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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 28 marzo 2017

Gran Bretagna: rischio terroristico ed analisi

Dopo Londra
Dominare la geopolitica dell’emozione
Diego Bolchini
27/03/2017
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Lo studioso Peter Neumann del King’s College di Londra ricordava al panel Jihadi Terrorism dell’Oxford Analytica Conference 2015 che, se anche il fenomeno del sedicente Stato islamico (Isis) e la sua utopia jihadista fosse stato sconfitto a brevissimo termine, il circolo vitale dei radicalizzati e dei foreign fighters a livello individuale si potrebbe esprimere ancora nell’arco di 10/20 anni.

Analoga prospettiva aveva adottato il direttore dell’MI6 Alex Younger, a margine di un intervento pubblico avuto nel settembre 2016, ipotizzando una persistenza di rischio terroristico nel medio-lungo periodo, durante un’intera ‘vita professionale’ degli addetti alla sicurezza nazionale.

Dopo gli eventi di Londra del 22 marzo, il fenomeno degli “Extremists Claiming Affiliation with Islam” (Ecai) continua, purtroppo, a evidenziare il divario esistente tra l’Islam come religione e gli individui che ne rivendicano impropriamente un’affiliazione in chiave stragista, muovendosi de facto sul piano dell’azione criminale più che spirituale.

Stato islamico e concetto di justum bellum
Negli Anni Cinquanta del secolo scorso il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt pubblicò il testo il Nomos della terra, dove dimostrò che il concetto di justum bellum fosse stato abbandonato per sottrarsi alle guerre di religione in Europa.

Oggi, con il terrorismo molecolare dell’Isis e la sua perdurante strategia di azione nichilista, l’approccio interpretativo jihadista rimane ancorato al concetto di inimicus (nemico privato, facilmente incrociabile anche su un ponte che attraversa il Tamigi nei pressi di Westminster) e non più di hostis (nemico pubblico, istituzionalizzato, formalmente separato dal resto della popolazione civile).

Decenni di elaborazione concettuale di diritto internazionale umanitario sembrano essere sviliti e de-contestualizzati. L’emozione-sgomento sperimentata in micro-contesti urbani - e non più su campi di battaglia formalmente adibiti alla violenza bellica - è il veicolo comunicativo dall’attaccante e dell’attaccato, reale o potenziale che esso sia.

Il prepotente ritorno delle emozioni
Nell’analisi geopolitica della violenza terroristica odierna, sempre più spazio sembrano assumere le rappresentazioni dell’altro trainate dalle emozioni. Anche le parole andrebbero usate con cautela. Il termine attentato, infatti, “nobilita” un gesto che è invece pura infamia. Khalid Masood non è l’attentatore di Sarajevo del 1914, che colpisce un potere sovrano nella folla. È uno della folla che colpisce degli inermi.

I fatti violenti di Duesseldorf del 9 marzo (attacchi perpetrati a colpi d’ascia presso la locale stazione ferroviaria) si erano già insinuati in noi per il “non detto” e per il “sospetto”, al di là della realtà e delle dichiarazioni neutre e psicologicamente rassicuranti rese dalla polizia tedesca. I fatti di Parigi (soldatessa aggredita all’aeroporto di Orly) del 18 marzo e quelli di Londra del 22 marzo hanno dato nuova sostanza alle paure, in un rimando continuo tra realtà e irrazionalità.

Vi è anche un problema di prospettiva e dimensionamento del fenomeno, oggi sempre più granulare. Molti media hanno posto in relazione i fatti di Londra del 2017 con quelli del luglio 2005 (attacco alla metro di Al Qaeda). In modo improprio, poiché si assiste oggi a cicli di episodi micro-violenti, non macroeventi con una dimensione organizzativa complessa (Bataclan). L’antecedente significativo va invece visto nel caso del soldato Lee Rigby, ucciso nel 2013 sempre a Londra a colpi di machete o nell’uomo con coltello fermato alla stazione della metro di Leytonstone nel 2015.

Conclusioni, dall’esperienza alla percezione
La geopolitica come pratica ed esperienza assume sempre più spesso nel modo contemporaneo le vesti dell’homo videns, percettivo e viscerale. Laddove un approccio teorico globale rimane spesso lontano dalle esigenze pressanti della contemporaneità e la razionalità appare delegittimata nella sua capacità di rappresentare la realtà.

La risonanza psicologica di singoli eventi terroristici reiterati nel tempo su scala urbana è purtroppo dirompente. Come bene evidenziato dallo psicologo israeliano Daniel Khaneman nel suo testo Thinking, Fast and Slow: “il terrorismo induce una cascata di disponibilità. Un’immagine estremamente vivida di distruzione, rafforzata di continuo dall’attenzione dei media e dalle frequenti conversazioni, altamente accessibile, specie se è associata ad una situazione specifica che la richiama”.

Occorre pertanto, al di là dei sempre più fondamentali strumenti di contrasto ‘esterno’ (intelligence, forze di polizia, forze armate), lavorare anche ad una più efficace elaborazione razionale delle nostre percezioni, evitando retoriche emozionali negativizzanti. E avendo soprattutto consapevolezza storica. Londra ha retto al lancio di oltre 500 missili V2, le bombe volanti di Hitler, che durante la seconda guerra mondiale uccisero oltre 9000 londinesi. Non si piegherà certo dinanzi ad alcuni anacronistici episodi di violenza pre-industriale. We are all londoners.

Diego Bolchini è analista di relazioni identitarie, autore di contributi per diverse riviste specializzate nei settori afferenti geopolitica, sicurezza e difesa.

martedì 21 marzo 2017

Non siamo tutti uguali


#EU60 re-founding Europe
La strada dell’integrazione differenziata
Nicoletta Pirozzi, Piero Tortola, Lorenzo Vai
17/03/2017
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Un’occasione unica di bilancio e - ci si augura - anche di rilancio del processo di integrazione in uno dei momenti più difficili per la storia europea dal secondo conflitto mondiale. Questo dovrebbero essere le celebrazioni romane del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma alle quali parteciperanno i capi di stato e di governo dei 27 membri dell’Unione europea, Ue.

La natura delle sfide con le quali si è confrontata l’Ue negli ultimi anni ha messo a dura prova la tenuta complessiva dell’Unione e in discussione alcuni dei suoi principi fondamentali. Così, mentre alcune consuete strade verso un'integrazione più profonda sono diventate alquanto impervie, la via maestra sembra essere divenuta quella basata sul principio della differenziazione.

L’integrazione differenziata è un modello già presente nel Dna dell’Unione, come testimoniato dai due pilastri dell’Euro e di Schengen. Tuttavia, in questo frangente essa acquisisce un significato politico diverso: rappresenta la possibilità più concreta per salvare il progetto europeo dalla disintegrazione e assume i caratteri di una strategia di integrazione di lungo corso, che potrebbe diventare permanente.

A questo tema l’Istituto Affari Internazionali ha dedicato un progetto di ricerca che ha coinvolto i principali think tank europei e che ha prodotto un policy paper di analisi e proposta.

Affinché un progetto di integrazione basato sulla differenziazione funzioni e sia sostenibile nel lungo periodo è necessario chiarirne alcuni elementi di fondo. In primo luogo, bisogna ribadirne l’obiettivo finale: preservare l’unità dell’Unione e, allo stesso tempo, permettere ai Paesi più ambiziosi, che vogliono e possono, di fare dei passi avanti adottando insieme politiche di più stretta cooperazione.

Le ancore dell’integrazione differenziata
Nella nostra visione, l’integrazione differenziata dovrà necessariamente essere costruita attorno ad ancore istituzionali già esistenti. La nostra proposta offre perciò tre scenari in tre rispettive macro aree: governance economica, difesa, e libertà, sicurezza e giustizia, collegate rispettivamente all’Eurozona, alla Cooperazione strutturata permanente (Pesco) nel settore della difesa e allo spazio Schengen.

Tra i tre percorsi indicati, il consolidamento dell’Eurozona dovrà essere anteposto agli altri. L’Eurozona è, al momento, il più avanzato esperimento d’integrazione differenziata, nonché l’ambito nel quale è più che mai necessario rafforzare l’integrazione, sia per la sua costruzione imperfetta - la quale ha contribuito ad esacerbare la crisi economica e finanziaria - sia per la sua centralità per il futuro stesso dell’Unione e per il benessere dei suoi cittadini.

Gli scenari di integrazione differenziata nelle aree della governance economica, della difesa e in quella di libertà, sicurezza e giustizia mostrano che i diritti sono inestricabilmente collegati alle responsabilità. Una rafforzata integrazione dell’Eurozona dovrà andare di pari passo con un aumento della convergenza tra i Paesi attraverso riforme strutturali.

Tali riforme potranno essere attuate tramite un sistema di incentivi economici sostenuti da un bilancio dell’Eurozona, gestito a tutti gli effetti da un ministro delle Finanze europeo. Per quanto riguarda la Pesco, essa non potrà funzionare senza chiari e duraturi impegni dei Paesi partecipanti ad aumentare le risorse destinate alla difesa, gli investimenti nella ricerca, e dimostrandosi pronti ad intervenire con le forze comuni quando necessario.

Anche in questo caso, occorre prevedere incentivi finanziari adeguati, ad esempio attraverso il nuovo Fondo europeo per la Difesa della Commissione europea. Allo stesso modo, la libertà di movimento dovrà essere legata a doppio filo con un’ampia cooperazione fra gli Stati in materia di polizia e di sicurezza e a una riforma del sistema di Dublino, il quale dovrebbe provvedere un effettivo sostegno finanziario ed operativo a quei paesi dell’Unione che sono in prima linea nella gestione dei flussi migratori.

Inclusività e ruolo delle istituzioni Ue
Il principio della solidarietà sancito dai Trattati dovrà essere il collante che sosterrà l’architettura di un’Unione differenziata. È auspicabile che questo processo sia il più inclusivo possibile, e allo stesso tempo guidato da un adeguato livello di ambizione, puntando a esperimenti di integrazione permanenti.

Una strategia di attuazione dovrà prevedere una serie di obiettivi per il gruppo di testa di Paesi da raggiungere entro il 2025 - come indicato dalla Commissione europea nel suo recente Libro Bianco - mentre dei meccanismi transitori di avvicinamento possono essere previsti per quegli Stati che vorranno unirsi successivamente.

La maggior parte dei cambiamenti necessari potrà essere attuata utilizzando le basi e gli strumenti legali già contenuti all’interno dei Trattati (come ad esempio la cooperazione rafforzata), ma una riforma dei Trattati sarà necessaria nel medio periodo. Esperimenti di integrazione differenziata al di fuori dei Trattati (come è stato fatto per lo Strumento europeo di Stabilità o per il Fiscal Compact) dovrebbero avere invece carattere transitorio, in vista di un'incorporazione nella cornice giuridica dell’Unione.

Il raggiungimento di questi risultati sarà (come sempre) nelle mani dei Paesi membri, i quali si muoveranno rispettando le loro identità, calibrando i loro interessi e valutando gli incentivi. Ciononostante, la salvaguardia delle istituzioni e del metodo comunitario sarà indispensabile per evitare la frammentazione sia all’interno dei diversi progetti di integrazione differenziata, sia nell’architettura istituzionale complessiva.

Elementi di differenziazione potranno trovare posto nel Consiglio dell’Ue - sul modello dell’Eurogruppo - mentre va tutelato, se non rafforzato, il ruolo della Commissione, in qualità di garante dei trattati (de iure) e proponente politico (de facto), e quello del Parlamento europeo, a cui spetta il controllo democratico.

Spazio pubblico europeo … cercasi
Infine, l’integrazione differenziata pone delle serie questioni riguardanti la legittimità democratica e la possibilità per i cittadini europei di incidere sulle scelte dell’Unione, in quanto questo processo comporterà necessariamente un aumento della complessità del processo di integrazione.

Le garanzie di democraticità del processo decisionale europeo offerte dal Parlamento europeo e dai parlamenti nazionali rischiano di diminuire e dovranno essere necessariamente compensate da adeguati meccanismi istituzionali, sotto forma, ad esempio, di commissioni inter-parlamentari con poteri accresciuti in specifici settori di integrazione.

Ciò che è certo, è che questo non basterà a restituire fiducia ai cittadini se queste innovazioni non saranno accompagnate da un netto cambio di passo dei governi e delle istituzioni verso buone e più diffuse pratiche di informazione e dialogo tese a sostenere la creazione di uno spazio pubblico europeo.

Nicoletta Pirozzi è responsabile di ricerca presso lo IAI e docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi "Roma Tre". Piero Tortola è un ricercatore dell'Università di Milano e dirige l'osservatorio EuVisions (www.euvisions.eu). Lorenzo Vai è ricercatore dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.

Olanda: occorre riflettere

Elezioni e populismo
Olanda: quattro fattori per un voto pro-Ue
Eleonora Poli
16/03/2017
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Dopo le elezioni in Olanda l’Europa si interroga su come interpretarne i risultati. Il liberale Vvd, Partito per la Libertà e la Democrazia, ha conquistato 31 seggi, confermandosi primo partito olandese e probabilmente leader, per la terza volta, della coalizione di governo.

Il Vvd di Mark Rutte ha però perso consenso rispetto al 2012, ottenendo otto seggi in meno, mentre il movimento anti-Islam e anti-Ue, il Pvv (Partito delle Libertà) di Geert Wilders, resta secondo ma ottiene sei seggi in più.

Lettura europeista d’un risultato composito
Nonostante quella di Wilders sia una sconfitta parziale, le istituzioni europee hanno accolto la vittoria di Rutte come un trionfo europeo nella battaglia contro i movimenti euroscettici. Del resto, in un anno di appuntamenti elettorali in Paesi dell’Unione europea (Ue) chiave come la Francia e la Germania, le elezioni in Olanda erano viste come lo stress test della tenuta dei movimenti populisti europei.

Ma più che un trionfo schiacciante della retorica pro-europea, la vittoria del Vvd va vista come il risultato di quattro fattori.Il primo:nello scorso mandato, il premier Rutte ha dato un forte impulso alla crescita economica del Paese, che nel 2017 registrerà un aumento del Pil del 2% (nettamente superiore alla media europea).

Il secondo fattore che sembra aver inciso notevolmente sulla decisone degli elettori olandesi, è la fermezza con cui il premier ha gestito il braccio di ferro con la Turchia. Contrariamente a quanto ipotizzato da numerosi analisti, lo scontro con Ankara non ha favorito l’avversario Wilders, proprio perché Rutte è stato in grado di dare una risposta decisa alle ingerenze del governo Erdogan in un momento tanto delicato per il Paese.

Tra Islam e immigrazione
Terzo: la propaganda radicale anti-islam di Wilders non ha garantito maggiori elettori al Vvd di Rutte, ma non ha nemmeno giovato allo stesso Pvv. Per quanto fortemente sentito dalla popolazione, il problema dell’immigrazione in Olanda è legato a questioni concrete più che a un generale rifiuto dell’Islam. Le principali preoccupazioni per gli elettori sono il welfare pubblico, la sicurezza, la lotta contro il terrorismo e l’accesso all’educazione. Il problema dell’integrazione occupa, in questa scala, solo il nono posto.

Per questo, benché a tratti anche Rutteabbia adottato una retorica vagamente populista - sostenendo ad esempio che gli immigrati debbano integrarsi oppure andarsene - le sue dichiarazioni sono state meglio recepite dalla maggioranza dei cittadini rispetto a quelle di Wilders, che proponeva - facendo leva sul parallelismo tra immigrazione e Islam - di bandire il Corano senza invece dare risposte concrete ai cittadini.

Quarto: a favorire Rutte è stata anche le situazione politica globale. Il caos della Gran Bretagna post-Brexit e degli Stati Uniti post-Trump può aver spinto i cittadini olandesi a una scelta più oculata. Soprattutto di fronte al gran numero di riferimenti, circolati in questi giorni sui media internazionali, a una possibile Nexit, o uscita dell’Olanda dall’Ue, in caso di vittoria del Pvv.

Il voto un referendum pro-Ue
Un referendum sull’uscita dell’Olanda dall’Ue era, in effetti, il secondo punto del programma di Wilders. Sebbene parte dell’elettorato abbia forti dubbi sull’Ue, il 72% degli olandesi si sente europeo e non vuole che l’Olanda abbandoni né l’Ue né l’Eurozona; tutt’alpiù crede siano necessarie alcune riforme. L’Ue è poi un palcoscenico politico troppo importante per l’Olanda, cui garantisce una visibilità e un ruolo internazionale che da sola non avrebbe.

A elezioni fatte, resta da capire quale sarà la formazione di governo. È evidente che il Vvd dovrà cercare di formare una coalizione. Escluso qualsiasi tipo di accordo con Wilders, rimangono i Cristiani Democratici e i Democratici 66, con 19 seggi a testa.

Al Vvd mancano però 7 seggi per raggiungere la maggioranza di 76 alla Seconda Camera. Bisogna capire se il partito dei Verdi, vero grande vincitore delle elezioni, deciderà o meno di rischiare la propria acquisita legittimità in cambio di maggiore potere.

Per il governo, c’è da formare una coalizione
Forte dei suoi 14 seggi - 10 in più rispetto al 2012 - e di una campagna elettorale giocata sul nome del proprio leader, Jesse Klaver, e sul famoso slogan di Obama, “Yes we can”, è difficile che il partito si presti a una coalizione con il governo di Rutte, soprattutto vista la sorte toccata al Partito Laburista, che ha registrato solo 9 seggi, 30 in meno rispetto al 2012.

A far perdere legittimità al Partito Laburista, il vero grande sconfitto delle elezioni, è stata proprio la decisione di entrare nel governo di coalizione del 2012, sostenendo così i tagli al sistema di welfare olandese, un tempo orgoglio dei movimenti di sinistra, perpetrati dal Vvd.

Entrare o non entrare a far parte di una coalizione politica rimane il dilemma dei partiti moderni, che spostandosi troppo al centro o troppo agli estremi del panorama politico, rischiano di perdere elettori da una parte o dall’altra, minando la propria identità politica.

Al di là dei giochi di coalizione ed in conclusione, la vittoria di Rutte è sicuramente importante, sebbene parziale. La minaccia populista non è stata sconfitta, ma per il momento è allontanata.

In vista delle prossime elezioni in Francia, l’Olanda può dare una lezione importante. Nonostante i tagli al welfare, il Vvd ha assicurato una crescita economica al Paese e ha dimostrato di poter rispondere a minacce esterne in maniera ferma. Sembra essere questa l’unica vera strategia per contrastare i movimenti populisti.

In altre parole, nell’era delle post-verità, i partiti tradizionali, per poter contare, devono far fronte alle necessità del proprio elettorato e dei propri cittadini utilizzando i fatti più che la retorica.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.

mercoledì 8 marzo 2017

Olanda: verso le elezioni generali

Il voto del 15 marzo
Olanda: una mina per l’Unione europea
Eleonora Poli
07/03/2017
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Nonostante l’Olanda sia uno dei 6 paesi fondatori dell’Unione europea, Ue ed addirittura precursore del progetto integrazione in quanto membro del Benelux - un sistema di cooperazione economica e di unione doganale con il Belgio e il Lussemburgo nato nel 1944 - le elezioni politiche olandesi del 15 marzo potrebbero minare la già traballante stabilità europea.

Se la maggioranza dell’establishment politico non è radicalmente anti-europeo, la posizione degli olandesi nei confronti dell’Ue è divenuta negli anni sempre più critica, con un supporto al progetto di integrazione che si attesta attorno al 40%.

Alla vigilia delle elezioni, si alimentano inoltre le speculazioni che proprio l’Olanda, Paese che negli Anni ‘70 fu uno dei principali sostenitori dell’adesione britannica all’Ue, potrebbe essere il prossimo Paese ad uscire dall’Unione.

Al momento, nonostante i 28 partiti in gara per i 150 seggi alla Tweede Kamer, la Camera bassa del Parlamento, la battaglia politica è giocata principalmente tra il leader del Partito delle libertà (PVV), Geert Wilders, e l’attuale primo ministro Mark Rutte, a guida del Partito per la libertà e democrazia (VDD).

Secondo gli ultimi dati, si stima che proprio il VDD potrebbe conquistare dai 23 ai 27 seggi, facendo meglio del PVV e acquisendo così l’opportunità di formare un nuovo governo di coalizione.

La crisi migratoria ed il qualunquismo politico
Il PVV, che ha come secondo punto del suo programma l’uscita dell’Olanda dall’Ue, si attesta comunque come il secondo partito. La campagna elettorale di Wilders si basa su una retorica anti-islam e anti-immigrazione e dipinge l’Ue coma la causa principale dell’arrivo di rifugiati nel Paese.

Tuttavia, dal 2015, il numero dei richiedenti asilo in Olanda è diminuito della metà grazie all’accordo con la Turchia e alla chiusura della via dei Balcani. Questo suggerisce che la retorica anti-immigrazione non è solamente legata alla crisi corrente, ma ad un generale timore che il sistema di welfare olandese non possa reggere la presenza di immigrati provenienti sia da paesi extra-europei che da alcuni paesi membri.

Questa teoria è supportata dal fatto che ad oggi, su una popolazione di circa 17 milioni, il numero di persone provenienti da altri Paesi è di 3,8 milioni, di cui solo la metà non è costituita da cittadini europei. In questo frangente, così come in altri stati membri, più che la crisi migratoria, è stata proprio la globalizzazione ad avere favorito lo sviluppo di tendenze refrattarie all’apertura, che supportano forme di nazionalismo su cui il PVV, ma non solo, ha costruito la propria campagna elettorale.

In effetti, lo stesso VDD ha basato parte della propria campagna sulla necessità di recuperare i valori olandesi e combattere contro l’abuso delle libertà garantite dallo Stato da parte degli immigrati. Seppur non utilizzando la retorica estremista del PVV, nelle sue dichiarazioni Rutte sostiene che gli stranieri in Olanda devono integrarsi ed accettare i valori liberali, oppure andarsene.

L’economia potrebbe garantire la vittoria al VDD
Fortunatamente le elezioni non si vinceranno solo grazie al tema dell’immigrazione, ma anche sulla base dei trend economici. La Commissione europea ha previsto che l’Olanda crescerà nel 2017 del 2%. Questo dato è superiore alla media dei Paesi dell’eurozona che al momento è dell’1,6%.

Inoltre, si prevede una riduzione ulteriore della disoccupazione che si dovrebbe assestare attorno al 5,2%. Dato anche quest’ultimo eccezionale, rispetto al 9,6% della media europea. Sono proprio questi trend positivi che potrebbero garantire al VDD, il partito più grande dell’attuale governo, la vittoria.

Il VDD gioca inoltre sui risultati del referendum in Gran Bretagna e delle elezioni negli Stati Uniti, incitando i cittadini olandesi ad essere pragmatici e a considerare il caos in cui questi due paesi sono finiti a causa di un voto.

Tuttavia la partita rimane ancora aperta ed un altro tema su cui ci si giocheranno le elezioni sono le politiche di austerità implementate dal governo di colazione guidato proprio da Rutte, che ha portato ad un taglio del welfare sociale soprattutto nel campo della sanità.

In effetti, se dal punto di vista delle politiche commerciali l’Olanda è molto vicina a Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre l’approccio della politica monetaria e fiscale è in linea con quello tedesco, il modello di welfare sociale era tradizionalmente generoso, molto simile a quello svedese. In questo frangente, proprio il supporto garantito dal Partito Laburista alle politiche di austerità di Rutte è costato alla sinistra la legittimità politica.

La débâcle del Partito Laburista e le possibili coalizioni
I Laburisti si vedranno quasi certamente sorpassare dai Cristiano-Democratici, che potrebbero ottenere 21 seggi, dal partito di centro dei Democratici 66 e dai Verdi, con 17 seggi ciascuno. Le coalizioni politiche non sono nuove in Olanda e, in caso di vittoria, il VVD potrebbe formare un'alleanza con le altre forze di centro, soprattutto in chiave anti-Wilders. Tuttavia, è piuttosto improbabile che gli ambientalisti accettino di entrare in maggioranza con i liberali di Rutte.

Inoltre, il costo-opportunità delle coalizioni politiche, che stanno pesando non solo sulla legittimità del Partito Laburista olandese ma anche su quella di molti partiti tradizionali europei, sarà severamente analizzato dai partiti vincenti, proiettando scenari di non facile previsione anche nei giorni post-elezione, quando il partito vincente dovrà probabilmente negoziare una coalizione con altri per poter governarne il Paese.

In effetti, se il VDD ha alte probabilità di riuscire a formare un gruppo con altri partiti, questa operazione non sembrerebbe possibile per il PVV, anche in caso di vittoria, visto che la maggior parte dei partiti ha dichiarato di non voler entrare in coalizione con un partito così estremista.

L’Olanda sarà il primo stress test della resistenza dei parti tradizionali alle forze populiste, aprendo la via agli appuntamenti elettorali di Francia e Germania. In effetti, al di là della possibile vittoria del PVV, che comunque riuscirebbe difficilmente a governare, il dato allarmante delle elezioni in Olanda sta proprio nell’utilizzo, seppur in forma moderata, di retoriche populiste anche da parte di partiti tradizionali.

Pratica quest’ultima che sommata alla difficoltà di rispondere in maniera efficace alle necessità dei cittadini, sta minando la legittimità politica dei partiti tradizionali, lasciando ampio margine di crescita alle stesse forze populiste anti-europee che si stanno combattendo.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.

martedì 7 marzo 2017

Gran Bretagna. Sulla discesa della Brexit

Ue-Gran Bretagna
(Eu) Brexit means (Euratom) Brexit
Marilù Marletta
03/03/2017
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Da dubbio a certezza. Lo si apprende dalle Explanatory Notes che accompagnano lo European Union (Notification of Withdrawal) Act 2017 (Bill 132) dello scorso gennaio. Con quest’ultimo, come noto, il Parlamento britannico ha conferito al primo ministro il compito di notificare all’Unione europea, Ue (art. 50, par. 2,Tue) l’intenzione di recedere dall’Unione. Al punto 18 del Bill si specifica che il recesso riguarda sia l’Ue sia la Comunità europea per l’energia atomica/Euratom

Dunque un recesso ad alta velocità verso mete incognite anche sul fronte dell’integrazione nucleare europea. Si ricorderà che la Ceea, istituita assieme alla Cee nel 1957 con durata illimitata, rappresenta tuttora un pilastro del processo di integrazione europea, comprensivo, altresì, del settore della produzione pacifica del nucleare.

Un’equivalenza non automatica
E che l’Euratom ne costituisse una colonna era comprovato dalla struttura a tempio greco su cui poggiava l’Ue di Maastricht, basata sulle tre Comunità e sulla cooperazione negli ambiti Pesc e Gai. Ciò a significare l’unità del sistema.

A seguito del trattato di Lisbona, l’Ue ha assorbito i tre pilastri lasciando fuori dalla costruzione l’Euratom che, se in continuità con il passato mantiene autonoma personalità giuridica internazionale, non è più una costola dell’Unione. Situazione apparsa da subito contraddittoria con quegli elementi strutturali che dall’origine pongono Comunità economica ed Euratom in un rapporto di reciproca integrazione.

Sulla base di questi elementi giuridici non era automatica l’equivalenza EuBrexit=EuratomBrexit. Per il Regno Unito, si poneva l’alternativa: l’exit da entrambe, estendendosi l’art. 50 anche all’Euratom, oppure l’exit dall’Ue ed il remain nell’Euratom. Ciò spiega il rilievo delle pertinenti precisazioni delle Explanatory Notes.

Sembra tuttavia ragionevole pensare che, se nulla impediva alla Gran Bretagna di restare nell’Euratom, poco gestibili sarebbero state le conseguenze giuridiche e politiche: il Regno Unito avrebbe continuato a fare parte delle istituzioni Ue, le stesse dell’Euratom, e sarebbe rimasto vincolato alla normativa Euratom e, perciò, alla giurisdizione della Corte Ue nel campo Euratom. Ma ciò sarebbe stato parecchio bizzarro per uno Stato che ha fatto della Brexit il core di una battaglia prettamente politica.

Le implicazioni dell’uscita dall’Euratom
Meglio si colgono le implicazioni dell’EuratomBrexit per Gran Bretagna ed Ue se si pensa alle ampie competenze Euratom (approvvigionamento dell’uranio nel territorio dell’Ue e nelle relazioni con Stati terzi, estensione a questo settore delle libertà fondamentali del mercato unico, sviluppo della ricerca nucleare e degli investimenti per la realizzazione degli impianti nucleari necessari alla produzione di energia elettrica).

Sono soprattutto i compiti di protezione della salute e di sicurezza nucleare a fare dell’Euratom, grazie a misure tanto preventive quanto reattive, la sentinella della salvaguardia europea nello sviluppo di un’industria nucleare pacifica.

Senza poi dimenticare che l’Euratom vigila affinché l’uso del nucleare non sia distorto dalle finalità lecite volute dal Trattato, prevenendo i rischi di una sua diversione verso attività terroristiche o di traffico illecito. Compito quest’ultimo condiviso con l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) grazie alla loro stretta collaborazione nell’adozione di convenzioni internazionali mirate alla sicurezza nucleare “globale”.

Scenari e potenziali conseguenze
Ebbene l’EuratomBrexit implicherà per il Regno Unito il riacquisto di competenze nei settori prima elencati, vocati, e, lo si era già capito nel 1957, a una marcata cooperazione internazionale, soprattutto per quanto concerne la sicurezza nucleare. Ciò preoccupa se si pensa che la Gran Bretagna sta progettando la costruzione di nuovi impianti nucleari a differenza di altri Stati Ue, come Francia e Germania, che dopo il disastro di Fukushima hanno iniziato a riflettere sulla consistenza del nucleare nel bouquet energetico nazionale.

Quali scenari possono prospettarsi su questo fronte? Il primo è quello di un Regno Unito che fa della sicurezza nucleare un patrimonio “nell’interesse di tutti”, britannici e non, e conseguentemente recepisce l’alto standard di protezione nucleare Ue/Euratom (si pensi, ad esempio, alla recente direttiva 2014/97 che impone elevati livelli di sicurezza nella gestione/progettazione delle centrali nucleari per prevenire disastri come Fukushima).

Ciò implicherebbe che la Gran Bretagna continui ad applicare la vigente normativa Euratom, sganciata, però, da quei meccanismi europei di garanzia/controllo che assicurano l’uniforme applicazione delle norme all’interno degli Stati membri. La conseguenza potrebbe essere una più aleatoria sicurezza nucleare europea.

Una più aleatoria sicurezza nucleare europea e internazionale
Non meno complessa sarebbe la situazione nei confronti delle future misure Euratom se il Regno Unito non volesse prenderle a modello. Ne scaturirebbe una disomogeneità normativa che non avrebbe ripercussioni negative sull’Ue solo qualora Londra scegliesse livelli più elevati di sicurezza nucleare.

Sarà dunque precipuo interesse dell’Ue in sede di definizione delle modalità della EuratomBrexit vigilare sul “capitolo nucleare” puntando soprattutto l’attenzione ”al quadro delle future relazioni Ue/Euratom. E ciò per evitare pericolose cesure nella regolamentazione di settori così rischiosi.

Altrettanto spinosa è la questione della posizione della Gran Bretagna nei confronti dell’ampio volet di accordi internazionali dell’Euratom sul nucleare, cui anche il Regno Unito è al momento vincolato. Si pensi, ad esempio alle Convenzioni Aiea che toccano i più importanti aspetti della protezione/sicurezza nucleari (trasporto dei materiali nucleari, collocazione/dismissione degli impianti nucleari e stoccaggio/smaltimento dei rifiuti nucleari).

Trattandosi di accordi bilaterali tra Euratom/Stati membri da una parte e Organizzazioni internazionali e/o Stati terzi dall’altra, l’EuratomBrexit implica, in via di principio, che la Gran Bretagna non ne sia più Parte, almeno con riguardo alle materie coperte dalla competenza Euratom. Ne potrebbe ridiventare Parte solo sulla base di un nuovo rapporto bilaterale con l’Euratom o con l’Aiea.

Nel reciproco interesse Euratom/Ue non sarebbe infatti immaginabile che il Regno Unito resti nel suo“splendido isolamento” che, se può valere per materie quali l’immigrazione o l’euro, non è auspicabile nel settore della sicurezza nucleare.

Peraltro, gli ambienti legati all’industria nucleare all’indomani dell’annuncio dell’Euratom/Brexit hanno manifestato preoccupazioni. E ciò sia per l’incerto quadro negoziale che emergerà soprattutto nei rapporti con Stati Uniti e Cina, con cui dovranno essere assunti nuovi obblighi internazionali, sia per le sorti della realizzazione del nuovo impianto nucleare di Hinkley Point C trattandosi di una joint tra imprese inglesi, francesi e cinesi.

Dunque l’EuratomBrexit solleva timori tanto presso i sostenitori del nucleare (perdita di competitività dell’industria nucleare britannica) quanto presso gli oppositori (diminuzione della sicurezza nucleare). In altri termini una partita dove tutti perdono. Non sarebbe stato meglio rammendare la tela, anziché strapparla per poi faticosamente tesserne una nuova?

Marilù Marletta , Ordinario di Diritto dell’Unione europea Università di Catania.

Spagna: prospettive di sinistra nella politica interna

Psoe e Podemos
Spagna: le parabole possibili della sinistra
Elisabetta Holsztejn Tarczewski
26/02/2017
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Mentre il 18o congresso del Partito Popolare spagnolo, svoltosi a inizio febbraio, ha riflesso l’immagine di una destra senza correnti interne, unita e compatta attorno al leader Mariano Rajoy, la sinistra spagnola è oggi uno spazio malleabile e diviso, ove competono due attori principali - Psoe e Podemos - a loro volta impegnati in battaglie interne per quote di potere.

La relazione di forza tra i due, separati alle ultime elezioni da appena 400.000 voti, determinerà la capacità della sinistra spagnola di tornare ad essere motore di trasformazione politica e sociale.

Iglesias recupera il Podemos delle origini
Che Podemos sia entrato nella politica spagnola per rimanervi sembra ormai un dato di fatto. Resta ancora da vedere se abbia già toccato il suo tetto massimo o possa ancora crescere. Al netto della capacità di recupero del Psoe, l’esito del recente Congresso di Podemos - che si chiama Asemblea Ciudadana - offre alcuni indizi.

La strategia e il progetto di partito proposti da Pablo Iglesias, sottoposti al voto dei simpatizzanti (iscritti al sito web) lo scorso 12 febbraio, si sono imposti inequivocabilmente a quelli del suo ex numero due e co-fondatore Íñigo Errejón, sostenitore di un Podemos più moderato e trasversale, capace di superare la logica “contro” e aperto al dialogo parlamentare, ma, evidentemente, meno seducente per la base.

Che ha premiato la carica ideologica e più marcatamente antisistema di Iglesias, fautore di un ritorno al Podemos delle origini, legato ai movimenti sociali e in permanente “stato di agitazione”, che vede le istituzioni come amplificatore della protesta più che come luogo per costruire consenso.

Un Podemos che si considera senza complessi “populista”, nel senso (privato della sua accezione negativa) di rappresentante autentico della voce e della volontà popolare.

I pro e i contro di una scelta
Nella vittoria di Iglesias in molti hanno dunque visto l’interruzione di quel processo di “maturazione” di Podemos voluto da Errejóne volto ad aumentarne la credibilità istituzionale. La leadership di Iglesias ne è uscita notevolmente rafforzata, così come i suoi poteri all’interno del Partito, cui il riconfermato segretario generale ha voluto dare una struttura fondamentalmente presidenziale.

E mentre Errejón e gli “errejonisti” vengono allontanati dalle posizioni chiave vi è da chiedersi se Iglesias non rappresenti allo stesso tempo la forza e, nel medio termine, il limite di Podemos. E, dunque, un’opportunità per il Partito socialista. Quella di recuperare interamente lo spazio di centro sinistra, nel momento in cui Podemos si ricolloca verso l’estremità dello spettro politico.

La vittoria di Errejón avrebbe forse significato per il Psoe un Podemos più dialogante, con cui costruire oggi un’opposizione coordinata e magari, domani, un’alleanza di Governo progressista. Ma, paradossalmente, più pericoloso in termini elettorali, perché potenzialmente più attraente per l’elettore moderato socialista deluso dalla politica tradizionale. Il dialogo con Iglesias si prospetta invece teoricamentepiù difficile per il Psoe. Ma per quale Psoe?

Il Partito socialista tra divisione e ricostruzione
I prossimi mesi saranno decisivi per il futuro del Partito socialista, in piena fase di ricostruzione del proprio progetto politico in vista del Congresso che è previsto il 17-18 giugno e che sarà preceduto di un mese dalle primarie per l’elezione del nuovo segretario generale, aperte ai circa 190.000 militanti.

È di qualche settimana fa l’annuncio dell’ex segretario generale Pedro Sánchez di volersi ricandidare, con l’obiettivo dichiarato di riscattare quei militanti che si sono sentiti traditi dal ‘golpe’ della dirigenza socialista che lo scorso ottobre lo ‘defenestrò’ per facilitare, con il voto di astensione, un Governo Rajoy-bis e che ora - in nome di una “opposizione utile” - stringe accordi con i Popolari (se pure prevalentemente su misure sociali), prolungandone la legislatura.

Una scelta che fu difficile ma responsabile, in quanto necessaria per superare lo stallo istituzionale, sostiene la Commissione provvisoria che da allora sta gestendo il Partito, considerata molto vicina alla candidata in pectore dell’establishment socialista, Susana Díaz, presidente dell’Andalusia (il ‘granaio’ del voto socialista).

La corsa alla segreteria
La corsa di Pedro Sánchez appare dunque difficile, dato lo scarso sostegno di cui gode tra i quadri organici del Partito, ma ad oggi non impossibile, a giudicare dal numero di militanti che hanno affollato i suoi più recenti interventi pubblici.

E proprio sul distanziamento tra attuale dirigenza e militanza punta Pedro Sánchez, sfruttando il fatto che la seconda si collochi più a sinistra della prima e memore, forse, di quanto successo nelle primarie laburiste britanniche e socialiste francesi.

C’è da attendersi pertanto una polarizzazione della campagna tra “sanchisti” e “susanisti”, che lascerà probabilmente al margine la presunta “terza via” del candidato basco ed ex presidente del Congresso Patxi López, a suo tempo molto vicino a Sánchez. López vorrebbe presentarsi quale soluzione di consenso capace di superare i conflitti e le divisioni intestine, ma non sembra, per il momento, riuscire a “riscaldare gli animi”.

La triangolazione Pp-Psoe-Podemos
Mentre Sánchez si propone di recuperare l’identità di sinistra del Psoe e già strizza l’occhio a Iglesias, suggerendo la possibilità di un’alleanza delle sinistre contro Rajoy, Susana Díaz gestisce accuratamente i tempi e non ha ancora ufficialmente annunciato la sua candidatura.

La lideresa non entra nel terreno della relazione con Podemos, per il quale sembra nutrire profonda sfiducia, e appare consapevole della necessità di un discorso più articolato con il Pp, che tenga anche conto degli interessi dei ‘baroni regionali’ del Psoe che governano in diverse Comunità Autonome (e che la appoggiano).

Del resto proprio il binomio Díaz-Iglesias è quello che potrebbe maggiormente favorire l’attuale presidente Mariano Rajoy: perché allontana il pericolo di un coordinamento tra le sinistre e perché il Podemos radicale di Iglesias gli permette di insistere sulla retorica della minaccia populista (che ben ha funzionato elettoralmente), mentre il Psoe di Susana Díaz meglio si presta - in tempi di anti-politica, pluripartitismo e governi di minoranza - al ruolo di alleato responsabile che il Pp vorrebbe attribuirgli. O almeno questo spera Rajoy.

Elisabetta Holsztejn Tarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.