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Nel loro dibattito elettorale i due candidati alla vicepresidenza americana si sono insultati e ridicolizzati, mostrando quanto sia vasto il divario fra i contendenti. Ma su un tema, uno solo, il democratico Tim Kaine, senatore democratico della Virginia, e Mike Pence, governatore repubblicano dell’Indiana, si sono trovati completamente d’accordo: che cosa fare in Siria.
È in realtà uno degli immediati problemi ai quali il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà dare una risposta: chiunque sarà. L’allontanameto di Obama dal Medio Oriente L’amministrazione Obama non ha mai amato il Medio Oriente e i suoi insolubili problemi: ha cercato di restare il più lontano possibile dal confronto tra israeliani e palestinesi e ha tenuto un profilo il più basso possibile nella guerra civile siriana. I due problemi sono stati affidati a John Kerry: è il segretario di Stato che tratta le questioni internazionali, ma l’esclusiva diplomatica che Obama gli aveva concesso assomigliava più a un isolamento che a un atto di fiducia. È per questo - perché alle sue spalle è sempre mancata la presenza autorevole del presidente - che la questione palestinese è scomparsa dai radar, mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ripreso l’attività delle colonie ebraiche nei territori occupati come non accadeva da decenni. Il fallimento della tregua ad Aleppo, il congelamento del negoziato di pace all’Onu e l’impegno militare crescente della Russia sono stati per Kerry un fallimento ancora più clamoroso. John Kerry è più idealista che pragmatico, come apparentemente è anche Barack Obama. Il loro convincimento è sempre stato che alla guerra civile siriana non ci fosse soluzione militare, ma solo politica. La Siria nella campagna Usa 2016 Nel loro brutale decisionismo, regime siriano e Vladimir Putin hanno dimostrato che non sono gli ideali, i valori che servono in Medio Oriente. Come risultato, la quotidiana tragedia di Aleppo e l’arroganza russo-siriana hanno spinto il conflitto al centro della campagna presidenziale statunitense. Fino a qualche giorno fa la Siria e l’intero Medio Oriente facevano solo parte del confuso package domestico-internazionale di Donald Trump: far tornare grande l’America. Ora l’America elettorale incomincia a discutere una soluzione diversa da quella offerta da Obama e dal suo segretario di Stato. Non è necessariamente una buona notizia perché senatori e congressmen a Washington, governatori e grande elettorato nel resto del Paese sanno molto poco della crisi siriana. L’unico semplice messaggio che emerge di fronte all’impasse è quello tradizionale del sistema di potere a Washington: la soluzione militare, il manuale sempre uguale da seguire in ogni crisi, il playbook che qualche mese fa Barack Obama aveva criticato in una intervista su “The Atlantic”. È infatti su questo che il democratico Kaine e il repubblicano Pence si sono trovati d’accordo nel dibattito elettorale: in un’America “più assertiva”. L’ipotesi più moderata è la creazione di zone di sicurezza nelle quali la popolazione civile può trovare riparo sotto l’ombrello di una no flight zone. Perché una zona interdetta al volo sia tale, chi la impone deve dare per scontato di dover usare la forza per difenderla: in quei cieli pericolosi volano anche i russi. Oppure - è l’ipotesi più radicale - se fino ad ora gli Stati Uniti hanno bombardato solo l’autoproclamatosi “stato islamico”, è venuto il momento di colpire anche le posizioni del regime di Bashar Assad. Esattamente quello che fa la Russia di Vladimir Putin, che non bombarda solo i terroristi islamici, ma anche gli oppositori del regime di Damasco. Nazione indispensabile Un’America che nello scenario internazionale dunque assomigli alla Russia nell’applicazione di una politica di potenza. Antiquata, ma sempre in voga, nonostante il tentativo di Obama d’imporre una versione più moderna della cosi detta “nazione indispensabile”. Esiste un segnale più evidente della nuova stagione politica di gelo fra la superpotenza Usa e la potenza russa che pretende di tornare ad avere la qualifica di “super” al più presto possibile? L’Ucraina, la regione Baltica, il Caucaso, gli hackers, i partiti populisti di destra europei finanziati da Mosca che erodono l’unione di un’Europa che ha osato imporre sanzioni, il Medio Oriente, la Cina. Non c’è area geopolitica nella quale la Russia non ponga la sua sfida agli Stati Uniti. Vladimr Putin conosce meglio di chiunque altro il lato pericoloso della sua provocazione: gli Usa hanno più mezzi, più tecnologia, più alleati, un’economia in ripresa. Uno scontro secondo i canoni della Guerra fredda sarebbe perdente, come è già accaduto. Prevedendo che non sia così scontata la vittoria di Donald Trump - il suo grande estimatore e, per certi versi, imitatore statunitense - Putin sa che Hillary Clinton non sarà come Obama e Kerry: niente o poco idealismo in politica estera, ma una pragmatica riaffermazione della “nazione indispensabile”. Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore. | ||||||||
SAVE THE DATE 16 GENNAIO 2025 ORE 15 RECANATI
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La Federazione Regionale delle Marche dell’Istituto del Nastro Azzurro
promuove il conferimento dell'Emblema Araldico, su proposta della
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1 giorno fa
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