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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 31 maggio 2017

Euroscettici del Nord

Populismi d’Europa
Finlandia: euroscettici di governo a un bivio
Gianfranco Nitti
08/06/2017
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L’esito delle recenti elezioni amministrative di aprile in Finlandia ha contribuito a evidenziare il calo progressivo di consensi per il Partito dei Finlandesi (Ps, già Partito dei Veri Finlandesi), forza nella coalizione di governo di centrodestra a Helsinki che tra pochi giorni celebra il congresso.

Il Ps è in qualche modo riconducibile alla galassia euroscettica e ‘populista’ che si è evoluta in Europa nell’ultimo decennio: è bene, tuttavia, puntualizzare che le differenze e le sfumature tra i movimenti ed i partiti europei detti ‘populisti’ sono tali e tante che non è lecito assimilarli in uno schema unico.

Alle elezioni politiche del 2015, il Partito dei Finlandesi aveva riscosso un indubbio successo, collocandosi, col 17,7%, al secondo posto nello scenario partitico del Paese, dopo aver raggiunto il 19% nel 2011. Nell’ultima tornata, tuttavia, ha raccolto appena l’8,8% dei consensi, dimezzando il risultato e perdendo anche il 3,5 % rispetto al bottino delle comparabili amministrative del 2012.

Gli altri due partiti dell’attuale coalizione di governo di centrodestra, il Partito di Centro e quello di Coalizione Nazionale, con rispettivamente il 17,5 ed il 20,7 %, lo hanno relegato al terzo posto nell’alleanza; ma, fuori dalla coalizione, il Ps è sceso addirittura in quinta posizione, preceduto dai socialdemocratici e dai verdi.

Soini, il leader esce di scena
Portato il Ps nel governo formatosi due anni fa, il suo ventennale leader Timo Soini è divenuto ministro degli Esteri, ma ha perso per strada il supporto di tanti elettori che lo avevano originariamente sostenuto, anche per i compromessi cui si era dovuto adeguare rispetto all’originaria posizione sui salvataggi dei migranti e sull'immigrazione; compromessi che si sono rivelati profondamente impopolari nella sua base elettorale che si è per questo parzialmente indirizzata verso altri partiti.

Approssimandosi il congresso del partito - il 10 ed 11 giugno a Jyväskylä -, Soini ha dichiarato di voler lasciare le redini ad altri: i papabili per la guida del partito sembrano essere il capo del gruppo parlamentare Sampo Terho ed il parlamentare europeo Jussi Halla-aho, con la sua dura linea anti-immigrazione ed anti-islamica. Soini ha filosoficamente motivato questa brusca inversione di marcia del suo partito col fatto che prima o poi cominciano le discese, dopo tante scalate…

L’aspirante leader Halla-aho, in una recente intervista, ha sintetizzato la sua ricetta per risollevare le sorti del partito, rendendolo più ligio ad una politica tipo ‘prima la Finlandia’, sulla linea trumpiana di ‘America First!’, ma anche incoraggiando il dibattito critico interno - unico modo, secondo lui, di far evolvere il Ps. Taluni commentatori politici osservano come per i partiti cosiddetti populisti sia difficile reggere di fronte alle difficoltà di governo: questo non tanto per le connesse responsabilità, ma perché si finisce per perdere il carattere di dirompenza, diventando, agli occhi dei sostenitori, parte dell’élite.

Dilemma piazza o palazzo
Il Ps deve ora affrontare una ripida salita per recuperare elettori. Può scegliere un leader moderato che segua le orme di Soini, rimanendo al potere e registrando la crescente disillusione di molti dei suoi sostenitori, oppure indirizzarsi verso opzioni più estreme ma essere emarginati.

Il Partito dei Finlandesi deve ancora mantenere importanti promesse come l'eliminazione delle tasse sulle automobili e ha dovuto accettare il sostegno di un terzo pacchetto di salvataggio per la Grecia. È stato anche indebolito da eventi fuori dal suo controllo, andando al potere nel bel mezzo di una crisi economica e durante il più grande afflusso di richiedenti asilo nella storia finlandese.

Un irrigidimento nelle sue posizioni iniziali anti-Unione europea ed anti-migratorie potrebbe relegare il Ps in una sterile opposizione mentre un rilassamento delle stesse, come avviene ora, potrebbe far proseguire l’emorragia di consensi. Si tratta di un bivio che può considerarsi classico, cui prima o poi si trovano davanti i partiti europei simili al Ps. Il cambiamento di leadership previsto per metà mese potrebbe accentuare quindi l’inclinazione euroscettica del partito, destabilizzando il governo stesso.

Il Ps ha basato le proprie politiche su una miscela di nazionalismo, anti-immigrazione, discriminazione, antiglobalismo e simili, e però ha praticato l'opposto quando ha raggiunto una posizione governativa. Non si può essere sicuri di quale politica stia sostenendo oggi perché i suoi rappresentanti sembrano incoraggiare malcontento e ribellione nei propri ranghi, forse per dimostrare di rappresentare ancora molti elettori.

Si tratta della classica situazione sintetizzata acutamente da tanti proverbi tipo ‘tra il dire e il fare’, o ‘hai voluto la bici?...’. La difficoltà resta sempre quella di trasformarsi da ‘populisti’ in ‘popolari’.

Gianfranco Nitti è giornalista, corrispondente di mass media finlandesi dall’Italia.

martedì 30 maggio 2017

Spagna: virata a sinistra

Partito socialista
Spagna: il ritorno a sinistra di Sánchez
Elisabetta Holsztejn Tarczewski
25/05/2017
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Pedro Sánchez si è ripreso il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe). Oltre il 50% dei circa 190.000 militanti socialisti l’ha rieletto segretario generale nelle primarie di domenica scorsa, quasi otto mesi dopo che il Comitato Federale ne aveva forzato le dimissioni.

Sánchez ha vinto contro ogni pronostico, contro i desiderata dei poteri economici e dei principali media (incluso El País, storico quotidiano affine al socialismo), ma soprattutto avendo contro l’intero apparato del partito, che appoggiava la candidata andalusa Susana Díaz, fermatasi ad un 40% dei voti (concentrati peraltro nella sua regione), a fronte del 10% ottenuto dal basco Patxi Lopez, fautore di una poco probabile “terza via”.

La rivincita dell’uomo solo contro tutti
Un uomo ferito nel suo orgoglio personale è stato portato alla vittoria da militanti feriti nel loro orgoglio socialista, che mai compresero la decisione di permettere, con l’astensione, l’investitura del conservatore Mariano Rajoy a capo del governo.

Una decisione cui Sánchez si oppose fermamente, fino a dimettersi da segretario generale del partito e da parlamentare, trasformando il “No a Rajoy” in un cavallo di battaglia dalla forte presa sulla base socialista. E senza che Susana Díaz sia riuscita a contrapporre una spiegazione valida a quella decisione, considerata dal partito un gesto necessario e di responsabilità, ma incomprensibile, dolorosa e traumatica per i militanti.

Proprio sul “peccato originale” dell’astensione, Pedro Sánchez ha costruito la sua rivincita, aiutato anche dalla recente ed ennesima ondata di scandali per corruzione che ha coinvolto, nelle scorse settimane, quel Partito popolare (Pp) che il Psoe ha contribuito a confermare al governo.

Quale futuro per il Psoe?
Il Psoe esce dalle primarie profondamente fratturato e con la paura di imboccare quel sentiero di marginalizzazione già percorso dai socialisti altrove in Europa, come in Francia o Grecia, dovendosi al contempo difendere da un’alternativa di sinistra ingombrante come è Podemos.

A prima vista risulta difficile credere che Sánchez possa essere la persona giusta per risuscitare un Psoe che è già terzo partito di Spagna nei sondaggi, quando proprio sotto la sua guida i socialisti hanno conseguito i peggiori risultati della loro storia, ottenendo prima 90 e poi 85 seggi su 350 in Parlamento alle elezioni generali del 2015 e 2016. L’appoggio di 74.000 militanti non è molto, se confrontato con la perdita di quasi 6 milioni di elettori a partire dal 2011 (di cui 1 milione e mezzo nell’era Sánchez).

Al contempo, appare evidente che Sánchez potrà avere qualche chance solo se saprà recuperare l’unità del partito, integrando risorse dal campo dei due candidati sconfitti ed evitando di cadere nella tentazione di epurazioni, in vista del Congresso del 17-18 giugno - che designerà la nuova direzione esecutiva nazionale - e dei congressi regionali che si svolgeranno nel corso dell’estate.

È auspicabile, pertanto, che Sánchez sappia gestire il proprio trionfo con generosità e senza fretta, e in tal senso sembra andare la sua offerta di “liste di unità” (che la Díaz ha però respinto) in vista dei mini-congressi in cui ciascuna federazione regionale eleggerà i propri delegati al Congresso nazionale.

Fronte anti-Pp, opposizione senza sconti
Dal punto di vista delle politiche non ci si attende, in ogni caso, una radicalizzazione sostanziale della linea del partito. Pur avendo Sánchez incentrato la campagna sulla necessità di un riposizionamento a sinistra, ciò si tradurrebbe soprattutto in una nuova strategia di alleanze con le altre forze di sinistra, secondo il modello portoghese e in funzione anti-Pp. Ciò potrebbe anche comportare un avvicinamento ad alcuni partiti regionali nazionalisti - ad esempio in Catalogna o nella Comunità Valenciana - cui Sánchez ha strizzato l’occhio riferendosi a una Spagna “nazione di nazioni”.

Nel medio periodo è inoltre probabile che, in linea con le promesse fatte, Sánchez cerchi di disegnare un nuovo modello interno di funzionamento del partito, che dia più protagonismo alla base, anche mediante periodiche consultazioni della militanza da cui trarre una legittimazione diretta, riducendo così il peso delle istanze intermedie e delle strutture regionali.

Il primo terreno su cui si misurerà la nuova linea che Sánchez intende dare al partito sarà, in ogni caso, quello parlamentare. A fronte delle accuse di “collaborazionismo” con il Partito popolare lanciate alla direzione provvisoria socialista e alla stessa Susana Diaz nel corso della campagna, ci si attende ora un’opposizione dura e senza sconti.

Rapporti con Podemos e rischio instabilità 
Resta da vedere fino a che punto essa sarà coordinata con Podemos, che è entrato a gamba tese nelle primarie socialiste presentando in Parlamento, appena due giorni prima della consultazione interna al Psoe, una mozione di sfiducia a Rajoy e proponendo il proprio leader Pablo Iglesias come capo del governo alternativo (la Costituzione spagnola ammette solo mozioni costruttive).

Non solo, Podemos ha già chiesto a Sánchez di passare dalle parole ai fatti e si è offerto di ritirare la propria mozione se il leader socialista ne presenterà una sua. Dalla squadra di Sánchez escludono che questo sia il momento propizio, con un Psoe ancora in costruzione.

Torna però così a Madrid lo spettro dell’instabilità, proprio ora che Rajoy poteva presentarsi a Bruxelles con i conti pressoché in ordine e con un’economia in crescita. Il Pp contava infatti più o meno apertamente sulla vittoria di Susana Díaz, vista come un’interlocutrice più istituzionale e responsabile, con cui far avanzare una legislatura in cui il governo è minoranza in Parlamento, attraverso accordi puntuali.

Rajoy ha comunque al momento escluso di voler sciogliere le Camere, nonostante il rischio che si riproduca una situazione di stallo che pregiudichi la governabilità.

Del resto, per non farsi cogliere impreparato, il leader del Pp stava già da tempo negoziando l’approvazione della legge di bilancio con una maggioranza alternativa, composta dai liberali di Ciudadanos, dal Partito nazionalista basco e dall’unico indispensabile (ma ancora non “a bordo”) deputato di Nuevas Canarias. A conferma che per un Psoe tanto dimagrito, anche un’opposizione dura potrebbe dare pochi frutti.

Elisabetta Holsztejn Tarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
 

giovedì 25 maggio 2017

Perchè non la Russia?

Presidenza italiana 
G7: a Taormina ancora senza Putin
Ugo Tramballi
11/05/2017
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Stringendo fra le sue mani quelle di George W. Bush e Vladimir Putin, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, annunciò al mondo la fine della Guerra fredda. Era il 2002, al vertice Nato-Russia di Pratica di Mare.

In realtà, la Guerra fredda era finita da oltre un decennio. Non Berlusconi, entusiasta di natura, né gli altri partner di quel vertice potevano immaginare che entro un altro decennio sarebbero tutti tornati a qualcosa di simile a una seconda Guerra fredda.

Guerra fredda, capitolo due
Sul “what went wrong” gli analisti, e con una certa fretta anche alcuni storici, hanno già scritto pagine e pagine. In genere, il giudizio è di parte: fu colpa degli americani, è colpa dei russi; difficile trovare posizioni intermedie, spesso nemmeno fra le diplomazie coinvolte. La differenza è anche sull’uso dei tempi: furono le amministrazioni Clinton e Bush junior a umiliare la Russia in declino, rifiutando di riconoscerne la vocazione imperiale (seguì poi la relegazione a “potenza regionale” di Barack Obama); è il comportamento revanscista e vetero-imperialista di Putin a rendere oggi l’Europa e il mondo più instabili.

La verità, se ne esiste una, è probabilmente nel convergere delle due tesi: entrambe riflettono il reale andamento della storia e delle cronache. Un Paese i cui interessi incominciano al confine ucraino e finiscono nelle isole Curili difficilmente può essere considerato una potenza regionale: è giusto trattarlo con rispetto perché se non ha più mezzi economici da superpotenza, ne possiede ancora gli arsenali nucleari.

Allo stesso tempo, l’annessione armata della Crimea e le violazioni russe degli accordi legati al nucleare (l’ultima riguarda il trattato Inf sulle forze nucleari a medio raggio in Europa) hanno spazzato ciò che restava della sicurezza collettiva continentale. Per i comportamenti di Putin non c’è più un ordine internazionale: un Congresso di Vienna, una Yalta, una Helsinki cui riferirsi per risolvere i problemi prima che diventino crisi.

Le sensibilità dei Grandi verso Mosca
Fino a che una delle due parti o miracolosamente entrambe non decidono di tornare a un punto zero (la parola “reset” porta male), fino a che russi e americani non rinunciano ad accusarsi fra chi ha cominciato per primo e chi ne ha approfittato dopo, Vladimir Putin non sarà a Taormina e il G7 continuerà a essere solo G7. Era diventato G8 nel 1998, quando l’impero benevolente di Clinton sembrava non conoscere tramonti; è tornato G7 nel 2014, quando, rivendicando diritti sull’Ucraina, Putin ha svelato definitivamente la sua ambizione di ripristinare una versione leggermente più moderna della sfera d’influenza sovietica sull’Europa orientale.

Esiste un certo paradosso nell’assenza causa-sanzioni della Russia all’incontro di Taormina. Osserviamo i Paesi del G7. Francesi, tedeschi e italiani fanno a gara nel dichiarare con più convinzione la loro amicizia per Mosca e nel mostrare rassegnata ostilità per sanzioni economiche che sembrano quasi subire di dover imporre.

Con la presidenza Trump, mai gli Stati Uniti sono stati così poco ostili alla Russia: fra Fbi, Cia e Campidoglio, la storia è ancora tutta da raccontare. Il Canada di Justin Trudeau è sostanzialmente agnostico sulla materia, se non sono minacciati i suoi interessi nell’Artico. Il Giappone ha ben altre preoccupazioni. Solo la Gran Bretagna è convinta della minaccia russa, come il George Smiley di Le Carré lo era dell’esistenza di una talpa di Karla dentro l’MI6.

Quattro dichiaratamente o potenzialmente amichevoli; uno non ostile, quasi amichevole; uno disinteressato; uno solo contro. Eppure, nonostante un’assemblea mai così favorevole, a gennaio il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha fatto ufficialmente sapere che la Russia avrebbe lasciato “in modo permanente” il G8.

A meno che a Taormina non venga formalizzata la sua uscita, infatti, la partecipazione russa alla struttura del gruppo allargato a otto Paesi era solo congelata. Una porta sbattuta in faccia a tutti, dunque: anche al ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano, che aveva esortato una riapertura a Mosca.

Nessuno spazio per un ritorno al G8
Il comportamento russo è forse duro, ma coerente. Al momento non esistono gli spazi per un ritorno nella grande casa del G8, che non è un’istituzione, ma una mega-lobby globale con valori comuni: democrazia e libero mercato. Si possono fare molti distinguo, ma è difficile sostenere che la Russia pratichi con la stessa trasparenza l’una e l’altro.

Quello che a Washington viene considerato il “new normal” delle relazioni internazionali vede una Russia che hackera, disinforma e mesta nei sistemi occidentali, cercando di orientarne le elezioni. Una posizione dichiaratamente ostile alle democrazie rappresentative e di sostegno ai populismi ovunque si formino e abbiano forza per contendere il potere.

In questa forma adulterata di Guerra fredda, probabilmente i russi fanno il loro mestiere. Ma è un mestiere non meno pericoloso per l’Occidente di quanto non lo fosse l’immensa forza militare sovietica di un tempo.

Quegli arsenali la Russia oggi non se li può più permettere. Non è un Paese che rischia il tracollo economico, ma vive una forma di eterna stagnazione. Il Pil americano è superiore ai 18mila miliardi di dollari, quello russo è di circa 1,3. Le Forze Armate americane contano un milione e 400mila donne e uomini, le russe 750mila.

Putin non può più permettersi le stesse spese militari dei tempi in cui il barile di petrolio superava i cento dollari. I 65 miliardi recentemente stanziati da Mosca, dollaro più dollaro meno, equivalgono al solo aumento della spesa per la difesa americana previsto da Donald Trump per il 2018.

Come dice Dmitri Trenin del Carnegie Moscow Center, Vladimir Putin è “an autocrat with the consent of the governed”. Sa come stimolare il patriottismo innato dei russi. E se l’hard power necessario per conquistare spazio geopolitico non è più applicabile dispiegando divisioni corazzate e caccia di ultima tecnologia, la Russia usa i mezzi meno costosi, ma forse più efficaci, del web. È per questo che non parteciperà al vertice di Taormina. Ed è per questo che subito dopo l’Occidente dovrà ingaggiarla in un dialogo essenziale per il futuro suo e nostro.

Ugo Tramballi è editorialista del Sole 24 Ore.

venerdì 19 maggio 2017

Austria: elezioni anticipate

Ipotesi elezioni anticipate
Austria: la grande coalizione in crisi
Francesco Bascone
14/05/2017
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Le dimissioni ‘ab irato’ del vice-cancelliere austriaco Reinhold Mitterlehner, il 10 maggio, avvicinano la prospettiva d’elezioni anticipate.

Sarebbe una nuova occasione per infliggere un’ulteriore battuta d'arresto ai movimenti populistici, dopo le elezioni in Olanda e in Francia (e, prima ancora, dopo le presidenziali austriache dell'anno scorso). Una speranza, questa, imperniata sulla figura del giovanissimo Sebastian Kurz, attualmente ministro degli Esteri.

La decisione del vice-cancelliere e leader democristiano d’affrettare i tempi del suo ritiro si spiega con il concorso di tre fattori. La goccia che fa traboccare il vaso è stato il titolo di pessimo gusto scelto per una trasmissione della tv di Stato da uno stimato anchorman: “Lo aspettano i becchini” (con l'aggravante che al cimitero Mitterlehner è davvero dovuto andare pochi mesi fa per seppellire la figlia). La causa principale del suo disagio, riflessa in quell’infelice battuta, è però l'inarrestabile deteriorarsi del clima nella “grande coalizione” e al tempo stesso nel suo partito, l'OeVP.

I disagi del vice-cancelliere
Nei continui dissidi fra alleati di governo sui vari progetti di riforme, Mitterlehner si era sentito progressivamente stritolato fra l'intransigenza del cancelliere, il socialista Christian Kern, in parte dettata da interessi elettorali e comunque destinata ad offuscare l'immagine del junior partner, e l'analoga intransigenza dei suoi compagni di partito.

Fra questi in primo luogo il falco Wolfgang Sobotka, ministro dell’Interno, che attaccava regolarmente Kern e affossava gli sforzi di Mitterlehner per raggiungere compromessi. Sembrerebbe che i due leader meditassero di estromettere lo scomodo ministro, ma che i potenti dirigenti regionali del partito popolare si siano opposti.

Un motivo sussidiario di frustrazione, cui il dimissionario vice-cancelliere ha accennato, è stato l’imbarazzante fatto di occupare la seconda sedia nel governo e la prima nel partito in attesa che l'erede presunto decida che è arrivato il momento di prendersela.

Le ambizioni di Kurz, l’enfant prodige
L'erede - come già appariva chiaro sei mesi or sono, nel commentare gli esiti delle presidenziali - è Kurz, l'enfant prodige della politica austriaca, il deus ex machina che secondo i più dovrebbe portare l'OeVP dal terzo posto nei sondaggi alla maggioranza relativa nelle elezioni del 2018.

Kurz, che ha adottato posizioni dure sul controllo dell'immigrazione, va a gonfie vele nei sondaggi e non ha rivali nel partito, ma preferiva continuare a costruire la propria immagine di statista, avvalendosi a tal fine del ruolo di capo della diplomazia (e, fra l'altro, presidente dell'Osceper tutto il 2017). Non assecondava, perciò, i falchi, intenti ad accelerare il crollo della coalizione.

Ora però che è stato costretto ad anticipare la successione alla guida del partito, punta a nuove elezioni a metà settembre o inizio ottobre. Una attesa più lunga potrebbe sgonfiare in parte l'ondata di popolarità, come in Germania è successo a Schultz. Kern ha deciso di non puntare i piedi e di concordare una data.

Nell'accettare, domenica 14, l'investitura, il trentenne Kurz ha promesso un radicale rinnovamento del partito; e ha chiesto e ottenuto dai maggiorenti - un fatto senza precedenti - una sorta di pieni poteri, soprattutto nelle nomine e nelle candidature, anche a livello regionale. Il suo nome figurerà nel simbolo della lista elettoraledella "nuova OeVP".

Si è invece ben guardato dall'assumere la carica di Vice-Cancelliere: sia perché la sua ambizione non è quella di fare il numero due oggi mail capo del governo domani, sia perché non vuole subire lo stesso logorio che Kern ha inflitto a Mitterlehner.

La prospettiva euro-austriaca
È quasi inevitabile vedere in lui il Macron austriaco. Senza dubbio un parallelismo c'è, non solo nella giovane età e nel bell'aspetto, ma anche nel dinamismo, nella volontà di cambiamento e persino in una certa indeterminatezza nei programmi, al fine di allargare il bacino elettorale.

Ma mentre il nuovo presidente francese - grazie alla débacle dei socialisti - può occupare tutto o quasi lo spazio di centro-sinistra, Kurz può al massimo ambire a rosicchiare voti al centro ed a destra per portare il partito conservatore alla maggioranza relativa e quindi alla guida di una (comunque problematica) coalizione.

Le sue prese di posizione nette contro il politically correct in materia di immigrazione gli hanno già fruttato l'accusa di inseguire la destra di Heinz-Christian Strache sul suo terreno. Ma senza un consolidamento della chiusura della rotta balcanica, sforzi per restringere quella libica e correzioni ai generosi sussidi elargiti ai migranti, non si può realisticamente sperare di togliere vento dalle vele dell'FPOe.

L'importante, in una prospettiva non solo austriaca, ma europea, è che l’eventuale successo elettorale del partito di centro-destra sotto la guida di Kurz, così come è stata la vittoria di Macron, costituirebbe una battuta d'arresto per il partito xenofobo di Strache e per la deriva verso l'euroscetticismo.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.

sabato 13 maggio 2017

Francia: dal consenso elettorale al consenso parlamentare


Macron presidente
Francia: una vittoria europea
Luigi Gianniti
09/05/2017
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Emmanuel Macron ha vinto nettamente il ballottaggio. Saprà En Marche, questo movimento nuovo, legato nel nome stesso - la stessa sigla: EM - al suo fondatore, tradursi in una forza parlamentare?, e di quale dimensione? Certo, dalla portata del suo successo passerà l'ampiezza della capacità di manovra del nuovo presidente.

Non bisogna tuttavia procedere con il metro del recente passato, cioè della prassi degli ultimi 15 anni seguita alla riforma costituzionale che nel 2000 ha introdotto il quinquennato. Dopo la riforma, i candidati all'Eliseo - scelti attraverso le primarie dai grandi partiti - si sono confrontati alle presidenziali e i deputati sono poi stati eletti sull'onda del risultato di queste, assicurando pertanto al presidente della Repubblica una combinazione di poteri per cinque anni che non ha eguali nel panorama delle democrazie occidentali (negli Usa, infatti, ci sono le elezioni di medio termine; e nei regimi parlamentari il primo ministro può essere sempre sostituito).

Dalle elezioni per l'Assemblea nazionale potrebbe uscire una maggioranza così coesa da imporre al nuovo presidente un governo: qualcosa di diverso dalle coabitazioni conosciute prima della riforma del quinquennato, poiché si tratterebbe di una coabitazione non temporanea ma strutturale.

Un panorama politico frammentato
Le vicende di questi mesi mostrano tuttavia quanto il panorama politico francese sia frammentato. Se il Front National riuscisse - riproponendo anche parzialmente il radicamento conquistato nel primo turno delle presidenziali - a portare in Parlamento un consistente gruppo di deputati, difficilmente la destra gollista potrà avere da sola la forza di imporre al presidente un governo frutto di una maggioranza coesa.

E così anche un successo relativo, che garantisse cioè la costruzione di un gruppo parlamentare sotto la bandiera di EM sufficientemente consistente seppur non maggioritario, ne farebbe inevitabilmente il centro di gravità attorno al quale costruire una coalizione. Non avremmo più un presidenzialismo assoluto e l'esercizio del potere, grazie a un accresciuto ruolo del Parlamento, potrebbe essere più equilibrato, meno dipendente dall'influenza della personalità del presidente,il quale dovrà comunque sforzarsi di costruire consenso.

L’Europa al centro della campagna
Di fronte a queste possibili prospettive, non dobbiamo dimenticare - e nella sua prima uscita pubblica sulla spianata del Louvre Macron lo ha mostrato plasticamente -, che il presidente della V Repubblica si vede accordato dall'elezione a suffragio universale un particolare carisma, che ha uno dei suoi terreni di elezione (espressamente garantiti dalle norme costituzionali ) nelle matières de souvraineté: la difesa, gli affari esteri, ma anche (da De Gaulle in giù) gli affari europei.

Mettendo al centro della sua campagna la politica europea, Macron ha chiamato i cittadini francesi a dargli un mandato chiaro: "l'Europa è l'opportunità che abbiamo per integrare la nostra piena sovranità", ha infatti affermato senza mezzi termini. I francesi ieri hanno eletto chi siederà per la Francia nel Consiglio europeo. Gli hanno dato un mandato di rilancio, di rifondazione del progetto europeo.

Un mandato che il nuovo presidente ha declinato con una chiarezza sconosciuta nella storia delle competizioni politiche francesi, e più in generale di quelle europee (simmetricamente opposto, nel merito, a quello che il premier britannico sta chiedendo ai suoi cittadini, ma di eguale forza). Un mandato che potrà sviluppare quale che sia l'esito delle legislative, a meno di non voler concedere una chance all'ipotesi di un Parlamento che veda maggioritarie le forze estremiste - di destra e di sinistra - antieuropee.

L’Unione, un progetto da rilanciare
Il progetto europeo, indebolito secondo Macron da mancanza di responsabilità e assenza di visione, va rilanciato con una chiara ambizione politica. Ed è compito della Francia "prendere l'iniziativa e collaborare con la Germania, l'Italia ed altri Paesi per rimettere in piedi la nostra Europa".

Il presidente più giovane che la Francia abbia mai avuto, appartenente a una generazione non a caso destinata nei prossimi anni a fare della Francia il Paese più popoloso d'Europa, ha ricordato che l'Unione europea "si costruirà attorno al senso del futuro". Da ciò l'impegno per una politica di investimenti, da finanziare con un bilancio dell'Eurozona affidato a un ministro delle Finanze che sia responsabile davanti al Parlamento dell'Eurozona. Un impegno razionale e strettamente collegato alla necessità di introdurre riforme a livello nazionale che riducano le spese correnti.

A ben vedere, Macron riprende così il filo di quel percorso riformatore cui lui stesso aveva contribuito quale principale collaboratore sulle questioni europee del presidente Hollande, appena eletto nel 2012. Nell'estate di quell'anno (quando il progetto di Unione bancaria fu per la prima volta definito e concordato dai governi) era maturata una svolta nella costruzione della risposta alla crisi. Una risposta il cui organico respiro, fissato nel cosiddetto "Rapporto dei 4 presidenti” del giugno del 2012, si è tuttavia perso strada facendo.

Da un rapporto dei presidenti all’altro
Quel Rapporto infatti, oltre a prevedere l'Unione bancaria, fissava quale prospettiva la realizzazione di una Unione di bilancio, quindi di "un organismo di bilancio a livello della zona euro, quale un ufficio del tesoro" e addirittura, nel medio termine, "la emissione di debito comune come elemento di tale unione di bilancio".

Tutto ciò in un contesto fondato da un lato sulla responsabilità che deriva dalla "titolarità nazionale delle riforme", condizione essenziale per promuovere la crescita, e dall'altro su un rafforzamento della legittimità democratica dei processi decisionali, attraverso uno stretto coinvolgimento del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali.

Questa visione organica, che era andata maturando anche grazie al sistematico lavoro che svolgevano insieme i collaboratori del presidente francese, della cancelliera tedesca e del premier italiano (lo stesso Macron, Nikolaus Meyer-Landrut - oggi ambasciatore tedesco in Francia - e Enzo Moavero Milanesi), è andata perdendosi.

Il successivo “Rapporto dei 5 presidenti” del 2015 sembra infatti aver smarrito questa complessiva visione politica in favore di una governance economica dell'Unione tutta essenzialmente fondata sul rigoroso rispetto di un complesso sistema di regole. Mentre il bilancio dell'eurozona diventa una più incerta "funzione comune di stabilizzazione macroeconomica" e il ministro del Tesoro una futuribile "tesoreria della zona euro".

Riprendere la giusta ambizione
Più che una "rivoluzione" il presidente Macron propone allora oggi in primo luogo alla Germania, ma anche espressamente all'Italia, di riprendere con la giusta ambizione quell'organico disegno che lui stesso aveva contribuito ad abbozzare nel 2012, giovane consigliere del presidente Hollande; e di farlo a partire da una ritrovata coesione politica, da una strategia di riforme e modernizzazione del proprio Paese e di riduzione delle spese correnti in cambio dell'impegno, innanzitutto tedesco, a procedere verso una vera riprogrammazione di bilancio, che riconcili solidarietà e responsabilità.

Macron ha dato al suo futuro governo un orizzonte di due anni che coincide con il tempo che resta per la fine della legislatura europea (del Parlamento europeo, della Commissione e del mandato del presidente Tusk). Nel frattempo propone di lanciare, dopo le elezioni tedesche, un dibattito europeo sul contenuto dell'azione dell'Unione e sul suo futuro, al termine del quale Macron prefigura una rifondazione vera del processo di integrazione di un'Europa differenziata e a più velocità.

Si tratta di una sfida lanciata innanzitutto al nostro Paese, oltre che alla Germania,che potrà in fondo contribuire a impostare nel modo giusto la prossima competizione elettorale.

Luigi Gianniti, consigliere parlamentare, insegna diritto parlamentare presso la Facoltà di scienze politiche di Roma 3, già capo di gabinetto del ministro per gli affari europei

mercoledì 10 maggio 2017

Francia: verso una politica seria



Macron presidente
Francia: vincere con la bandiera dell’Unione
Jean-Pierre Darnis
08/05/2017
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La netta vittoria nelle presidenziali francesi di Emmanuel Macron apre una serie di scenari nuovi, per la Francia, ma anche per l’intera Europa. Prima di tutto il risultato ricaccia nell’angolo il Front National, che ancora una volta non è stato capace di aggregare voti al di là del suo bacino elettorale.

Le istanze di rivolta anti-sistema portate avanti dagli estremi dello schieramento politico francese rimangono all’ordine del giorno, ma la maggioranza dei votanti ha nettamente affermato la sua preferenza per un rinnovo del sistema, con il compromesso rappresentato da Emmanuel Macron: un candidato giovane, con una brillante carriera all’interno dell’establishment, che ha però avuto la prontezza di fare un passo di lato presentandosi fuori dai partiti tradizionali. La vittoria di Macron attualizza quel ‘soffitto di cristallo’ contro cui l’estrema destra sbatte in Francia da decenni.

La novità della collocazione politica
Ma la grande novità sta nella collocazione politica di Emmanuel Macron: non si tratta di un candidato della destra o della sinistra classica eretto a “campione anti estremisti”, come fu il caso di Jacques Chirac nel 2002. Macron vince con una logica centrista e con una piattaforma che permette la convergenza ideologica di una larga fetta dell’elettorato: un riformismo social-liberale con una forte attenzione alla dialettica con l’Europa.

La scenografia del suo trionfo, con lui che sale sul palco di fronte alla Piramide del Louvre e in sottofondo l’Inno alla Gioia di Beethoven, rinforza il simbolismo europeo intorno all’elezione di Macron. Ed è altrettanto importante e positivo constatare quanto i sostenitori di Macron accolgano con piacere questo riferimento europeo, un dato di fatto confermato dalla presenza costante di bandiere europee nella campagna del neo-presidente.

Fine del tiro al bersaglio sull’Europa
Rompendo la dialettica fra destra e sinistra, Emmanuel Macron ha anche rotto quel gioco di tiro al bersaglio sull’Europa che i partiti classici si sentivano in dovere di praticare nella loro ricerca di allargare il consenso agli estremi. Un segnale particolarmente incoraggiante, perché non crea quella discrepanza - constatata spesso di recente - prodotta invece da chi, con toni bellicosi, annunciava di volere rovesciare il tavolo a Bruxelles per poi praticare una politica europea tutto sommato classica, aumentando ulteriormente la diffidenza dell’elettorato verso l’Unione e le sue istituzioni.

Macron spezza questa catena per proporre una piattaforma politica che si articola su un metodo concreto e pragmatico, quello del riformismo interno ed europeo. Al di là delle azioni della sua futura presidenza, vanno salutate l’onestà e la trasparenza di questo approccio. È una svolta che potrebbe segnare non soltanto la politica francese, ma anche quella dell’intero continente: si può vincere anche lasciando da parte il famigerato “euro-bashing” e impugnando la bandiera dell’Unione.

Fuori dalla crisi con dinamiche positive
Se poi mettiamo insieme l’intera sequenza politica dell’anno scorso, con - dopo la Brexit - le elezioni austriache, olandesi e infine francesi, dobbiamo sottolineare che si sta uscendo da una crisi dell’Europa con delle dinamiche positive e interessanti. La Brexit fa ormai parte della storia, non soltanto perché è un evento passato ma anche perché ha mostrato il pericolo di un voto sbagliato, ovvero quello di caricare l’Europa di una serie di critiche fuori tema.

Ed è paradossale constatare che una certa rinascita francese ed europea si svolga anche nel contesto del dopo Brexit, come se tutto sommato il Regno Unito avesse risvegliato l’Unione con la sua uscita. Un giorno si potrà magari ringraziare gli inglesi che, sacrificandosi sull’altare del nazionalismo, hanno salvato l’Europa.

Emmanuel Macron ha appena iniziato il suo cammino. Deve trasformare la meta con un calcio franco nel contesto spigoloso delle elezioni politiche, ma potrà comunque beneficiare della vittoria alle presidenziali, che dovrebbe trainare la sua forza politica. Deve poi mettere in ordine una compagine governativa in grado di interpretare lo spartito che egli ha scritto durante questa campagna.

Ma le sue prime mosse da presidente eletto dimostrano la sua grande intelligenza e l’attenzione al rigore e alla trasparenza. Niente eccessi nel celebrare la vittoria - al contrario di Nicolas Sarkozy. Si presenta all’Eliseo con la moglie Brigitte, una coppia moderna ma anche stabile, una novità nella recente storia politica francese. Ha capito l’importanza della forma nei confronti del “paese che soffre” e si sta già muovendo per interpretare il ruolo del raffinato amatore di teatro.

Spesso in Francia si è peccato per eccesso di attese nei confronti di un presidente della Repubblica percepito come un Re taumaturgo. Emmanuel Macron ha subito indossato l’abito di monarca costituzionale della Quinta Repubblica, il che potrebbe anche riconciliare i francesi con la carica presidenziale, e, possibilmente, con la politica in generale. Auguri, Presidente!

Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI.

venerdì 5 maggio 2017

Francia. Lo scontro finale

Ballottaggio
Francia: Macron vs Le Pen, la sfida decisiva
Jean-Pierre Darnis
05/05/2017
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È stata una campagna lunga, a tratti logorante, quella che ha portato al faccia a faccia decisivo di domenica 7 maggio fra Marine Le Pen e Emmanuel Macron, al secondo turno delle presidenziali francesi.

Per quanto riguarda la Le Pen, la sua presenza è ormai percepita come normale, tanto il Front National si è affermato nelle urne negli ultimi scrutini. Il paradosso sta nell’altro sfidante, Emmanuel Macron: si presenta come il favorito mentre la sua candidatura appariva molto fragile fino a pochi mesi fa. È stata una congiunzione assai rara fra volontà politica e circostanze favorevoli quella che ha aperto la strada al candidato centrista, il quale ha beneficiato delle debolezze delle primarie sia di destra, quelle dei “républicains”, sia di sinistra, quelle del partito socialista.

Macron sulle orme di Giscard d‘Estaing
Macron realizza quindi quello che molti hanno tentato senza riuscirsi, una candidatura di centro che unisca la destra e la sinistra intorno a una piattaforma riformista, centrando l’obiettivo di Giscard d’Estaing che già voleva mettere d’accordo sul suo nome “due francesi su tre”.

Macron rappresenta un’espressione politica in piena evoluzione. Da un lato, è un compromesso anti-Le Pen: il candidato giovane che appare il migliore rifugio per il campo dei moderati impegnato a evitare un’ulteriore affermazione del candidato del Front National. Dall’altro, rappresenta una nuova cesura nella politica francese, che rimette in questione il classico bipolarismo destra/sinistra, per opporre i partigiani di un modello aperto, europeo e social-democratico, a quelli che promuovono un modello chiuso, nazionale, con forti interventi statalisti, di matrice di estrema destra ma anche di sinistra radicale.

Macron si impone quindi anche come il candidato della società aperta contro le chiusure proclamate dalla Le Pen. Ed è la miscela fra queste due dimensioni, quella di essere il campione anti-Le Pen ma anche di costituire una cesura politica al passo coi tempi, che rappresenta la forza della candidatura Macron.

Nuovi scenari per la Quinta Repubblica
Ma questo vantaggio apre scenari nuovi nel contesto della Quinta Repubblica francese. Nelle elezioni politiche, le legislative, il maggioritario a due turni appariva come una grande macchina di semplificazione che permetteva a un campo di vincere le elezioni in modo chiaro e di avere una maggioranza nell’Assemblea nazionale a sostegno di un governo.

Il perno della legge elettorale sta nella soglia del 12,5% degli iscritti che un candidato deve superare per presentarsi al secondo turno. Con tassi di partecipazione relativamente bassi, soltanto le formazioni che registravano risultati superiori al 20% dei votanti passavano al ballottaggio, nella stragrande maggioranza dei casi sinistra di governo (socialisti) contro destra di governo (républicains).

Oggi, però, la frammentazione osservata nell’ambito del primo turno delle presidenziali fa temere una relativa dispersione dei voti per le politiche. Con quattro formazioni che si aggirano intorno al 20%, possiamo pensare di avere una serie di scontri “triangolari” oppure “quadrangolari”, il che rende abbastanza improbabile che un solo partito possa raggiungere la maggioranza assoluta dei 289 seggi.

Un presidente e un ventaglio di coalizioni
Anche se il movimento di Macron, “En Marche”, potrebbe beneficiare di una vittoria del suo leader alle presidenziali, sembra difficile pensare che possa governare da solo. Il che lascia la porta aperta a eventuali coalizioni sia con i socialisti che con i “républicains”. La Francia dovrà quindi re-imparare a governare in coalizione, una prassi che risale al periodo politico precedente la Quinta Repubblica, ovvero a prima del 1958.

Così facendo, la Francia si avvicina anche alla politica tedesca o italiana, il che paradossalmente potrebbe essere portatore di un certo realismo europeo sinonimo di potenziali convergenze. Il movimento “En Marche” non ha esitato a dichiarare il suo europeismo, ovvero la costruzione di una proposta politica riformista all’interno delle istituzioni europee presentate come un valore positivo.

Anche da questo punto di vista si tratta di una svolta epocale, poiché la critica all’Europa era diventata oggetto di competizione fra una destra e una sinistra impegnate a rincorrere i populismi. La logica politica centrista offre il vantaggio di chiarire questo equivoco e di ristabilire il dibattito intorno all’Europa in un contesto pragmatico molto più sano.

Il discorso francese è stato spesso percepito, a ragione, come molto nazionalista e piuttosto diffidente nei confronti dell’Europa. È paradossale constatare che oggi, nel contesto dell’opposizione all’estrema destra, l’Europa diventa il baricentro della politica francese, uno spostamento che potrebbe potenzialmente trascinare i principali partner europei, anche tenendo conto dei calendari elettorali in Germania e in Italia.

È dunque vero che il futuro dell’Europa è in gioco nella presidenziale francese, ma per essere più precisi è in gioco la possibilità di un’accelerazione europea. Se questo succederà, molto si dovrà allo spauracchio Le Pen, non ultimo dei paradossi.

Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI.

giovedì 4 maggio 2017

Brexit: i Costi

Dai 70 ai 100 milioni di Euro.

Secondo stime approssimative questo sarebbe il costo della uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Il pagamento dei debiti Britannici all'Europa sarà uno dei nodi cruciali delle prossime trattative tra Bruxelles e Londra, che non inizieranno prima delle elezioni generali dell'8 giugno in Gran Bretagna.

Intanto i governanti britannici continuano nella loro azione di passare per vittime della burocrazia di Bruxelles e quindi di presentarsi davanti alla opinione pubblica internazionale in buona luce. David Davis, il ministro britannico per la Brexit ha dichiarato che la Gran Bretagna pagherà per l'uscita quanto dovuto legalmente, non "semplicemente ciò che Bruxelles vuole". Ha aggiunto che Bruxelles ha avviato in modo "duro ed aspro" la trattativa. Per giunta il Primo Ministro Teresa May ha aggiunto che nei negoziati sarà "durissima", Tutti dimenticano che nel febbraio 2016, alla vigilia della Brexit
accordi che facevano della Gran Bretagna una nazione privilegiata rispetto a tutte le altre ove gli obblighi erano abbattuti per oltre il 5a% e di diritti mantenuti integrali.

Quanti in Italia pensano di uscire dell'Europa dovrebbero dire come risolvono il problema del pagamento dei debiti italiani all'Europa, che, come normale, si dovranno pagare di fronte ad una Italexit. Al momento tali debiti non sono stati quantificati, ma ognuno può ben immaginare quale sia il livello.

Cercare di riversare sull'Unione Europea un errore, come quello della uscita dall'Unione, rappresenta da parte dei Governanti Britannici azioni quanto mai difficili che non fanno altro che peggiorare la situazione.

massimo.coltrinari.
(Geografia2013@libero.it)

mercoledì 3 maggio 2017

UCRAINA: sull vie legali per esistere

Battaglia legale con la Russia
Ucraina: tentativo di non spegnere i riflettori
Cono Giardullo
30/04/2017
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Si è da poco concluso il primo capitolo della rinnovata battaglia legale tra Ucraina e Russia. Questa volta il palcoscenico è stato quello della Corte internazionale di Giustizia (Cig) dell’Aja. Lo scorso gennaio l’Ucraina aveva proposto ricorso dinanzi la Cig, sostenendo che la Russia avesse violato due convenzioni: la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo (Crft) e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (Cedr). Kiev aveva richiesto anche una serie di misure provvisionali, al fine di salvaguardare i diritti che lamentava lesi dall’azione russa.

L’Ucraina non aveva altre basi giuridiche su cui fondare la controversia, dato che l’esercizio della giurisdizione della Cig, nei procedimenti contenziosi, si basa sul consenso statale, ma la Russia non ha riconosciuto come obbligatoria la giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 36 del suo Statuto. Pertanto, l’unico modo per portare Mosca dinanzi ai giudici dell’Aja era quello di fondare le pretese in merito all’applicazione di una convenzione internazionale ratificata da entrambi i Paesi.

Nonostante la vera questione sia l’uso illecito della forza da parte della Russia nell’annettere la penisola di Crimea e il presunto supporto alle repubbliche separatiste nel Donbass, l’Ucraina è stata obbligata a invocare la violazione di due trattati fondamentalmente periferici, attaccando il finanziamento del terrorismo, leggasi delle repubbliche separatiste nell’Est del Paese, e le questioni di discriminazione razziale contro l’etnia tatara e quella ucraina.

Sulle orme della Georgia, con qualche accorgimento
Che l’Ucraina prenda in prestito politici georgiani, o si ispiri alle riforme che hanno valso a Tbilisi la concessione più rapida del regime visa-free per l’area Schengen, è noto. Ma il governo ucraino si è ispirato alla Georgia anche nel presentare il ricorso alla Cig. Una controversia simile era stata, infatti, presentata dalla Georgia. La base giuridica era ancora la Cedr e la denuncia riguardava le azioni russe in Abkhazia e in l’Ossezia del Sud tra il 1992 e il 2008.

La Cig, in quel caso, giudicò la clausola compromissoria della Convenzione, cioè il tentativo di definire dapprima la controversia mediante negoziati, come non soddisfatta. Al fine di rispettare la clausola, così come quella simile prevista dalla Crft, Kiev ha ben preparato il suo ricorso, dando prova di aver a più riprese tentato di negoziare in buona fede con Mosca.

Sin dal 2014, l’Ucraina ha portato avanti parallelamente molteplici battaglie diplomatiche, che le sono già valse il supporto di tre risoluzioni del Terzo Comitato dell’Assemblea generale e dell’Assemblea stessa delle Nazioni Unite, e la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, e ricorsi a varie istanze giurisdizionali.

Sono stati aperti già cinque ricorsi inter-statali dinanzi alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo riguardo all’azione russa in Crimea e nell’Est del Paese, il primo dei quali proposto dall’Ucraina il 13 marzo 2014, tre giorni prima del referendum di annessione della Crimea alla Russia. Ma le azioni russe hanno anche generato un volume di circa 4000 contenziosi individuali, apparentemente connessi agli eventi in Crimea o alle ostilità nel Donbass.

Un altro tentativo è la dichiarazione presentata nel settembre 2015 da Kiev alla Corte penale internazionale (Cpi), che riconosce la giurisdizione con rispetto agli atti commessi sul suo territorio a partire dal 20 febbraio 2014 anche se, come già discusso, l’apertura alla Cpi non porterà alla messa in stato di accusa di cittadini russi.

Infine, l’Ucraina ha tentato anche il ricorso a un tribunale arbitrale per reclamare i diritti esercitati, prima dell’annessione, sulle acque della Crimea.

Misure provvisorie: utili o show mediatico?
L’Ucraina aveva richiesto che la Corte utilizzasse la propria autorità per intimare alla Russia di cessare le sue attività sul territorio ucraino, inclusi gli atti di sponsorizzazione del terrorismo, come l’abbattimento del volo Malaysian Airlines MH17, il bombardamento dei civili in alcune località dell’Est del Paese, o ancora il maltrattamento dei rappresentanti dell’etnia tatara e la chiusura della loro assemblea elettiva, il Mejlis, in Crimea, o la soppressione della lingua e cultura ucraina.

Mentre lo scorso marzo si sono svolti quattro giorni di serrate audizioni, in cui le due delegazioni hanno formulato le proprie posizioni giuridiche, il 19 aprile la Corte si è espressa sulle misure provvisorie e su pochi altri punti. In primo luogo, la Cig ha ricordato alle Parti che il principale strumento per la risoluzione del conflitto rimane l’implementazione degli accordi di Minsk, firmati il 12 febbraio 2015. In second’ordine, la Corte ha stabilito che le prove presentate sono sufficienti, per il momento, a stabilire prima facie la sua competenza e che le clausole compromissorie sono state, allo stesso modo, soddisfatte.

Quanto alle misure provvisionali, la Cig le ha concesse solo con riguardo alla Cedr, concludendo che rispetto alla situazione in Crimea: 1) la Russia dovrà astenersi dal mantenere o imporre limitazioni alla comunità dei tatari di Crimea quanto alle proprie istituzioni rappresentative, incluso il Mejlis; 2) la Russia dovrà assicurare l’educazione alla lingua ucraina; 3) entrambe le Parti dovranno astenersi da ogni azione che possa aggravare o ampliare la controversia dinanzi la Cig.

Di sicuro, le misure ordinate dalla Cig rivestono un significato più simbolico, e dunque politico, che pratico. L’art. 94 dello Statuto delle Nazioni Unite recita che “ciascun Membro s’impegna a conformarsi alla decisione della Cig”. Qualora il soccombente non adempia agli obblighi, l’altra parte potrà ricorrere al Consiglio di Sicurezza (CdS) dove però la Russia può disporre del potere di veto, già usato nel 1986 dagli Usa, in seguito alla famosa sentenza della Cig, che li vedeva soccombere contro il Nicaragua per le operazioni militari sul territorio dello Stato centroamericano.

A seguito della pronuncia dei giudici dell’Aja, si sono scatenate diverse reazioni politiche. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che le associazioni dei tatari di Crimea non sono ristrette in alcun modo in Russia, eccetto nei casi in cui perorino cause estremistiche. Il capo del Mejlis, Rufat Chubarov, ha invece sottolineato che la decisione della Cig è il primo passo per condurre i leader politici russi davanti la giustizia per l’aggressione contro l’Ucraina e l’annessione della Crimea. Mentre il presidente ucraino Poroshenko si è detto soddisfatto dalla presa di posizione della Cig che ha riconosciuto la Russia come parte integrante del conflitto e degli accordi di Minsk, anziché come mero intermediario.

La decisione della Cig, per ora, e in attesa che si discuta e si decida la controversia nel merito, deve esser considerata solo come un altro pezzo del puzzle del supporto internazionale che l’Ucraina si sta costruendo. I riflettori della comunità internazionale ancora non si sono spenti sull’ultimo conflitto europeo. Per quanto ancora?

Cono Giardullo lavora in Ucraina con l’Osce (Twitter: @conogiardullo).