Europa

Cerca nel blog

Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 26 ottobre 2016

Kiev: un nuovo nemico

Libertà di stampa
Ucraina, giornalisti sotto attacco
Cono Giardullo
22/10/2016
 più piccolopiù grande
Quello del giornalista non è mai stato un mestiere facile nella regione post-sovietica, ma in Ucraina si segnala un netto peggioramento negli ultimi mesi. La fuga di notizie del sitoMyrotvorets e l’omicidio, a luglio, del giornalista Pavel Sheremet sono solo la punta dell’iceberg del nuovo clima instaurato ai danni dei reporter, di ogni nazionalità, che coprano argomenti ritenuti sensibili dai dirigenti del Paese.

Myrotvorets scheda i giornalisti
Un sito nazionalista ucraino sin ad allora sconosciuto, “Myrotvorets” (Il Conciliatore), lo scorso maggio e poi di nuovo in agosto, ha pubblicato i dati personali di oltre 4mila giornalisti ucraini e stranieri che avevano richiesto l’accredito stampa rilasciato dal Ministero dell’Informazione della cosiddetta “Repubblica del Popolo di Donetsk” per visitare e operare nei territori da essa controllati.

In questo modo, giornalisti appartenenti alle più importanti testate internazionali, inclusa la Rai, hanno trovato il loro nome sul sito in questione e sono stati additati come cooperanti con le “organizzazioni terroristiche” che occupano l’est del Paese.

I giornalisti elencati, soprattutto coloro che risiedono in Ucraina, vivono ora nel timore costante di subire rappresaglie da parte dei cosiddetti gruppi di “cittadini patriottici” ucraini.

Secondo l’Istituto d’Informazione di Massa (IMI), l’ufficio del Procuratore Generale a Kiev ha registrato 113 reati - inclusi attacchi fisici, danni alla proprietà, e ostruzione di attività professionali - nei confronti di giornalisti, solo nella prima metà del 2016. Nei due terzi dei casi si tratterebbe di atti commessi non dalle forze dell’ordine o da funzionari pubblici, ma da privati cittadini.

L’omicidio Sheremet
Il 20 luglio, il giornalista bielorusso Pavel Sheremet è rimasto ucciso in un attentato con autobomba nel centro di Kiev. Sheremet - che aveva ricevuto nel 2002 il premio per il giornalismo e la democrazia dall’Assemblea Parlamentare dell’Osce- viveva in Ucraina da cinque anni ed era conosciuto per i suoi taglienti editoriali su “Ukrainskaya Pravda” contro i leader corrotti e il malaffare di Kiev e Mosca. Due anni fa si era licenziato dall’emittente russa ORT, in segno di protesta contro la propaganda guerrafondaia portata avanti contro l’Ucraina.

Anche a causa del lento procedere delle indagini sul caso, il 3 agosto, il vice ministro per l’informazione, Tetyana Popova, ha rassegnato le dimissioni protestando contro la mancanza di volontà da parte del governo di indagare gli abusi contro i giornalisti e difendere la libertà di espressione.

Infine, l’11 settembre i locali di “Inter TV” sono stati incendiati da un gruppo di manifestanti di estrema destra. I giornalisti che preparavano l’edizione domenicale sono rimasti intrappolati negli uffici e solo l’intervento della polizia e dei vigili del fuoco è riuscito a condurli in salvo, limitando il numero di feriti.

Anche in questo caso, l’incendio è stato accuratamente indirizzato contro uno dei maggiori canali televisivi del Paese, di proprietà di Serhiy Lyovochkin, oggi membro del Parlamento ucraino e del Partito di Opposizione, che servì come capo di gabinetto dell’ex presidente Viktor Yanukovych.

La libertà di stampa sembra limitata anche nell’entità separatista della “Repubblica del Popolo di Donetsk” dove, secondo il rapporto sui diritti umani in Ucraina dell’Onu, il dipartimento del “Ministro dell’informazione” controlla con mano di ferro l’operato dei giornalisti e rilascia l’accredito solo a determinate condizioni.

Mentre l’altra entità, la “Repubblica del Popolo di Luhansk” detiene una giornalista, sedicente membro dei servizi segreti ucraini, che attualmente rischia tra i 10 e i 20 anni di prigione con l’accusa di spionaggio.

Guerra di accuse reciproche tra Mosca e Kiev
La recrudescenza degli attacchi può anche essere interpretata come l’ultimo fronte del confronto a distanza tra Kiev e Mosca, visto che negli ultimi mesi si sono intensificate le accuse reciproche.

Il 31 maggio scorso, è entrato in vigore il decreto presidenziale ucraino che dava attuazione alla risoluzione del Consiglio Nazionale di sicurezza e difesa per l’implementazione di sanzioni personali contro altri 17 giornalisti russi, che si aggiungono a quelli già sanzionati lo scorso anno.

Tale decisione si aggiunge a quella dello scorso febbraio, quando il Consiglio Nazionale per le trasmissioni radio-televisive decise di mettere al bando un’ampia lista di canali televisivi russi, stralciandone l’autorizzazione a trasmettere in Ucraina.

La risposta di Mosca non si è fatta attendere. Il 3 ottobre scorso, la corte distrettuale di Lefortovo a Mosca ha confermato la detenzione provvisoria per i prossimi due mesi nei confronti del giornalista ucraino Roman Sushchenko, arrestato dai servizi segreti russi con l’accusa di spionaggio. Sushchenko, che lavora a Parigi come corrispondente per l’agenzia di stampa online Ukrinform, si trovava a Mosca per affari personali.

Buona parte della pressione esercitata sul governo di Kiev è venuta dalla rappresentante per la libertà dei media dell’Osce, Dunja Mijatovic, che solo nel 2016 ha pubblicato nove appelli che richiamano l’attenzione dei Paesi membri dell’Osce al rispetto degli impegni assunti nel campo della libertà dei media.

Come affermato da Maxim Eristavi, uno dei fondatori di “Hromadske International”, celebre piattaforma multimediale ucraina: dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Occidente si è disinteressato dei giornalisti sotto attacco, poiché tutta l’attenzione era rivolta alla gestione dei rapporti politici coi nuovi leader di Mosca.

Oggi è il turno dell’Ucraina. Gli attori internazionali non devono lasciarla sola: il Paese ha compiuto 25 anni di indipendenza quest’anno, e deve imparare a proteggere i giornalisti e la libertà di stampa come uno dei presupposti per la realizzazione di una democrazia più matura.

Cono Giardullo lavora in Ucraina con l’Osce (Twitter: @conogiardullo).

GRAN BRETAGNA. la Brexit colpisce ancora

Brexit
UK nella morsa della demagogia
David Ellwood
15/10/2016
 più piccolopiù grande
Dopo una settimana tumultuosa, il governo britannico guidato da Theresa May ha dovuto fare retromarcia: a differenza di quanto anticipato dal suo ministro degli Interni Amber Rudd al congresso del partito conservatore a Birmingham, le aziende del Regno Unito non saranno chiamate a schedare i loro dipendenti stranieri, né a dimostrare l’assunzione di un cittadino non inglese al posto di qualcuno nato e cresciuto nelle vicinanze.

Delle sanzioni non meglio specificate sarebbero state poi previste per chi avesse violato le nuove regole sull’omogeneità nazionale dei lavoratori.

Una levata di scudi generale - che ha coinvolto il mondo degli affari e il sistema sanitario, le università e i think tank - ha guidato la protesta contro la proposta del governo, denunciando tutte le minacce che ne sarebbero derivate: dallo sconvolgimento del mercato del lavoro all’interferenza nella gestione delle imprese; da una specie di pulizia etnica all’impossibilità materiale di andare avanti senza il contributo dei lavoratori stranieri in molti settori.

Tante voci hanno deplorato l’eclissi del dibattito sulle conseguenze economiche della Brexit, per fare posto alle rivendicazioni più estreme degli isolazionisti in tema di immigrazione.

Finalmente, però, nei talk-shows politici della mattina del 9 ottobre, altri ministri si sono affrettati ad insistere che vi erano state tanti malintesi, e che comunque qualsiasi cittadino comunitario con residenza nel Regno Unito per almeno cinque anni avrebbe potuto stare tranquillo, e che avrebbe avuto il diritto di fare domanda per la residenza permanente.

Toni da Ukip per i Tories
I toni nazionalisti e agguerriti che hanno dominato il congresso dei Tories hanno sorpreso molti osservatori, e non solo quelli che ricordavano che la May aveva sostenuto la causa del Remain nella campagna referendaria (anche se tiepidamente).

Invece di calmare le acque e cercare una sintesi tra le varie correnti interessate ai negoziati per la Brexit, May avrebbe esplicitamente corteggiato i sostenitori dell’Ukip e legittimato le posizioni più dure sulle questioni del controllo delle frontiere, sulle leggi europee e sull’autorità del Parlamento di Londra.

Sul Financial Times, l’editorialista Robert Shrimsley ha fatto ricorso alla caricatura della ‘piccola Inghilterra’ nostalgica della vittoria nella Seconda guerra mondiale, che ha intravisto nelle parole degli attivisti al congresso.

Sul Guardian, John Harris ha deplorato tutta l’enfasi che avvolge i presunti interessi e desideri di questa ‘piccola Inghilterra’, ma ignora del tutto quello che pensano scozzesi, gallesi, e nord irlandesi, per non parlare dei milioni di immigrati stabili nel paese da decenni.

L’ex policy advisor di David Cameron, Steve Hilton, è arrivato a chiedere - usando una pesante ironia - perché non obbligare allora i lavoratori stranieri a portare un numero tatuato sul braccio. Non pochi hanno visto l’ombra di precedenti molto sinistri in questo approssimarsi del governo a punti di vista fin qui di proprietà esclusiva dell’Ukip di Nigel Farage.

Un discorso di classe
All’inizio del congresso del suo partito, May ha implorato i delegati a non lasciarsi abbagliare totalmente dalla questione Brexit. A giudicare dai resoconti dei lavori offerti dai media, questo suo desiderio non è stato minimamente rispettato. In realtà, il discorso fatto da May andava ben oltre l’orizzonte dell’uscita di Londra dall’Ue, e - echeggiando le parole già pronunciate al suo insediamento - toccava una serie di temi sociali e filosofici di grande interesse, almeno potenzialmente.

Per la prima volta in decenni, poi, un esplicito discorso di classe è stato pronunciato, per indicare che chi parlava riconosceva i disagi della classe operaia davanti alle dinamiche della globalizzazione e del cambiamento tecnologico, e tutte le forme di disuguaglianza che essi avevano prodotto.

Altrettanto originali le sue parole sui meccanismi di mercato che funzionano male, sugli sperperi e sull’avidità di certe classi di capitalisti, e sulla necessità di uno Stato forte per correggere queste contraddizioni nel paese.

Se da una parte non ha espresso una sola parola di critica all’indirizzo dei governi di cui lei stessa ha fatto parte, né tanto meno di autocritica, dall’altra la May ha però lasciato intendere che è finita l’epoca dell’austerità.

Nessuna concorrenza a sinistra
Vista la sofferenza inflitta in tutti gli anni dei governi Cameron ad ogni angolo del settore pubblico, questa radicale svolta della May avrebbe meritato più di un commento da parte degli osservatori di professione. Così non è stato, se non per qualcuno che vi ha visto un opportunistico tentativo di attirare quegli elettori laburisti non convinti dalla leadership di Jeremy Corbyn.

Vedremo negli anni a venire se le tante belle parole sulla giustizia sociale pronunciate in quest’occasione saranno trasformate in interventi decisivi a favore dell’edilizia pubblica, per esempio, o nel rilancio del sistema sanitario.

Un piccolo pronunciamento della May a favore della ricostituzione delle grammar school, una vecchia forma di liceo basato sulla selezione dei suoi allievi tramite esame, all’età di undici anni, non promette bene, poiché condanna quelli non selezionati ad una forma di scuola decisamente inferiore.

Comunque, tutte le indicazioni suggeriscono che la May avrà tutto il tempo che vuole per sperimentare le sue idee: e potrà tranquillamente dimenticarsi dell’opposizione laburista, almeno fino alle elezioni programmate per il 2020.

David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.

domenica 23 ottobre 2016

Spagna: in via di superamento lo stallo politico

Spagna
Adiós Sanchez!
Marco Calamai
11/10/2016
 più piccolopiù grande
Dopo nove mesi di stallo politico, in Spagna è andato in scena un colpo di mano in seno al Partito socialista che ha provocato la caduta del leader Pedro Sanchez. Una rivolta interna - coronata dalle dimissioni di 17 dei 35 membri dell’esecutivo - assolutamente inedita nel partito socialista spagnolo che, scartata la linea intransigente adottata da Sanchez, deve ora decidere che strategia adottare.

Bipartitismo post franchista
Le elezioni del 20 dicembre 2015, e ancor più quelle dello scorso giugno, hanno dato un colpo definitivo al “bipartitismo” che si era affermato con le prime elezioni post franchiste del 1977, quando due partiti, l’Ucd (destra) e il Psoe (sinistra) presero insieme il 63% dei voti e, grazie al sistema elettorale, l’80% dei seggi parlamentari (Camera e Senato).

Fuori da quello schema restarono l’Alleanza popolare di Fraga Iribarne, un partito formato all’ultimo momento da ex ministri di Franco, e il Pce dell’eurocomunista Santiago Carrillo, che aveva frettolosamente rotto il legame storico con l’Urss e sperava di capitalizzare così il ruolo di primo piano giocato dal partito durante i lunghi anni della lotta antifranchista.

Allora si parlò giustamente di “miracolo politico”: dopo quasi quattro decenni di dura dittatura, la Spagna trovava finalmente un assetto democratico tra i più moderni e stabili d’Europa. La “rottura dall’alto” era avvenuta non solo per la pressione democratica della società, che pure fu molto forte ed estesa, ma grazie all’intuizione dell’oligarchia, cosciente che il regime franchista non poteva sopravvivere all’uomo che l’aveva creato e guidato con mano di ferro fino agli ultimi anni della sua vita.

Fu l’oligarchia, guidata da due personaggi chiave, il monarca Juan Carlos e il primo ministro Adolfo Suarez a governare la fase cruciale della transizione. Socialisti e comunisti si adeguarono al processo e s’impegnarono a evitare eventuali eccessi che avrebbero probabilmente comportato un colpo di Stato (che ci fu ma avvenne troppo tardi per riuscire). Fu dunque un processo guidato dall’alto, dai ceti dominanti dell’economia e dai rappresentanti delle principali espressioni politiche, di destra e di sinistra.

Una delle gambe del nuovo regime, quella di sinistra, fu il Psoe, il partito più antico del Paese (fondato nel 1879), non implicato, salvo in rari casi, nella lotta contro la dittatura, eppure identificato come una credibile forza progressista e democratica, legata alla socialdemocrazia europea e da sempre anticomunista (votare socialista era un voto di sinistra ma anche tranquillizzante).

È stato così che il Psoe ha potuto governare durante molti anni e a più riprese, portando avanti una politica di modernizzazione che è stata preziosa per il consolidamento di un welfare avanzato ed efficiente. Sta qui forse il suo merito principale.

Il tramonto del Psoe
Poi è arrivata la crisi economica internazionale che ha portato alle dimissioni anticipate del socialista José Luis Rodriguez Zapatero e alla vittoria della destra nelle elezioni politiche del 2011. Da quel momento il Psoe, privo di una strategia di opposizione, si è rivelato incapace di reagire in modo efficace alle ricette liberiste proposte dall’Unione europea con conseguenti tagli alla spesa e allo Stato sociale.

Ciò è avvenuto mentre in Spagna cresceva un’opposizione sociale, specie giovanile, che rifiutava le formule conservatrici di uscita dalla crisi e sollecitava più ampi spazi di partecipazione democratica, considerati possibili grazie alle potenzialità della rivoluzione digitale.

D’improvviso si è vista nelle strade e nelle piazze una generazione certo non eversiva e lontana dal pensiero sia fascista sia comunista, che tuttavia non si riconosce più nei partiti tradizionali, chiusi in se stessi e logorati da troppi anni al potere, incapaci di rispondere alle instanze delle nuove generazioni, colpite dalla disoccupazione e dal lavoro temporale e non protetto.

Si è sviluppato l’humus sociale che ha portato a un nuovo movimento politico a sinistra del Psoe. È stata in definitiva l’incapacità dei socialisti di rispondere alle nuove sfide economiche e sociali che ha facilitato l’affermazione di Podemos.

Il post-Sanchez
Costretto a scegliere tra il sostegno al primo ministro conservatore Mariano Rajoy e l’alleanza con il nuovo soggetto progressista, negli ultimi mesi il Psoe si è rivelato incapace, fino a questo momento, di fare una scelta netta.

Sanchez ha tentato di trascinare tutto il partito verso sinistra, dicendo più volte No a un governo dei Popolari. Non ce l’ha fatta, sia per le resistenze interne, influenzate dai leader storici del partito, in particolare da Felipe Gonzalez, sia per la diffusa diffidenza sollevata dallo stesso Podemos, forza ancora in formazione e a sua volta incerta tra l’opportunità di una coalizione Psoe - Podemos e la tentazione di rompere ogni legame con i socialisti per diventare in tempi brevi il primo partito della sinistra.

Ora ci si chiede quale sarà l’evoluzione del Psoe. Emarginato Pedro Sanchez, il gruppo dirigente del partito è ora libero di decidere l’astensione che permetterà a Rajoy di continuare a governare. Già, ma fino a quando? L’impressione dominante è di un partito destinato o alla rottura con relativa nascita di due partiti o, come è successo al Pasok greco, all’avvicinamento di molti militanti ed elettori a Podemos.

Marco Calamai è giornalista e scrittore.

giovedì 13 ottobre 2016

RUSSIA: che cosa fare in Siria

Nuova guerra fredda
Usa-Russia, gelo geopolitico
Ugo Tramballi
07/10/2016
 più piccolopiù grande
Nel loro dibattito elettorale i due candidati alla vicepresidenza americana si sono insultati e ridicolizzati, mostrando quanto sia vasto il divario fra i contendenti. Ma su un tema, uno solo, il democratico Tim Kaine, senatore democratico della Virginia, e Mike Pence, governatore repubblicano dell’Indiana, si sono trovati completamente d’accordo: che cosa fare in Siria.

È in realtà uno degli immediati problemi ai quali il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà dare una risposta: chiunque sarà.

L’allontanameto di Obama dal Medio Oriente
L’amministrazione Obama non ha mai amato il Medio Oriente e i suoi insolubili problemi: ha cercato di restare il più lontano possibile dal confronto tra israeliani e palestinesi e ha tenuto un profilo il più basso possibile nella guerra civile siriana.

I due problemi sono stati affidati a John Kerry: è il segretario di Stato che tratta le questioni internazionali, ma l’esclusiva diplomatica che Obama gli aveva concesso assomigliava più a un isolamento che a un atto di fiducia.

È per questo - perché alle sue spalle è sempre mancata la presenza autorevole del presidente - che la questione palestinese è scomparsa dai radar, mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ripreso l’attività delle colonie ebraiche nei territori occupati come non accadeva da decenni.

Il fallimento della tregua ad Aleppo, il congelamento del negoziato di pace all’Onu e l’impegno militare crescente della Russia sono stati per Kerry un fallimento ancora più clamoroso.

John Kerry è più idealista che pragmatico, come apparentemente è anche Barack Obama. Il loro convincimento è sempre stato che alla guerra civile siriana non ci fosse soluzione militare, ma solo politica.

La Siria nella campagna Usa 2016
Nel loro brutale decisionismo, regime siriano e Vladimir Putin hanno dimostrato che non sono gli ideali, i valori che servono in Medio Oriente. Come risultato, la quotidiana tragedia di Aleppo e l’arroganza russo-siriana hanno spinto il conflitto al centro della campagna presidenziale statunitense.

Fino a qualche giorno fa la Siria e l’intero Medio Oriente facevano solo parte del confuso package domestico-internazionale di Donald Trump: far tornare grande l’America. Ora l’America elettorale incomincia a discutere una soluzione diversa da quella offerta da Obama e dal suo segretario di Stato.

Non è necessariamente una buona notizia perché senatori e congressmen a Washington, governatori e grande elettorato nel resto del Paese sanno molto poco della crisi siriana. L’unico semplice messaggio che emerge di fronte all’impasse è quello tradizionale del sistema di potere a Washington: la soluzione militare, il manuale sempre uguale da seguire in ogni crisi, il playbook che qualche mese fa Barack Obama aveva criticato in una intervista su “The Atlantic”.

È infatti su questo che il democratico Kaine e il repubblicano Pence si sono trovati d’accordo nel dibattito elettorale: in un’America “più assertiva”. L’ipotesi più moderata è la creazione di zone di sicurezza nelle quali la popolazione civile può trovare riparo sotto l’ombrello di una no flight zone. Perché una zona interdetta al volo sia tale, chi la impone deve dare per scontato di dover usare la forza per difenderla: in quei cieli pericolosi volano anche i russi.

Oppure - è l’ipotesi più radicale - se fino ad ora gli Stati Uniti hanno bombardato solo l’autoproclamatosi “stato islamico”, è venuto il momento di colpire anche le posizioni del regime di Bashar Assad. Esattamente quello che fa la Russia di Vladimir Putin, che non bombarda solo i terroristi islamici, ma anche gli oppositori del regime di Damasco.

Nazione indispensabile
Un’America che nello scenario internazionale dunque assomigli alla Russia nell’applicazione di una politica di potenza. Antiquata, ma sempre in voga, nonostante il tentativo di Obama d’imporre una versione più moderna della cosi detta “nazione indispensabile”.

Esiste un segnale più evidente della nuova stagione politica di gelo fra la superpotenza Usa e la potenza russa che pretende di tornare ad avere la qualifica di “super” al più presto possibile?

L’Ucraina, la regione Baltica, il Caucaso, gli hackers, i partiti populisti di destra europei finanziati da Mosca che erodono l’unione di un’Europa che ha osato imporre sanzioni, il Medio Oriente, la Cina. Non c’è area geopolitica nella quale la Russia non ponga la sua sfida agli Stati Uniti.

Vladimr Putin conosce meglio di chiunque altro il lato pericoloso della sua provocazione: gli Usa hanno più mezzi, più tecnologia, più alleati, un’economia in ripresa. Uno scontro secondo i canoni della Guerra fredda sarebbe perdente, come è già accaduto.

Prevedendo che non sia così scontata la vittoria di Donald Trump - il suo grande estimatore e, per certi versi, imitatore statunitense - Putin sa che Hillary Clinton non sarà come Obama e Kerry: niente o poco idealismo in politica estera, ma una pragmatica riaffermazione della “nazione indispensabile”.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore.
 

lunedì 10 ottobre 2016

Europa. il nodo della difesa integrata

Dopo Bratislava
La Difesa e la foglia di fico
Stefano Silvestri
03/10/2016
 più piccolopiù grande
A me sembra che in questi giorni l’Ue sia spasmodicamente impegnata a parlar d’altro, ad evitare insomma di affrontare i problemi reali ed urgenti: quelli della stagnazione economica, della Brexit, del montare dei movimenti politici nazional-populisti e delle minacce alla sicurezza.

Per carità, non sarò certo io a lamentarmi se l’Europa della Difesa farà qualche passo avanti (anche se mantengo ancora un certo scetticismo sui risultati reali dell’attivismo di questi giorni, maturato negli anni). Né mi sfugge che un’Europa più integrata ed efficace nel settore della Difesa avrebbe anche a sua disposizione migliori strumenti per far pesare di più la sua influenza internazionale e per intervenire nelle situazioni di crisi.

Tuttavia dovrebbe essere chiaro a tutti che qui parliamo di un processo di lungo periodo che, nell’immediato, non avrebbe grandi effetti pratici. In altri termini, se la Russia (che per ora è l’unico paese che potrebbe avere la forza e la volontà di minacciarci militarmente) dovesse attaccarci, l’unica risposta credibile, oggi come ieri e come nei prossimi anni, risiede nella Nato e nell’alleanza con gli americani. Certo noi potremmo fare un po’ di più e un po’ meglio, ma non ancora abbastanza.

Difesa o Sicurezza?
Questo non vuole essere un invito a non fare nulla. Al contrario, è gran tempo che l’Ue prenda sul serio il capitolo della Difesa. Ma non mi sembra abbastanza per rispondere alle crisi europee, e soprattutto mi sembra un po’ troppo fuori asse rispetto alle preoccupazioni dei nostri concittadini.

Diverso sarebbe stato se, ad esempio, l’accento fosse stato messo sulla Sicurezza, che include certo anche aspetti militari e difensivi, ma è molto diversa negli obiettivi e nelle strategie. Essa copre un’area molto vasta di potenziali eventi, dai disastri naturali a quelli provocati dall’uomo, dalle attività criminali ad altre meno chiaramente identificabili.

I suoi strumenti sono in primo luogo civili, ma i militari sono spesso e volentieri coinvolti nelle operazioni, a volte in modo determinante. Tuttavia le finalità, e quindi anche i mezzi, le modalità del loro impiego, le strategie operative e la catena di comando, sono necessariamente diversi da quella che chiamiamo “la Difesa”. Oggi, si tratta di affrontare insieme in primo luogo alcuni di questi molteplici problemi: quelli che richiedono un approccio comune europeo per essere meglio gestiti e per moderarne le conseguenze negative.

Decisioni complesse
Ecco quindi che parliamo di controllo delle frontiere nei confronti non solo o non tanto degli immigrati “clandestini” quanto dei contrabbandieri di droga, armi, tabacco, esseri umani e quant’altro (e sappiamo da numerose ricerche come queste diverse attività siano in realtà tutte strettamente collegate tra loro e finiscano per fare capo alle stesse persone), con i loro legami con la criminalità organizzata e con le organizzazioni terroristiche.

Allo stesso tempo diviene sempre più urgente proiettare la gestione dei flussi migratori lontano dalle nostre frontiere, nei paesi di origine e di transito dei migranti, per esercitare un più attento controllo, combattere i fenomeni criminali ad essi associati e cominciare ad intervenire sulle cause economiche, ma soprattutto umanitarie che ne sono all’origine.

In questo caso parliamo evidentemente di una azione politica internazionale mirata ad ottenere la collaborazione di numerosi governi terzi, di coordinamento tra politica estera e politica degli aiuti economici nonché di politica commerciale, di organizzazione finalizzata di una parte consistente degli interventi umanitari eccetera.

Parliamo anche di possibile proiezione della forza, ad esempio là dove non esistono serie forme di governo e dove si sono stabilite e regnano entità criminali: ciò evidentemente richiede un forte intervento militare che tuttavia dovrebbe essere dimensionato agli obiettivi limitati da raggiungere nel quadro di una complessiva politica della Sicurezza.

Si tratta anche di combattere il terrorismo all’interno dei nostri confini, attraverso una molto più stretta e possibilmente integrata azione di intelligence, di polizia ed infine giudiziaria. Sarebbe anche opportuno concordare ed attuare una linea comune di approccio nei confronti delle popolazioni immigrate, specie quelle di seconda e terza generazione, nostri concittadini tra cui evidentemente serpeggia il malcontento e dove agiscono agenti provocatori.

Le frontiere che ci danneggiano
Tutto questo, ed altro ancora, non riuscirà facilmente ad assumere un profilo più integrato, ed ancora più difficilmente sovranazionale, ma le capacità dei nostri singoli paesi nono sono da sole in grado di controllare tali fenomeni e le nostre frontiere nazionali si rivelano più un vantaggio per i criminali che per noi, permettendo loro di sfruttare a nostro danno le diversità negli approcci, l’insufficiente livello di reciproca informazione e la macchinosità della collaborazione giuridica internazionale.

Progressi sostanziali in un approccio strategico complessivo alla questione della sicurezza sarebbero probabilmente apprezzati dai cittadini e andrebbero a tutto vantaggio dell’Ue.

Ma invece di affrontare in modo prioritario e coerente l’insieme delle questioni di sicurezza, i nostri paesi sono impegnati in una serie di sforzi frammentari e incompleti, per cui le politiche di aiuto ed assistenza e quelle commerciali non si adeguano necessariamente a queste priorità.

Anche il controllo delle frontiere è visto come la sorveglianza di una linea statica, quando tutti sanno che la vera difesa di una barriera è in avanti, e non certo quando essa è ormai sotto assedio. Sorvegliamo i mari ed erigiamo inutili muri nella penisola balcanica, senza in tal modo gestire il flusso dei profughi e degli emigranti.

La politica comune europea della Difesa, che dovrebbe prima o poi produrre una Difesa europea, è un obiettivo importante e meritevole di grande attenzione e fanno bene il ministro della Difesa e il governo a tentare di sfruttare questo momento di apparente maggiore disponibilità dei partner.

Ma la Difesa non dovrebbe essere usata come foglia di fico per nascondere il fatto che non si sanno o non si vogliono affrontare i temi più urgenti e scottanti.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.

Europa: il confronto sulle imposte

Caso Apple
L'Ue e il fascino indiscreto degli aiuti di Stato
Nicola Minasi
28/09/2016
 più piccolopiù grande
La recente decisione della Commissione europea di condannare Apple alla restituzione di 13 miliardi di euro all'Irlanda, per violazione delle norme Ue sulla concorrenza, è stata in gran parte descritta come una scelta coraggiosa della commissaria Margrethe Vestager.

Tanta attenzione si è concentrata sulla sua personalità: figlia di pastori luterani, politica di lungo corso nella sua Danimarca e capace di unire gentilezza a decisione, ha offerto molto ai commenti più "psicologici" sulla scelta.

Ma se lo scalpore è comprensibile, così come la ricerca di una chiave di lettura nella personalità della commissaria, il quadro post-Brexit offre ben altre possibilità di analisi. Il fatto stesso che la Commissione abbia potuto emettere una decisione del genere, è infatti eloquente sul progresso e i limiti dell'integrazione europea, sulla strada fatta finora e su dove si può arrivare.

La base giuridica della decisione
Intanto, in cosa consiste la decisione? Nella sanzione di una violazione delle norme europee in materia di aiuti di stato. L'Irlanda avrebbe distorto la concorrenza concedendo ad Apple vantaggi esclusivi in termini di tassazione, volti sia a diminuire il pagamento delle tasse verso il fisco irlandese, sia a sottrarre artificiosamente i ricavi delle operazioni europee dalla tassazione di altri Stati Membri.

Infatti con questo schema, in vigore fino al 2014, gran parte dei profitti generati in Europa sono stati assegnati ad un "ufficio centrale", non tassato in nessuno Stato (nemmeno negli Usa), evadendo 13,5 miliardi di euro.

Il principio sottostante è che gli Stati Membri non possono farsi concorrenza sleale tra di loro favorendo determinate imprese in modo selettivo. La Commissione, in base ai poteri esclusivi conferiti già dal Trattato sulla Comunità economica europea (Cee), è tenuta ad intervenire in caso di contravvenzione. Nello specifico l'Irlanda, negoziando un accordo fiscale bilaterale che ha favorito solo Apple, avrebbe creato un'alterazione artificiale del mercato unico europeo, distorcendone il carattere unitario.

Il potere di controllare e decidere contro aiuti di Stato illegali è stato dato alla Commissione, in via esclusiva, fin dall'inizio della Comunità Economica europea, nel 1957. Il Trattato attuale non ha cambiato la lettera degli articoli (gli attuali 107-109), ma la normativa collegata è diventata un corpus molto avanzato che copre praticamente ogni attività economica: dall'aviazione all'energia, dall'acciao alle banche, dallo sport al turismo.

Le aree d'intervento si allargano di continuo seguendo le novità dei mercati e spesso anche a causa di pronunce della Corte di giustizia europea, che hanno fatto balzare in avanti il concetto di aiuti di Stato, inglobando fattispecie escluse fino a pochi anni fa.

Tutto ciò ha creato anche dubbi e problemi, ma nel complesso dimostra che l'integrazione europea ha funzionato: infatti la competenza esclusiva conferita alla Commissione e alle Corti europee ha creato un sistema giuridico-amministrativo di cui gli Stati Membri, le imprese e anche gli attori internazionali devono assolutamente tenere conto per prevenire e, in caso, tentare di ribaltare le decisioni della Commissione.

Lo stesso ricorso dell'Irlanda contro la decisione sarà giudicato dalla Corte di Giustizia Ue: la preminenza del diritto e delle corti europee su quelle nazionali è quindi evidente.

Essendo un settore dove la Commissione decide in autonomia, è anche un esempio significativo di cosa può diventare l'Unione europea quando alla Commissione viene assegnata competenza esclusiva su una materia. Naturale quindi che gli sviluppi siano seguiti dall'esterno con grande attenzione e in particolare dagli Usa, interessati soprattutto alla politica commerciale e all'impatto sugli investimenti.

Concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati: le due idee al di qua e al di là dell'Atlantico
Peraltro è interessante che proprio negli Usa, cugini e modello dell'idea stessa di "Stati Uniti d'Europa", non esista una normativa sugli aiuti di Stato. Se l'Iowa fa concorrenza al Connecticut, negli Usa non è un problema. Ma questo è il risultato delle premesse della Federazione Usa di conciliare fin dall'inizio interessi statali e unitari, limitando il controllo di concorrenza alle attività delle imprese e non agli Stati.

Una scelta simile in Europa, con i precedenti delle rispettive storie nazionali, avrebbe invece compromesso dall'inizio il faticoso processo di realizzazione del mercato unico. La Commissione, pertanto, oltre a controllare la concorrenza tra le imprese, controlla anche quella tra gli Stati Membri, vietando aiuti illegali.

L'altro paradosso è che la legislazione europea si è ispirata a modo suo alla tradizione britannica di forte attenzione alla concorrenza, che ha fatto scuola in tutta Europa a prescindere dallo (o forse anche grazie allo) euroscetticismo inglese. Malgrado la Brexit, pertanto, la legislazione Ue del settore conserva un certo ascendente inglese, oltre che un debito alla scuola del liberalismo austriaco.

Ma l'aspetto decisivo è che, trattando di concorrenza tra Stati Membri, il controllo della Commissione tocca per definizione i settori dove gli Stati continuano a seguire regole diverse in assenza di norme comuni, come sulla fiscalità. In questi casi le indagini e condanne della Commissione diventano un pungolo per l'attività legislativa, indicando la strada per lo sviluppo del mercato unico.

Di fatto sinora gli Stati Membri hanno scoraggiato nuove norme su settori ancora non armonizzati, come il fisco, ma decisioni come quella su Apple finiscono per stabilire lo stesso dei paletti agli Stati Membri. Ad un certo punto si dovrà trovare un nuovo punto di equilibrio interno.

Lo stesso vale sul lato esterno: più si andrà avanti con l'evoluzione delle norme Ue sulla concorrenza, più servirà un equilibrio con le esigenze del commercio e relazioni esterne. Anzi, proprio il caso Apple dimostra la necessità di un accordo sul commercio transatlantico col Ttip: altrimenti, in mancanza di un quadro complessivo, i conflitti rischieranno di crescere invece di diminuire.

"L'automatismo evolutivo" della normativa sugli aiuti di Stato
La normativa su concorrenza e aiuti di Stato, in definitiva, contiene una sorta di "automatismo evolutivo" nel cuore del mercato unico e probabilmente porterà a nuovi "casi Apple" nel prossimo futuro. È anche un settore che mostra gli effetti di una centralizzazione sulla Commissione del potere di decisione su questioni comuni. È un sistema che richiede pesi e contrappesi e l'adozione di regole e prassi auspicabilmente trasparenti, condivise in tutti gli Stati Membri. Può essere razionalizzato, ma sembra l'unica strada per avere un'Unione veramente forte.

Nicola Minasi, Diplomatico, Coordinatore per le Infrazioni e gli Aiuti di Stato presso la Rappresentanza Permanente d'Italia presso l'Ue a Bruxelles. Le opinioni sono espresse a titolo personale.

Svizzera: ennesimo referendum sull'immigrazione

Svizzera
Ticino: la preferenza indigena vince, ma non sfonda
Cosimo Risi
27/09/2016
 più piccolopiù grande
“Prima i nostri”: questo lo slogan del referendum tanto chiacchierato in Italia, promosso nella Repubblica Cantone Ticino dall’Unione democratica di centro, Udc, partito maggioritario nella Confederazione e sostenuto dalla Lega dei Ticinesi.

Vittoria del fronte anti-frontalieri
Il referendum - in realtà solo uno dei tanti al voto il 25 settembre - è passato con il 58% dei voti su meno del 50% dell’elettorato. La punta di diamante del “si” si è registrato a Lugano con oltre il 60%. La vittoria del fronte anti-frontalieri, come sbrigativamente viene definito dagli organi di stampa, è stata netta, ma meno squillante di quanto si attendessero i promotori.

Nel 2014, all’ormai famoso referendum confederale sul no all’immigrazione di massa, il Ticino votò a favore del quesito con una maggioranza ben più vasta e determinò l’esito su scala nazionale. Il voto di domenica fa segnare un regresso nella preferenza verso l’indigeno, o meglio il residente.

Probabilmente, i tormentati seguiti del voto del 2014 hanno influenzato le scelte degli elettori. Un ruolo è stato giocato dal Consiglio di Stato, l’organo di governo del Cantone, che con un controprogetto ha cercato di edulcorare gli aspetti più contundenti del progetto Udc.

La mossa ha introdotto un punto di discussione sulle conseguenze che il voto ticinese avrebbe prodotto nei confronti del governo confederale e dell’Unione europea, Ue. La rotta di collisione con Berna, e di conseguenza con Bruxelles, è tale da portare alcuni a commentare che il voto del 25 settembre è destinato a restare lettera morta. Altri, paradossalmente, invitano l’Udc al passo successivo: promuovere una consultazione popolare sull’uscita della Svizzera dal sistema delle regole europee.

Il delicato percorso diplomatico tra Berna e Bruxelles
Il voto ticinese alimenta la discussione già delicata fra la Confederazione e la Commissione europea per sciogliere il nodo dell’emendamento costituzionale del 2014 quando il popolo svizzero si espresse a favore dell’imposizione di un limite all’immigrazione.

Entro l’anno Berna è chiamata ad adottare la legislazione interna di applicazione dellamodifica costituzionale e auspica di decidere d’intesa con Bruxelles in modo da rispettare sia il mandato popolare (limitare l’afflusso degli stranieri) e sia gli accordi bilaterali con l’Ue (il rispetto delle quattro libertà fra cui la circolazione delle persone).

La trattativa s’inserisce nel filone arroventato di Brexit. I dubbi europei sono seri. Qualsiasi apertura sul caso svizzero costituisce precedente rispetto al caso britannico? Contemplare “regimi speciali” in materia di libera circolazione incoraggia altri Stati membri a richieste riconvenzionali? Insomma, chi tocca i fili delle libertà rischia grosso: come nei pali dell’alta tensione.

Bellinzona, tappa che acquista peso
Londra si arricchisce ora della tappa a Bellinzona, la capitale del Cantone. Bellinzona si sente periferica rispetto alla politica confederale, che è decisa in quella parte del paese che i ticinesi chiamano comunemente “al di là delle Alpi”. Potrà spendere il voto referendario come ulteriore avvertimento circa la particolare condizione del Ticino.

Poco conta che il tasso di disoccupazione nel Cantone è allineato al resto del Paese: attorno al 3%. Importa che i lavoratori frontalieri, in massima parte provenienti dalla Lombardia, sono disposti ad accettare retribuzioni inferiori alla media perché guadagnano in Svizzera e spendono in Italia, dove il costo della vita è decisamente più basso.

Una sorta di dumping salariale: ben accetto agli imprenditori locali che ingaggiano lavoratori qualificati a costi abbordabili, ma tale da scoraggiare i residenti dal presentarsi al mercato del lavoro.

La questione riguarda anche i posti nel terziario. Lo stato del settore finanziario deve aver pesato sul voto di Lugano. Secondo l’Agenzia delle Entrate, a novembre 2015, laVoluntary disclosure procedure (Vdp) regolarizzò attività per circa 60 miliardi di euro con un introito per l’erario di circa 4 miliardi. Le attività riguardarono in prevalenza la Svizzera con 41,5 miliardi: il 69,6% del totale. I rapporti fra i nostri Paesi sono assai articolati. Il voto di settembre, ad onta del risultato che denoterebbe una presa di distanza, aiuta a chiarire il quadro.

Cosimo Risi è docente di Relazioni internazionali

giovedì 6 ottobre 2016

EX Jugoslavia senza pace

Balcani
Lite Kosovo-Montenegro sul confine lungo le Montagne Maledette
Francesco Martino
23/09/2016
 più piccolopiù grande
Era il 26 agosto 2015 e a Vienna, i rappresentati diplomatici di Montenegro e Kosovo - ex provincia serba dichiaratasi indipendente da Belgrado nel 2008 - firmavano un accordo sulla demarcazione della linea di confine che divide le due giovani repubbliche lungo le cosiddette “Montagne Maledette” (Prokletije).

La parola è passata quindi ai parlamenti nazionali, con il compito di ratificare l'intesa. In Montenegro la questione è stata rapidamente risolta: a fine dicembre 2015 l'assemblea nazionale di Podgorica ha approvato a larghissima maggioranza.

La battaglia di Vetevendosje 
In Kosovo, però, le cose sono andate diversamente. Nel parlamento di Pristina, con maggioranza e opposizione già ai ferri corti, la demarcazione del confine col Montenegro è diventato oggetto di polemiche violentissime.

Secondo i principali partiti di opposizione, con in testa il movimento radicale Vetevendosje (Autodeterminazione), la linea di confine concordata a Vienna (lunga circa 80 chilometri) sottrarrebbe al Kosovo più di 8mila ettari di territorio. La frontiera proposta sarebbe infatti basata non sulle mappe che definivano il territorio kosovaro secondo la costituzione jugoslava del 1974, ma su quelle volute dal leader nazionalista serbo Slobodan Milosevic che nel 1996 avrebbe “ridotto” il Kosovo a favore del vicino Montenegro.

Lo scontro sulla frontiera si è quindi sommato alle diatribe sulla spinosa e irrisolta questione della creazione di un'Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, parte fondamentale degli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo facilitati dall'Unione europea, Ue, e sottoscritti a Bruxelles nell'aprile 2013, ma invisi all'opposizione che parla di creazione di un'entità in grado di sabotare il funzionamento della nuova repubblica e del pericolo di “bosnizzazione del Kosovo”.

La battaglia politica ha presto assunto toni parossistici sia dentro sia fuori dall'aula parlamentare e ha raggiunto le pagine dei media internazionali quando l'opposizione ha inaugurato tattiche ostruzionistiche estreme, come la ripetuta esplosione di fumogeni in parlamento per sospendere il dibattito.

A conferma dell'alto grado di tensione, il 4 agosto 2016, due giorni dopo l'ennesima seduta dedicata alla demarcazione del confine, una bomba è stata lanciata contro la sede del parlamento a Pristina. Alcuni giorni dopo un altro ordigno, stavolta neutralizzato dalla polizia kosovara, è stato rinvenuto nei pressi dell'abitazione di Murat Meha, direttore della commissione statale che si occupa della definizione del confine. Nei giorni seguenti, sei attivisti di Vetevendosje sono stati arrestati con l'accusa di essere i responsabili degli attacchi.

Più concessioni per l’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo 
Le conclusioni di una commissione internazionale di esperti voluta dall'allora presidente Atifete Jahjaga, secondo la quale il confine proposto dall'accordo già firmato “soddisfa pienamente gli standard internazionali” non sono riuscite a calmare gli animi.

Dopo una fumata nera a luglio scorso, anche un nuovo tentativo di arrivare al voto il 1̊ settembre è naufragato, costringendo il primo ministro Isa Mustafa a rinviare la ratifica a data da destinarsi. Stavolta, a far mancare i numeri per un voto positivo (sulla questione è necessaria una maggioranza qualificata dei due terzi) è stata però la lista dei serbi del Kosovo che, secondo voci di corridoio, avrebbe vincolato il proprio appoggio a concessioni sulla partita dell'Associazione delle municipalità serbe.

Se confini e “sacralità” del territorio sono temi estremamente sentiti in Kosovo, Paese appena emerso da un conflitto nazionale con la Serbia, le radici dello scontro sembrano però affondare nel difficile funzionamento della giovane democrazia kosovara.

Il sistema politico di Pristina non si è ancora ripreso dalle conseguenze nefaste delle ultime elezioni politiche, tenute nel 2014. Dopo il conteggio dei voti, i partiti di opposizione (Vetevendosje, Lega democratica del Kosovo - Ldk, Alleanza per il futuro del Kosovo e Nisma) avrebbero avuto i numeri per creare un governo e scalzare l'ex primo ministro - e ora presidente - Hashim Thaci, leader storico prima dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) e poi del Partito democratico (Pdk).

Le resistenze di Thaci, insieme a discusse sentenze della Corte Costituzionale, hanno però prima portato a un lungo stallo, e poi alla nascita di un'alleanza “innaturale” tra Pdk ed Ldk (benvista però dai circoli internazionali, che hanno apertamente appoggiato l'operazione) che ha spaccato l'opposizione, lasciando ferite profonde e ancora non rimarginate.

Convinta di giocare una partita falsata in partenza, l'opposizione ha quindi puntato sul boicottaggio violento delle istituzioni - soprattutto sui temi caldi della demarcazione del confine e delle municipalità serbe - per attaccare frontalmente un esecutivo accusato di corruzione e nepotismo.

L’impasse sul confine e i visti Ue per i kosovari 
Prigioniera dello scontro interno, la diatriba sul confine rischia però di avere strascichi pesanti non solo sulle fragili istituzioni di Pristina, ma anche sulle delicate relazioni regionali e globali del Kosovo. Un forte ritardo, condito da provocazioni e proteste sulla frontiera, già messe in atto nei mesi scorsi, potrebbe mettere a repentaglio le relazioni col Montenegro, che fino ad oggi ha avuto un atteggiamento benevolo e amichevole nei confronti di Pristina.

Il rischio più forte, però, è nel possibile deterioramento del fondamentale rapporto con Stati Uniti e Ue. Durante la sua recente visita a Pristina il vice presidente Usa, Joe Biden, ha espressamente chiesto al Kosovo di “rispettare i propri obblighi internazionali” con riferimento anche alla questione del confine col Montenegro. L'Ue ha preso posizione in modo ancora più netto.

Una delle due principali condizioni (l'altra è la lotta a corruzione e criminalità organizzata) che Bruxelles ha posto a Pristina per eliminare l'obbligo di visto ai cittadini kosovari che vogliono recarsi nei paesi Ue è proprio la soluzione dell'impasse sul confine. Finché la questione non sarà risolta, il Kosovo, unico Paese ancora escluso dei Balcani, resterà ancora sulla “lista nera” di Schengen.

Francesco Martino, Laurea in Scienze della comunicazione presso l'Università degli Studi di Trieste, ha lavorato nella cooperazione internazionale in Kosovo prima di dedicarsi al giornalismo. Dal 2005 vive e lavora a Sofia, da dove ha collaborato con varie testate italiane e internazionali. Parla correntemente il bulgaro, il serbo-croato, lo sloveno, il macedone. Giornalista professionista lavora a Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2006.

martedì 4 ottobre 2016

ESPANA: Infancia invisisible en Espana: ninos migrantes solos, refugiados y vistima de trata sexual

  • Federico Mammarella*
Están en España, están en las ciudades, estan en la calle, pero ninguno los vede o lo quierano ver. Son niños, son los más débil de la cadena humana, y los más vulnerables en esta tremenda crisi inmigrantes que vive Europa, la más grave desde la II Guerra Mundial. Son en fuga da los propios país para hambre, abusos y guerra, pero aquí, en demasiadas ocasiones, no encuentran mejor condición de vida
Son niños invisibles, sin infancia, con necesidades y derechos que son sin reconocimiento.
Para la investigación de Save the Children, del 2000 al 2015 los migrantes con menos de 4 años aumentaron en un 41% en todo el mundo, pero el debate de la inmigración no habla mucho de ustedes. Para esto los niños con invisible y olvidados.
Save the Children ha dicho que en España ni el Estado ni las Comunidades Autónomas ha hecho suficientemente algo para proteger como deberían a los tres grupos de menores inmigrantes más vulnerables:
  • Las victimas de trata con fines de explotación sexual
  • Los niños que viajan solos sin nadie que los cuides ( menores extranjeros no acompañados)
  • Refugiados (niños y niñas solicitantes de asilo)

El Estado español no está cumpliendo con sus obligaciones legales respecto a estos grupos […].Se antepone su condición de inmigrantes a la de menores de edad, y existen contradicciones entre las leyes y prácticas dirigidas a controlar los flujos migratorios y las que tienen como fin proteger a niños y niñas", afirman desde Save The Children.
  • Victimas de trata para explotación sexual
Las mayorías de estos niños permanecen sin ser identificados. En todo los 2014 la policía localizó apenas a 17 niños, sin embargo se calcula que en España hay unas 45.000 víctimas entre adultas y menores de edad.
Lo actual protocolo europeo de 2005, ante la duda de si una víctima de trata es menor de edad se la debe tratar como tal. Sin embargo la administración española tiende a presuponer que son adultos. El sistema procedural permite que el Fiscal de menores decrete la edad de una persona si haberla visto.
Además, no existen recursos especializados para víctimas de trata menores de edad.
  • Menores no acompañados
En 2014, 3.360 menores extranjeros no acompañados (MENA) fueron tutelados por el Estado español, casi un 30% más que un año antes. Llegan solos, sin nadie que les cuide, de paso o para quedarse. A veces para salvar la propia vida, otras para evitar un matrimonio forzado, o simplemente en busca de una educación y una vida digna. Sin embargo, se les trata antes como extranjeros que como niños. Prueba de ello es que muchos de los organismos encargados de tomar decisiones acerca de estos menores no son los relacionados con la infancia, sino aquellos que se encargan de asuntos migratorios.
La Administración, a través de pruebas "altamente ineficaces", determina que son mayores de edad, aunque su documentación en regla diga lo contrario. El resultado es un limbo en el que no se les protege porque son considerados adultos, pero para todo lo demás son menores de edad sin representante legal, con lo que no pueden empadronarse, ni obtener la tarjeta sanitaria, ni cursar estudios o titularse. Sin opciones, se ven abocados a la calle y a sobrevivir como pueden, casi siempre en condiciones de exclusión e indigencia.
A los que sí son tutelados por las comunidades autónomas, se les facilita una educación deficiente, condenándolos a una formación pobre que limitará su vida. Tampoco pueden trabajar en las mismas condiciones que los niños españoles mayores de 16 años, lo que viola la Convención sobre los Derechos del Niño. Al cumplir los 18 años se les abandona a su suerte, sin apoyos, y en muchas ocasiones sin haber recibido la documentación a la que tienen derecho, lo que les impide seguir adelante. Es lo que Save The Children define como "patada en el trasero
  • Infancia refugiadas
El tercer grupo de menores especialmente desprotegido en España es el de los refugiados. En 2015, 14.600 personas solicitaron asilo en nuestro país huyendo de guerras o persecuciones y de ellos 3.754 eran niños. Pero el sistema de acogida español, que no ha incorporado las últimas directivas europeas sobre la materia, no cumple con los estándares europeos y no está preparado para atender sus necesidades. El resultado es que menores que han vivido situaciones especialmente dramáticas y sus familias, que lo han perdido todo, tienen que afrontar esperas de meses mientras sus solicitudes se tramitan, sin que sus padres puedan buscar trabajo.
Muchas familias sirias deciden entrar en Europa a través de Melilla para no arriesgar sus vidas en el mar, pero los peligros que encuentran son otros: cruzar varios países en situación irregular, sin recursos y sin educación para sus hijos. Para poder atravesar la frontera marroquí tienen que recurrir a las mafias y se ven casi siempre obligados a entrar por separado, lo que supone un peligro añadido para los niños. Una vez han llegado a la península, los trámites para la obtención del asilo se alargan durante meses, lo que dificulta que puedan reunirse con sus familiares. Además, no hay personal especializado y con formación en infancia entre los policías y los instructores de solicitudes de asilo, lo que impide detectar las necesidades de los niños, que no son escuchados ni informados.
En definitiva, un rosario de violaciones de derechos, desprotección y agravios procedentes de las propias leyes o, sobre todo, de cómo se aplican, ya que en teoría la ley garantiza la protección de estos menores frente a toda forma de violencia, acceso a la educación, asistencia sanitaria y servicios y prestaciones básicas en las mismas condiciones que los españoles. "Europa y sus Estados miembros, entre ellos España, se han olvidado de que estamos hablando de niños, por encima de vallas o fronteras", denuncia Andrés Conde, director general de Save the Children, para quien el mayor peligro que afrontan estos menores es, tras el horror, la invisibilidad y el olvido.


*Federico Mammarella, laureando in Relazioni Internazionali.