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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 29 ottobre 2015

Svizzera: i risultati delle elezioni generali

Elezioni Svizzere
Tra la paura dei migranti, Berna si sposta a destra
Cosimo Risi
24/10/2015
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La Svizzera va così spesso al voto che il lettore straniero tende a non accorgersene. Questa volta la scadenza è stata importante. Il 18 ottobre le elezioni politiche generali si sono svolte in una calma che a noi parrebbe innaturale.

Scomparso il comizio, poco frequentati i salotti televisivi, dibattiti composti alla vigilia, reazioni altrettanto composte il giorno dopo. La regola aurea è la tenuta del sistema che deve proiettare senso di stabilità.

Non è soltanto questione d’immagine, è la pratica della stabilità che sta alla base del modello svizzero: la sua capacità di attrarre persone e capitali da tutto il mondo, malgrado una serie di eventi che potrebbe fare temere turbolenze.

Il franco alto rispetto all’euro e libero di fluttuare dopo la decisione della Banca Nazionale Svizzera di gennaio 2015. L’interesse negativo che le banche praticano sui depositi a vista. L’accettazione degli standard Ocse sullo scambio automatico d’informazioni. Il pagamento di sanzioni al fisco americano da parte di alcune banche. Le restrizioni in materia migratoria. Tutti gli elementi di rischio stingono a cospetto del dogma della stabilità.

Blocco conservatore e Lega ticinese 
La prevedibilità dell’esito elettorale conferma questa impressione di fondo. I sondaggi davano in vantaggio il blocco conservatore imperniato sull’Udc (Unione democratica di centro) e sull’alleata Lega Ticinese. Il voto premia l’Udc, fino ad eleggere nei Grigioni Magdalena Blocher, figlia dello storico leader Christoph Blocher.

Il partito guadagna qualche punto percentuale e incassa un numero di seggi mai ottenuto prima. Non tale da garantire la maggioranza assoluta, ma sufficiente a sostenere la pretesa di avere un secondo consigliere federale, un membro di governo che affianchi l’uscente.

Poiché il governo è composto di sette membri, l’ingresso del secondo Udc comporterà il sacrificio di un esponente di un partito già di governo. Altra questione è la distribuzione dei portafogli. È presumibile che l’Udc rivendichi per sé quello della sicurezza e dell’immigrazione per dare seguito coerente alla campagna elettorale.

I giochi si condurranno in novembre, la nomina del governo essendo prevista per i primi di dicembre. Nel frattempo si attende l’esito del ballottaggio per il Consiglio degli Stati (la seconda camera), dove il risultato si profila meno netto.

Stranieri svizzeri
Spostamento a destra dunque, a conclusione di una campagna incalzante sui temi della sicurezza. L’Udc, già all’origine del referendum costituzionale del 9 febbraio 2014, ha replicato il copione di successo. L’immigrazione di massa è un pericolo per la stabilità della Confederazione. Non importa se sotto la voce “immigrazione” si mettano confusamente gli immigrati “veri”, i frontalieri, i profughi, i richiedenti asilo. Il diffuso timore per l’invasione, quale ne sia l’origine e la ragione, fa premio sulla considerazione anche economicistica dell’esigenza di valersi del lavoro straniero.

La Svizzera ha oltre il 20 % di stranieri sul proprio territorio. Con la Svezia accoglie il maggiore numero pro capite di profughi. Pratica una politica avanzata di accoglienza e integrazione. Centinaia di migliaia di lavoratori varcano ogni giorno le frontiere e rendono viabili le economie locali, massimamente nei Cantoni confinanti con Francia e Germania.

Aderisce a Schengen e Dublino. Ha una rete articolata di accordi con l’Unione europea. Con la sottoscrizione delle convenzioni Ocse rinuncia di fatto al segreto bancario per clienti stranieri. Negozia il pacchetto fiscale con l’Italia. Il paese è aperto all’esterno, eppure al momento del voto si ritrae, teme che l’eccessiva apertura mini il welfare diffuso.

Possono sembrare argomenti di propaganda minuta, ma l’intasamento delle strade in prossimità delle frontiere, l’affollamento degli autobus e dei treni, lo scadere dell’assistenza sanitaria, sono tutti punti a favore di chi voglia frenare gli afflussi dall’esterno.

Il futuro del rapporto Svizzera-Ue
Ora tutti a chiedersi se ed in quale misura il voto del 18 influirà sulle trattative in corso, e principalmente quella con l’Unione europea che consegue al referendum 2014. La via è stretta, ne sono consapevoli gli stessi negoziatori svizzeri. Talmente stretta che essi hanno la consegna del silenzio. Nulla o quasi deve trapelare dalle conversazioni con Bruxelles, salvo quel poco che la Commissione lascia filtrare agli stati membri.

Stiamo nella fase delle conversazioni - essi sostengono - presto dovremo avviare veri e propri negoziati. Nel 2016 andrà definita la legislazione interna di attuazione della modifica costituzionale. Si spera che essa recepisca l’accordo con l’Unione e non si ponga in contrasto. La prima opzione consentirebbe di continuare come se tutto fosse (quasi) come prima, la seconda opzione sarebbe di rottura. La rottura dispiacerebbe alla Confederazione che con l’Unione ha la massima parte del commercio estero.

Per non parlare dell’afflusso dei lavoratori. Questi sono una costante del sistema svizzero. Lo dimostra ad abundantiam uno studio dell’Università della Svizzera Italiana. L’effetto di sostituzione (prendo il frontaliere anziché il connazionale perché quello costa meno) è secondario nella valutazione dell’imprenditore. Al primo posto l’imprenditore pone l’infungibilità della professionalità dello straniero rispetto al connazionale.

A fine ottobre si riunisce a Milano il Forum di dialogo a alto livello fra Italia e Svizzera. Giunge così alla terza edizione un format di successo, merito della lungimiranza dei suoi promotori italiani e svizzeri.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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lunedì 19 ottobre 2015

Immigrazione: un sistema da cambiare

Immigrazione
Il sistema di Dublino ormai moribondo 
Chiara Favilli
14/10/2015
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Il sistema Dublino non ha mai goduto di buona salute, ma in questa fase le sue condizione si sono decisamente aggravate.

Già dopo i duri colpi inferti dalle condanne della Corte europea dei diritti umani per i trasferimenti tra Stati membri in applicazione del regolamento, i commentatori più attenti non avevano esitato a immaginare il regolamento Dublino come già chiuso nella sua bara (S. Peers, Tarakhel v Switzerland: Another nail in the coffin of the Dublin system?; si veda anche la sintesi sui c.d. Dublin Cases nel sito della Corte europea).

Ancora frequenti sono le pronunce di Tribunali nazionali che dichiarano illegittime le decisioni sui trasferimenti e, dunque, ne impediscono l’esecuzione.

Richiedenti asilo confinati nel paese dove arrivano 
Ma anche a prescindere da questa sorta di “lesioni giurisprudenziali”, il sistema Dublino si è rivelato uno strumento altamente inefficace. In base all’ultima valutazione pubblicata, solo circa il 25% delle richieste di trasferimento accettate da uno Stato membro all’altro è stato effettivamente eseguito.

A questo si aggiungono i numerosi tentativi di elusione dell’identificazione al momento dell’arrivo in alcuni Paesi membri, come l’Italia, per ostacolare l’applicazione dei criteri stabiliti nel regolamento, in particolare quello costituito dallo Stato di primo arrivo che, come noto, è il criterio di gran lunga prevalente.

Il regolamento Dublino III non si limita, infatti, a determinare lo Stato membro competente a esaminare la domanda di protezione, ma determina anche lo Stato dove l’eventuale beneficiario di protezione dovrà fissare il proprio soggiorno in modo quasi permanente.

Questo perché, nonostante vi sia un’ampia area di libera circolazione delle persone, non vi è per i beneficiari di protezione internazionale una libertà di soggiorno in altri Stati membri, analoga a quella riconosciuta ai cittadini dell’Unione europea, Ue.

Così, i richiedenti protezione internazionale sono teoricamente costretti a rimanere nello Stato competente, generalmente quello di primo arrivo, pur desiderando invece trasferirsi in un altro Stato, dove ritengano di avere maggiori possibilità di integrazione per affinità linguistiche, presenza di reti parentali, di sistemi di welfare più strutturati o più concrete opportunità lavorative.

Le novità dell’Agenda per l’immigrazione
Tuttavia, nonostantele critiche e le condanne, il sistema Dublino non è mai stato messo in discussione, né da parte della maggioranza dei Governi dell’Unione né da parte della Commissione europea, almeno fino all’insediamento dell’attuale Commissione, operativa dal 1° novembre 2014.

È nell’Agenda per l’immigrazione, pubblicata il 13 maggio 2015, che sono contenute misure innovative, poi presentate tra maggio e settembre 2015, alcune anche rapidamente approvate.

In particolare meritano di essere menzionati i seguenti atti: una raccomandazione relativa a un programma di reinsediamento europeo che per la prima volta introduce un canale di ingresso legale dei richiedenti protezione internazionale provenienti prevalentemente dal Nord Africa, il Medio Oriente e il Corno d’Africa; due decisioni che istituiscono un meccanismo provvisorio di ricollocazione a favore di Italia e Grecia, con il trasferimento complessivo di 160mila persone nell’arco di due anni; infine una proposta di modifica del regolamento Dublino III, volta a istituire un sistema permanente di ricollocazione da applicare in tutti i casi di situazioni di crisi che si potranno ripetere in futuro a carico di uno Stato membro.

Per la prima volta si prevede la distribuzione dei richiedenti protezione internazionale tra gli Stati membri, così attuando il principio di condivisione della responsabilità, spesso invocato senza essere però attuato, analogamente al principio di solidarietà di cui all’art. 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue.

Sono inoltre indicati i parametri per stabilire la “quota” di persone che ogni Paese deve accogliere, costituiti dalla popolazione, dal Pil totale, dal numero di richiedenti asilo e di reinsediati già presenti e dal tasso di disoccupazione.

In più con la seconda decisione sulla ricollocazione il sistema di ripartizione è stato reso vincolante, ciò che ha determinato l’adozione da parte del Consiglio a maggioranza qualificata, con il voto contrario degli Stati dell’Est, con in testa l’Ungheria, ma senza la Polonia.

Deroga al criterio della competenza dello Stato di approdo
Quando anche la quarta misura sarà approvata, il regolamento Dublino sarà definitivamente modificato nel senso di introdurre espressamente una deroga al criterio della competenza dello Stato di primo arrivo, distribuendo una parte dei richiedenti protezione internazionale in maniera equa e proporzionata tra gli Stati membri.

Pur trattandosi di una deroga limitata all’accertamento di una situazione di crisi in uno Stato membro e con tutte le riserve circa l’effettiva praticabilità dei meccanismi di trasferimento delle persone, essa apre un pertugio che fino a pochi mesi fa sembrava impossibile intravedere.

Non basterà però a rianimare un mezzo moribondo, quale è il regolamento Dublino III: per farlo occorrerebbe prendere atto che un’autentica area di libera circolazione delle persone è incompatibile con limitazioni al soggiorno in quella stessa area ed iniziare ad estendere tale libertà se non a tutti i cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti, almeno ai beneficiari di protezione internazionale.

Chiara Favilli è professore associato di Diritto dell’Unione europea, LUMSA.
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Russia: crisi ucraina, gas naturale ed interessi strategici

Energia
Ue dipendente da gas russo e crisi ucraina
Marco Siddi
13/10/2015
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Almeno fino al 2030. La Russia è destinata a rimanere un importante importatore di gas verso l’Unione europea, Ue. Non solo grazie alla competitività del suo metano, ma anche perché l’Ue è ancora destinata a dipendere dalle forniture di gas esterno.

Nell’ultimo decennio, la quota di gas russo nelle importazioni europee di metano è oscillata tra il 30% e il 45% del totale e l’Oxford Institute for Energy Studies ha calcolato che nei prossimi 15 anni i Paesi Ue avranno bisogno di importare almeno 100 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno. Secondo alcuni scenari, il fabbisogno europeo potrebbe essere persino doppio.

Storia di una dipendenza
Paesi come Germania, Francia, Italia e Austria importano gas russo da più di 40 anni. I primi contratti furono firmati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 con l’Unione Sovietica e, nonostante le tensioni della Guerra Fredda, le importazioni di gas sovietico crebbero notevolmente nei due decenni successivi.

Tra gli anni ’90 e oggi, la Russia post-comunista ha costruito nuovi gasdotti verso la Ue: alla rete che transita in Ucraina (risalente al periodo sovietico) si sono aggiunti i gasdotti Yamal (attraverso Bielorussia e Polonia) e Nord Stream (che raggiunge la Germania attraverso il Mar Baltico).

Le esportazioni di gas rappresentano circa il 14% del valore delle esportazioni complessive della Russia e sono destinate soprattutto al mercato europeo. Rispetto alle esportazioni di petrolio e prodotti derivati, che costituiscono oltre il 50% del valore dell’export russo, quelle del gas hanno dunque un ruolo meno rilevante.

Il valore strategico del gas deriva soprattutto dall’assenza di un mercato internazionale ben integrato – che, al contrario, esiste per il petrolio. A causa delle caratteristiche intrinseche del gas, che ne rendono il trasporto più complesso o costoso, l’Ue si trova a dipendere prevalentemente da forniture tramite gasdotto da Paesi vicini: Russia, Norvegia e (in misura minore) Algeria. A questi si aggiunge il Qatar, che si sta specializzando nelle esportazioni di gas naturale liquido.

Ucraina, crocevia del gas russo
Il gas russo è stato al centro di contese politiche in particolare dopo la Rivoluzione Arancione del 2004, quando l’Ucraina adottò una politica estera filoeuropea e filoatlantista.

Al contempo, l’economia del Paese continuava a dipendere enormemente dalle importazioni di gas russo. La Russia, considerando l’Ucraina parte della sua sfera di interesse strategico, cominciò a utilizzare il gas come strumento di leva politica, aumentandone il prezzo e cancellando gli sconti di cui Kiev beneficiava, eredità del periodo sovietico.

La disputa tra Mosca e Kiev sui prezzi del gas si acuì nel 2006 e soprattutto nel 2009, quando la Russia sospese le forniture di gas all’Ucraina per alcune settimane, con gravi conseguenze anche per i flussi di gas in transito verso l’Europa.

Dopo l’annessione russa della Crimea, la questione del transito del gas russo in Ucraina è tornata attuale. Benché il ruolo di Kiev come paese di transito sia stato in parte ridimensionato dall’apertura del gasdotto Nord Stream (la quota delle esportazioni di gas russo verso la Ue che vi transitano è calata dall’80% al 40% circa del totale), un’interruzione dei flussi avrebbe comunque gravi conseguenze nel medio termine, soprattutto per i Paesi dell’Europa orientale e sudorientale.

Per questo la scorsa estate l'Ue è intervenuta in una nuova contesa russo-ucraina sul prezzo del gas, mediando tra le parti e permettendo il raggiungimento di un accordo.

L’Ue media sul prezzo del gas russo a Kiev
Tale accordo è però terminato a luglio e, durante l’estate, l’Ue si è trovata nuovamente a dover mediare tra le parti. Le trattative sono state difficili, ma a fine settembre Kiev e Mosca si sono messe d’accordo: l’Ucraina pagherà il gas russo 227 dollari per mille metri cubi, uno sconto di circa 20 dollari rispetto al prezzo inizialmente offerto da Mosca.

L’Ue si è impegnata a mettere a disposizione - insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale - 500 milioni di euro entro fine anno per garantire i pagamenti di Kiev.

L’accordo va incontro agli interessi strategici di entrambe le parti: alla Russia interessa garantire che i flussi di gas in transito verso l’Europa non vengano disturbati, mentre l’Ucraina vuole confermarsi come Paese di transito affidabile e necessita urgentemente del gas russo.

Mosca aveva infatti sospeso le forniture di metano all’Ucraina a luglio, e il gas che Kiev ha ricevuto finora dall’Ue non sarebbe sufficiente per affrontare l’inverno.

Questo articolo è tratto da un’analisi più ampia delle relazioni tra Ue e Russia nel settore del gas. Lo studio è qui disponibile.

Marco Siddi è ricercatore presso l'Istituto Finlandese di Affari Internazionali (FIIA) a Helsinki..
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venerdì 9 ottobre 2015

Spagna: il nodo catalano sempre più aggrovigliato

Elezioni catalane
Alle radici della richiesta di divorzio da Madrid
Riccardo Pennisi
03/10/2015
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La vittoria dei secessionisti alle elezioni catalane è un dato da prendere assolutamente con le pinze.

Anche se i deputati indipendentisti ora sono la maggioranza al Parlament di Barcellona (72 su 135), i due diversi raggruppamenti che li hanno espressi non hanno insieme la maggioranza assoluta dei voti (si fermano al 47,7%).

Inoltre, la compagine secessionista è molto eterogenea al suo interno, tanto da rendere davvero complicata un'intesa politica di governo.

Tuttavia, pur senza l'agognato 50%+1 dei voti necessario a una dichiarazione unilaterale d'indipendenza, il fronte secessionista può già contare – nella sua azione di lungo periodo – diversi successi.

È da questi che dobbiamo partire per comprendere al meglio le cause e le possibili evoluzioni dello scenario catalano.

Dall’autonomismo all’indipendentismo
L'indipendentismo non è mai stato la corrente maggioritaria della società catalana; questa è stata, nei trent'anni successivi alla morte di Francisco Franco, sempre rappresentata da posizioni autonomiste sì, ma moderate, inclini al compromesso e al patto con il potere centrale.

Ciò significava dunque tendenzialmente la scelta per i socialisti e per il loro riformismo progressista alle elezioni nazionali – a danno dei popolari, considerati troppo centralisti – e il voto a Convergència i Uniò (CiU) alle elezioni locali.

CiU, denominata appunto simbolicamente Partit de Catalunya, era la federazione di stampo democristiano, autonomista, ma non secessionista, capace di interpretare al meglio le idee dell'opinione pubblica locale.

Composta non certo solamente dall'ambiente urbano progressista di Barcellona, ma anche dal suo hinterland industriale, da un tessuto pedemontano di piccole e medie imprese, da un mondo di associazioni culturali fortemente legato alle tradizioni del luogo – e naturalmente unito dalla lingua catalana.

Guidata dal suo "patriarca" Jordi Pujol, CiU tenne il potere ininterrottamente dal 1980 al 2003: la Spagna cresceva, la relazione con Madrid sembrava più o meno funzionare – culminando nell'assegnazione a Barcellona delle Olimpiadi del 1992 – e l'indipendentismo restava appannaggio dell'estrema sinistra catalana, sull'esempio di quella basca.

L'arrugginimento di quel lungo ciclo di potere e lo scontento derivato dalla crisi economica che colpì in maniera più pesante che altrove la Spagna cambiarono però le carte in tavola.

CiU, ormai all'opposizione con il suo nuovo leader Artur Mas, emarginata da nuove coalizioni più spostate a sinistra, decise di svoltare verso posizioni sempre più indipendentiste.

In tal modo voleva intercettare una parte dello scontento dell'opinione pubblica verso lo stato centrale, considerato sempre più inefficiente e poco generoso con la produttiva Catalogna, ma anche spezzare le nuove coalizioni formatesi a Barcellona tra gli indipendentisti di sinistra e i socialisti spagnoli.

Un vero e proprio puzzle, che questa mossa mandò all'aria. I socialisti spagnoli infatti furono spiazzati da un'offensiva politica tutta sui temi dell'aumento dell'autonomia, che loro da Madrid non potevano concedere.

La loro intesa con la sinistra indipendentista catalana si spezzò, e Artur Mas vinse le elezioni del 2010.

Lo scontro con Madrid unisce destra e sinistra
Ma la Catalogna era sommersa dai debiti, e il nuovo governo regionale cominciava a tagliare, tagliare, tagliare – scatenando fortissime proteste.

Come evitare che la sinistra tornasse al potere e CiU, colpita tra l'altro da inchieste su corruzione e malaffare, fosse travolta come accadeva a tanti partiti europei?

La scelta di aprire uno scontro ancora più duro con lo stato centrale risolse questo problema: grazie a un grande impegno civico e volontario – accompagnato da una formidabile azione dei tanti strumenti mediatici e culturali in mano al governo regionale – le classi medie catalane si sono unite alla fascia elettorale indipendentista di sinistra nel chiedere sovranità.

La mobilitazione che ne è derivata è stata al contempo quotidiana e massiccia. Il partito che rappresentava questa fascia, Esquerra Republicana de Catalunya, si è unito a CiU (che nel frattempo ha subito una scissione, trasformandosi in Convergència Democratica de Catalunya, Cdc).

Tutte queste giravolte hanno originato il listone comune indipendentista che con il 39,5% è stato il più votato alle elezioni di domenica. Capolista, Artur Mas.

La dirigenza di Cdc è dunque riuscita non solo ad assicurare la sua sopravvivenza nei turbolenti anni della crisi – che hanno visto tanti partiti e leader apparentemente inossidabili sparire in breve tempo.

Ma in realtà è riuscita a spostare tutto l'asse della politica regionale sul conflitto Barcellona-Madrid, e non più su quello destra-sinistra com'era prima.

Sia il voto del 2012 che quello del 2015 sono infatti due voti anticipati, entrambi voluti da Mas nel tentativo di consolidare con le urne questa linea.

Despagnolizzazione della politica catalana
Dunque, gli indipendentisti non hanno la maggioranza assoluta, ma la despagnolizzazione della politica catalana è praticamente completa.

I due partiti nazionali (PP e Psoe, popolari al governo di Madrid e socialisti all'opposizione), raccolgono insieme il 21%. Una cifra che non si vede nemmeno nel Paese Basco, dove insieme arrivano al 30%.

Podemos, strozzata dall'irrilevanza dello scontro tra destra e sinistra, ha infatti registrato un risultato molto deludente; Ciutadans, la nuova formazione liberale nata da poco proprio in Catalogna, si è invece schierata apertamente per l'unione con la Spagna e dunque ha raccolto con successo il voto dei tanti contrari all'indipendenza, anche fuori da quell'area politica.

Mentre la scommessa egemonica di Cdc si rivela quindi per il momento ancora vincente in Catalogna, bisognerà aspettare dicembre per sapere quale nuovo governo, da Madrid, dovrà occuparsi della sempre più intricata questione catalana.

Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, ISPI, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia.
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Gran Bretagna: verso il Brexit

Immigrazione
Cameron sui migranti provoca l'Ue
David Ellwood
30/09/2015
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Difficile immaginare una strategia più provocatoria nei confronti dei partner europei di quella scelta dal governo Cameron per affrontare la crisi dei profughi.

Tentare di collegare la gestione delle frontiere esterne all’Unione europea (Ue) con quella della libertà di movimento interno non può che irritare gli altri Paesi, isolando ancora di più la Gran Bretagna.

Il ministro degli Esteri Philip Hammond ha fatto capire che gli inglesi non sopportano l’ “ipocrisia” di quei paesi come l’Ungheria e la Polonia che difendono i propri confini con ogni mezzo, mentre insistono a voce alta sulla validità del sistema di Schengen e la libertà di movimento dentro lo spazio dell’Ue.

Proporre la Gran Bretagna come l’unica nazione che sostiene una linea moralmente coerente, una linea protezionistica ed esclusiva peraltro, nel mezzo di un’emergenza imprevista di proporzioni tremende che coinvolge tutti, rischia di bruciare quel poco di capitale politico di cui gli inglesi ancora dispongono in Europa.

Persino il fedele alleato danese ha preso le distanze. E gli irlandesi, anch’essi fuori da Schengen, dimostrano molto più disponibilità.

La posizione del governo è determinata da tre fattori la cui importanza relativa è in flusso continuo:
1) la pressione di quella parte dell’opinione pubblica che non vuole sentire parlare di immigrati, provengano essi da dentro o da fuori l’Ue;
2) la preoccupazione che in mezzo al mare di aspiranti immigrati possono nascondersi infiltrati dell’autoproclamatosi stato islamico o altre organizzazioni terroristiche;
3) il futuro referendum sull’appartenenza o meno della Gran Bretagna all’Ue europea.

Verso il referendum per il Brexit
Nella campagna elettorale di maggio, Cameron ha confermato il suo impegno a promuovere il referendum sull’uscita dall’Ue dopo aver ‘rinegoziato’ certi aspetti dei Trattati di base dell’Ue.

Questi riguardano competitività: come rendere il mercato unico più efficace; sovranità: restauro del potere dei parlamenti nazionali; sicurezza sociale: più controllo nazionale sull’ accesso ai sistemi di welfare; e ‘governance economica’.

In pratica controllo delle frontiere e sul diritto di movimento dei cittadini Ue dentro i confini inglesi. Su quest’ultima questione, gli altri membri dell’Ue si sono dimostrati fino ad ora poco interessati o, vedasi i paesi dell’Europa dell’Est, apertamente ostili.

Cameron lo sa, ma è consapevole che a causa della questione immigrati - più di mezzo milione arrivati nell’anno fino a maggio 2015(1) - i sondaggi stanno dando per la prima volta un’esile maggioranza a favore dell’uscita.

Con la sua posizione sicura nella Camera dei Comuni, il governo è poi esposto più di prima a quell’ala del partito conservatore - fino a un terzo dei deputati - che ha sempre respinto in modo rumoroso e militante ogni istanza proveniente da Bruxelles, Strasburgo o Francoforte. Oggi quell’ala richiede che al momento del referendum il partito si astenga.

È anche per questa situazione politica che Cameron ha scelto di non pronunciarsi sulla questione ucraina, e ha tardato fino all’ultimo prima di esprimere una posizione sulla questione profughi.

L’aiuto di Cameron ai profughi 
Il governo insiste comunque sulla differenza tra migranti e profughi. Per i primi nessuna pietà: vanno rispediti al punto di partenza. Per le vittime della guerra in Siria invece sta cercando il modo per venire incontro alle loro esigenze, aiutandoli in primis a casa loro.

Il governo inglese sta per esempio sostenendo programmi internazionali in Siria e Giordania, e negli ultimi tre anni ha donato un miliardo di sterline all’Unhcr e ad altre organizzazioni umanitarie che gestiscono i campi profughi in questi paesi.

Cameron si è poi detto pronto ad accogliere sul suolo inglese 20mila profughi nei prossimi cinque anni. Non migranti, ma uomini, donne e bambini rifugiati nei campi e presumibilmente scelti sul posto da agenti del governo.

Assolutamente troppo poco dicono i critici, dall’Arcivescovo di Canterbury all’opposizione laburista. Dalle dozzine di accademici e ricercatori che hanno firmato una petizione per chiedere una politica molto più robusta e generosa (2) al governo scozzese in mano ai nazionalisti, la cui leader, Nicola Sturgeon, si è impegnata ad accogliere una famiglia siriana a casa sua.

Preparandosi al congresso dei Conservatori
Stretta tra tutti questi fuochi, la posizione di Cameron è oggettivamente difficile. Il suo atteggiamento rilassato e da ‘buontempone’ non sembra adatto a sfide così dure.

Il mese prossimo arriverà il congresso del suo partito: una specie di resa dei conti. Contro ogni prognostico il Primo ministro ha vinto la grande battaglia delle elezioni di maggio. Ed è con questo capitale politico che affronterà una platea che normalmente si dimostra molto obbediente e rispettosa del suo leader.

In un momento in cui l’immigrazione è la preoccupazione numero uno della popolazione, e indipendentemente delle crisi attuale, l’impegno preso nel 2010 da Cameron per gli arrivi ad un numero trascurabile si è rivelato un flop. Cameron non potrà godersi quella grande, trionfante festa che si era promesso solo cinque mesi fa.

(1) 270,000 cittadini dall’Ue, 284,000 da fuori l’Ue. Va detto che 174,000 cittadini non-inglesi sono emigrati dalla GB nello stesso anno (http://www.migrationwatchuk.org/statistics-net-migration-statistics).
(2)http://www.oxfordtoday.ox.ac.uk/news/2015-09-14-do-much-much-more-help-europes-refugees-say-oxford-academics
.

David W.Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna
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