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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 16 giugno 2015

Fillandia: la coalizione tripartita al lavoro nel nuovo governo

Il ‘trio’ Finlandia
Un nuovo governo e nuovi progetti
Gianfranco Nitti
09/06/2015
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A poco più di un mese dalle elezioni politiche del 19 aprile, si è insediato in Finlandia il 74° governo dalla proclamazione della Repubblica, nel 1917: una coalizione tripartita, guidata dal leader centrista, Juha Sipilä, che comprende, oltre al partito di centro, il partito dei Finlandesi e i conservatori di Alexander Stubb, in calo alle urne.

Stubb guidava il governo di coalizione precedente, di centro-sinistra, mentre l’attuale è di centro-destra, senza piccoli partiti come i cristiano-democratici e gli svedesi prima presenti.

Nel complesso, la coalizione, insediatasi il 29 maggio, dispone di 120 dei 200 seggi del parlamento unicamerale finlandese. Il nuovo gabinetto ha 14 membri, tre in meno rispetto a quello del precedente governo: sei sono del partito di centro, quattro dei Finlandesi, altri quattro dei conservatori.

Ministro degli affari esteri è il leader dei Finlandesi Timo Soini, spesso definito euroscettico e populista. L’ex premier Stubb ha avuto il dicastero delle finanze, mentre l’ex commissario europeo Olli Rehn, guida gli affari economici. Cinque dei 14 ministeri sono affidati a donne.

Le ricette del trio
Le linee programmatiche del nuovo governo sono fondamentalmente tracciate sui binari di grandi tagli di spesa per equilibrare le finanze pubbliche e su investimenti in infrastrutture e altre misure per promuovere la crescita economica e l'occupazione.

Il programma, contenuto in un documento di circa 40 pagine, “Finlandia, terra di soluzioni”, è stato illustrato in Parlamento il 2 giugno dal premier ed è stato approvato con 114 voti favorevoli e 72 contrari.

Per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza, la Finlandia intende mantenere buone relazioni con la Russia, nonostante il raffreddamento dei rapporti di Mosca con l’Ue. Inoltre, il Paese mantiene l’ipotesi di chiedere l'adesione alla Nato.

Sul piano economico e sociale, il governo ha l’obiettivo di elevare il tasso di occupazione al 72% della forza lavoro. Ma, poiché il Pil della Finlandia è ora più o meno al livello di otto anni fa, mentre la spesa pubblica ha continuato a crescere, l'indebitamento non è più sostenibile e va quindi ridotto tagliando, fra l’altro, la spesa.

La coalizione traccia in cinque punti i suoi obiettivi fino al 2025, al di là del limite temporale della legislatura appena iniziata: il risultato vuol essere una Finlandia innovativa, sicura e solidale, secondo la formula del premier Sipilä.

I cinque punti sono: - migliorare l'occupazione e la competitività; - riformare la competenza e l'istruzione; - promuovere il benessere e la salute; - incoraggiare bio-economia e compatibilità ecologica; - riformare le modalità di lavoro attraverso digitalizzazione, sperimentazione e deregolamentazione.

Progetti e risparmi
Sipilä ha citato 26 progetti chiave, che intende realizzare nel periodo del suo governo. Tra di essi, riforma dei servizi per l'impiego per promuovere una migliore occupazione; aumento della costruzione di alloggi; promozione della creazione di nuovi ambienti di apprendimento e introduzione di materiali digitali negli istituti scolastici; ampliamento del progetto delle ‘scuole in movimento’ in tutto il paese per garantire un'ora di attività fisica ogni giorno.

Ed ancora: attuazione della riforma dell'istruzione secondaria superiore professionale e sviluppo di un sistema di garanzia per i giovani; miglioramento dell'assistenza domiciliare per gli anziani e delle cure informali; adozione di un programma per affrontare la riforma dei servizi per l'infanzia e la famiglia; promozione di fonti d’energia pulite, rinnovabili e senza emissioni di anidride carbonica, abbandonando l’utilizzo del carbone nella produzione energetica e dimezzando, già negli anni 2020, l'uso di petrolio importato per le esigenze del paese. Ma l’elenco dei progetti è molto più esteso.

C’è, inoltre, la riforma delle Amministrazioni locali basata su aree autonome più ampie di una municipalità. Per salvaguardare la democrazia, queste aree saranno gestite da consigli eletti. Sono pure state definite le cornici per finanziare la riforma: il governo prevede di ridurre i costi del governo locale di un miliardo di euro.

Sipilä ha sottolineato che la premessa fondamentale del suo governo è che il Paese debba cessare di vivere al di sopra delle proprie possibilità entro il 2021, trovando modo di ridurre il debito pubblico di almeno 10 miliardi di euro, in parte mediante risparmi sulle spese, in parte mediante interventi strutturali.

Nella legislatura appena iniziata, i risparmi dovrebbero attestarsi sui quattro miliardi, ove possibile in aree che non influenzano direttamente i trasferimenti di reddito e i servizi di cui i cittadini hanno bisogno. Gli assegni familiari non saranno toccati, le pensioni garantite avranno un piccolo aumento, le attività di assistenza informale saranno sostenute con un investimento di 75 milioni.

Stato sociale e contratto sociale
Il premier ha assicurato che i risparmi non comprometteranno lo stato sociale finlandese. Ma senza tagli, lo stato sociale sarebbe in pericolo nel giro di pochi anni. Sipilä ha criticato l’attuale gravosa pressione fiscale che mette in pericolo la competitività, ammettendo tuttavia che non è possibile ora attenuarla.

Se una tassazione più elevata non porterà al recupero della Finlandia, non può riuscirci da solo neanche il taglio dei costi. Per questo, si propone un investimento di 1,6 miliardi in crescita per ridurre l'arretrato sulle manutenzioni e per attuare gli obiettivi strategici.

Questi investimenti saranno finanziati principalmente attraverso redditi da capitale e si utilizzeranno pure gli strumenti dello Strategic Investment Fund dell’Ue e della Banca Europea per gli Investimenti, il cosiddetto Piano Juncker.

Il governo propone un ‘contratto sociale’ per ridurre i costi per unità di lavoro di almeno il 5%: proposta che sarà definita a fine luglio e cui le parti sociali dovranno dare risposta a inizio autunno. Per sostenere il contratto sociale e finanziarne gli accordi, il Governo è pronto a ridurre le imposte sul reddito. Queste soluzioni rafforzeranno l'equilibrio delle finanze pubbliche di un importo pari a mezzo punto del Pil.

In sostanza, il nuovo governo finlandese ha un programma ambizioso difficile da attuare nel breve termine (e infatti si espande oltre il quadriennio della legislatura). Presto i cittadini finlandesi potranno valutarne consistenza e fattibilità; e si vedrà se e quanto il populismo di Soini riuscirà a coabitare col rigorismo di Rehn.

Gianfranco Nitti è giornalista, corrispondente di mass media finlandesi dall’Italia.
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lunedì 15 giugno 2015

Europa: gli errori si pagano e l'arroganza pure

Spagna e Polonia
Ue, nuovo allarme consenso
Stefano Pioppi, Eleonora Poli
01/06/2015
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Il risultato di Podemos in Spagna, le elezioni presidenziali polacche con la vittoria di Andrzej Duda, candidato di Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwosc), il trionfo di David Cameron in Gran Bretagna e la continua lotta politica di Syryza in Grecia costituiscono senza dubbio una sorta di grosso scheletro nell’armadio che mina la legittimità di Bruxelles.

Tuttavia, se l’insoddisfazione nei confronti dell’Unione e il desiderio di cambiamento caratterizzano tutti e quattro i Paesi in questione, la progettualità politica espressa dai rispettivi partiti non è allineata.

Cameron chiede meno Europa politica e più mercato comune e, forte dell’onda euroscettica, è in viaggio verso le capitali europee per ottenere il consenso degli Stati membri a una revisione dei trattati.

Tsipras, invece, vorrebbe un’Europa diversa e possibilmente meno austera, che consenta ad Atene di investire nel sistema di welfare e sull’economia reale. Ma cosa vogliono i leader di Diritto e Giustizia e di Podemos?

Diritto e Giustizia: un tradizionale euroscetticismo
Andrzej Duda, vincitore delle elezioni presidenziali grazie al 51,55 % ottenuto al secondo turno delle presidenziali del 24 maggio, inizierà il suo mandato il 6 agosto, in coincidenza con la fine di quello di Bronisław Komorowski.

Già europarlamentare, Duda si prepara a spianare la strada per una vittoria del suo partito, Diritto e Giustizia, alle elezioni legislative previste per ottobre. Diritto e Giustizia si colloca a destra del sistema politico polacco. Con forti posizioni nazionaliste, di conservatorismo, e tendenzialmente populiste, il partito del neo-presidente eletto ha costantemente ribadito la necessità di dare precedenza agli interessi nazionali rispetto a quelli europei.

Lo stesso Duda si è più volte espresso criticamente nei confronti non solo della gestione politico-economica da parte delle istituzioni europee o dell’euro, ma anche nei riguardi del processo di integrazione nel suo complesso, colpevole di avere privato la Polonia di parte della sua sovranità.

In un momento economico contraddistinto dalla crescita, l’euroscetticismo si giustifica con il nazionalismo. Economicamente il partito sostiene posizioni anti-liberali, più vicine al protezionismo e al patriottismo economico che all’integrazione.

Con 18 seggi nel Parlamento europeo (19 se consideriamo il seggio di Destra della Repubblica), Diritto e Giustizia si configura come la componente numericamente più rilevante, insieme al Partito Conservatore britannico, del gruppo parlamentare dei Conservatori e Riformisti Europei.

Non a caso, presenta posizioni che sono quelle del più tradizionale euroscetticismo, risultato della cultura nazionalista avversa alla cessione di poteri al livello sovranazionale. Questo non è un fenomeno nuovo, ma vecchio quanto lo stesso processo di integrazione europea.

Podemos sulla scia dell’eurocriticismo
Un’altra novità, forse più annunciata, del mese di maggio, è stato il grande successo di Podemos alle elezioni amministrative spagnole. Nonostante il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio Spagnolo restino le prime due forze del paese, la grande crescita di Podemos ha difatti messo fine al bipolarismo che ha contraddistinto la Spagna dalla fine del franchismo.

Il partito dei post-indignatos, guidato da Pablo Iglesias, ha un programma che si inspira ai principi della democrazia partecipativa e mira al cambiamento del sistema politico spagnolo per curarlo dai mali della corruzione e dell’inefficienza.

Il partito, di chiare tendenze populiste, si scaglia contro la classe politica dirigente, colpevole di avere messo in ginocchio il Paese con politiche distanti dagli interessi reali della popolazione.

Al piano di rivalsa cittadina e democratica si aggiunge una progettualità tipicamente di sinistra, irrorata di ispirazione socialista rivolta soprattutto al rilancio dell’economia e alla lotta alla disoccupazione attraverso un nuovo sistema-paese.

In ambito europeo, con i suoi 5 eurodeputati aderenti al gruppo di Sinistra Unitaria Europea - Sinistra Verde Nordica, in cui rientra anche Syriza, Podemos si inserisce prepotentemente nel calderone dell’eurocriticismo.

La sua critica è rivolta all’establishment europeo e riguarda prevalentemente due aspetti: primo, la scellerata gestione della crisi improntata al rigido rispetto dell’austerity e responsabile di un generale peggioramento delle condizioni sociali; secondo, l’adozione di un sistema decisionale contraddistinto dalla carenza di democraticità e dall’incapacità di rispondere alle esigenze dei cittadini.

Il partito che sta sconvolgendo la politica spagnola, non può essere definito anti-europeista, ma piuttosto critico nei confronti dell’attuale classe dirigente europea.

Un differente peso politico
Nonostante il diverso peso politico dovuto al fatto che sia Podemos che Diritto e Giustizia sono ancora distanti dall’ottenere la guida del governo, e nonostante un diverso atteggiamento nei confronti delle istituzioni europee, le recenti vittorie dei movimenti euroscettici ed eurocritici in Polonia e Spagna sono un ulteriore segnale di allarme della crisi del consenso europeista.

Segnale che ancora una volta non deve essere sottovalutato. C’è infatti necessità di dialogare con queste formazioni anti-europee, soprattutto con le loro ali eurocritiche, che spingono al cambiamento ma non alla distruzione del progetto europeo.

Il rischio è infatti, che forze anti-europee, come il partito dei Tories guidato da Cameron, strumentalizzino la necessità di cambiamento per ottenere uno smantellamento del progetto europeo ad uso e consumo nazionale.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI. Stefano Pioppi è stagista dello IAI.
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mercoledì 3 giugno 2015

GRan Bretagna: da sempre antieuropa.

Gran Bretagna dopo il voto
… il Continente è isolato
Riccardo Perissich
14/05/2015
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C’è un parallelo fra Brexit e Grexit. I due fenomeni hanno parecchi punti in comune. Nessuno desidera che avvengano; e tutti concordano che gli effetti sarebbero negativi per tutte le parti in causa, ma peggiori per chi esce che per chi resta.

C’è anche un altro punto in comune, di cui si parla molto nel caso greco ma poco per quello britannico: il pericolo di contagio ed è questo che, come nel caso greco, influenzerà la posizione negoziale degli altri stati membri.

Brexit e Grexit, le analogie fino al contagio
Anche se le ragioni non sono le stesse, molti paesi del Continente sono sottoposti a un’ondata di populismo antieuropeo che si nutre di un diffuso rigetto dell’opinione pubblica.

Certo, le motivazioni dei vari populismi sono molto diverse e nella disaffezione popolare si mescola irritazione sia per ciò che l’Europa fa, sia per ciò che dovrebbe fare e non fa. Tuttavia il fenomeno è diffuso e in alcuni casi costituisce una seria minaccia per i partiti moderati di destra e di sinistra.

Quali sono i paesi più vulnerabili? In primo luogo l’Olanda, tradizionalmente molto vicina a Londra e da qualche anno passata da essere alfiere del federalismo a un europeismo molto tiepido; membro fondatore dell’Unione, quello olandese non è un caso che si può trattare con leggerezza.

Poi i paesi scandinavi, tradizionalmente reticenti a impegnarsi per più integrazione, ma abituati a un comportamento pragmatico verso l’Europa: saranno utili mediatori, ma non seguiranno le sirene britanniche. Inoltre i paesi dell’est. Molti di loro sono sensibili a sirene populiste e nazionaliste; il caso dell’Ungheria è emblematico e le recenti elezioni polacche hanno dato un segnale negativo.

Tuttavia molti motivi dell’euroscetticismo post comunista sono incompatibili con quelli di Cameron che ha fatto del controllo dell’immigrazione, anche europea, uno dei suoi cavalli di battaglia.

Chi gioca con (o contro) Cameron
Restano i paesi più importanti: Spagna, Italia, Francia e Germania. Con l’incognita delle elezioni previste per fine anno, la situazione spagnola dovrebbe essere sotto controllo. A maggior ragione ciò vale per l’Italia, dove Renzi non ha per il momento rivali. Diversa è la situazione francese.

Anche se per ora improbabile, lo spettro di una vittoria di Marine Le Pen non può essere del tutto escluso; ancora più preoccupante è una contaminazione della destra, probabile vincitrice alle prossime elezioni.

Il pericolo non è tanto che altri Paesi si accodino alle richieste britanniche, ma piuttosto che ne traggano pretesto per chiedere di smantellare altri pezzi d’integrazione aprendo così un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Su questa strada farebbero però il gioco dei populisti che ne trarrebbero pretesto per giocare al rialzo.

Al centro di tutto questo c’è la Germania, con le sue rigidità, la sua Corte Costituzionale e i suoi ancora contenuti fermenti euroscettici. Ad essa spetterà il compito di definire la portata e i limiti del negoziato con la Gran Bretagna.

La sua politica europea è attualmente ancorata ai tre obiettivi della continuità, del rafforzamento dell’eurozona e del mantenimento della coesione europea verso la Russia. È quindi probabile che Cameron troverà a Berlino quella sorridente intransigenza che sembra essere la principale qualità di Angela Merkel: la Cancelliera dovrà tenere conto di tutto il contesto, ma con un occhio particolare per la Francia, il suo insopportabile ma indispensabile alleato con cui tutto cominciò e con cui tutto potrebbe finire.

Il fattore calendario
Ciò avrà un’influenza importante sul calendario. Fra il 2017 e il 2018 ci saranno elezioni in Italia, Francia e Germania. Nessuno vorrà affrontare quelle scadenze con l’incombente minaccia di un referendum britannico; la richiesta di accelerazione sarà quindi accolta con favore.

È comunque poco probabile che il problema britannico diventi il detonatore della dissoluzione dell’Ue: se vorremo arrivare a quel risultato, lo faremo per ragioni nostre e non per stimoli esterni.

Cameron, come Tzipras, scoprirà quindi che proprio la fragilità politica di molti governi europei trasformerà i potenziali alleati in difensori dell’esistente. Come in tutte le vicende umane, è sempre possibile che stupidità ed errori di calcolo conducano alla catastrofe, ma è più probabile che si trovi un compromesso ragionevole.

Secondo i piani, alla fine ci sarà un referendum. Gli europei chiederanno sicuramente a Cameron di impegnarsi a difendere il risultato del negoziato di fronte al popolo britannico. Se così sarà, sulla carta il successo dovrebbe essere garantito.

Tuttavia i referendum sono animali feroci: presentati come scelte strategiche, sono in realtà condizionati da emozioni e situazioni contingenti come la popolarità del governo e, nel caso britannico, dall’evoluzione della situazione scozzese. Cameron non potrà garantire l’unità del suo partito nella campagna.

Non mancano precedenti di referendum che hanno prodotto risultati opposti alle intenzioni dei loro promotori. Emblematici i due esempi francesi; i partiti erano in teoria uniti ma divisi nella realtà; Mitterrand vinse per un soffio il referendum su Maastricht e Chirac perse rovinosamente quello sulla Costituzione.

Nel caso britannico, il confronto fra i due schieramenti è asimmetrico. Gli euroscettici sanno esattamente cosa vogliono e lo teorizzano. I cosiddetti europeisti si limitano a sostenere che restare è meno costoso che uscire, ma non hanno alcuna visione dell’Europa che vorrebbero; in realtà si accontentano di restare ai margini.

Sorprende l’affermazione di alcuni filo-europei secondo cui il referendum sarà utile per decidere la questione “una volta per tutte”. Sarà certamente così se prevarranno i no. Una vittoria dei sì sarà invece solo un altro episodio nella interminabile saga dell’appartenenza del paese all’Europa.

È questa una ragione per auspicare la vittoria del no? La risposta deve essere negativa. In quarant’anni la Gran Bretagna ha largamente dissipato l’immenso capitale di simpatia che aveva accompagnato la sua adesione. Tuttavia, come nel caso della Grecia, auspicheremo il male minore: il trauma della separazione sarebbe superiore al costo di un’eterna ambiguità. Abbiamo grane più urgenti di cui occuparci.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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Macedonia: il fuoco sotto la cenere

Balcani tra Ovest e Russia
Macedonia, contrasti rinvigoriti da crisi interna
Francesco Celentano
26/05/2015
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La Macedonia, piccolo paese nel cuore dei Balcani, è tornata nuovamente sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale a causa di una ormai cronica diatriba politica che sembra aggravarsi giorno dopo giorno.

Con una storia democratica lunga solo 24 anni, la giovane Repubblica con i suoi due milioni di abitanti sta facendo parlare di sé in Europa e in Russia alla luce dei recenti scandali, promossi dall’opposizione socialdemocratica, che hanno colpito il governo conservatore del potente premier Nikola Gruevski.

Ciò avviene nel pieno dei contrasti tra Unione europea (Ue) e Russia, mentre il mix multietnico che domina la società macedone pare essere vicino a determinare un nuovo sanguinoso confitto interno.

Le intercettazioni rese pubbliche settimanalmente
Da febbraio di quest’anno, il leader dell’opposizione Zoran Zaev, sostenuto dal magnate delle comunicazioni George Soros, ha avviato una campagna di divulgazione e informazione rivolta alla popolazione civile, basata sulla pubblicazione d’intercettazioni - la cui provenienza resta dubbia - che inchiodano i maggiori esponenti politici della maggioranza e del Governo in carica.

Oggetto di queste intercettazioni sono presunti brogli elettorali, omicidi di stampo politico ed episodi di corruzione di cui parlamentari, ministri e uomini vicini al premier parlano con assoluta libertà e semplicità per telefono provocando lo sdegno della popolazione e delle opposizioni.

Il premier ha immediatamente respinto le accuse riducendo la questione a semplici casi isolati di cattivi amministratori pubblici, il tutto mentre domenica 17 maggio più di 70.000 cittadini sono scesi in piazza per chiedere le immediate dimissioni del Governo tacciato, tra le altre cose, di aver avviato una politica autoritaria e limitativa rispetto alla stampa e alla libertà dei cittadini (fonti non ancora confermate parlano, infatti, di oltre 20.000 utenze intercettate costantemente su richiesta di Gruevski).

Questa imponente campagna mediatica ha fino ad ora portato alle sole dimissioni dei soggetti governativi maggiormente coinvolti nella questione, determinando però l’avvio d’indagini a carico di sei persone, tra cui un ex dirigente del servizio di spionaggio macedone, accusate di aver registrato e diffuso le conversazioni per favorire il capo dell’opposizione Zaev, a sua volta accusato di minacce contro il premier.

Terrorismo a Koumanovo e il fantasma Grande Albania
La situazione, già tesa per via delle costanti ‘bombe’ lanciate dall’opposizione con le intercettazioni, si è complicata ulteriormente il 9 maggio, quando, un gruppo di terroristi di nazionalità non ancora ben identificata - secondo il premier provenienti dall’Albania, mentre a detta della minoranza politica direttamente mandati dal Governo - hanno distrutto un intero quartiere della cittadina di Koumanovo, a nord-est del Paese. Lo scontro che si è sviluppato tra gli assalitori e le forze speciali di polizia inviate dal Governo ha causato un bilancio tragico, 22 morti (tra cui 8 poliziotti) e 37 feriti.

Il premier ha immediatamente condannato l’atto terroristico, che a detta dello stesso è il frutto di una rinnovata politica albanese di annessione del territorio macedone.

Fin dal termine delle tensione nei Balcani, infatti, la popolazione di etnia albanese che risiede in Macedonia (circa il 25% dei cittadini) preme, con il supporto dei governanti del Paese delle aquile, per ricongiungere i territori popolati da albanesi in uno solo, appunto la Grande Albania.

L’opposizione continua invece a sostenere che l’atto terroristico sia stato ordito dal premier Gruevski sfruttando personaggi vicini ai gruppi indipendentisti albanesi, per distrarre l’opinione pubblica focalizzata solo sugli sconvolgenti contenuti delle intercettazioni che stanno minando l’intero assetto istituzionale del Paese.

I rapporti con Ue e Russia e le teorie complottistiche
Come spesso accade non mancano le teorie complottistiche, già sentite nel caso della recente crisi ucraina. Il ministro degli Esteri russo Lavrov si è infatti immediatamente scagliato contro “atti di terrorismo preparati, pianificati ed eseguiti per volontà di terzi” contestando altresì la poco incisiva posizione dell’Ue, le cui sanzioni contro la Russia non sono state applicate, nonostante gli fosse richiesto, dal Governo macedone, che anzi - si è detto anche disponibile seguendo in tal senso la vicina Grecia - ad ospitare il passaggio verso l’Europa del gas russo proveniente dal “TurkishStream”.

L’Ue prepara invece l’invio di una delegazione di parlamentari socialdemocratici, per provare a mediare tra la rigida maggioranza e la sempre più aggressiva opposizione. Pertanto l’Unione sia pur lentamente si muove, mentre l’ambasciatore americano a Skopje Bailey supportato da Nato, Regno Unito, Italia e Francia condanna l’immobilismo del Governo dinanzi agli scandali che lo stanno colpendo e invoca, così come il rappresentante italiano nella capitale macedone Belelli, maggior trasparenza e disponibilità quali strumenti per evitare l’isolamento internazionale del Paese.

In questa cornice si colloca, quindi, una nuova potenziale crisi dell’intera area balcanica, stante che, questi appelli, così come le critiche russe al ruolo dell’Ue nella crisi, non sono configurabili come semplici ingerenze negli affari interni di uno Stato sovrano.

Va considerato, infatti, che dal 2005 la giovane Repubblica baltica gode dello status di Paese candidato all’Ue e che quindi in quanto tale dovrebbe avviare una politica più dialogante nei confronti dei propri alleati occidentali, sia pur con il rischio di incrementare le pressioni dalla vicina e storicamente influente Russia determinata, sotto la guida di Putin, a riavvicinare i tanti Stati derivati dall’ex Unione sovietica nella nuova e ancora poco nota Unione euroasiatica.

Come già in passato, ancora oggi il bivio pare essere il medesimo, da una parte Europa e Stati Uniti dall’altra la Russia. A Skopje la scelta.

Francesco Celentano, neolaureato in Giurisprudenza e praticante legale, si sta specializzando nello studio del diritto internazionale, già oggetto della sua tesi di laurea redatta durante un periodo di ricerca presso l'ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra.
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Polonia: chiarirsi in tempo le idee

Il pendolo polacco
Oscillazioni pericolose tra europeismo e nazionalismo
Daniele Fattibene
27/05/2015
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La settimana è cominciata decisamente male per l’Unione europea (Ue). Dopo l’affermazione di Podemos alle elezioni amministrative in Spagna e il braccio di ferro sempre più serrato con Atene, brutte notizie giungono anche dal fronte centro-orientale.

Le elezioni presidenziali polacche hanno registrato infatti la vittoria di Andrzej Duda, esponente del partito della destra ultra-nazionalista Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość - PiS) che ha ottenuto il 51,55 per cento dei voti contro il 48,45 per cento del presidente uscente Bronislaw Komorowski, sostenuto dal partito di governo Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska - PO).

La vittoria del PiS potrebbe comportare delle ripercussioni tanto sul piano interno che esterno. Da un lato, c’è il rischio che la sua elezione possa favorire l’affermazione del PiS nelle (ben più decisive) elezioni parlamentari che si terranno in autunno. Dall’altro lato, un ritorno degli ultra-nazionalisti potrebbe avere delle implicazioni sull’agenda europea del paese.

Rischio di “Orbanizacja”?
L’elezione di Duda ha colto di sorpresa numerosi analisti ed osservatori. La rielezione di Komorowski era infatti data per scontata. La Polonia continua ad essere una delle economie più dinamiche all’interno dell’Ue con un Pil che dovrebbe crescere di oltre il 3% anche nel 2015.

Come si spiega allora la vittoria di Duda? Occorre sottolineare che la tornata elettorale ha mostrato la classica divisione est-ovest, con il PiS a prevalere nelle regioni povere e rurali orientali e il PO del premier EwaKopacz in quelle più ricche a Occidente.

A favore del neo-presidente hanno giocato non solo l’età (Duda ha 43 anni ed è il primo presidente che non ha partecipato alle lotte di Solidarność degli Anni 80), ma soprattutto un programma populista, basato sulla riduzione dell’età pensionabile, il taglio delle tasse per le piccole e medie imprese e sulla “Repolonizacja” di banche e media, sulla falsariga di quanto fatto da Viktor Orban in Ungheria. Emblematica in tal senso l’affermazione del leader del PiS Kaczyński che ha detto “portiamo Budapest a Varsavia”.

Ripercussioni sul piano europeo
Il revanscismo populista e nazionalista di Duda potrebbe portare nel lungo termine a un cambio di rotta nella politica estera del Paese. Il rischio più grande è che un futuro governo a maggioranza PiS possa spingere la Polonia a voltare le spalle all’Ue.

Mentre il PO di Donald Tusk ha fatto del multilateralismo europeo e della relazione strategica con Berlino e Parigi i cardini della sua politica estera, il PiS di Kaczyński privilegia i rapporti con gli Stati Uniti in ottica non solo anti-russa, ma anche euro-scettica.

In quest’ottica, un ritorno del nazionalismo in Polonia potrebbe ad esempio vanificare i tentativi di creare un’Unione energetica, visto che Duda ha escluso ogni politica di de-carbonizzazione del paese - una delle priorità dell’Energy Union Package pubblicato lo scorso febbraio su iniziativa forte dello stesso Tusk.

L’Ue potrebbe poi perdere il sostegno di un attore geopolitico e militare fondamentale nell’Europa centro-orientale, con conseguenze potenzialmente pericolose nell’ottica delle relazioni con la Federazione russa.

Un ritorno della russofobia isterica che aveva contraddistinto la presidenza Kaczyński non solo renderebbe difficile mantenere un dialogo costruttivo con il Cremlino, ma potrebbe addirittura aumentare il rischio di un confronto militare con Mosca.

Rischio di un nuovo isolamento
Forse è ancora troppo presto per lanciare allarmismi. Per il momento non ci saranno grossi cambiamenti nella politica interna ed estera polacche. Il presidente della Repubblica svolge un ruolo di rappresentanza e non può mettere il veto a provvedimenti di natura economica e fiscale.

Ciò che preoccupa maggiormente è però l’impatto che questo voto può avere nelle elezioni parlamentari previste in autunno. Nella migliore delle ipotesi, si profila l’emergere del fenomeno della cosiddetta “anatra zoppa”, con un presidente del PiS e un premier espressione del PO.

Non è però da escludere che l’elezione di Duda dia un’ulteriore spinta al PiS di Kaczyński. Il pericolo che il Paese scivoli di nuovo in un nazionalismo esasperato è quindi assai concreto. Ciò potrebbe minare seriamente l’immagine della Polonia nell’Ue.

Negli ultimi anni il Paese ha investito molto per ricostruire la sua credibilità presso le varie capitali europee. La politica europeista di Varsavia ha prodotto diversi successi, dal mantenimento dell’interesse verso i paesi del Partenariato orientale, al fervente sostegno verso le sanzioni contro Mosca, fino alla nomina di Donald Tusk a presidente del Consiglio europeo. Un ritorno dei fantasmi del passato è un rischio che il Paese non può assolutamente correre.

Daniele Fattibene è Assistente alla ricerca presso il programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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Grecia: danzando sull'orlo dell'abisso

Ue e Grecia
Il dilemma di Tsipras, tra austerità e coerenza
Stefano Pioppi, Eleonora Poli
27/05/2015
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A quasi quattro mesi dalla formazione del governo di Alexis Tsipras, composto da Syriza (149 seggi) con la partecipazione dei Greci Indipendenti di Anel (13 seggi), è tempo d’un primo bilancio, passata la ‘luna di miele’ tradizionale di un governo con la sua opinione pubblica dei primi cento giorni.

L’esecutivo greco avrebbe dovuto basare la propria azione su un programma politico che, così come presentato a Salonicco nel settembre 2014, avrebbe dovuto promuovere un radicale cambiamento rispetto al passato e attuare misure di anti-austerità per contrastare la crisi economica ed umanitaria in cui il Paese è sprofondato.

Tuttavia, con una riduzione del Pil dello 0.2 % dal gennaio 2015, e un tasso di disoccupazione che si attesta oltre il 25%,il più alto dell’Unione Europea (Ue), e una previsione di crescita solo dello 0,5%, il governo greco sembra ben lontano dal gestire in maniera efficiente la crisi economico-finanziaria.

Mentre il Fondo monetario internazionale (Fmi) e i vertici europei spingono ancora la Grecia verso programmi di austerità, l’euro-criticismo e il rilancio dell’economia greca su cui si era basata la retorica di Syriza, potrebbero non essere sufficiente a mantenere il consenso elettorale, se Tsipras non sarà in grado di promuovere effettive riforme.

Il programma e la sua attuazione: un gioco a somma zero
Il programma di Salonicco prevedeva infatti un forte incremento dell’assistenza sociale, specialmente per le categorie più colpite dalla crisi, e si basava essenzialmente su quattro pilastri: affrontare la crisi umanitaria, riavviare l'economia, rilanciare l'occupazione e trasformare il sistema politico.

Queste misure si incentravano principalmente sull’introduzione di garanzie sociali come l’aumento del salario minimo e del sussidio di disoccupazione, un migliorato accesso alla sanità pubblica per i meno abbienti e la regolamentazione del mercato del lavoro con l’estensione dei contratti collettivi.

Secondo Tispras, il governo greco avrebbe potuto finanziarie tali azioni grazie ad una serie di manovre fiscali, come l’introduzione di una tassa patrimoniale, una maggiore tassazione sulle transazioni finanziarie e la proibizione dei derivati come Swap e Cds, ma non solo.

Lo stato avrebbe infatti dovuto tagliare la spesa militare e i costi della politica, abolendo parte dei privilegi della Chiesa Ortodossa Greca e nazionalizzando alcuni servizi.

Tuttavia, sebbene a marzo, il Parlamento greco abbia approvato un “pacchetto anti-povertà” stimato intorno ai 200 milioni di euro, che prevede la distribuzione di sussidi alimentari (buoni pasto) a circa 300.000 persone, indennità di affitto per 30.000 famiglie e la fornitura gratuita di energia elettrica ai nuclei familiari più poveri, gli altri punti del programma, di carattere economico e non, sono ben lontani dalla loro attuazione.

L’Eurogruppo e il mancato rilancio dell’economia greca
La ragione di tali ritardi va imputata alla necessità del governo di rinegoziare il debito. Con un debito pubblico che, secondo le stime della Commissione europea, nel corso del 2015 supererà il 180% del Pil, la Grecia deve in totale 21 miliardi di euro all'Fmi e 27 miliardi alla Banca centrale europea (Bce).

Alla fine di febbraio, Tsipras e il ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis avevano negoziato l’estensione del piano di salvataggio per Atene, il “Master Financial Assistance Facility Agreement” (Mffa) dello European Financial Stability Facility che sbloccava fondi per 1,8 miliardi di euro, a condizione che Atene trovasse un accordo con i suoi creditori sulle riforme da attuare.

All’estensione dell’Mffa, si deve poi aggiungere un effettivo cambiamento della politica della Bce che, già a gennaio, ha annunciato l’aumento del ricorso al quantitative easing (per il valore di 60 miliardi, fino a settembre 2016).

La Bce ha inoltre più volte alzato il tetto dell’European liquidity assistance per la concessione di liquidità agli istituti di credito ellenici. Tuttavia,entro il 5 giugno, il governo ellenico dovrà pagare all’Fmi 300 milioni di euro, la prima tranche di quattro, in scadenza nel corso del mese, per un totale di 1.5 miliardi di euro.

Al momento, Syriza ha respinto la richiesta venuta dalle fazioni più estremiste del partito che chiedevano di lanciare un referendum per respingere ogni accordo con i creditori internazionali che prevedesse ulteriori riforme di bilancio.

Tuttavia, Tsipras rischia di dover abbandonare le sue idee di rilancio economico. Infatti, perché la Grecia possa incassare almeno una parte del fondo di salvataggio da 7,2 miliardi previsto dal cosiddetto Brussels Group, nuova versione della troika, un accordo tra le parti sulle riforme economiche da attuare è necessario.

Il dilemma della coerenza
In effetti, se l’individuazione di un accordo tra la Grecia debitrice ed i creditori internazionali è tutt’ora nell’interesse dell’Fmi, degli Stati europei, esposti nei confronti di Atene per quasi 190 miliardi di euro e della Grecia, che senza l’appoggio internazionale rischia il default, questo presupporrebbe una sinergia d’intenti che al momento sembra difficile da realizzare.

Mentre l’Eurogruppo chiede un incremento della pressione fiscale, riforme sul mercato del lavoro e sulle pensioni, Atene, procede in senso opposto, volendo dare priorità alla necessità di far fronte alla crisi umanitaria.

Un mancato rispetto degli impegni assunti, ed una eventuale “Grexit” avrebbero senza dubbio conseguenze catastrofiche per il Paese. Ma l’attuazione di un programma di riforme più inclini all’austerity, con tagli considerevoli della spesa pubblica e sociale, potrebbe costare a Tsipras la propria legittimità e al Paese la stabilità politica.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI. Stefano Pioppi è stagista dello IAI.
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