autorizzate dalle autorità ungheresi a passare dai valichi di Horgos e Kelebija, per questo il numero di persone che attendono di varcare il confine nell’area di accoglienza governative e informali in Serbia è più che raddoppiato.

Il 5 settembre scorso durante un mini-vertice tra il premier serbo, Aleksandar Vucic, e il suo omologo ungherese, Viktor Orban, anche Belgrado si è allineata ai toni protezionistici magiari puntando il dito contro (i presunti) finti profughi.

Il ministro del Lavoro e degli Affari sociali Aleksandar Vulin ha dichiarato che sta considerando “misure più drastiche, comprese le barriere ai confini” per limitare l'afflusso di persone dai confini meridionali. “Abbiamo dislocato pattuglie miste di militari e poliziotti alle frontiere, ma uno dei modi per ridurre il numero dei migranti potrebbero essere barriere o altri tipi di ostacoli”.

Proposito che la dice lunga sulla fiducia riposta dalla cancelleria balcanica nell’accordo Ue-Turchia. Un’intesa ribadita anche dal recente incontro europeo di Bratislava, la cui attuazione resta però ostaggio della partita sulla liberalizzazione dei visti.

Se i desiderata turchi non dovessero andare a buon fine,i 2.7 milioni di profughi attualmente ospitati in Turchia potrebbero muoversi verso l’Europa. Uno scenario catastrofico, tanto più in un anno che vede in agenda scadenza elettorali decisive come quelle previste in Austria, Francia, Germania e Olanda.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).

martedì 20 settembre 2016

CIPRO: Afrodite porta il petrolio in Egitto

Energia 
Gas, perno della cooperazione nel Mediterraneo orientale
Chiara Proietti Silvestri
14/09/2016
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Una pipeline sottomarina grazie alla quale Cipro ed Egitto trasporteranno gas naturale. L’accordo, firmato tra i due Paesi il 31 agosto, ha l’obiettivo di portare il gas del giacimento offshore Afrodite, situato nella zona economica esclusiva cipriota, in Egitto, lasciando aperta la possibilità di dirigerlo verso il mercato interno o di esportarlo sui mercati esteri.

L’accordo arriva ad un anno esatto dalla scoperta del maxi giacimento egiziano Zohr in grado, una volta operativo,di coprire la crescente domanda interna di energia, riducendo così la possibilità di accesso al mercato egiziano da parte di Nicosia. Pertanto, quali possibili altre vie potrebbe prendere il gas cipriota?

L’incognita di Zohr
L’accordo tra Egitto e Cipro arriva dopo diverse trattative bilaterali: già ad inizio 2015, i due Paesi avevano siglato un Memorandum of Understanding, MoU, che autorizzava l’egiziana Egas e la cipriota Cyprus Hydrocarbons Co. a discutere soluzioni tecniche per trasportare il gas dal campo Afrodite tramite un tubo sottomarino in Egitto.

I due Paesi hanno tutte le ragioni per approfondire una cooperazione energetica profittevole per entrambi. Da una parte, l’Egitto deve fare i conti con una crescente domanda interna ed una produzione nazionale in costante calo; dall’altra, Cipro punta a divenire esportatore di gas naturale a seguito della scoperta nel 2011 del campo offshore Afrodite, con un potenziale stimato in 127 miliardi di metri cubi (mld mc).

Tuttavia, nell’agosto 2015, il ritrovamento del maxi giacimento offshore Zohr da parte di Eniha introdotto una nuova e importante variabile nel contesto regionale. Alcuni analisti hanno valutato negativamente il possibile impatto sui piani di esportazione ciprioti, dato che le abbondanti risorse del campo - stimate in 850 mld mc - potrebbero soddisfare per molti anni a venire la domanda egiziana, togliendo di fatto un possibile sbocco a Nicosia.

La recente firma mostra in realtà un quadro più complesso, in cui emerge la possibilità di esportare il gas proveniente da Cipro sfruttando il sistema infrastrutturale egiziano esistente; ciò contribuirebbe a concretizzare le ambizioni cipriote di diventare esportatore di gas e quelle egiziane di diventare hub energetico regionale.

L’opzione Gnl
Tale soluzione prevedrebbe la riabilitazione dei due terminali egiziani di liquefazione Idku e Damietta, attualmente non operativi dopo la decisione del Cairo di bloccare le esportazioni per convogliare le risorse al mercato interno. Uno scenario verosimile, specie se consideriamo che a novembre 2015 British Gas, BG, - la compagnia operatrice del terminale Gnl Idku - ha firmato un accordo con Noble Energy per l’acquisizione del 35% del blocco 12 dove si trova il campo Afrodite.

In questa situazione, la vicinanza geografica di Afrodite al prospetto esplorativo Zohr potrebbe rappresentare piuttosto un’opportunità, valutando la possibilità di collegare il campo cipriota al sistema di trasporto di Zohr così da limitare l’investimento ad un collegamento sottomarino tra i due campi.

In tale contesto, l’altra importante variabile è Israele che, negli ultimi anni, ha siglato accordi con le compagnie operatrici dei terminali al fine di assicurarsi la vendita del gas dei suoi giacimenti, Leviathan e Tamar, scoperti negli ultimi anni al largo delle sue coste. In particolare, tra il 2014 e il 2015, sono stati siglati protocolli tra le compagnie BG e la spagnola Union Fenosa rispettivamente con i partner di Leviathan e Tamar per rifornire i terminali e avere accesso ai mercati internazionali.

È interessante valutare se l’eventuale finalizzazione degli accordi con Israele non impedisca anche a Cipro di potersi assicurare la vendita del proprio gas ai terminali egiziani. Mettendo a confronto la capacità complessiva di processamento degli impianti con quella “prenotata” da Israele (Fig. 5), resta in effetti una capacità residuale che lascia spazio a un eventuale accordo di esportazione del gas cipriota e stimabile in circa 3 mld mc per Idku e circa 2 mld mc per Damietta. In tal modo, si avrebbero complessivamente circa 17 mld mc di gas naturale potenzialmente esportabili nei mercati internazionali, in primis l’Europa.

Simulazione della capacità residuale dei terminali Gnl egiziani in caso di implementazione degli accordi con Israele
Fonte: elaborazione dell’autore in “Osservatorio di Politica Internazionale, Focus Sicurezza Energetica n. 23/24 – luglio/dicembre 2015”.

Un puzzle di incognite
È pur vero che anche il gas egiziano potrebbe tornare a essere diretto verso i mercati esteri, specialmente una volta completata la 2° fase di sviluppo di Zohr attesa a partire dal 2020, ostacolando altri accordi di vendita del gas da parte dei suoi vicini. D’altra parte, sussiste anche la possibilità - già prospettata negli anni passati ma mai concretizzatasi - di realizzare progetti di espansione della capacità ai terminali per un aumento complessivo di circa 12 mld mc all’anno.

In definitiva, esistono margini di manovra per una maggiore cooperazione energetica tra Egitto e Cipro, mantenendo valida l’opzione di un collegamento sottomarino tra i due Paesi. Tuttavia, l’effettiva riuscita degli accordi finora siglati è legata alle molteplici incognite da affrontare a livello di fattibilità economica e tecnica dei progetti in discussione, a cui si aggiunge la prospettiva di percorrere altre vie del gas per le quali entrerebbero in gioco la Turchia e la Grecia - seppur meno probabili a causa dell’elevato costo politico la prima, ed economico la seconda.

Non ultimo, occorre valutare la capacità di assorbimento dei mercati di consumo a cui può essere diretto il gas, in primis l’Europa, considerato il principale potenziale destinatario. Tutti tasselli di un puzzle ben più ampio che coinvolge l’intero Mediterraneo e che continuerà ad essere oggetto del dibattito internazionale nel prossimo futuro.

“L’articolo è un aggiornamento di uno studio più ampio che si propone di valutare il potenziale della recente maxi scoperta di gas, al largo delle coste egiziane, da parte di Eni in termini di rotte di esportazioni, nuove opportunità e sfide per l'Europa e per i principali paesi dell'area”.

Chiara Proietti Silvestri è Analista di politica ed economia dell'energia presso il RIE di Bologna.

lunedì 19 settembre 2016

Russia: sommergibili classe Warshavyanka.

In occasione dell’inizio dei lavori di costruzione del sesto ed ultimo sommergibile classe Varshavyanka per la Flotta del Mar Nero, il Vice Comandante della Marina Russa, Ammiraglio Alexander Fedotenkov, ha annunciato la costruzione di ulteriori sei vascelli da destinare alla Flotta del Pacifico.
I Varshavyanka costituiscono una versione migliorata delle unità classe Kilo: dotati di avanzate capacità stealth subacquee e superiore raggio d’azione, sono capaci di condurre attacchi navali e di superficie mediante siluri, mine e missili cruise Kalibr 3M14 ( SS-N-27 SIZZLER).
I Varshavyanka andranno quindi a potenziare lo strumento militare russo in due bacini sempre più strategici per Mosca. Nel Mar Nero l’attenzione del Cremlino è cresciuta a causa della crisi ucraina e dell’impegno militare sul fronte siriano, a cui si sommano le crescenti tensioni con la Turchia: i nuovi sommergibili, oltre a garantire una maggiore libertà d’azione alle unità di superficie operanti nel Mar Nero e Mediterraneo, contribuiranno essi stessi ad incrementare le capacità di attacco della Marina Russa sui fronti europeo e mediorientale.
Nel Pacifico, invece, i Varshavyanka rafforzeranno la superiorità navale di Mosca nel Mare di Okhotsk e lungo l’arcipelago delle isole Curili, rendendo questo specchio d’acqua un luogo ancor più sicuro per i sommergibili strategici classe Borey e Delta III che vi stazionano.
Fonte C.E.S.I. Intelligence e defence Upgrade. 65

sabato 17 settembre 2016

Bratislava: le risposte che si attendono


Unione europea
Da Ventotene a Bratislava
Pasquale Lino Saccà
13/09/2016
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A Bratislava, il 16 settembre, sapremo se l’Europa dei piccoli passi ha ripreso il suo cammino. Dopo Maastricht infatti, sono stati tanti gli egoismi nazionali che hanno rallentato l’affermarsi di un ruolo politico dell’Unione europea, Ue, che non è capace di rispondere alla domanda o al bisogno di una governance mondiale responsabile e sempre più condivisa, in quanto democratica. Basta pensare al silenzio sul cessate il fuoco ad Aleppo! Chi può attendere altri crimini di guerra e contro l’umanità?

Direttori e cooptazioni
A Ventotene, oltre lo scenario paesaggistico e le dichiarazioni di agire in modo più incisivo, la logica del Direttorio (Francia, Germania, Italia) ha confermato i suoi limiti nella leadership dello Stato più forte - la Germania - che di volta in volta sceglie i suoi interlocutori, confermando che rimaniamo ancora all’Europa dei piccoli passi che non risponde alle sfide e non sempre svolge una presenza politica incisiva: si riveda Aleppo, non tralasciando la Russia.

Se dall’immigrazione alla difesa, la domanda di un’Europa politica viene sempre più percepita e se Ventotene segna o vuole essere un ulteriore piccolo passo, una politica fiscale o di risorse proprie non è ritenuta attuale perché prevale l’interesse nazionale e si dimentica il cammino di pace dell’integrazione: Regno Unito docet.

Quale Brexit? 
Il primo ministro inglese Theresa May ha ribadito che “Brexit is Brexit” uno slogan senza una politica, rendendo evidente che il risultato del referendum ha evidenziato superficialità ed impreparazione nel non prevedere e non predisporre una governance conseguente, oltre una mancanza di capacità nel valutare i danni per il proprio Regno “unito” e per gli altri Stati membri.

Quale democrazia? Senza strumentalizzare i referendum, se una minoranza, ignorando gli elementi positivi o ingannata da false argomentazioni, pone qualche dubbio sulla capacità dell’Europa d’integrarsi ed essere un continente di pace, è lecito, interpretando demografia, sovranità e ruolo dei Parlamenti, rinnovare la rappresentanza parlamentare dando ad essa l’ultima parola, che va oltre un referendum consultivo.

Siamo consapevoli che Brexit non è l’unica alternativa, una ulteriore riflessione ed il tempo necessario a conoscere e valutare il valore della pace ed il ruolo dell’Ue porta a condividere quanto Le Monde correttamente argomenta che il referendum ha valore consultivo. L’attuale Camera dei Comuni avrà più di un dubbio a opporsi alla decisione presa con il referendum, ma nel lungo periodo per decidere (2017-2018), questo potrebbe favorire una evoluzione o cambiamento dell’opinione pubblica e dello spirito europeo.

Aiutiamo May a non ripetere l’errore di Cameron d’inseguire i populismi dell’Ukip (estrema destra xenofoba) per l’indipendenza dell’UK, non trascurando un’attenta riflessione sulla cultura delle procedure e consuetudini democratiche che permettono ai popoli di conoscere e consapevolmente decidere.

Le elezioni, prima del 2020, possono essere una conferma della vera volontà degli inglesi di rimanere in un Regno “Unito”: Scozia docet.

Nel contempo, per mantenere la pace, l’Unione deve dotarsi di una propria sovranità per superare i nazionalismi, cosi da distinguere chi vota al referendum per una corretta procedura ed incisività e chi strumentalizza: vedi Ungheria 2 ottobre (l’Europa alla carta non è praticabile); così pure deve andare oltre i direttori le cui forme di “democrazia cooptante” non rispondono agli interessi dell’Ue: politica estera docet.

Di conseguenza, non trascuriamo la Turchia ponte naturale per una politica estera in Medio Oriente ed oltre, e non sottovalutiamo la Russia, dalla Crimea e dal Mar Nero al Mediterraneo.

Il cammino di pace con l’integrazione non è avulso dai Trattati di pace delle due guerre e la dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950 segna la nascita di una Comunità che rifiuta la guerra; Il Manifesto di Ventotene è “figlio” della resistenza, della lotta alla dittatura di Colorni, vittima del fascismo, che con Spinelli e Rossi andarono oltre Livorno del 1921, auspicando la nascita di un’Europa federale a garanzia della libertà, della pace e della solidarietà.

Il Regno Unito non è estraneo a questo cammino di pace, mentre la Russia torna a essere una potenza offensiva e la Turchia deve consolidare la propria democrazia, riconoscendo le minoranze e le diversità: l’Unione europea è un esempio da seguire.

Verso Bratislava
A Bratislava sapremo se il dialogo del Direttorio approderà a dei risultati concreti che non sono avulsi da una politica economica che crei occupazione, senza trascurare di dotare l’Unione bancaria di una garanzia unica dei depositi, da una risposta costruttiva ai rifugiati ed un aiuto ai Paesi che sono in guerra.

Un ruolo politico e più democratico dell’Unione va rilanciato, anche a sostegno delle organizzazioni internazionali che non riescono ad “imporre” una pace duratura, mettendo assieme oltre “il carbone e l’acciaio” anche una difesa non avulsa dalla Nato e che rafforzi i rapporti con gli Usa, affinché la pace coinvolga altri continenti.

Non sarà semplice se non ridiamo alla Commissione il potere d’iniziativa, rispetto agli Stati sempre più chiusi a non disturbare il proprio elettorato, spiegando il successo del processo d’integrazione, i vantaggi di aver vissuto tanti anni in pace e le opportunità di un mercato unico e una moneta unica. Riflettiamo e decidiamo su come coniugare elezioni nazionali e sovranità europea.

Nel 2017 si voterà in Olanda, Francia e Germania, possiamo non decidere e rinviare a dopo l’autunno del 2017? Non dimentichiamo un’Europa dei popoli, che sin dalle elezioni del 1979 venne proposta e votata e che ha significato democrazia e partecipazione, rispetto all’Europa intergovernativa che non riesce a decidere e che non è autonoma dal potere finanziario.

Passato e presente che si concretizzano nei 60 anni dei Trattati di Roma (marzo del prossimo anno), ma ai giovani bisogna dare la certezza di un futuro, affinché le loro scelte siano nel solco della pace.

Il Consiglio europeo di Bratislava può rappresentare una svolta oppure confermare l’Europa dei piccoli passi e dei nazionalismi? Mentre Ventotene rimarrà un’isola lontana, figlia di un periodo storico che alienava alla libertà dalle dittature.

Il contesto non è dei migliori, ma evidenzia che l’Unione ha bisogno di rafforzare e democratizzare la dialettica istituzionale per avere un ruolo politico avulso dai nazionalismi crescenti. Ha bisogno di superare i vecchi confini e avviare una sovranità europea, oltre i Direttori guidati dal Pese più forte e legati all’interesse del proprio elettorato.

In questo contesto abbiamo gli elementi per passi più lunghi, riconosciamo la sensibilità ed il realismo dei padri delle Comunità che avevano deciso per una Commissione avulsa dagli Stati, rafforziamo il potere d’iniziativa della Commissione con un esecutivo direttamente eletto (collegi sovranazionali) e ridotto di numero.

Pasquale Lino Saccà, J.M. Chair ad personam E.C. Roma.

mercoledì 14 settembre 2016

Germania: La merkel in difficoltà

Germania
Merkel sconfitta in casa lascia spazio all’Afd
Eugenio Salvati
05/09/2016
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Le elezioni in Meclemburgo-Pomerania, nonostante le piccole dimensioni del Land chiamato al voto, potrebbero rappresentare un passaggio rilevante per i futuri assetti del sistema politico tedesco e per la leadership di Angela Merkel.

Nel collegio elettorale della Cancelliera, ma anche in una delle regioni meno ricche della Germania, si è assistito a un notevole rimescolamento delle carte in gioco che indica quanto incerte saranno le elezioni politiche del 2017 e quanto l’ondata populista e di protesta sia arrivata a colpire anche il sistema politico tedesco. La stessa Merkel ha voluto connotare, con una certo il coraggio, il voto di domenica come un test nazionale, implicitamente mettendo in discussione il suo stesso ruolo nella politica nazionale.

Meclemburgo-Pomerania, non solo questione migratoria
I primi dati rilevanti sono quelli dei due partiti maggiori, i socialisti, Spd, e i cristiano democratici, Cdu. Nella tornata elettorale della regione baltica abbiamo la sostanziale tenuta della Spd che, esprimendo il ministro-presidente uscente Erwin Sellering, si attesta al 30,6% dei voti, perdendo il 5% rispetto alle elezioni del 2011.

Anche la Cdu-Csu perde all’incirca la stessa percentuale passando dal 23,1% del 2011 al 19% di oggi. Il calo è molto più marcato se confrontato con le politiche del 2013 o le europee del 2014, rispetto alle quali la Cdu perde rispettivamente il 21% e il 13%. Questo comparazione non è particolarmente decisiva perché osservando la serie elettorale degli ultimi 10 anni nel Land, si nota quanto la Cdu sia forte nelle elezioni generali e cali drasticamente a favore della Spd nelle elezioni locali.

Più che un tracollo, quello della Merkel è una cocente sconfitta che ha più cause, e le principali sono probabilmente legate a questioni del governo locale. La prima, di tipo strutturale, è il fatto che sembra un trend definito quello che vede il junior partner di una grande coalizione, in difficoltà nelle successive elezioni: nel Land baltico i conservatori hanno pagato la loro condizione subalterna rispetto ai socialisti.

Indubbiamente ha però giocato un ruolo anche il clima generale della politica tedesca; benché in Meclemburgo-Pomerania non ci sia stato un grande ricollocamento di rifugiati e richiedenti asilo, il vento di generale sfiducia verso la cancelliera per le politiche migratorie alimentato dalla campagna elettorale di Alternative für Deutschland, Afd può aver inciso sul voto.

Il fatto che il Meclemburgo patisca uno dei più alti livelli di disoccupazione del Paese (benché in netto calo negli ultimi anni), fa sì che la percezione dei cittadini di vedere il proprio precario status economico e sociale ancor più indebolito, può aver alimentato la percezione di un “pericolo immigrati”.

I partiti che risultato maggiormente indeboliti in questa tornata elettorale sono da una parte i Verdi che crollano dal quasi 9% del 2011 al 4,8%, vedendosi esclusi dal parlamento regionale, e soprattutto la Linke. Il partito di sinistra che alle precedenti elezioni aveva raccolto il 18,4%, scivola al 13% non riuscendo così a consolidare la propria posizione di forte antagonista della Spd.

Frauke Petry e il debutto in casa di Afd
Il vincitore è indubbiamente Afd che presentandosi per la prima volta nelle elezioni locali si colloca al secondo posto, con il 20,8%, e consolida la sua posizione di “disturbatore” nel bacino elettorale della Cdu.

Il partito anti-immigrati è sicuramente riuscito nell’operazione di catalizzare il voto di protesta che nelle scorse elezioni del Land era andato in gran parte alla Linke e quello che nelle precedenti elezioni era andato ai partiti minori (“scompaiono” Verdi e Liberali), sottraendo parte degli elettori direttamente alla Cdu.

In una elezione in cui il numero degli elettori è cresciuto rispetto a 5 anni fa (+10%), Afd è anche riuscita a portare al voto chi si era precedentemente astenuto.

Questo può significare che il partito di Frauke Petry è in grado di catalizzare uno scontento diffuso e articolato che ha radici e sintomi molteplici: dalle cause prettamente locali, al rifiuto della politica migratoria, alla necessità di politiche sociali più inclusive sino al rifiuto di una certa omogeneizzazione delle politiche, data dal sempre più frequente ricorso alle grandi coalizioni Spd-Cdu.

In un paragone un po’ azzardato potremmo pensare ad un percorso molto simile a quello del Movimento 5 Stelle in Italia, solo con una origine culturale di destra invece che nel campo valoriale della sinistra post ideologica come nel caso dei 5 Stelle. Un partito che nel corso del tempo perde in parte la sua connotazione ideologica (infatti la matrice libertaria ed elitaria con cui è nata Afd è scomparsa), sfrutta un tema forte (in questo caso l’immigrazione), tramite il quale riesce a condensare uno scontento interclassista e diffuso.

Merkel e i dubbi sul futuro
Il dato di oggi indica quanto il futuro di Merkel sia complicato, così come quello della Cdu, a causa del rafforzamento in Germania di una forza populista così come sta accadendo nel resto d’Europa.

Il partito sembra perdere sì consensi alla sua destra, anche a causa delle politiche più centriste e moderate della cancelliera, ma al contempo sa che la Merkel è la sola che possa condurre di nuovo alla vittoria il partito.

La stessa Spd sarà costretta ad interrogarsi sul suo futuro: in uno scenario politico sempre più frammentato, con il serio rischio che Afd porti una pattuglia consistente di deputati nel Bundestag e forze come la Fdp restino ancora fuori dal parlamento, è molto probabile che nel 2017 si ripresenti la necessità di varare un’altra grande coalizione per evitare uno stallo come quello spagnolo o lo scenario post voto del 2013 in Italia.

Questo scenario danneggia però i junior partner e in particolare i socialdemocratici, che si vedono stretti tra la stabilità fornita dalla leadership della Merkel e una crescente insofferenza verso l’assenza di una alternativa a questa leadership.

Nel momento in cui la Spd vede offuscata la sua posizione di possibile alternativa alla cancelliera e viene sempre più percepita come una sua “propaggine”, è possibile che i socialdemocratici vedano un calo dei loro consensi, e non necessariamente in direzione di partiti di sinistra come i Verdi o la Linke, come sembra aver indicato il voto in Meclemburgo-Pomerania.

Eugenio Salvati è Dottore di Ricerca in Scienza Politica, Università di Pavia.

Spagna. La crisi di governabilità continua

Spagna
Seconda bocciatura per Rajoy, terza elezione in vista 
Marco Calamai
05/09/2016
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Mariano Rajoy bocciato per la seconda volta. Il Parlamento gli nega la fiducia, riaprendo la strada per le urne. Dal dicembre 2015 sarebbe la terza volta, a conferma che la crisi politica spagnola non accenna a spegnersi. Con l’ultima bocciatura parlamentare (170 si, 180 no) dell’attuale premier del Partito popolare, Pp, Madrid entra in una nuova fase densa di incognite.

Ciudadanos non fa la ruota di scorta
Ciudadanos (C’s), il nuovo partito della destra liberale, ha comunicato, in piena discussione parlamentare e pur votando a favore di Rajoy, la decisione di sospendere il suo appoggio al primo ministro uscente.

Il discorso di Albert Rivera, il giovane fondatore di C’s che da posizioni liberiste in economia si batte contro la dilagante corruzione, ha sorpreso tutti. Rajoy non unisce, ma divide, ha spiegato, il C’s chiede ora al Partito popolare (Pp) di presentare un nuovo candidato che faciliti un accordo con i socialisti.

I contenuti dell’intesa programmatica tra Pp e C’s restano validi, ha spiegato ancora Rivera, ma Rajoy non è la figura che può favorire un accordo con i socialisti e quindi sbloccare la situazione.

Una svolta non solo inattesa, ma anche decisiva? Certo una doccia fredda per i popolari che hanno reagito con stizza all’inattesa proposta del loro principale alleato il quale ha platealmente dimostrato di non intendere fare da ruota di scorta del partito di maggioranza relativa e probabilmente, considerando probabile un nuovo ricorso alle urne il prossimo dicembre, spera di recuperare i voti persi a vantaggio del Pp nelle ultime elezioni.

Rajoy, l’uomo da sacrificare
La richiesta di un nuovo candidato popolare viene ormai da più versanti. L’ha espressa chiaramente Felipe Gonzalez, il socialista più illustre della transizione democratica.“Siamo di fronte ad una situazione paradossale” ha sostenuto Gonzalez “il partito più votato presenta un candidato che è anche il più vietato”.

Una svolta anche questa, dato che Gonzalez ha sostenuto per diversi mesi la necessità di un sostegno socialista ad un governo a guida Rajoy, unica possibilità a suo parere, visti i risultati delle due recenti prove elettorali, di uscire dall’attuale paralisi istituzionale. Gonzalez aveva più volte affermato, in chiara polemica con il segretario del partito socialista, Psoe, Pedro Sanchez, che non ci sono alternative a tale appoggio. Ora, tuttavia, sostiene la necessità che il Pp sacrifichi il suo numero uno per rendere credibile l’ipotesi di un accordo popolari-socialisti.

Il quotidiano centrista El Pais, che da mesi sostiene l’esigenza di una collaborazione Pp - Psoe, ha subito colto la palla al volo. “Né Rajoy né Sanchez” è il titolo dell’editoriale di domenica 4 settembre. E ancora. “Chiediamo ai due responsabili del blocco di forze di fare un passo indietro”. A tale ipotesi il Pp, arroccato attorno al suo capo, ha detto subito di no. Un no che, se confermato, porterebbe molto probabilmente alle elezioni vista la difficoltà di un accordo tra Psoe e Podemos.

Nessuna esperienza italiana per la Spagna
L’intervento di Rivera ha in ogni caso riaperto i giochi. Sanchez, nella fase conclusiva del dibattito parlamentare, ha colto la nuova situazione per proporre di lavorare per un accordo tra tutte le forze contrarie al Pp e favorevoli a un governo riformatore. Quindi una alleanza Psoe - Podemos - forze nazionaliste basche e catalane che in qualche modo coinvolga anche Ciudadanos.

Non è chiaro se questa posizione abbia reali possibilità di andare avanti. La diffidenza reciproca tra il Psoe e Podemos, alimentata dai poteri forti, resta difficile da superare in questa fase convulsa del confronto politico. E allora perché Sanchez ora sostiene un accordo di centro-sinistra? Lo fa convinto che tale accordo sia possibile oppure prende tempo in attesa che diventi concreta la proposta di Rivera e altri?

Domanda che richiama subito un altro interrogativo: è in grado il Psoe, diviso sul come far fronte alla sfida della nuova sinistra, di andare ad un confronto costruttivo con Podemos? I socialisti non rischiano una frattura traumatica al loro interno? E Ciudadanos, d’altra parte, può accettare di convivere con la sinistra radicale e con le forze indipendentiste basche e catalane? Tale ipotesi, che per certi aspetti ricorderebbe l’esperienza italiana dei governi Prodi, appare difficile in un paese come la Spagna, abituato a un sistema bipartitico che è durato quattro decenni e dal quale i vecchi partiti si stanno allontanando con evidente fatica.

Intanto si fa strada nell’opinione pubblica l’impressione, per altro alimentata da buona parte dei media, che il ceto politico sia più interessato alla propria sopravvivenza che alle aspettative della popolazione. Chiamare la gente che va a votare quando non si cerca seriamente un accordo, sta alimentando l’antipolitica. Molti si chiedono: cui prodest? Non certo alle forze che cercano di consolidare valori e pratiche democratiche.

Ora la Spagna ha due mesi di tempo per evitare di votare per la terza volta in un anno. L’incertezza si accentua e si moltiplicano le domande su come i singoli partiti attueranno nelle prossime settimane. Anche per questo diventano ancora più importanti le elezioni del 25 settembre in Galizia e nel Paese basco, due regioni che aspirano a una crescente autonomia dal governo centrale.

Marco Calamai è giornalista e scrittore.
 

venerdì 2 settembre 2016

Europa i venti della guerra fredda all'est

Crisi ucraina
Molto confronto e poco dialogo
Sara Bonotti
31/08/2016
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Le ultime dinamiche geo-politiche e diplomatiche europee segnano una nuova dialettica tra gli ex-blocchi, suggerendo il ritorno a una contrapposizione da guerra fredda. La crisi ucraina, l’intensificarsi delle relazioni economiche russe con Paesi ex-sovietici e le decisioni dell’ultimo vertice Nato sulla sicurezza alla frontiera orientale portano alla ribalta un concetto di dissuasione che sembrava ormai superato.

Sanzioni occidentali e antidoto Eurasia
L’interventismo russo in Ucraina per tutelare minoranze russe e russofone ha sollecitato pesanti sanzioni contro un’economia già compromessa dai coinvolgimenti bellici in Donbas e Siria. Le misure occidentali colpiscono industrie energetiche, bancarie e tecnologiche russe e la capacità di attrarre nuovi capitali.

Nonostante il pacchetto anticrisi del 2014 - a sostegno di ritenuta di valuta straniera, liquidità del rublo e solidità delle imprese statali - stentano a decollare progetti per infrastrutture energetiche e mancano incentivi a investimenti da fonti esterne alle istituzioni finanziarie europee.

Le banche di Cina e India, partner emergenti per gas e petrolio, sembrano tenere in considerazione il regime sanzionatorio occidentale. L’intera economia russa ne esce così indebolita, riflettendo l’immagine di un mercato viziato da turbolenze politiche.

In chiave anti-sanzione, il presidente russo Vladimir Putin gioca la carta del rilancio economico. Al Forum Internazionale di San Pietroburgo, lo scorso giugno Putin si appellava alla “Grande Eurasia” come piattaforma d’integrazione e sviluppo tra Unione europea, Unione economica euroasiatica (Russia ed ex-satelliti) e Organizzazione per la cooperazione di Shangai.

Ma la Grande Eurasia rimane al momento un miraggio che altera la percezione della Russia quale fulcro di un nuovo ordine economico, sottovalutando parimenti la capacità Ue di sviluppare relazioni commerciali in Asia senza intermediazioni.

Nella visione putiniana, le sanzioni rappresentano una cinica tattica statunitense che danneggia soprattutto l’Europa e devono essere pertanto revocate. Segnali di distensione vengono dal francese Nicolas Sarkozy che, ipotizzando l’abolizione delle sanzioni russe anti-Ue, prefigura l’inattuabilità del rinnovo di quelle europee.

Monaco-Varsavia: dalla dissuasione dialettica alla dissuasione operativa
Il braccio di ferro sul campo ha alimentato, lo scorso febbraio, la dialettica alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco. Il premier russo Dmitry Medvedev ha evocato una “nuova guerra fredda” da anno 1962, accusando la Nato di politiche “ostili e opache”.

Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha constatato che la partnership con l’Ue non supera lo stress test ucraino - pena il congelamento di diversi accordi commerciali - criticando per scarsa trasparenza il progetto statunitense dello scudo anti-missile in Europa orientale.

Il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha parlato di una Russia “più assertiva” e destabilizzante per la sicurezza europea, mentre il presidente della Conferenza, Wolfgang Ischinger, ha ritenuto il quadro strategico globale il peggiore dal crollo del Muro. A fargli eco è stato il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, lamentando come guerra e pace fossero temi purtroppo attuali in Europa.

D’altro canto, la Nato del Vertice di Varsavia di luglio evolve dai principi di rassicurazione e solidarietà (summit di Galles 2014) a quello di dissuasione. Accogliendo le richieste di Polonia, Paesi baltici e Romania per un rafforzamento della difesa militare nei loro territori, dal 2017 la Nato assicurerà la rotazione permanente di battaglioni multinazionali (Usa, Canada, Gran Bretagna e Germania) con mille truppe ciascuno.

Tale presenza, lungi dal garantire da eventuali aggressioni, potenzia la catena di comando, il coordinamento operativo, gli scambi informatici e intelligence. Il summit rimanda all’accordo del 1997 per cui la Nato non poteva dispiegare truppe permanenti a est della Germania salvo presunte minacce. Parimenti la Russia deliberava il potenziamento offensivo sui fronti occidentale e meridionale, confermando la linea di fine 2015.

Fattori di disgelo
L’Europa occidentale è la più incline ad associare alla dissuasione una cooperazione con la Russia sulla sicurezza. In primis Germania e Francia esprimono riserve sugli attuali indirizzi Nato. Steinmeier contesta le esercitazioni militari a est, mentre il presidente francese François Hollande definisce la Russia partner, contraddicendo la retorica del Summit.

La recente telefonata tra Putin, Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel testimonia il desiderio di un dialogo costruttivo. Mosca preme inoltre per un accordo di de-escalation e prevenzione. La dissuasione si nutre così della diplomazia europea e della tattica russa del “divide et impera”.

Il coinvolgimento militare in Siria è altro terreno di prova. L’obiettivo subliminale di Mosca è alzare la posta in Ucraina. Scenari alieni geo-politicamente risultano così accomunati in un unico disegno. Il Cremlino attende un’inversione di rotta anche dalle presidenziali Usa. L’opzione Donald Trump, che agevolerebbe accordi strategici e disimpegno americano in Europa, ispira la relativa moderazione russa rispetto alle risoluzioni Nato, percepite come transitorie.

Sara Bonotti, Programme Manager Human Dimension, Organization for Security and Co-operation in Europe (Osce), Programme Office in Astana.