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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 28 gennaio 2015

Grecia: il fronte di Bruxelles: Trattare o essere intransigenti

Ostaggi e riscatti 
Trattare sempre, pagare forse
Filippo di Robilant
25/01/2015
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Da una parte il fronte dei fautori della linea dura, dall’altra quello che legittima la trattativa e il pagamento di un riscatto. Questi gli schieramenti che si confrontano nel dibattito pubblico sul pagamento o meno dei riscatti, tornato in auge dopo il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo.

Evidentemente, limitarsi a posizioni "ideologiche" o di principio impedisce una discussione costruttiva sull’argomento. Introdurre qualche elemento e sfumatura in più può aiutare.

Riscatti come incentivi al terrorismo
La motivazione principale a sostegno della linea dura è che a) s’incentiva i sequestratori a rapire altre persone e b) si finanzia il terrorismo.

Allora per quale motivo i sequestratori dello pseudo “stato islamico”, pur conoscendo la politica intransigente di Londra e Washington introdotta dopo l’11 settembre, sono andati a cercare, catturare e decapitare ostaggi inglesi e statunitensi?

I paesi che sentono il dovere morale, per ragioni costituzionali o meno, di proteggere fino in fondo i propri cittadini in zone di guerra, sanno che questa posizione può portare a compromessi. Sanno anche però che il problema non si pone più in termini di una valigetta piena di soldi solamente.

Con lo “stato islamico”, già ricco grazie a una pluralità di fonti di finanziamento, c’è stato un “salto di qualità” e un cambio di direzione, con gli ostaggi usati più che altro con finalità politico-mediatiche: si vedano i casi di Steven Sotloff, David Haines, Alan Henning e Peter Kassig, ma anche quello di Hervé Gourdel, l’escursionista francese decapitato in Algeria lo scorso autunno prima ancora di poter intavolare qualsiasi trattativa perché in realtà serviva ad un gruppo locale per accreditarsi come alleato del Califfato.

Importanza della trattativa
Il primo aspetto funesto della linea dura, quindi, è che presuppone la morte dell’ostaggio. E poiché l’opinione pubblica dei paesi intransigenti è stata abituata dai propri governi a non aspettarsi altro, perché sforzarsi per salvarlo?

La scelta della Gran Bretagna e degli Usa significa questo innanzitutto: aver svalutato la “trattativa” come strumento preventivo ed essersi quindi amputati negli anni di una rete di contatti e d’intelligence - creando quello che gli esperti chiamano “systemic gaps” - al punto da doversi appoggiare, in certe aree, a quelle di altri paesi.

Qualsiasi interlocutore o intermediario è per loro “un terrorista e noi non parliamo con i terroristi”, salvo decidere come ritorsione di andare a bombardare a tappeto ed essere così trascinati nell’ennesima guerra dove la conta dei morti è ben superiore.

Ipocrisia della linea dura
Come segnalato dallo scrittore franco-americano Jonathan Littell (Repubblica, 26/11/2014), la linea dura è anche venata di notevole ipocrisia.

I suoi fautori sono ricorsi in questi anni sia allo scambio di prigionieri (per gli Usa si vedano i cinque Talebani di alto profilo in cambio di un soldato e altri casi analoghi), sia alle triangolazioni (si pensi al ruolo giocato dall’oligarca russo Boris Berezovskij per la liberazione di due operatori umanitari inglesi in Cecenia in cambio dell’asilo politico in Gran Bretagna o a quello del Qatar che allentò i cordoni della borsa per il rilascio dell’ostaggio americano Peter Theo Curtis).

Per complicare le cose, gruppi armati di piccole dimensioni catturano chiunque capiti sotto mano, frutto più di occasione che di pianificazione. Solo in un secondo tempo cercano di capire che cosa farsene.

In tali casi, decidere a priori di non trattare è poco lungimirante, quasi folle: questo deve dipendere solo dal contesto, dagli interlocutori e soprattutto dalla credibilità del mediatore.

Forse è venuto il momento per statunitensi e inglesi di rivedere la loro linea dura, - dura poi solo fino a un certo punto- e dagli esiti contraddittori.

Per gli altri invece, quelli che pagano, è giunta l’ora di mettere al bando ogni ambiguità e ammetterlo, anzi rivendicarlo, apertamente. In fondo, il vero rischio della linea morbida è di pagare un riscatto e non avere l’ostaggio in cambio. Questo sì che sarebbe da considerare un fallimento.

Filippo di Robilant è membro del Comitato Direttivo dello IAI.
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Grecia: inizia il grande duello con Bruxelles

Tsipras alla prova dei fatti
Grexit? Non per necessità economica
Alessandro Giovannini
27/01/2015
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Dopo la schiacciante vittoria di Syriza di domenica scorsa, la Grecia si sta ora dirigendo a passi sostenuti verso un governo anti-establishment guidato dal nuovo premier Alexis Tsipras, con la partecipazione dei Greci Indipendenti di Abel: un partito politicamente agli antipodi di Syriza, ma accomunato ad esso da un analogo rifiuto dell'austerità imposta dall'Ue e dal programma di aiuti finanziari sottoscritto nel 2010 con le istituzioni europee e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi).

In questo scenario, dibattere sulle ragioni, modalità e benefici di un default greco non appare più un mero esercizio intellettuale, quanto un’importante domanda di policy su cui ragionare per capire ciò che accadrà nelle prossime settimane e/o mesi.

La sostenibilità delle finanze pubbliche greche
Il rapporto debito pubblico/Pil della Grecia è attualmente pari circa al 175%: un valore minore del 230% del 2012, al di sopra di quel 120%, sopra cui il debito viene considerato difficilmente sostenibile.

Ma ciò che più rileva ai fini del dibattito attuale, è che questo risultato è stato raggiunto dopo cinque anni di politiche di dura austerity. Politiche che il voto greco ha inequivocabilmente rigettato, dal momento che il programma politico di Tsipras prevede in modo chiaro “la fine dell’austerità in Grecia”, come ribadito dallo stesso leader greco domenica sera.

Il grafico sottostante mostra, tuttavia, come nei prossimi anni già lo stesso piano della Troika preveda un graduale e discreto allentamento della politiche restrittive degli anni precedenti.

In termini di Pil, la pressione fiscale è destinata a ridursi gradualmente e anche la spesa pubblica rimarrà pressoché invariata.

Andando a leggere il dettaglio delle spese contenute nei documenti della Troika appare come le due voci di bilancio più calde politicamente (la spesa per oneri sociali e i sussidi alla popolazione) siano destinate a rimanere costanti attorno al 21% del Pil per tutti gli anni a venire. Il che equivale ad un aumento in termini nominali della spesa, dal momento che il Pil è destinato a crescere nei prossimi anni (dopo una crescita del 6.2% nel III trimestre del 2014 rispetto al trimestre precedente).

Figura 1. Le finanze pubbliche greche
Fonte: elaborazione su dati Commissione Europea.

Chi sono i creditori della Grecia?
Se questa è la situazione, però, è lecito domandarsi: è veramente così importante e necessario, per la Grecia, fare default sui debiti contratti con l’Europa e l’Fmi?

Il grafico precedente mostra come, rispettando le condizioni attualmente previste nel piano, negli anni a venire la sostenibilità delle finanze pubbliche greche appaia parzialmente assicurata: al netto della spesa per interessi (linea blu), le entrate sono maggiori dell’uscite, anche se (includendo gli interessi) la situazione è leggermente negativa.

Detto in altri termini, il debito della Grecia può gradualmente ridursi, a costo che la spesa per interessi non aumenti, anzi diminuisca leggermente.

Ma chi determina la spesa per interessi? I titoli relativi ai 320 miliardi del debito pubblico greco sono oggi ripartiti più tra i governi europei (62%, considerando sia i prestiti bilaterali che quelli del fondo salva-stati Mes), la Banca Centrale Europea (11%) e l’Fmi (10%).

Già nel 2012 Europa e Fmi avevano accordato una riduzione dei tassi di interesse su questo debito. Un’ulteriore riduzione sarebbe certamente possibile, e forse sarà una delle prime vie che verranno sondate nei colloqui tra il nuovo governo greco e la Troika.

Vale la pena tuttavia sottolineare, come tale spesa per interessi (la barra grigia del grafico precedente) è molto simile a quello che paga attualmente un altro paese europeo con un livello di debito molto più basso, l’Italia.

Perché mai quindi la Grecia dovrebbe fare default?
Se la spesa per interessi non rappresenta un problema economico così rilevante e le politiche di austerity non sono destinate ad inasprirsi nei prossimi anni (come invece è sempre successo negli anni precedenti), l’interesse della Grecia nel ristrutturare l’attuale debito sarebbe da ricercarsi soprattutto in una forte volontà politica di mostrare come il nuovo governo sia nettamente diverso da quelli precedenti. La volontà, cioè, di adottare politiche fiscali espansive e non conservative, ben distanti da quelle attualmente previste nei piani di aggiustamento.

Una ragione pienamente legittima e soprattutto legittimata dal recente voto democratico. Una ragione che, tuttavia,metterà la Grecia in una contrapposizione potenzialmente insanabile con il resto dell’Europa.

Anche ammettendo per un istante che la ridiscussione del debito avvenga di comune accordo senza far discendere da un evento così eccezionale la perdita totale del collante istituzionale che lega la partecipazione di uno stato Membro alla zona Euro, sarebbe davvero difficile per la Grecia attuare tali politiche espansive.

Anche in assenza della Troika, infatti, la Grecia dovrebbe comunque sottostare alle regole di bilancio europee che si applicano a tutti gli stati. Regole che, allo stato attuale, imporrebbero comunque alla Grecia un andamento del bilancio pubblico non troppo distante da quello attuale.

La piena adozione dei punti programmatici proposti dal neo capo di governo Alexis Tsipras, appaiono quindi condurre probabilmente verso un risultato: la ridiscussione dell’appartenenza della Grecia alla zona Euro.

Alessandro Giovannini è ricercatore della Economic Policy Unit del Centre for European Policy Studies di Bruxelles.
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Grecia: SCheda informatica per compredere le lezioni 2015

Grecia (gennaio 2015)

Situazione economica  Dal 2009 l’economica greca ha subito una contrazione del 20%  Debito: 175% GDP  Tasso di disoccupazione: 25% - Disoccupazione giovanile: 49%  Dopo 6 anni di recessione, nel 2014 si è registrato un avanzo di bilancio ed è prevista una crescita del GDP dello 0,6%, che dovrebbe arrivare al 2,9% nel 2015. Fallimento delle elezioni presidenziali  Le elezioni presidenziali si sarebbero dovute svolgere nel marzo 2015, allo scadere del mandato di Carolos Papoulias, ma sono state anticipate in risposta all’instabilità del Paese negli ultimi mesi.  La coalizione di governo, formata dal partito di centro-destra Nuova Democrazia e dal partito socialdemocratico Pasok, non è riuscita a far eleggere il suo candidato alla Presidenza (Stavros Dimas, già Commissario europeo) nei tre round di votazioni in Parlamento nel dicembre 2014. Al terzo round erano necessari 180 voti, ma Dimas ne ha ricevuti 168.  Per questo motivo, il Primo Ministro Antonis Samaras ha indetto elezioni parlamentari anticipate per il 25 gennaio. Elezioni del 25 gennaio  Si sono eletti i 300 membri del Parlamento, che è a camera unica. I parlamentari sono eletti in 56 circoscrizioni con sistema proporzionale detto ‘rafforzato’. Il mandato è di 4 anni.  Syriza, il partito di Alexis Tsipras, ha ottenuto il 36,34% dei voti, avanti di quasi 9 punti rispetto a Nuova Democrazia, partito di centro-destra dell’attuale Primo Ministro Antonis Samaras: Nuova Democrazia si è fermata infatti al 27,81%, ottenendo 76 seggi.  Il Pasok, partito socialdemocratico guidato da Evangelos Venizelos e partner di governo di Nuova Democrazia dal 2012, è crollato al 4,68%, conquistando 13 seggi.  Oltre a Syriza, Nuova Democrazia e Pasok, altri 4 partiti minori hanno superato la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento: o Alba Dorata (6,28% - 17 seggi) o To Potami (6,05% - 17 seggi) o Partito Comunista – KKE (5,47% - 15 seggi) o ANEL - Greci Indipendenti (4,75% - 13 seggi)  Il sistema elettorale greco prevede un bonus di 50 seggi per il partito che ottenga la maggioranza relativa. Con questo, Syriza è arrivato a 149 seggi: 2 in meno della maggioranza assoluta.  Nei giorni passati, si era detto che il partner di coalizione più probabile fosse To Potami, partito moderato di centro-sinistra fondato nel 2014 da Stavros Theodorakis, popolare giornalista televisivo.  Tsipras ha invece annunciato la formazione di una coalizione con ANEL, partito degli ‘Indipendenti’ di centro-destra, dichiaratamente anti-austerity. ANEL ha guadagnato 13 seggi, portando dunque la coalizione di governo ad una maggioranza di 162. Programma elettorale di Syriza  Il programma elettorale di Tsipras è naturalmente incentrato sulle politiche economiche, e in particolare sulla fine dell’austerity e la promozione di nuove politiche per la crescita e contro la disoccupazione, soprattutto giovanile.2  Una prima fase comprende una riduzione delle tasse, l’aumento del salario minimo e una serie di misure in favore delle classi più disagiate (tra cui la reintroduzione della tredicesima e la gratuità dei trasporti pubblici).  Una seconda fase consiste invece nella rinegoziazione delle condizioni dei prestiti: attualmente i prestiti erogati dalla troika alla Grecia ammontano a €240 miliardi (110 erogati nel 2010 e 130 nel 2012). Tsipras potrebbe chiedere la ristrutturazione di almeno la metà del debito. Secondo le condizioni del programma BCE+FMI+CE, l’ultima tranche degli aiuti avrebbe dovuto essere erogata a dicembre 2014, ma è stata posticipata perché la Grecia non è riuscita a raggiungere con la Commissione un accordo sul bilancio 2015. L’UE ha quindi concesso al governo greco due mesi supplementari per trovare un compromesso. Il prossimo governo dovrà quindi trovare un accordo entro febbraio per poter ricevere gli ultimi aiuti (per un ammontare di €10,8 miliardi). Speculazioni su una possibile ‘Grexit’  Il 5 gennaio Der Spiegel ha scritto che il governo tedesco non teme un’eventuale uscita della Grecia dall’euro, in quanto, grazie ai meccanismi di protezione contro gli shock creati dall’UE, i rischi di contagio sono molto minori di quanto fossero nel 2010. Ha anche aggiunto che la ‘Grexit’ sarebbe praticamente inevitabile in caso di vittoria di Syriza alle elezioni. L’annuncio ha provocato un forte aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato greci (che avevano già subito un forte rialzo a seguito del fallimento delle elezioni presidenziali e dell’annuncio di elezioni anticipate).  La cancelliera Merkel ha smentito la notizia, sostenendo che la posizione tedesca nei confronti della Grecia non è cambiata, e che l’UE continuerà quindi a sostenere l’integrità dell’unione monetaria. Ha anche affermato di essere certa che la Grecia rispetterà gli impegni presi con i creditori internazionali.  Tsipras ha annunciato che l’uscita dall’euro non è nelle intenzioni del suo partito.  Alba Dorata, Greci Indipendenti e KKE (partito comunista) sono partiti anti-austerity che potrebbero sostenere un’uscita dall’euro.  I sondaggi stimano la percentuale di greci che vuole restare nell’euro tra il 60 e il 75%.  Conseguenze negative di una possibile ‘Grexit’: le istituzioni europee (che detengono l’80% del debito sovrano greco) non vedrebbero ripagati i prestiti concessi; rischio di contagio se altri partiti europei (Podemos, Front National, Die Linke, Movimento 5 Stelle) premono per seguire il modello di Syriza.

venerdì 23 gennaio 2015

Svizzera: rapporti più difficili con l'euro

Franco svizzero
Il franco si rafforza, addio convenienza Svizzera
Cosimo Risi
20/01/2015
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Giornata fatale, il 15 gennaio, nella storia dei rapporti fra Svizzera e zona euro. Roma e Berna annunciano l’intesa sul pacchetto fiscale. La Banca nazionale svizzera (Bns) decide di lasciare fluttuare il franco rispetto all’euro.

L’intesa fiscale pone termine a conversazioni durate tre anni, fra alti e bassi, fra momenti di tensione e distensione. Protrarle avrebbe significato offuscare il clima delle relazioni bilaterali che ha conosciuto momenti alti come la visita di stato del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, l’ultima prima delle dimissioni.

Addio politica del cambio stabile
La decisione della Bns ha sorpreso solo per chi aveva creduto alle assicurazioni del Presidente. Sosterremo il cambio 1,20 Chf - 1 Euro, aveva dichiarato appena pochi giorni prima, mentre i mercati già si esercitavano nel gioco al rialzo e costringevano la Bns a riempire i forzieri di euro e stampare franchi per tenere dietro alla speculazione.

La politica del cambio stabile risale al 2011 e fu adottata e mantenuta per evitare che l’apprezzamento del franco fosse frutto soltanto di manovre speculative contro l’euro e non di autentica fiducia nella tenuta dell’economia svizzera. L’economia teneva e continua a tenere, tanto che la Svizzera macina numeri positivi anche nell’epoca della deflazione.

Il tasso di disoccupazione si attesta fra il 2 e il 3% e il tasso di sviluppo previsto per il 2015 pari a circa il 3%. Vi erano le premesse perché crescesse la domanda di franchi e, viceversa, calasse la fiducia nella moneta unica.

Le attese sono state confermate dalle parole con le quali la Banca centrale europea (Bce) ha annunciato di intervenire sul mercato dei titoli di stato e dalla tendenza al ribasso dell’euro rispetto al dollaro.

A rischio frontalieri e turismo 
Il cambio stabile non teneva più. Almeno questa è stata la valutazione della Bns che, lasciando il franco libero di fluttuare, ne ha visto l’immediato apprezzamento rispetto all’euro fino alla soglia “fisiologica” di 1 - 1.

La Borsa di Zurigo è franata sotto al crollo dei titoli industriali, le stime sulla crescita la collocano all’1,5%, la metà della percentuale attesa, per il prevedibile peggioramento della bilancia commerciale. Il 50% delle esportazioni è diretto verso l’eurozona.

L’aggravio dei prezzi nell’ordine del 20% non sarà facile da assorbire. Già si scrive di prenotazioni cancellate nel settore turistico, malgrado la stagione invernale in pieno svolgimento, e di un calo di domanda di lavoro straniero anche riguardo ai frontalieri.

Splitting fiscale
Per restare ai frontalieri, il loro regime fiscale è oggetto dell’intesa italo-svizzera del 15 gennaio. Grazie a una forma di doppia imposizione, il cosiddetto “splitting”, il lavoratore frontaliere paga una parte di tasse in Svizzera (70%) e una parte in Italia (30%), come già oggi accadeva per chi vive oltre la soglia dei 20 chilometri.

Il pacchetto fiscale dell’intesa consta di quattro capitoli: scambio d’informazioni e black list, regime fiscale dei lavoratori frontalieri, apertura dei mercati ai servizi finanziari, Campione d’Italia (per definire il regime delle imposte indirette nell'enclave italiana).

Per ciascun capitolo si sono individuate le soluzioni appropriate, alcune delle quali hanno bisogno di essere affinate. Questi aggiornamenti saranno oggetto di gruppi di lavoro che dovrebbero concludersi in parte per l’estate e comunque entro l’anno.

Le reazioni in ambedue i paesi sono generalmente positive. Oltre alla soddisfazione di avere chiuso una lunga trattativa, lo scambio di informazioni coadiuva l’applicazione della legge italiana sulla voluntary disclosure.

Cresce la pressione sui contribuenti “distratti” a regolarizzare volontariamente la loro posizione col fisco, sottoponendosi a sanzioni amministrative in misura contenuta. Un certo ammontare di euro dovrebbe entrare nelle casse dello stato grazie alla regolarizzazione, ma il cliente resta libero di conservare il deposito all’estero e non è sottoposto a sanzioni penali.

Si volta pagina. Il cambiamento sarà completo appena l’intero pacchetto sarà attuato. Alcuni provvedimenti andranno ratificati dai Parlamenti, il che allunga i tempi. Altri sono di subitanea applicazione.

Interrogativi sull’intesa italo-svizzera 
Incombe sull’intesa l’interrogativo del tasso di cambio: se e in quale misura la fluttuazione del franco influenzerà il flusso dei frontalieri e la consistenza dei depositi oltre frontiera. Alcuni analisti svizzeri ipotizzano che la valuta forte deprimerà l’occupazione e renderà meno vantaggioso l’investimento in franchi, specie nel settore immobiliare dove potrebbe scoppiare la bolla di prezzi esagerati rispetto al mercato.

Altri ritengono che il nuovo corso del franco favorirà la regolarizzazione dei capitali, poiché le sanzioni saranno compensate dall’apprezzamento della valuta. In certi casi l’operazione potrebbe avvenire a costo zero.

Per i frontalieri, l’aumento delle imposte sarà bilanciato dall’incremento del potere d’acquisto: essi sono retribuiti in franchi e spendono prevalentemente in euro. Gli esercenti delle zone limitrofe attendono frotte di consumatori svizzeri, specie nel fine settimana quando i supermercati d’oltre frontiera chiudono in anticipo.

A breve i due ministri delle Finanze saranno chiamati a firmare la parte del pacchetto che necessita di ratifica. Sarà una buona opportunità per una prima valutazione dell’intesa.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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Francia: le ferite sono profonde

Attentato alla redazione di Charlie Hebdo
Dell’intelligenza editoriale 
Cesare Merlini
21/01/2015
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La lunga coda degli assassinii di Parigi continua a ricevere attenzione dai nostri media, principalmente in relazione all’attività delle forze di sicurezza contro la galassia dei potenziali nuovi terroristi.

Due altre conseguenze meritano tuttavia una riflessione: le ricorrenti manifestazioni ostili all’Occidente - Francia in particolare - nelle nazioni a forte componente islamica e le situazioni di disagio nelle comunità di immigrati mussulmani - soprattutto nelle scuole- che sono parte oggi delle nostre società.

Revival dello scontro di civiltà
La mobilitazione a favore della libertà di opinione nella manifestazione oceanica di Parigi e in quelle minori in varie altre città è stata una vittoria per i valori democratici, ma, come spesso succede alle espressioni di massa, ha comportato delle semplificazioni. È tempo di valutarle con equilibrio alla luce delle loro conseguenze per le piazze del Medio Oriente e per le periferie delle nostre città.

Conseguenze per noi occidentali, in primo luogo. Due tesi ricorrenti hanno trovato nuova popolarità grazie agli eventi parigini: quella della guerra globale al terrorismo di G.W, Bush e quella dello scontro di religione o di civiltà che ha genitori illustri come Oriana Fallaci e Samuel Huntington.

Sono tesi fuorvianti. Il terrorismo non è un attore politico, come deve essere un nemico, ma un metodo di azione politica, come è la guerra secondo l’insegnamento di von Clausewitz. Ora non si fa la guerra alla guerra (anche se certo pacifismo vorrebbe farlo). Il metodo terroristico è oggi prevalentemente usato dai jihadisti, ma come ben sappiamo ha avuto diversi cultori. E altri ne avrà.

Quanto alla guerra di religione, averla messa alle nostre spalle fa parte dello stesso patrimonio europeo celebrato sugli Champs Èlysées, quello illuminista. Come ha detto Amos Oz, “la piaga del ventunesimo secolo non è l’Islam, ma il fanatismo. Gli assassini di Parigi hanno molto più in comune con i cristiani violenti e gli ebrei razzisti che con i mussulmani pacifici”. Con lui, altri illustri commentatori hanno contestato la retorica dello scontro di civiltà, così come quella della guerra al terrorismo.

Etica della responsabilità
C’è un terzo effetto che merita considerazione e riguarda soprattutto noi europei. Ce ne offre lo spunto una certa differenza nelle valutazioni che delle vignette di Charlie Hebdo hanno fatto gli anglosassoni rispetto a quelle dei francesi, con gli italiani (e i cattolici) in posizioni miste fra le due.

La riserva dei primi a sentirsi impegnati nella difesa della libertà di espressione in forma di umorismo insultante non ha radici solo in un puritanesimo rispettoso, ma anche nell’abitudine di avere responsabilità internazionali, in ragione delle quali non ci si fa dei nemici inutilmente.

Subito dopo l’assalto al settimanale parigino, il direttore del Financial Times ha parlato di una sua “stupidità editoriale”, salvo poi togliere la frase dal testo pubblicato in linea con l’indignazione generale - le semplificazioni di cui sopra. Anche testate come il New York Times o il tedesco Die Zeit non sono state esenti da disagio nel dirsi solidali con i vignettisti.

La comicità dissacrante può essere sintomo di maggiore libertà, ma anche di minore responsabilità. I francesi dovrebbero fare una riflessione in proposito, e noi altri europei con loro. La fortuita contemporaneità delle vignette “blasfeme” di Charlie Hebdo e del libro di Michel Huellebecq dal significativo titolo“La sottomissione” (all’Islam) denota un misto di arroganza e di insicurezza.

Il successo personale che il presidente François Hollande ha tratto al momento dalla vicenda non deve nascondere che la posizione internazionale della Francia ne risente, e con essa il resto dell’Unione europea.

Islam e Occidente
Non minori sono le conseguenze di certe nostre semplificazioni per le dinamiche del mondo islamico, sia quello a noi esterno degli stati sia quello a noi interno dei cittadini immigrati. È sotto gli occhi di tutti come presso gli uni e gli altri la pianta del risentimento sia coltivata, in un terreno già reso propizio da altre circostanze, ai fini di alimentare il reclutamento degli estremisti in seno ad un Islam profondamente diviso.

Vi sono altri effetti importanti, quale il rendere ancora più arduo il compito dei pochi e sparsi riformisti, siano essi quelli politici e istituzionali della piccola Tunisia sopravvissuta al fallimento delle “primavere arabe” o quelli religiosi di un clero destrutturato e diviso alle radici.

Oppure offrire ulteriori spazi di ambiguità ai regimi più o meno autocratici che in qualche forma di alleanza sono collegati all’Europa e agli Stati Uniti. Ciò vale in particolare per le monarchie del Golfo, spesso fonte di denaro più o meno diretta per i gruppi jihadisti, ma sembra valere anche per una Turchia in via di allontanamento dall’ipotesi di integrazione con l’Europa.

Anche da parte musulmana vi sono semplificazioni strumentali, ovviamente. La lettura distorta dei testi per giustificare sotto forma di condanna religiosa atti, interventi e violenze che sono di potere politico, economico ed etnico ne è l’esempio più eclatante.

Alle luce della nostra storia occidentale non dovremmo faticare a capirlo. Questo però non ci esime dal valutare i limiti della convenienza e del rispetto dell’altro, che in una qualche misura l’altro stesso ha titolo di tracciare intorno a sé. Quando si visita una moschea ci si toglie le scarpe, non per sottomissione. Non è questione di censura, ma di “editoria intelligente”.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
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Germania: sempre in evidenza la xenofobia tedesca

Germania
Pegida, genesi di un movimento anti islamico
Eugenio Salvati
20/01/2015
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Forti accenti xenofobi e anti islamici. Sono questi i tratti distintivi della piattaforma politica che sta facendo interrogare la Germania.

Il movimento Pegida, Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente), è nato a Dresda pochi mesi fa su iniziativa di Lutz Bachmann, il proprietario di un’agenzia di pubbliche relazioni con alle spalle una lunga serie di precedenti penali.

L’onda di risentimento anti stranieri che ha trovato espressione in Pegida nasce tramite una pagina facebook che nel corso del tempo ha visto crescere esponenzialmente i propri contatti.

Secondo un recente sondaggio il movimento sembra attirare molta simpatia nei Länder dell'est, gli stessi dove è stato considerevole il successo di Alternative für Deutschland (Afd), mostrando che le regioni della ex Ddr appaiono sensibili al richiamo di proposte politiche più estreme.

Il luogo natale di Pegida, Dresda, è però tra le città tedesche con il più basso numero di immigrati e di residenti musulmani e lo stato federale della Sassonia - con solo lo 0,4% di popolazione musulmana - ha accolto appena 12.000 dei 200.000 richiedenti asilo arrivati nel 2014.

Pegida contro gli immigrati
Leggendo i temi trattati sulla pagina web e il “manifesto” costitutivo del gruppo, sembra che Pegida raccolga un seguito variegato e che abbia messo in collegamento settori più o meno organizzati della destra radicale, hooligans del calcio e semplici cittadini preoccupati dal numero di immigrati presenti in Germania e dall’aumento dei rifugiati provenienti da zone di guerra del Medio Oriente (in particolare dalla Siria).

Il consenso che si sta coagulando attorno al movimento appare in crescita e in particolare la partecipazione alle marce di protesta, scandite dallo slogan “Wir sind das Volk” (noi siamo il popolo), ha visto un incremento dei partecipanti arrivando a toccare la ragguardevole cifra di 18 mila aderenti alla manifestazione svoltasi a Dresda il 5 gennaio.

La successiva marcia del 12 gennaio, avvenuta sempre a Dresda, ha accolto 25mila persone che hanno manifestato contro l’Islam e in memoria dei redattori di Charlie Hebdo.

Appare difficile definire con chiarezza quali siano gli obiettivi del movimento data la natura abbastanza confusa e variegata delle rivendicazioni e la scarsa propensione al dialogo con la stampa.

Quel che è evidente, accanto alla matrice anti islamica, è la contrarietà al ruolo svolto dall’Unione europea nel campo delle politiche sull’immigrazione, la richiesta di controlli più stringenti sui flussi migratori, il rimpatrio dei rifugiati nei loro paesi di origine, l’obbligo per gli immigrati di parlare tedesco anche nei luoghi privati e l’espulsione di tutti gli stranieri che compiono reati in territorio tedesco.

Deciso è anche il contrasto alla politica di asilo politico considerata una “pericolosa minaccia contro la cultura tedesca” in grado di mettere a rischio la germanicità del paese.

In campo con una Germania aperta
Indipendentemente dal futuro che avrà Pegida, ossia se sarà destinata a svanire o a crescere - magari presentandosi come partito in qualche competizione elettorale -, è indubbio che la capacità dimostrata dal movimento nel mobilitare un numero ragguardevole di cittadini attorno a una piattaforma politica xenofoba e di estrema destra, abbia suscitato la preoccupazione e la dura reazione dell’opinione pubblica, dei partiti politici e delle comunità religiose (in particolare quelle islamica ed ebraica).

Angela Merkel si è affrettata a ricordare la natura aperta e inclusiva della società tedesca, mentre gli ex cancellieri socialdemocratici Helmut Schmidt e Gerard Schröder hanno lanciato una campagna anti-Pegida denunciando la natura razzista, intollerante e anti democratica del movimento.

A questa campagna hanno aderito numerosi ministri del governo Merkel come Sigmar Gabriel, Frank-Walter Steinmeier, Wolfgang Schäuble, Ursula von der Leyen e personaggi dello sport come Oliver Bierhoff.

Accanto alle prese di posizione ufficiali ci sono state anche delle manifestazioni spontanee nate con l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli incontri promossi da Pegida: è questo il caso, ad esempio, delle 5.000 persone scese in piazza a Berlino oppure delle 22.000 che hanno manifestato per le strade di Stoccarda, Munster e Amburgo.

A Colonia le autorità hanno addirittura provveduto a spegnere le luci della Cattedrale in segno di protesta contro l’estremismo di Pegida.

Pericolo per il sistema politico tedesco?
Il fermento che si è mosso attorno a Pegida sta a significare che il clima di risentimento e di paura verso gli immigrati, che negli ultimi anni è cresciuto in tutta Europa, è arrivato anche in Germania.

Se le elezioni politiche del 2013 sembravano averci detto che la Cdu-Csu era in grado di presidiare il lato destro dello schieramento politico, evitando la mobilitazione di recrudescenze di estrema destra, il risultato delle elezioni europee, delle successive elezioni regionali e la crescita di consenso per gruppi come Pegida, sono le spie di un pericoloso aumento di consenso per i gruppi e i partiti che - a vario titolo - si collocano alla destra dei cristiano democratici della Cdu.

Questo variegato schieramento possiede una certa capacità nel mobilitare consenso per un’area politica che per molti anni è apparsa dormiente nel sistema politico tedesco.

Bisognerà capire se il movimento riuscirà a saldare la propria posizione con quella di Afd, il movimento nato su una piattaforma euroscettica, ma che nell’ultimo anno, forte dei successi elettorali, sembra aver spostato ancora più a destra la propria proposta politica.

Eugenio Salvati è Dottore di Ricerca in Scienza Politica, Università di Pavia.
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Una attenzione maggiore nel controllo dei bilanci nazionali

Unione europea
Commissione più sensibile alla flessibilità
Ferdinando Nelli Feroci
19/01/2015
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Novità importanti in materia di attuazione degli strumenti di controllo dei bilanci nazionali, contenuti nel Patto di stabilità e crescita. A presentarle è stata, il 13 gennaio, la Commissione europea.

La Comunicazione, come chiarito con evidente insistenza dalla Commissione, non intende modificare la normativa vigente, ma semplicemente introdurre dei criteri interpretativi che consentano una maggiore flessibilità nelle regole che presiedono ai controlli su deficit e debiti pubblici, tenendo conto in particolare di tre obiettivi:
1) l’esigenza di non penalizzare alcune categorie di investimenti pubblici;
2) l’opportunità di incentivare le riforme strutturali;
3) la necessità di valutare in maniera più accurata le condizioni del ciclo economico.

Investimenti pubblici e riforme strutturali
Per quanto riguarda gli investimenti pubblici, è prevista la possibilità di un parziale esonero dal calcolo del deficit (in effetti consentendo temporanee deviazioni dalla traiettoria di riduzione del deficit) per:
1) i contributi degli stati membri al Fondo europeo per gli investimenti strategici, Efsi ;
2) i co-finanziamenti nazionali a singoli progetti finanziati dall’Efsi;
3) i co-finanziamenti nazionali per i progetti finanziati dai fondi strutturale europei.

Spostandosi alle riforme strutturali, si propone una apposita clausola che consente ugualmente una temporanea deviazione dall’obiettivo di riduzione del deficit per quei paesi che si impegnano nell’attuazione di riforme strutturali particolarmente significative, destinate ad avere un impatto verificabile e monitorabile sulla crescita e sulle finanze pubbliche.

Infine per quanto riguarda l’obiettivo di una presa in considerazione delle condizioni del ciclo, la Comunicazione propone una “matrice” che consentirà alla Commissione di modulare la richiesta di riduzione del deficit strutturale, correlando la dimensione di tale riduzione all’andamento del ciclo nel paese interessato, così da consentire di chiedere riduzioni del deficit strutturale più significative - in presenza di una congiuntura economica positiva - e progressivamente meno significative in presenza di condizioni di recessione o bassa crescita.

Nuove clausole di flessibilità
Con l’evidente obiettivo di respingere eventuali critiche che potrebbero venire dai sostenitori più radicali del rigore di bilancio, la Commissione si è premurata di dimostrare che ognuna di questa clausole è consentita dal dispositivo del Patto attualmente in vigore. Le nuove clausole interpretative si collocano in un contesto di diritto costante e di regole in teoria inalterate.

La Comunicazione contiene numerose precisazioni che definiscono le condizioni di applicabilità delle clausole di flessibilità.

A seconda che si tratti di paesi che si trovano nella parte preventiva o nella parte correttiva del Patto, la Comunicazione introduce una importante distinzione dell’applicazione delle clausole. Sono precisazioni e distinzioni che in varia misura circoscrivono gli effetti delle innovazioni introdotte dalla Commissione.

Al di là delle complessità interpretative e dei vari tecnicismi, la Comunicazione segna una significativa soluzione di continuità rispetto al passato.

Essa infatti codifica (a uso esclusivo della Commissione che non dovrà sottoporre questi criteri al giudizio degli Stati membri), nuovi criteri destinati a regolamentare il ricorso a quella flessibilità che era invocata da molte parti; introduce una maggiore discrezionalità nella applicazione del Patto di stabilità e sottrae l’attuazione di quest’ultimo all’arbitrio di negoziati più o meno sotterranei fra Commissione e stati membri.

Attuazione più intelligente del patto di stabilità
Sicuramente qualcuno giudicherà queste proposte ancora troppo timide e insufficienti. Altri considereranno che nei fatti tradiscono lo spirito delle recenti riforme del Patto di stabilità (che avevano appesantito le regole e i vincoli sui bilanci nazionali).

Personalmente ritengo che, date le circostanze (che sicuramente non consentono una revisione più drastica delle regole vigenti) queste idee siano un utile passo avanti verso una attuazione più intelligente del Patto di stabilità; e verso una interpretazione e attuazione dei processi di aggiustamento fiscale più coerente con la realtà di una economia europea che ancora stenta a riprendersi.

Pur costituendo un’apertura concettuale non indifferente, la clausola sugli investimenti è forse quella meno significativa. Non solo è circoscritta (siamo ben lungi dalla “golden rule” invocata da molti soprattutto in Italia), ma è anche di limitato utilizzo.

In una certa misura è già stata anticipata da precedenti comunicazioni della Commissione. La clausola sulle condizioni del ciclo, per quanto possa apparire come una applicazione di un elementare criterio di buon senso, era però tutt’altro che scontata fino a qualche settimana fa.

Costituisce la novità di maggiore impatto anche immediato (lo si dovrebbe verificare entro marzo quando la Commissione esaminerà le leggi di bilancio dei Paesi membri così come approvate dai rispettivi parlamenti).

E infine la clausola sulle riforme strutturali (la più importante, ma anche la più difficile di attuare) corrisponde a quell’obiettivo, da tutti condiviso, di collegare politiche di bilancio e politiche di riforma, incentivando le riforme con la flessibilità, secondo quel “trade off” che in passato non si era riusciti a realizzare con lo strumento dei “contractual arrangements”.

Giudizio quindi positivo, anche se c’è da chiedersi se tutto questo sarà sufficiente. La risposta è negativa. Non saranno queste modeste aperture in tema di flessibilità, da sole, a fare la differenza. Sono però idee che si muovono nella giusta direzione, che testimoniano una diversa sensibilità della nuova Commissione.

Parte del merito va anche al ruolo svolto dal governo italiano che, sfruttando anche il semestre di Presidenza, aveva collocato questo obiettivo tra le sue priorità.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.
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lunedì 19 gennaio 2015

Frontiere: il "limes" di nuovo da controllare?

Europa
Schengen e la difesa dalle minacce del terrorismo
Giuseppe Licastro
18/01/2015
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Le preoccupazioni scaturite dagli attentati di Parigi hanno suscitato diverse reazioni riguardo alle misure da adottare per difendersi dalle minacce di possibili azioni terroristiche.

Il “dibattito” (ancora una volta) si sta concentrando prevalentemente sull’opportunità di modificare l’attuale regime concernente la gestione e il controllo dello spazio Schengen nonché di attivare il “meccanismo” che consente di ripristinare (secondo alcuni stati opportunamente) il controllo di frontiera alla frontiera interna.

Controllare le frontiere interne
La possibilità di ripristinare immediatamente detto “meccanismo” appare una misura concretamente praticabile: occorre opportunamente evidenziare che recentemente il Regolamento (Ue) n. 1051/2013 ha apportato modifiche rectius perfezionando ulteriormente le condizioni e le procedure per ripristinare i controlli alle frontiere interne in circostanze ritenute eccezionali (v., particolarmente, l’art. 25 del citato regolamento).

Queste procedure erano già state regolate (sempre all’art. 25) dal Regolamento (CE) n. 562/2006 istitutivo del codice frontiere Schengen, ossia un testo teso appunto “a stabilire un effettivo ‘Codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone’”.

Il testo del suddetto Regolamento consta di due parti: una dedicata al controllo delle frontiere esterne (v. titolo II) e l’altra sulle frontiere interne (v. titolo III) (cfr. la corposa proposta doc. COM(2004) 391 definitivo, del 26 maggio 2004, p. 4 ss.).

Questo codice infatti aveva (anche) abrogato - ossia sostituito con le pertinenti disposizioni ivi contemplate - la procedura (all’epoca) stabilita ai sensi dell’art. 2, par. 2 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen dal documento SCH/I (95) 40, 6° rev. approvato dalla decisione SCH/Com-ex (95) 20, 2° rev. (cfr. Guce n. L 239 del 22 settembre 2000, rispettivamente, p. 134 e p. 133) del Comitato esecutivo del 20 dicembre 1995.

Ripristinare i controlli lungo le frontiere interne potrebbe però vanificare il significato stesso di un principio espressione di un certo senso di affidamento, il principio di solidarietà, che incide nell’ambito della corretta gestione integrata delle frontiere.

Il catalogo Schengen (Ue), concernente anche i controlli alle frontiere esterne, che contiene raccomandazioni e migliori pratiche (del 19 marzo 2009) “rammenta” proprio nell’incipit della prima parte dedicata ai controlli alle frontiere esterne, segnatamente nel contesto della disamina del concetto di Gestione integrata delle frontiere (Gif), concetto fondamentale nel processo di integrazione europea in questo delicato e complesso settore, che “nell’attuazione della gestione delle frontiere, occorrerebbe tener presente che gli Stati membri effettuano controlli alle loro frontiere esterne per se stessi, ma anche, allo stesso tempo, per gli altri Stati membri Schengen” (cfr. p. 8).

Collaborare contro la criminalità transfrontaliera
Occorrerebbe, invece, privilegiare in questo momento di particolare allarme l’attività di “individuazione e investigazione della criminalità transfrontaliera” (intesa in senso piuttosto ampio) nonché di “cooperazione tra servizi preposti alla gestione delle frontiere”.

Più in particolare, occorrerebbe quindi avviare, nell’ambito delle suddette attività che rientrano appunto nel quadro di determinati “elementi” considerati “elementi chiave della corretta applicazione della gestione integrata delle frontiere” sempre dal succitato catalogo Schengen (Ue) (ivi, p. 8 ss.), l’istituzione di peculiari forme di cooperazione mirate, al fine di garantire proprio la “sicurezza interna degli Stati membri”, mediante lo scambio di informazioni (“opportunità” espressamente esplicitata all’art. 16, par. 1 del codice; il testo qui).

Questo potrebbe costituire non solo una valida fase iniziale di “orientamento” della cooperazione tra gli Stati membri, ma anche lanciare un chiaro segnale di coesione.

Giuseppe Licastro è Dottore in giurisprudenza (profilo consultabile qui).
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Francia: capofila della lotta al terrorismo

Attentato alla redazione di Charlie Hebdo 
La Francia da vittima a leader
Jean-Pierre Darnis
13/01/2015
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Anche se gli attentati compiuti a Parigi sono di minore entità rispetto a quello alle Torre Gemelle, a livello simbolico ci troviamo davanti a qualcosa di paragonabile all’11 settembre.

Le differenze con l’attentato di New York non riguardano soltanto la portata degli atti terroristici parigini, ma anche il modus operandi: mentre negli Stati Uniti una rete internazionale di terroristi aveva realizzato un sofisticato piano di attacco, mobilitando un’importante rete di sostegno, a Parigi si tratta di cittadini francesi con un passato di delinquenti convertiti all’Islam radicale che sembrano membri di una rete molto più lasca.

Sarà anche importante capire se la decisione di passare all’atto criminale è stata autonoma o manovrata.

Possiamo quindi formulare l’ipotesi di trovarci in un caso intermedio tra quanto accaduto nel 2011 nell’isola norvegese di Utoya - dove un individuo isolato psicopatico ha commesso un massacro, invocando anche motivi ideologici - e attentati organizzati da una rete terroristica che ha bersagli precisi nell’ambito di una strategia di destabilizzazione.

Rischio emulazione 
È ovvio che la natura mista di questo terrorismo e l’autonomia di questi criminali - che in una certa misura appaiono come “lupi solitari” - rendono complessa la loro individuazione.

Questo modus operandi pone anche il problema di un’emulazione autonoma da parte di individui che possono condividere i fini terroristici (“lotta contro gli infedeli”, “martiri”), seguendo anche il richiamo all’azione violenta proveniente da alcuni siti di propaganda terroristica di matrice islamica.

Esiste quindi un alto rischio che si possano ripetere attacchi analoghi contro bersagli occidentali, sul territorio europeo o altrove.

Bisogna anche soffermarsi sulla portata simbolica degli attentati di Parigi. Quello perpetrato contro la redazione di Charlie Hebdo ha suscitato una mobilitazione inedita in Francia e per la Francia. Il massacro di giornalisti e vignettisti rappresenta in primis un colpo al settore giornalistico. Questo spiega anche la copertura data dagli stessi media alla notizia.

Charlie Hebdo rappresenta inoltre un filone culturale particolare di critica al potere e alle religioni che, anche se di stampo anarchico-libertario post 68, viene percepito come un patrimonio comune dall’insieme della società.

Alcuni disegnatori (Cabu, Wolinski) o collaboratori (Bernard Maris) erano anche delle personalità pubbliche. Questo ha reso il massacro particolarmente traumatico. L’attentato a Charlie Hebdo investe infatti alcune questioni tra le più sensibili della società francese contemporanea.

Tra libertà di espressione e blasfemia
Charlie HebdoL riflette una tradizione libertaria che rivendica una libertà di espressione, irriverente e assoluta, e di critica contro qualsiasi potere temporale e non. Il che le aveva già procurato una serie di processi. Né erano mancate minacce e atti intimidatori.

Nel 2011 la rivista aveva subito un incendio criminale in seguito alla pubblicazione di una serie di caricature del profeta Maometto. La rappresentazione caricaturale del Profeta rappresentava da vari anni una fonte di guai per il giornale, che veniva continuamente minacciato di rappresaglie.

Ciononostante, la testata era andata avanti, diventando la bandiera di una libertà di espressione che non intende chinare il capo di fronte a nessuno.

Il giornale rappresenta una posizione atipica, a suo modo paradossale: quella di una voce ultra laica, che si inscrive nella tradizione anti-razzista, ma che viene anche percepita da alcuni come anti-musulmana perché fortemente critica e spesso blasfema della religione.

Queste critiche all’operato del giornale, che sono al centro delle motivazioni di coloro che hanno compiuto l’attentato, provengono molto spesso da altre parti del mondo, ma hanno un’eco marginale in Francia.

In un primo tempo, la notizia che i criminali avessero colpito Parigi nel nome della difesa del sedicente “califfato” ha fatto temere un’involuzione della situazione politica francese con un possibile ostracismo nei confronti dei musulmani e l’inevitabile rafforzamento dell’estrema destra.

Nazionalismo e Islam
L’esclusione del Front National dalla manifestazione parigina di domenica rafforza la posizione di un partito che si presenta come escluso dal sistema.

Il rischio è di un ripiegamento nazionalistico: che la Francia cerchi di superare la crisi recuperando una sovranità e un potere che considera persi. Con il complemento di un pericoloso dibattito sull’identità francese combattuto tra due poli: nazionalismo e Islam.

Una Francia che si erga a campionessa dei diritti umani e della libertà di espressione può condurre a questo tipo di isolamento intellettuale. Soprattutto se Parigi pretendesse di giocare questo ruolo al di fuori del contesto della cooperazione internazionale, con un’impronta di “purezza” interna e di “realpolitik” esterna difficilmente conciliabili.

D’altro canto, la forte emozione scatenata dall’attentato a Charlie Hebdo ha prodotto una mobilitazione notevole che potrebbe segnare una ripresa del sentimento di appartenenza collettiva.

Per certi versi questi attentati interrompono una lunga crisi politica durante la quale il potere politico francese sembrava aver perso ogni leva. I politici sembravano presi solo dalla competizione per le prossime presidenziali.

L’unione nazionale e la partecipazione di così numerosi capi di stato e di governo alla marcia di Parigi hanno di fatto cambiato il clima politico, mettendo in luce le connessioni dei problemi francesi con la dimensione europea e internazionale.

La Francia ha ora nuove responsabilità, anche nei confronti di una comunità ebraica bersaglio di ripetuti attacchi. Anche il presidente Francois Hollande sembra stia recuperando un po’ della sua immagine.

Possiamo quindi augurarci che una così vasta solidarietà internazionale nei confronti della Francia la incoraggi a ricercare soluzioni internazionali condivise con i partner europei per la lotta al terrorismo e, più in generale, per le politiche di sicurezza.

Il bivio è fra un ripiego nazionalistico e la ripresa di una visione di leadership politica positiva. Speriamo che la Francia, da anni passiva nello scenario europeo, sappia far leva sulla dimostrazione di saggezza del suo popolo e sulla solidarietà internazionale per rilanciare questo suo ruolo di leadership più che mai necessario, smentendo le visioni di uno “scontro di civiltà” al suo interno.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all’Università di Nizza e vice direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
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mercoledì 14 gennaio 2015

Scozia e Catalogna: il vento del separatismo soffia sempre più freddo

Venti indipendentisti in Europa
Addomesticamento della secessione 
Anna Mastromarino
29/12/2014
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Al di là degli esiti delle consultazioni sulla secessione di Scozia e Catalogna, questi eventi impongono una riflessione che faccia luce sugli evidenti cambiamenti all’interno dell’istituto della secessione.

Cambiamenti che si arricchiscono di senso se letti alla luce del contesto europeo in cui l’esperienza scozzese e catalana sono inserite, ma che più in generale possono essere ricondotti a ragioni geo-politiche che esulano dall’ambito dell’Unione.

Dibattito attorno all’indipendentismo scozzese e catalano 
Il dibattito dottrinale, ma anche politico, che è andato alimentandosi attorno alle iniziative indipendentiste nel Regno Unito e in Spagna è infatti la plastica rappresentazione di un modo nuovo di intendere la secessione, ben delineato nel 1998 dalla Corte Suprema canadese, invitata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di un’eventuale secessione del Quebec dalla federazione.

Al di là delle indicazioni minute, ciò che è rilevante ai fini delle nostre brevi note è l’intenzione del Giudice canadese di formalizzare un percorso, che ha trovato successivamente avallo anche in ambito internazionale, in grado di condurre alla separazione di una porzione di territorio nazionale attraverso un percorso istituzionale predefinito a priori, anche quando il diritto alla secessione non sia espressamente previsto in Costituzione.

A partire dalla pronuncia canadese (Reference re Secession of Quebec [1998] 2 S.C.R. 217) si è assistito, così, al tentativo di procedere al progressivo addomesticamento di un evento extra ordinem quale la secessione.

Per arginare la forza dirompente delle rivendicazioni di indipendenza il diritto, attraverso la giurisprudenza costituzionale, ha tentato di intervenire, quasi clandestinamente, insinuandosi in uno spazio che è pre-giuridico, al fine di codificare un processo costituente, introducendo un’inconsueta categoria di secessione, quella negoziata, che va ad affiancarsi a quella unilaterale, espressione di un atto sovrano originario.

Divisione piuttosto che secessione
Evidenti le ricadute concettuali: la stessa terminologia cambia, sino a condizionare il ricorso a una categoria classica come quella di autodeterminazione dei popoli, al cui uso pare essere preferito, quello di “diritto a decidere”, più neutro e soprattutto elaborato ex novo e, dunque, non riconducibile ad altre esperienze geograficamente e storicamente connotate, come nel caso della decolonizzazione.

Un restyling concettuale e un maquillage linguistico che puntano insomma ad attutire gli effetti della secessione, rendendola un atto giuridico costituito prima che costituente. Una rivisitazione dell’istituto che si è spinta sino a ipotizzare la progressiva sostituzione del vocabolo secessione, il cui etimo rimanda a un atto unilaterale di allontanamento e separazione, con quello, a esempio, di divisione, che parrebbe rinviare ad un processo di ripartizione secondo regole predefinite.

Attraverso il ricorso a un concetto originale, quello di diritto a decidere, che nuovo non è dal punto di vista sostanziale, si giunge persino a ipotizzare il consolidamento di una nuova opzione di secessione teoricamente sopportabile da parte del diritto internazionale: quella riconducibile alle aspettative di quei popoli che, non avendo vissuto un passato caratterizzato da dipendenza coloniale ritengono di aver diritto a godere di piena indipendenza costituendosi in Stato.

È in questa prospettiva che devono essere letti i casi scozzese e catalano, che, come quello del Quebec, si collocano in un contesto di democrazia consolidata e dunque non paiono poter essere riconducibili ai paradigmi del diritto internazionale.

Euro-sciovinismo 
Ma c’è di più.

Il fatto che tanto i movimenti indipendentisti scozzese e catalano abbiamo manifestato un rilevante euro-sciovinismo caratterizzato dal desiderio di permanere all’interno del progetto europeo (resta da capire se per sincero spirito europeista o strategicamente, al fine di arginare i rischi cui un piccolo Stato incorre confrontandosi con una dimensione globalizzata).
Che i moti indipendentisti abbiano preso piede soprattutto in corrispondenza di territori economicamente forti, al di là del cliché del popolo oppresso che aspira all’autogoverno.
Che evitando di emettere pareri preventivi, si sia lasciato intendere che una secessione concordata potrebbe condurre al successivo riconoscimento del nuovo Stato da parte delle istituzioni europee, aprendo la strada alla richiesta di ammissione all’Unione europea.
Tutto ciò porta a porsi alcuni interrogativi.

L’Unione può ancora dirsi indifferente all’eventuale evolversi di processi di secessione in seno al suo territorio? Quali effetti possono causare tali processi di secessione, quando concordati? Possono davvero essere assorbiti dall’Unione senza determinare conseguenze implosive sulla sua tenuta?

Non si tratterebbe, infatti, di definire il rapporto fra Unione e secessione in termini di legittimità quanto piuttosto di valutare in pratica la compatibilità delle prospettive che la categoria della secessione concordata apre rispetto alla filosofia che anima il progetto di integrazione europea.

Anna Mastromarino è ricercatrice di Diritto pubblico comparato, Università di Torino.
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Italia: un primo bilanco della Presidenza Europea

Presidenza italiana dell’Ue
Semestre breve, sfortunato e limitato 
Gianni Bonvicini
26/12/2014
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Il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea (Ue) si è chiuso con il Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre. Si è trattato di un semestre breve, poiché il secondo dell’anno sconta il blocco delle attività dell’Ue ad agosto e le lunghe vacanze natalizie.

Fare un bilancio si dimostra più difficile del solito per un paio di altre ragioni. La prima è che, malgrado la grande enfasi che il mondo politico e i mass media italiani hanno dato a questa nostra responsabilità, i semestri di presidenza contano oggi sempre meno.

Il sistema di rotazione semestrale è stato fortemente limitato dal Trattato di Lisbona che ha optato per una presidenza “permanente” dello stesso Consiglio europeo, oggi guidato dal polacco Donald Tusk, e del Consiglio affari esteri gestito per i prossimi 5 anni dall’Alto rappresentante per la politica estera, la nostra Federica Mogherini.

La seconda ragione è che l’Italia ha avuto la “sfortuna” di trovarsi a gestire un semestre privo di interlocutori istituzionali all’inizio della legislatura: la nomina della nuova Commissione e delle altre cariche al vertice dell’Ue hanno occupato quasi l’intero periodo a disposizione.

Crescita, Mogherini e Triton
Il giudizio è quindi parziale. In ogni caso, è possibile affermare che almeno tre messaggi positivi sono passati: l’avere messo al primo posto dell’agenda dell’Unione il tema della crescita; l’essere riusciti ad ottenere la nomina di Mogherini con l’obiettivo di riportare l’attenzione dei nostri soci baltici e scandinavi sul Mediterraneo e non solo sull’Ucraina; avere portato a casa il parziale risultato di un’operazione comune, Triton, per la gestione dell’immigrazione.

Quello che ci interessa è però mettere in luce un limite politico/istituzionale nel pensiero del nostro governo, in particolare di Matteo Renzi, che potrebbe avere effetti negativi ben al di là del semestre di presidenza. Limiti legati ad una scarsa conoscenza della logica con cui funzionano gli organismi comunitari.

Attacchi di Renzi alla Commissione Juncker
Ci riferiamo ai reiterati e in alcuni casi furiosi attacchi di Renzi all’operato della Commissione, tanto da obbligare il nuovo presidente Jean Claude Juncker, subentrato all’inconsistente Barroso, a dichiarare che a Bruxelles non opera “una banda di burocrati”.

Prendersela con la Commissione è in effetti uno sport che accomuna i nostri partiti di opposizione, dai grillini ai leghisti, e che è diffuso anche in altri paesi dell’Ue, soprattutto fra quelli che hanno da farsi perdonare qualcosa. Che poi lo faccia anche chi ha il compito di presiedere il semestre di turno è piuttosto grave.

Va infatti fatto notare al nostro premier che la Commissione esercita grandi poteri di controllo su come si comportano (spesso male) gli stati membri, ma che questi poteri le vengono attribuiti da decisioni prese dal Consiglio europeo: cioè dallo stesso organismo cui partecipa Renzi.

Oggi non vi è foglia che si muova nell’Ue senza che essa passi al vaglio del Consiglio dei capi di governo e dei loro ministri. Inutile quindi prendersela con l’esecutivo di Bruxelles. Sarebbe piuttosto il caso di lavorare per rendere i meccanismi decisionali europei più trasparenti e legittimi.

Ue, sistema di governo cercasi
In effetti il problema centrale che l’Ue si trova oggi ad affrontare non è tanto la persistente crisi economica o l’eccesso di regole attraverso le quali si cerca di gestirla, quanto la mancanza di un sistema di governo cui fare risalire le decisioni politiche.

Nei fatti, come abbiamo detto, è il Consiglio europeo a rappresentare la massima istanza politica, ma poi la palla passa al Consiglio dei ministri e alla Commissione che rappresentano la sintesi comune della decisione.

Il giochetto, quindi, è che i singoli capi di governo prendono la decisione al vertice e poi tornano nelle rispettive capitali dove cominciano a criticare le loro stesse decisioni e la Commissione che le mette in pratica.

Questo sistema non potrà reggere a lungo, anche perché il Consiglio europeo manca della necessaria continuità per potere governare e affida quindi alle regole e ai criteri di convergenza il compito di governare, con la Commissione che funge da disprezzato vassallo.

Fra qualche giorno la responsabilità del semestre passa alla Lettonia e fra altri sei mesi al Lussemburgo. Il futuro dell’Ue non è certo in questo meccanismo barocco di continue successioni alla presidenza, ma in un maggiore senso di comunità e di destino comune da parte dei nostri leader, a cominciare da Matteo Renzi.

A questo scopo, i problematici aspetti istituzionali dell’Ue devono essere valutati con maggiore attenzione e senso della misura.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.
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Germania: sperimentazioni nel corpo elettorale tedesco

Elezioni in Turingia
La coalizione di sinistra-sinistra che spazza via la Cdu
Eugenio Salvati
17/12/2014
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L’assetto futuro del sistema partitico tedesco passa anche dalla Turingia. A mostrarlo la sperimentazione di nuove formule politiche in occasione delle ultime elezioni.

Il governo uscente era sostenuto da una grande coalizione tra i cristiano democratici della Cdu e i socialdemocratici della Spd, guidata dal Ministro - Presidente Christine Lieberknecht, esponente della Cdu.

Il risultato elettorale dello scorso settembre ha premiato la Cdu con il 33,5% dei voti, in crescita rispetto alle precedenti elezioni, punendo la Spd che, nel ruolo di junior partner della coalizione, ha raccolto solo il 12,4%, perdendo molto consenso rispetto al voto del 2009 e classificandosi terza, dietro la Linke.

Linke, Spd e Verdi
Il dato di maggior rilievo lo riscontriamo nel risultato di due partiti che si collocano sui fronti opposti dello spazio politico tedesco, ossia la Linke che con il 28,2% conferma la sua forza in Turingia e il processo di stabilizzazione elettorale e Alternative für Deutschland (Afd), che raccoglie un notevole 10,6%.

Il primo elemento rilevante è che in Germania sembra aprirsi una fase politica in cui potrebbe risultare preponderante il peso di questi due partiti, capaci di attrarre i voti in fuga dal centro dello schieramento verso posizioni più radicali.

Se la Linke prosegue nella sua competizione con la Spd e con i Verdi, Afd sembra aver prosciugato il bacino elettorale dei liberali - che anche in Turingia crollano rispetto al voto di cinque anni fa -, apprestandosi a diventare un rivale scomodo per la Cdu, tradizionalmente non molto incline ad accettare la competizione politica sulla sua destra.

Con questi risultati elettorali le strade per la formazione del governo regionale erano segnate: o la riproposizione della grande coalizione Cdu - Spd o la costruzione di una coalizione di sinistra tra Linke, Spd e Verdi.

È proprio questa seconda opzione ad essere risultata vincente con la scelta da parte della Spd, dopo un referendum tra gli iscritti, di sancire un’alleanza di governo a sostegno di Bodo Ramelow, ex sindacalista e primo Ministro - Presidente di un Land tedesco espresso dalla Linke.

A fine novembre una coalizione di sinistra-sinistra pone fine a quasi venticinque anni di governo regionale della Cdu.

Oltre l’esperimento locale?
La domanda che sorge spontanea con la nascita della nuova coalizione al governo in Turingia è se questo gabinetto rappresenti un esperimento prettamente locale (come molti dirigenti nazionali dei Verdi e della Spd hanno ripetuto), o se questa formula possa rappresentare - nel lungo periodo - una coalizione politica alternativa alla Cdu della Merkel.

Senza dubbio un governo locale può avere vita più semplice non dovendo affrontare temi scottanti come la politica estera o quella europea, ma ciò non esclude a priori che quello della Turingia possa diventare un laboratorio politico.

Ciò dipenderà anche da quanto la Spd potrebbe pagare in termini di consenso con questa nuova partecipazione a un governo nazionale di grande coalizione, dove il protagonismo di Angela Merkel - nonostante qualche primo segnale poco confortante sul fronte economico - sembra difficile da arginare.

Per la Spd un matrimonio prolungato con la Cdu potrebbe tramutarsi in un colpo duro sia politicamente - sancendone una posizione ancillare come junior partner della cancelliera - sia elettoralmente, con molti sostenitori dei socialdemocratici pronti a guardare verso i Verdi o soprattutto verso la nuova Linke.

Ecco perché l’idea di una possibile coalizione di sinistra, tema al momento relegato a semplice ipotesi di scuola, potrebbe diventare qualcosa di più concreto, con l’esperienza della Turingia come banco di prova per il governo.

Euroscettici tedeschi
L’altro vincitore delle elezioni in Turingia è Afd che da destra sta cercando di erodere consensi alla Cdu e lo sta facendo su una piattaforma politica ben precisa, ossia inasprendo la sua posizione euroscettica, arrivando anche a paventare la richiesta di un’uscita dall’euro dei paesi in crisi del Sud Europa e insistendo su temi tradizionalmente cari alla Cdu: più spazio al libero mercato, sostegno alle famiglie e politiche restrittive sull’immigrazione.

Benché raccolga un voto di protesta, Adf è più di un movimento di semplice protesta; è un partito che si sta strutturando sul territorio e che sta formando una propria classe dirigente.

Merkel continua a ripetere di non voler pensare a una possibile alleanza con Adf, a causa delle posizioni politiche troppo estreme e del suo essere un concorrente nel bacino elettorale della Cdu, ma il lento e inarrestabile declino dei liberali della Fdf pone urgentemente il tema delle alleanze.

Ora si è trattato di perdere il governo della Turingia, ma domani il problema potrebbe riguardare gli equilibri di politica nazionale.

Eugenio Salvati è Dottore di Ricerca in Scienza Politica, Università di Pavia.
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martedì 13 gennaio 2015

Grecia: un referendum contro l'austerità

Elezioni in Grecia
Test greco per l’Eurozona
Ferdinando Nelli Feroci
07/01/2015
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Fallito il tentativo di eleggere un Presidente della Repubblica, e fallito il tentativo del primo ministro conservatore Antonis Samaras di ottenere implicitamente il sostegno di una più ampia maggioranza parlamentare, il 25 gennaio gli elettori greci torneranno alle urne.

E, come era prevedibile, sono ripartite le speculazioni sulla capacità/volontà della Grecia di rispettare gli accordi, sul futuro della Grecia nell’Euro, e più in generale sulla efficacia di una strategia europea di uscita dalla crisi esclusivamente concentrata sul “mix” di consolidamento di bilancio e riforme strutturali.

Trattative sul debito greco
Le incertezze e le speculazioni sono motivate dai sondaggi, secondo cui la maggioranza relativa dei voti degli elettori greci andrebbe a Syriza, il partito guidato da Alexis Tsipras, che aveva in passato proposto un’uscita della Grecia dall’Euro, e che oggi ha nella sua piattaforma elettorale, non più l’abbandono dell’Euro, ma una richiesta di rinegoziazione del debito pubblico greco.

È presto per valutare quali saranno in concreto le richieste precise ed articolate che il futuro governo di Atene (necessariamente di coalizione) avanzerà ai partner dell’Eurozona. Ma è comunque verosimile ipotizzare che fra queste figurerà una qualche forma di ristrutturazione/riscadenzamento del debito greco.

Il programma elettorale di Syriza prevede una soluzione fondata su una combinazione di una parziale cancellazione di una quota del debito sovrano greco (oggi detenuto per l’80% da istituzioni pubbliche europee) con una clausola che collegherebbe il rimborso della quota rimanente al raggiungimento di un certo livello di crescita del Pil.

Altri economisti vicini a Syriza hanno proposto soluzioni ancora più radicali, che prevedono la conversione di tutto il debito greco, ancora “outstanding”, in un titolo sovrano senza scadenza prefissata, il cui rimborso inizierebbe al verificarsi di determinati ritmi di crescita del Pil greco.

È probabile che si tratti di proposte avanzate in parte in funzione elettorale, e in parte in funzione tattica, per preparare il terreno in vista del negoziato con i partner europei. Ma sarebbe un errore ritenere che, una volta al governo Tsipras, manterrà una linea di continuità con il governo Samaras, e rinuncerà a porre il problema del debito greco rimettendo in discussione la linea sinora seguita.

Anche perché il mix di misure di consolidamento fiscale e radicali riforme strutturali, in cambio dell’assistenza finora messa a disposizione da Banca centrale europea, Bce, Esm (e in parte dagli Stati membri dell’Eurozona), non ha consentito finora alla Grecia di tornare a crescere e soprattutto di tornare sui mercati per finanziare il proprio debito pubblico.

Mercati finanziari in fibrillazione
In altre parole sembra inevitabile che il “dopo elezioni” in Grecia porrà una serie di problemi alle istituzioni dell’Eurozona:
a) definire una risposta credibile e sostenibile ad un Governo liberamente e democraticamente eletto, senza rimettere in discussione gli aspetti essenziali degli accordi esistenti;
b) rendere compatibile il rispetto del voto popolare in Grecia con le esigenze di una “governance” complessa come quella dell’Eurozona;
c) affrontare più in generale la questione della sostenibilità di debiti sovrani eccessivi in un contesto di recessione e deflazione.

Se si aggiunge a tutto questo la circostanza che la Bce dovrebbe decidere su interventi di “quantitative easing” nella riunione del Board che precederà di soli tre giorni le elezioni in Grecia, si comprendono agevolmente le fibrillazioni dei mercati finanziari di questi giorni; le indiscrezioni su scenari di uscita della Grecia dall’Euro, e le smentite delle fonti ufficiali sull’esistenza di “piani B”.

Sfide europee
In sintesi per l’Eurozona si porranno tre ordini di problemi. Il primo è un problema di “governance” dell’Eurozona e riguarda la questione di chi negozierà con il governo greco.

Secondo le regole, dovrebbero negoziare le istituzioni comuni (Bce e Commissione in primis) sulla base di posizioni condivise. Le prime prese di posizioni pubbliche sembrano indicare che ancora una volta Berlino (unica capitale ad essersi pronunciata sull’argomento) tenda a proporsi come effettivo interlocutore di Atene.

Sarebbe un errore gravissimo lasciare alla Germania l’esclusiva del negoziato; e sarebbe bene che anche gli altri paesi membri dell’Eurozona (tra l’altro ugualmente creditori della Grecia) facessero sentire la loro voce, anche perché la posta in gioco va oltre il caso della Grecia.

Il secondo problema riguarda il contenuto della risposta da dare alle richieste di Atene. Difficile essere precisi su questo aspetto finché non si conosceranno con precisione queste richieste.

Ma forse si potrebbe cominciare a riflettere su soluzioni che evitino sia inutili dogmatismi (del tipo “gli accordi vanno rispettati a qualsiasi costo”), sia misure impraticabili perché eccessivamente onerose per i creditori (in quanto collegate a ipotesi di cancellazione anche parziale del debito greco).

Tra i due estremi dovrebbe essere possibile definire una qualche forma di riscadenzamento di una parte del debito, in cambio del mantenimento (verificabile) degli impegni assunti in materia di riforme.

Infine la terza sfida (quella più difficile) che si porrà per l’Ue e l’Eurozona è quella del collegamento fra la soluzione del caso della Grecia e la questione di un ripensamento di carattere più generale sulla strategia comune fin qui seguita per uscire dalla crisi con una combinazione di misure di consolidamento di bilancio (tutto sommato efficaci) e riforme strutturali (meno efficaci perché affidate prevalentemente alla buona volontà dei singoli Governi nazionali).

Misure di consolidamento di bilancio da ripensare
Molti (soprattutto nel Nord Europa) negheranno questo collegamento e faranno il possibile per isolare il caso greco. Ritengo invece che la discussione sulle richieste del nuovo Governo greco possa essere un buona occasione per ridiscutere una strategia unicamente concentrata sul consolidamento fiscale, nella consapevolezza che questa linea, che ha funzionato rispetto all’obiettivo di evitare il collasso della moneta comune, ma lascia irrisolto il problema dei debiti sovrani eccessivi e costringe l’Eurozona a navigare a vista tra bassa crescita e deflazione.

Insomma il caso della Grecia, ancora una volta, metterà alla prova le capacità di reazione e di visione dell’Eurozona. È davvero eccessivamente ottimistico sperare che possa essere un’occasione per definire una strategia condivisa e credibile per riportare l’Europa su un percorso di crescita coerente con una gestione responsabile del debito sovrano?

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.
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giovedì 8 gennaio 2015

Italia: ancora contrasti con l'UE

Diritto comunitario
La Corte Ue boccia l’Italia sui precari 
Marco Gestri
11/12/2014
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Si è da poco asciugato l’inchiostro dalle pagine della sentenza sui precari della scuola (Mascolo e a.) pronunciata dalla Corte di giustizia Ue e già si registrano le prime pronunce di tribunali italiani volte a recepirne il dirompente contenuto (apripista il Tribunale del lavoro di Torino).

Ma che rilievo ha la sentenza europea pronunciata il 26 novembre e a quali scenari apre?

Abuso del lavoro a tempo determinato
La Corte Ue si è pronunciata, a domanda del Tribunale di Napoli e della Corte Costituzionale, sull’interpretazione della direttiva 1999/70, che incorpora un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato tra le confederazioni sindacali europee.

Le domande d’interpretazione sono state sollevate nel quadro di controversie tra lavoratori precari della scuola e Ministero dell’istruzione. Gli attori sono stati assunti mediante contratti a tempo determinato stipulati in successione e, ritenendo illegittima tale pratica, chiedono la conversione dei contratti in rapporti a tempo indeterminato (dunque l’immissione nel ruolo degli insegnanti o dei collaboratori amministrativi), oppure, in subordine, il risarcimento del danno.

I lavoratori fanno leva sulla clausola 5 (1) dell’accordo quadro, che mira a limitare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, per evitare più onerosi contratti a tempo indeterminato. Gli Stati membri devono adottare misure di prevenzione di tali abusi, richiedendo ragioni obiettive per la conclusione di successivi contratti a tempo determinato oppure limitandone i rinnovi.

La Corte di Giustizia ha dichiarato che la legislazione in materia di supplenze annuali (art. 4 della l. 124/1999) contrasta colla clausola 5(1), in quanto consente all’amministrazione d’assumere a tempo determinato, con contratti in successione e senza limitazioni, docenti e collaboratori amministrativi al fine di coprire posti vacanti “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali” per l’assunzione di personale di ruolo.

L’attesa è però tutt’altro che temporanea: la normativa non fissa alcun termine per l’organizzazione dei concorsi e non se ne è tenuto alcuno tra il 2000 e il 2011.

Supplenze annuali incostituzionali?
In tal modo, si creerebbero abusivamente situazioni di precariato per rispondere a esigenze organiche strutturali.

Secondo la Corte, nessuna “ragione obiettiva” giustifica tale situazione, non valendo allo scopo l’esigenza di ridurre la spesa pubblica.

A nulla sono valse le argomentazioni del governo italiano per le quali il settore dell’insegnamento pubblico sarebbe escluso dall’applicazione dell’accordo quadro o almeno presenterebbe caratteristiche specifiche.

L’accordo quadro richiede anche agli stati d’adottare misure per sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato. Ciò non avverrebbe nel nostro ordinamento, in quanto la normativa vigente non prevede a favore dei precari della scuola né un diritto al risarcimento del danno né la trasformazione dei contratti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato (la scuola statale è esclusa dall’applicazione di una norma del 2001 che prevede la conversione per i contratti di durata superiore a 36 mesi).

Quali conseguenze derivano dalla sentenza? Essa non determina un’automatica immissione in ruolo dei docenti che hanno iniziato le cause da cui è scaturita la domanda d’interpretazione né tantomeno di tutti coloro che si trovino in analoga situazione.

La sentenza chiarisce solo l’interpretazione delle norme Ue. Toccherà ai giudici che hanno sollevato la domanda d’interpretazione trarne le conseguenze, nel decidere le singole cause.

Il caso è particolare: tra i giudici che hanno fatto rinvio alla Corte Ue vi è la Corte Costituzionale. Questa dovrebbe dichiarare l’illegittimità costituzionale della normativa italiana sulle supplenze annuali, secondo quanto risulta dalla sentenza della Corte Ue.

Molto dipenderà da come la Consulta interpreterà la sentenza europea, che lascia alcuni punti aperti. Dalla sentenza non deriva comunque l’obbligo d’assumere in ruolo i precari vittime delle pratiche abusive, potendo esser sufficiente un risarcimento del danno. Servirà comunque un intervento legislativo nella materia.

Riforma sulla “buona scuola”
Questo era già stato messo in cantiere dal governo: la riforma sulla “buona scuola” ha come obiettivo primario l’adozione di un piano straordinario d’assunzioni volto a eliminare le supplenze annuali e il precariato.

Secondo il governo la sentenza della Corte Ue troverebbe adeguata risposta coll’approvazione della riforma. Senonché da un confronto tra il rapporto sulla buona scuola e la sentenza dei giudici europei emergono evidenti divergenze.

Ad esempio, il piano del governo è limitato agli insegnanti mentre la sentenza fa riferimento anche ai collaboratori amministrativi. In attesa della pronuncia della Consulta e in vista della riforma legislativa, le organizzazioni sindacali affilano le armi e minacciano un’ondata di nuove cause.

L’interpretazione della Corte Ue finisce infatti per vincolare tutti i giudici cui risultino sottoposte controversie analoghe. Così il 5 dicembre il Tribunale di Torino ha condannato lo stato a risarcire il danno arrecato a un insegnante delle superiori assunta con una successione di contratti a tempo determinato stipulati lungo un arco di sette anni (escludendo invece l’immissione in ruolo senza concorso).

E pensare che gli stati hanno voluto limitare le competenze dell’Ue in materia d’istruzione a mere azioni di sostegno. Ciò non è valso a evitare un intervento così penetrante sotto le insegne della politica sociale. Come affermato da un eminente magistrato inglese, il diritto Ue è una marea che travolge ogni barriera.

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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