Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 27 gennaio 2014

Should Scotland be an indipendent country?

 La domanda è stata resa nel modo più chiaro ed imparziale possibile. Inizialmente sarebbe dovuta essere “voi siete d’accordo che la Scozia debba essere indipendente?” ma sembrava suggerire la risposta. La vera domanda che qui in Scozia sembrano porsi è: vale la pena essere indipendenti? Ci saranno più benefici a restare dentro il regno unito o ad uscirne fuori? Tutte queste domande saranno riassunte in forma asettica nel prossimo referendum.
Dopo aver ricevuto l’autorizzazione a procedere da parte del governo britannico lo scorso marzo, autorizzazione speciale e non facile da ottenere, il 18 settembre 2014 si terrà in Scozia il referendum per chiedere alla propria popolazione se voglia restare o meno nel Regno Unito.
Il referendum non avrà nessuna validità. Non si può dichiarare l’indipendenza della Scozia unilateralmente, almeno non secondo la legge inglese. L’indipendenza può essere dichiarata solo in comune accordo col governo del restante Regno Unito. Il referendum, è stato quindi specificato, avrà solo valore consultativo senza nessun effetto sull’unione.
Il referendum però si è già tenuto: era il 1979 e la maggioranza degli elettori votò a favore della divisione ma fu una maggioranza tanto stretta da non poter essere tenuta in considerazione. Subito dopo furono gli anni della Thatcher e di Major, entrambi indiscutibilmente conservatori. Un secondo referendum si tenne nel 1997. Questo dimostrò il desiderio di avere un proprio parlamento da parte degli Scozzesi e il diritto di gestire autonomamente la loro tassazione. Tutto ciò fu ottenuto nei due anni seguenti, dopo i quali non ci furono grandi cambiamenti. L’unico partito che nel decennio seguente sembrò avere una maggiore volontà di emancipazione è stato lo Scottish National Party (SNP).
La situazione è però completamente cambiata nel corso degli ultimi due anni, cioè da quando l’SNP ha guadagnato la maggioranza assoluta al governo. Il Primo Ministro inglese David Cameron e quello scozzese Alex Salmond hanno accettato lo svolgersi del referendum. Inoltre, per iniziativa sempre dell’SNP, per la prima volta al referendum avranno diritto di partecipare anche i ragazzi di sedici e diciasette anni.
L’indipendenza, o una qualsiasi diversa forma di emancipazione che potrà essere scelta da parte della Scozia, si declinerà in diversi ambiti. Si tratterà di una maggiore autonomia economica e monetaria, di dover scegliere un proprio sistema legislativo e di uno di tassazione gestito indipendentemente. Si dovranno prendere decisioni in campo di politica estera e di difesa militare autonomamente ed infine si dovrà discutere di una propria rappresentanza nell’Unione Europea e nella NATO o meno. Sin da ora sono chiare le tematiche principali che dovranno essere trattate e tenute a mente prima del voto.
Nel caso in cui si ottenesse l’indipendenza, tutti i cittadini residenti in Scozia otterrebbero la cittadinanza scozzese. Non è chiaro però se avranno il diritto di mantenere la cittadinanza britannica. La monarchia della Regina Elisabetta II sarebbe mantenuta e rispettata dal governo della Scozia anche dopo aver ottenuto l’indipendenza, o almeno questo è quanto è stato dichiarato attualmente, anche se non tutti i membri del parlamento scozzese hanno accettato questa decisione. La regina al tempo stesso ammette che rispetterebbe tutte le decisioni prese legalmente sebbene tema per il futuro del Regno Unito.
Per quanto concerne l’aspetto monetario, sono previste tre possibili vie percorribili: si potrebbe restare nel sistema monetario inglese e continuare ad usare la sterlina come propria moneta, altrimenti la Scozia potrebbe uscirne ed entrare nell’euro oppure ancora creare una sua moneta propria. L’SNP ha espresso il desiderio di mantenere propria la moneta inglese e al tempo stesso entrare nell’Unione Europea, esattamente come è accaduto con il Regno Unito. L’Unione Europea però non ha garantito affatto di consentire nuovamente lo stesso beneficio per un secondo paese. Lo stesso si può dire del governo inglese, il quale non sembra voler concedere la sterlina alla Scozia come propria moneta, temendo per la propria sovranità su di essa. L’SNP è stato accusato di incorenza, volendo uscire dal Regno Unito ma mantenerne i privilegi monetari e non. Come ha specificato l’ex capo del governo inglese John Major, non esiste “una mezza strada, una quasi indipendenza”. La Scozia deve decidere se stare o dentro o fuori. Gordon Brown ha accusato l’SNP di confusione, domandando se l’SNP volesse far diventare la Scozia una nuova colonia dell’Inghilterra. Persino il primo ministro del Galles, Carwyn Jones, si è dichiarato contrario a questa ipotesi, “una ipotesi confusa, una ricetta per l’instabilità”. Nessuno vuole neanche mettere a rischio la propria moneta e la propria stabilità economica per una nazione che si sta allontanando e che prevedibilmente dovrà affrontare una situazione economica difficile di partenza. Inoltre, inevitabilmente, negare la sterlina è un deterrente contro l’indipendenza.
Una questione ancora più seria sono le armi nucleari inglesi presenti nel territorio scozzese. L’SNP non può che definire “inconcepibile che una nazione indipendente possa tollerare la presenza di armi di distruzione di massa [di un'altra nazione] nel proprio territorio”. Il governo inglese ha replicato che non saprebbe dove altrimenti stoccarle. Le misure di sicurezza richieste sono altissime, i pericoli numerosi e non è pronto nessun altro sito dove dislocarle al momento. L’ipotesi di perdere il territorio scozzese non era stata mai presa in considerazione. Sono state avanzate diverse ipotesi su come procedere, anche quella di disarmarle.
Come nel caso del mantenimento della sterlina, anche in questo caso il ragionamento della Scozia sembra essere quello di voler cambiare un aspetto, quale il suo vincolo nel Regno Unito, senza per questo dover cambiare anche tutti gli altri e mantenerli così come sono sempre stati finora. Per quanto riguarda l’Unione Europea, l’SNP desidererebbe una Scozia aderente e che ricevesse lo stesso trattamento offerto al Regno Unito. “Può mettersi in fila” è stata la goliardica risposta data dai funzionari del governo spagnolo e anche José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, in altre parole, ha espresso lo stesso concetto garantendo che invece per il restante Regno Unito nulla cambierebbe. Continuare a non far parte dell’euro ma dell’Unione Europea non sarà automatico. Il cambiamento eventualmente ottenuto con l’indipendenza influenzerà ogni altro aspetto. La Repubblica di Irlanda ha recentemente espresso lo stesso parere della Spagna: una Scozia indipendente dovrà ripartire da zero. Come a dire: che questo concetto sia chiaro, nel caso un catalano o un irlandese avessero in mente strane idee.
Le conseguenze di questa scelta non si possono del tutto prevedere. Il pericolo di terrorismo in questa regione diminuirebbe? E sarebbe pronta a difendersi in caso di un attacco, ad esempio, cybernetico? Quanto lo scoprire nuovi depositi di petrolio vicino le coste scozzesi influenzerà le decisioni? Persino nel tranquillo Galles ci si aspetterebbe, in seguito all’indipendenza della Scozia, una impennata di nazionalismo.
La stessa storia e la stessa identità nazionale ne risulterebbero minate. O forse potrebbe succedere quello che ha immaginato Irvine Welsh: l’indipendenza della Scozia promuoverebbe l’unità culturale del Regno Unito, eliminando con la perdita della Scozia uno di quegli elementi più diversi e difficili da amalgamare, riuscendo a dare ciò che da sempre il Regno Unito ricerca: una identità coerente, un nazione simile a se stessa, un regno unito.

Marco Flavio Scarpetta è dottore in Giornalismo, editoria e scrittura (Università di Roma Sapienza)

Note bibliografiche
• Scotland's Future: Draft Referendum (Scotland) Bill Consultation Paper.
• Agreement between the United Kingdom Government and the Scottish Government on a referendum on independence.

martedì 21 gennaio 2014

Russia. Problemi per il South Stream

Russia
russia 132
La Commissione Europea ha dichiarato illegali i contratti stipulati dalla società russa Gazprom con i Paesi UE per la costruzione del gasdotto South Stream nei Balcani. Ai governi di Bulgaria, Ungheria, Croazia, Slovenia, Austria e Serbia (quest’ultima membro candidato UE e firmataria delle leggi comunitarie sull’energia) la Commissione ha chiesto la rinegoziazione degli accordi bilaterali nel rispetto del cosiddetto “Terzo Pacchetto Energetico”. Questo prevede che siano due società distinte a  produrre e distribuire il gas, in modo da salvaguardare il libero mercato. I Paesi UE citati nella dichiarazione della Commissione dovrebbero dunque coinvolgere altri soggetti economici nella costruzione della pipeline oltre alle proprie compagnie di bandiera. Le motivazioni politiche della Commissione che sottendono alla pronuncia, sono da ricondurre alla strategia energetica dell’Unione Europea, volta alla diversificazione dell’approv! vigionamento in concorrenza  alla posizione di preminenza di Gazprom. Il South Stream da questo punto di vista rappresenta per la società energetica un rafforzamento della posizione di maggior fornitore extraeuropeo. La nuova pipeline infine potrà giocare un ruolo politico anche per Mosca che si serve del gas per cercare di estendere la sua influenza in Europa.

martedì 14 gennaio 2014

Italia. Il semestre europeo

Unione europea
Italia/Ue, le insidie di una presidenza
Giampiero Gramaglia
31/12/2013
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Il 2014 dell’Unione europea, Ue, deve segnare - dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - lo spartiacque tra il rigore e la crescita: “L’Unione corregga la rotta e promuova l’occupazione: siamo orgogliosi dei risanamenti dei conti, ma ci preoccupano recessione e carenza di lavoro”. E il presidente della Commissione europea José Barroso mescola ottimismo (“l’economia migliorerà”) e timori davanti all’avanzata dei populismi, invitando l’Italia a tenere la barra sulle riforme, “bene il deficit sotto il 3%, ma il debito è troppo alto”.

Nello snodo tra rigore e crescita, l’Italia ha un ruolo speciale, perché dal 1° luglio al 31 dicembre assumerà la presidenza di turno semestrale del Consiglio dell’Ue.

Sarà una riunione dell’Eurogruppo, lunedì 7 luglio, seguita da una dell’Ecofin, martedì 8, ad aprire il semestre italiano. I momenti clou saranno i vertici europei del 23 e 24 ottobre e del 18 e 19 dicembre, entrambi a Bruxelles.

Queste sono indicazioni ricavate dalla bozza di calendario della presidenza, già trasmessa a Bruxelles e ancora soggetta a variazioni e integrazioni. Prevede la consueta teoria di riunioni ministeriali formali e informali nelle varie formazioni, alcune con scadenza mensile - Affari generali, Esteri, Ecofin, Agricoltura, etc. - altre con scadenze più rarefatte.

Presidenza breve
Sarà una presidenza breve, come tutte quelle nel secondo semestre di ogni anno, ma densa di appuntamenti. Si calcolano più o meno 160 eventi da distribuire su 115 giorni utili circa, perché il mese di agosto e l’ultima decade di dicembre sono ‘a perdere’: decine di Consigli formali e una quindicina d’informali - una gran parte a Milano - oltre a riunioni di ogni genere, alcune delle quali ancora da fissare. C’è incertezza, ad esempio, sullo svolgimento, in autunno, delle Assise inter-parlamentari.

Nel semestre italiano saranno rarefatte le proposte della Commissione, perché è probabile che l’attuale si concentri più sul portare avanti i dossier già trasmessi al Consiglio e al Parlamento che sul lanciarne di nuovi. La nuova Commissione sarà troppo fresca di nomina per sfornare proposte proprie.

Dopo la riunione del 7 agosto, la prima a livello ministeriale del comitato di pilotaggio della presidenza, la preparazione del semestre prosegue con le riunioni, con ritmo quasi quindicinale, di un comitato della Presidenza del Consiglio guidato dal sottosegretario Filippo Patroni Griffi. Sono pure al lavoro gli sherpa dei ministri.

A Palazzo Chigi e al Dipartimento delle Politiche comunitarie, si assicura che, nella preparazione della presidenza, “non siamo in ritardo”. La Grecia, la cui presidenza inizia a giorni, ha distribuito solo da qualche settimana il suo programma, mentre l’Italia ha già diramato un calendario di massima delle riunioni.

Bisogna pure fare i conti con le disponibilità economiche: l’Italia ha finora stanziato, secondo buone fonti, 60 milioni di euro, tanti quanti la Lettonia che la seguirà e meno del Lussemburgo (80) che chiuderà il trittico delle presidenze aperto proprio dall’Italia.

Insidie istituzionali
Fra le priorità italiane troviamo il Mediterraneo e l’immigrazione, la lotta alla disoccupazione, il completamento dell’Unione bancaria. La presidenza italiana coinciderà con un momento particolare dell’Unione e delle sue istituzioni, tutte in fase di rinnovamento e/o di rodaggio. Il che condizionerà la possibilità di ‘fare maturare’ nel semestre dossier e decisioni.

Questa consapevolezza è per ora meno evidente nelle dichiarazioni politiche. Ci sarà da fare fronte alla crisi di fiducia tra i cittadini e l’Unione, che potrebbe trovare un riflesso nella partecipazione alle elezioni europee del maggio prossimo e nei risultati del voto. Bisognerà anche evitare che si creino tensioni e fratture fra le stesse istituzioni, ad esempio quando il Consiglio europeo dovrà designare il nuovo presidente della Commissione europea e il Parlamento europeo dovrà poi votarne l’investitura.

Nelle diatribe anche procedurali sulle nomine, c’è il rischio che venga meno il rapporto di fiducia Consiglio / Commissione, anche se una dialettica fra le istituzioni è fisiologica e se, su molti temi, ad esempio sul bilancio, c’è spesso stata in passato una sorta di alleanza Parlamento / Commissione contro il Consiglio.

Milan l’è on gran Milan
Di Milano, Enrico Letta vuole fare la capitale della presidenza di turno italiana del Consiglio. La città è già nella storia dell’integrazione europea, con il Vertice al Castello Sforzesco - giugno 1985 - voluto dall’allora premier Bettino Craxi e che, dopo quasi cinque anni di stasi legati al problema britannico, innescò il rilancio del progetto europeo.

Da allora, Milano non ha più avuto un ruolo da protagonista nell’Ue. Ora le riunioni informali si faranno a Milano, anche in un’ottica di lancio dell’Expo 2015, mentre quelle informali in varie località del paese.

L’Italia ha insistito che il vertice Ue-Asem, in programma a ottobre, si facesse a Milano e non, come previsto, a Bruxelles. Questo evento porterà nella città dell’Expo decine di delegazioni europee e, soprattutto, asiatiche, che di lì a sei mesi saranno protagoniste dell’esposizione universale, una Expo che l’Italia tende a presentare come ‘europea’, essendo l’unica a svolgersi nel territorio dell’Unione nell’ambito di un ventennio.

Ma per altre riunioni, più tecniche - l’Eurogruppo e l’Ecofin - o più di nicchia - l’agricoltura, l’ambiente, etc -, non è chiaro in che misura la scelta di Milano risulti vincente.

Il semestre in bianco
Il rischio di fondo è che, quasi a prescindere dalla volontà dell’Italia, il semestre vada in bianco, nonostante i propositivi di partenza siano buoni: priorità poche e chiare, obiettivi definiti e raggiungibili.

A Bruxelles, lo sanno bene, calendario alla mano. E pure a Roma lo sanno, quelli che conoscono scadenze e ritmi dell’Unione: il secondo semestre 2014 sarà “molto atipico”, cadrà dopo le elezioni di maggio e coinciderà con il rinnovo della Commissione europea e del presidente del Vertice. Con l’Assemblea in rodaggio e la Commissione in allestimento, ci sarà da gestire il valzer delle poltrone, se i giochi non saranno già stati fatti, il passaggio delle consegne e gli affari correnti. Salvo, naturalmente, crisi emergenti; o dossier aperti, come l’Unione bancaria, l’emigrazione, l’Ucraina.

Anche l’attività di rilancio dell’integrazione, cui quel che resta dell’Italia europeista tiene molto, potrà avere al massimo una funzione propedeutica a decisioni e iniziative che giungeranno a maturazione, se tutto filerà liscio, non prima del 2015.

Sento già qualcuno fremere: se gestiamo le nomine ci toccherà qualcosa di grosso. A dire il vero, non mi farei troppe illusioni: l’Italia ha già la presidenza della Bce con Mario Draghi; e ha in pista Franco Frattini per il posto di segretario generale dell’Alleanza atlantica - decisivo il Vertice Nato in Galles a settembre. Uno dice: non è un’istituzione europea. Vero, ma, se ci danno quello, mica ci tocca altro. Se non ce lo danno, magari ci siamo intanto bruciati il resto, ammesso che avessimo una chance.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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domenica 12 gennaio 2014

Europa: il problema dell'immigrazione

Strage di Lampedusa
L'Europa non ha la bacchetta magica
Ferdinando Nelli Feroci
09/10/2013
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I morti di Lampedusa hanno provocato un’ondata di polemiche strumentali e di dichiarazioni non sempre necessarie o opportune. Si è in un primo momento stigmatizzata la mancanza di soccorsi tempestivi, ma una ricostruzione più corretta della sequenza degli eventi ha dimostrato che privati cittadini e forze dell’ordine si erano prodigati nell’assistenza ai naufraghi riuscendo a salvarne un numero importante.

Ad essere attaccato è stato anche il presunto “buonismo” dell’attuale governo, che costituirebbe un fattore di attrazione dei flussi migratori. Ed è stata criticata la sciagurata politica dei respingimenti, cui in passato l’Italia aveva fatto ricorso. In questa tragedia buonismo e respingimenti non c’entrano.

È stata chiamata in causa la legge Fini-Bossi. Ciononostante, malgrado i suoi limiti e le sue incongruenze che la fanno apparire al tempo stesso eccessivamente punitiva ed inefficace ai fini del controllo dei flussi migratori, appare francamente difficile stabilire un collegamento diretto fra questa legge e il naufragio al largo di Lampedusa.

Europa più solidale
Ma soprattutto si è chiamata in causa l’Europa che non ha una politica comune per la gestione dei flussi migratori, che non è capace di mostrare il volto umano della solidarietà e che ci lascia soli di fronte all’emergenza umanitaria di flussi crescenti di migranti. Critiche sicuramente fondate, in parte comprensibili e già registrate in analoghe precedenti occasioni.

Il governo italiano si è impegnato a chiedere nelle sedi appropriate una risposta europea più adeguata e a inserire la questione di una più efficace gestione in comune delle politiche migratorie fra le priorità del nostro semestre di presidenza dell’Unione europea (Ue). Ma che cosa può realisticamente chiedere - e ottenere- il governo in sede europea?

In primis più solidarietà nell’accoglienza di migranti o richiedenti asilo. Centrale è la richiesta di una ridistribuzione, fra i paesi membri della Ue, dei migranti che arrivano in Italia via mare, sulla base di un sistema di quote nazionali. Una sorta di burden sharing dei flussi migratori, senza distinzione fra richiedenti asilo e immigrati illegali.

Appelli analoghi da noi lanciati nel passato si sono regolarmente scontrati con l’opposizione più ferma dei nostri partner europei, molti dei quali - va riconosciuto - accolgono un numero ben maggiore di migranti di quelli che arrivano via mare in Italia.

Gli unici schemi di “ricollocazione” che hanno funzionato finora sono stati adottati su base rigorosamente volontaria, esclusivamente per richiedenti asilo, e a fronte di emergenze politico-umanitarie (Iraq a suo tempo e ora Siria). Inutile chiamare in causa la Commissione se gli stati membri non sono disposti ad accollarsi la loro parte di responsabilità.

L’Italia può invocare una maggiore condivisione degli oneri, ma dobbiamo essere consapevoli che la grande maggioranza di chi sbarca in Sicilia prosegue il viaggio della speranza verso il nord Europa, realizzando così di fatto il burden sharing.

Normative da rivedere
Il nostro governo può chiedere anche una revisione della normativa comune in materia di asilo. La questione è stata sollevata in collegamento con la richiesta di un ritocco della normativa europea - il regolamento Dublino II - che dispone che l’esame (e quindi, qualora ricorrano le condizioni, l’accettazione) delle richieste di asilo è responsabilità dello stato di prima accoglienza.

Ma la revisione delle tre direttive e del regolamento in cui si articola la normativa europea in materia di asilo è stata completata solo pochi mesi fa. Proprio in sede di rinegoziato del regolamento Dublino II ci siamo trovati isolati - con la sola Grecia - a difendere la proposta di un alleggerimento del criterio della responsabilità dello stato di prima accoglienza.

I paesi del nord Europa che hanno contrastato duramente qualsiasi ipotesi di deroghe a quel principio hanno potuto esibire, cifre alla mano, numeri molto più alti dei nostri (in termini assoluti e proporzionali rispetto alle popolazioni) di richiedenti asilo.

Molto difficile quindi che qualcosa possa cambiare sotto il profilo delle responsabilità del paese di prima accoglienza. Una ragione di più per realizzare condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo -e più in generale dei migranti - più compatibili con gli standard europei.

Frontex
Più parti hanno poi sollecitato un intervento più efficace di Frontex, l’agenzia europea che assiste gli stati membri nel controllo delle frontiere esterne. Questo non dispone di risorse proprie utilizza mezzi - anche navali - che devono essere messi a disposizione degli stati membri su base volontaria. Se non c’è chiarezza sulle regole di ingaggio, ha poco senso invocare Frontex.

Vogliamo chiedere a questa agenzia di pattugliare le acque del canale di Sicilia per intercettare le imbarcazioni con migranti a bordo per riaccompagnarle nei porti di provenienza o per scortarle nei nostri? Prima di farlo dovremo chiarire che cosa ci attendiamo da Frontex e verificarne la compatibilità con la sua missione.

È giusto invocare un maggior ruolo dell’Ue e ricordare ai nostri partner - più che all’Europa in astratto - che la gestione dei flussi migratori deve essere una responsabilità comune, ma bisogna avere chiaro che cosa vogliamo e che cosa possiamo ottenere.

In una prospettiva di medio termine dovremmo soprattutto contribuire in maniera più efficace alla stabilizzazione delle aree di crisi dove si sviluppano le condizioni che sono all’origine dei grandi flussi migratori emergenziali.

Nell’immediato dovremmo sollecitare all’Ue un’azione più efficace nei confronti dei paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i rispettivi governi in una seria politica di gestione dei flussi, soprattutto nella lotta alle organizzazioni criminose che lucrano sul traffico di esseri umani.

Dovremmo infine utilizzare di più e meglio le risorse finanziarie del bilancio dell’Unione per creare condizioni più accettabili e più umane di accoglienza. Occorrono richieste mirate e praticabili se vogliamo ottenere risposte che siano in grado di sostanziare il principio di solidarietà.

Ferdinando Nelli Feroci è Presidente dello IAI.
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lunedì 6 gennaio 2014

Italia Serbia: dalla cooperazione alla integrazione regionale

Gli ottimi rapporti tra l’Italia e la Serbia rappresentano un caso di successo della prassi bilaterale adottata dalla politica estera italiana nell’ambito della regione adriatico-ionica. Le consolidate relazioni economico-commerciali tra Belgrado e Roma costituiscono il punto di partenza per l’articolazione di un’auspicabile area macroregionale, integrata anche sul piano politico e su quello della sicurezza. L’ingresso della Serbia nell’Unione Europea, oltre a valorizzare la regione adriatica, potrebbe facilitare, in virtù del suo posizionamento geostrategico (PfP-NATO, CSTO), i rapporti, anche per il tramite dell’Italia, tra Bruxelles e Mosca nel particolare ambito della sicurezza continentale. L’eurointegrazione della Serbia introdurrebbe inoltre una più ampia riflessione sull’evoluzione della stessa Unione e della sua opportuna riformulazione come UE.2, in vista del nuovo scenario multipolare.

Le relazioni tra la Repubblica di Serbia e l’Italia costituiscono, nella loro articolazione, uno degli esempi più riusciti dell’approccio bilaterale perseguito negli ultimi tempi dall’Italia riguardo alle tematiche economico-commerciali. È da sottolineare che tale prassi ha prodotto considerevoli ricadute sistemiche sia a livello regionale, sia a livello europeo. I vertici intergovernativi italo-serbi di Roma (2009), Belgrado (2012) e di Ancona (2013) sono stati occasione di un ininterrotto e costruttivo confronto tra le due Nazioni, ma, soprattutto, di stipula di accordi strategici tra Roma e Belgrado. A tali accordi bilaterali tra le rispettive istituzioni centrali, occorre aggiungere anche quelli firmati in precedenza, separatamente ed in piena autonomia, tra alcune Regioni italiane e la Serbia1.
Nell’ambito delle relazioni tra istituzioni locali italiane e serbe una particolare attenzione è stata posta ai temi dell’innovazione e del trasferimento tecnologico nel tessuto economico-produttivo serbo2. L’interesse mostrato dalle Amministrazioni locali italiane e serbe è un indice di come i processi di cooperazione interregionali, quantunque motivati da esigenze pragmatiche, talvolta precorrano più importanti ed ampie strategie nazionali di lungo periodo.
Le ragioni che hanno agevolato i ragguardevoli risultati sinora raggiunti nel quadro della cooperazione economica e commerciale italo-serba sono da individuarsi nelle profonde relazioni storiche esistenti tra i due Paesi, che eventi dolorosi, anche relativamente recenti3, non hanno mai infirmato.
L’approccio bilaterale, seppur mitigato da specifiche esigenze multilaterali cui Roma indubbiamente soggiace4, si è rivelato pertanto un esempio di buone politiche verso l’estero, che l’intera diplomazia italiana dovrebbe aver cura di adottare, al fine di caratterizzare al meglio la presenza del nostro Paese nell’attuale fase di transizione uni-multipolare.
In ragione della stretta cooperazione tra Roma e Belgrado, l’integrazione della Serbia nell’Unione Europea, oltre a valorizzare l’intera regione adriatico-balcanica e riqualificare geopoliticamente il cosiddetto Mediterraneo allargato, accrescerebbe il prestigio ed il ruolo dell’Italia in seno alla comunità europea, e ne consoliderebbe ulteriormente le relazioni bilaterali con i Paesi CSI, di cui la Serbia costituisce, per la sua relazione speciale con Mosca, una sorta di accesso privilegiato.
Nel quadro di una prossima inclusione di Belgrado nella UE, la peculiarità del posizionamento geostrategico del Paese balcanico, che lo vuole ad un tempo partner dell’Alleanza atlantica e osservatore dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC)5, nonché la sua storica e pronunciata vocazione neutralista6 introdurrebbero elementi utili alla ridefinizione della sicurezza continentale, al momento troppo sbilanciata sull’alleato statunitense. La Serbia concorrerebbe, in tal caso, insieme ad altri Paesi europei membri dell’Unione, tra cui certamente l’Austria e la Svezia, alla possibile rivitalizzazione della dottrina della neutralità armata, quale alternativa strategica da privilegiare e perseguire nel processo di transizione uni-multipolare attualmente in atto.
Vale la pena osservare che la questione della sicurezza regionale e continentale si intreccia intimamente con quella afferente al progetto del gasdotto South Stream. L’imminente realizzazione del tratto serbo di questa infrastruttura7, infatti, spingerà nel breve periodo i decisori politici a trovare soluzioni rapide ed idonee per assicurare la stabilità regionale di cui necessita il corretto e certo rifornimento energetico.
La Serbia, dunque, è destinata ad assumere nel prossimo futuro la speciale funzione di centro energetico regionale, con beneficio per lo sviluppo economico ed industriale dei Paesi membri dell’Unione.
La cooperazione, l’integrazione regionale, l’opportunità di un hub energetico sono gli elementi che Bruxelles dovrà prendere in seria considerazione nel percorso dell’eurointegrazione di Belgrado. In particolare Bruxelles dovrà tenere conto della sensibilità serba in riferimento alla questione del Kosovo i Metohija.

Tiberio Graziani è presidente dell’IsAG, direttore di «Geopolitica»

1. Cfr. M. MARINUZZI, Friuli Venezia Giulia: un rapporto plurisecolare; C. MARINI, L’iniziativa della Regione Umbria in Serbia, in coda al presente Quaderno nella sezione dedicata ai casi di successo.
2. Tra i vari seminari italo-serbi dedicati al tema del trasferimento tecnologico ed alle metodologie innovative, si menziona, a titolo esemplificativo, quello tenutosi a Novi Sad, presso il Consiglio della Regione Vojvodina, il 16 ottobre 2006, organizzato con il contributo dell’Agenzia Umbria Innovazione scarl.
3. In quella che viene comunemente definita la guerra del Kosovo (aprile 1996-giugno 1999), a seguito di una decisione della NATO, il governo italiano, presieduto da Massimo D’Alema (21 ottobre 1998-25 aprile 2000), autorizzò lo spazio aereo italiano per i numerosi bombardamenti che, come noto, provocarono la morte di alcune migliaia di cittadini serbi e la considerevole distruzione di importanti infrastrutture civili.
4. Ci riferiamo in particolare alla divaricazione esistente tra le posizioni italiana e serba rispetto alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo i Metohija.
5. Serbia, Montenegro e Bosnia-Haregovina hanno aderito al Programma della NATO Partnership for Peace il 14 dicembre 2006. La Serbia ha lo status di membro osservatore della OTSC dall’11 aprile 2013.
6. La Serbia persegue la dottrina della neutralità armata in continuità storica con la Repubblica socialista federale della Jugoslavia, membro fondatore con Egitto, India ed Indonesia del Movimento dei Paesi Non-Allineati (1956).
7. Nel corso di un recente incontro, tenutosi a Belgrado l’11 novembre 2013, tra il primo ministro serbo Ivica Dačić e il direttore di Gazprom, Aleksej Miller, oltre a stabilire la data del 24 novembre quale inizio dei lavori del troncone serbo, è stata avanzata anche l’ipotesi della realizzazione di ulteriori tratti South Stream che possano collegare Macedonia, Republika Srpska (entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina) e il Kosovo i Metohija, con lo scopo di garantire la necessaria stabilità regionale nell’approvvigionamento di gas.

sabato 4 gennaio 2014

Europa: verso le elezioni

Sondaggio sulla percezione della politica estera
Europa, il crinale tra sinistra, destra e grillini
La redazione
17/12/2013
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Sull’Europa e l’euro, elettori di centro-destra e grillini la pensano quasi allo stesso modo: sono restii ad accettare i vincoli che vengono da Bruxelles, sono inclini all’ipotesi di piantare i partner in asso e tornare all’‘età dell’oro’ della lira e delle svalutazioni competitive. Propensi a restare nell’Unione, e disposti ad accettarne le regole, paiono solo gli elettori di centro-sinistra, ma a condizione che qualcosa cambi: crescita, accanto al rigore; occupazione, accanto alla disciplina.

Italia rassegnata
È un’Italia divisa sull’Europa lungo crinali talora inattesi, politici e demografici - la mezza età meno europeista dei giovani e degli anziani. Un’Italia che ha poca fiducia in se stessa, senza averne molta negli altri. E che, recisamente contraria all’uso della forza per risolvere le controversie internazionali - oltre l’80% - non è più pronta alle missioni di pace - il 60%. Più che un Italia ‘da forconi’, arrabbiata, pare un’Italia ‘da giardinetti’, rassegnata: reclinata sul passato, timorosa di proiettarsi nel futuro.

In testa a tutto, gli interessi nazionali, cioè i propri. In primo luogo, “la sicurezza dei confini dell’Italia e il controllo dei flussi d’immigrazione”: concetti che evocano il ’14 (1914), il primo, e che trasformano in fortezza il Paese della solidarietà, il secondo. L’iconografia tradizionale (e datata) degli ‘italiani brava gente’ regge nella scelta pacifista, non certo sul fronte dell’accoglienza.

Sono alcune delle tante sfaccettature del diamante Italia messe in evidenza dall’indagine sull’opinione pubblica italiana condotta dall’Istituto Affari Internazionali e dal CIRCaP, sondando le posizioni dei cittadini di fronte alla politica estera e all’integrazione europea. Il sondaggio è stato realizzato dal Laps dell’Università di Siena, intervistando un campione di 1003 individui di nazionalità italiana, residenti in Italia e maggiorenni.

I risultati sono spesso influenzati dall’attualità - le risposte sono state raccolte mentre era forte l’eco dei drammi dell’emigrazione nel Mediterraneo - e fotografano le evoluzioni dei rapporti di forza istituzionali.

Scettici e confusi
Quattro italiani su dieci pensano che la figura più influente in politica estera sia il capo del governo, più di uno su quattro che sia il presidente della Repubblica, solo uno su dieci fa riferimento al ministro degli esteri, probabilmente perché, prima di Emma Bonino, alla Farnesina sono passate figure diafane, la cui presenza è stata poco percepita dall’opinione pubblica.

A cinque mesi dalle elezioni europee del 25 maggio, l’indagine esplora l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso altre questioni controverse, oltre al futuro dell’integrazione europea e i sacrifici per restare nell’euro e i rapporti con Bruxelles e con Berlino: la presenza di basi Usa, controversa, sul territorio italiano - c’è equilibrio tra chi le accetta e chi se ne vorrebbe sbarazzare - e le missioni all’estero; e ancora rischi e opportunità delle Primavere arabe - i primi percepiti tre volte di più delle seconde.

Fig. 1 - Le missioni italiane all’estero.

Gli italiani sentono di avere un’identità mista, italiana ed europea: questa percezione è fortissima fra gli elettori di centro-sinistra - tre su quattro - e scende sotto il 60% fra gli elettori di centro-destra e i grillini. La frattura europea fra centro-sinistra (due su cinque) e centro-destra e grillini (due su tre) si ripropone sulla difesa degli interessi nazionali anche a discapito di quelli europei e sull’atteggiamento verso la Germania, la cui influenza è percepita come negativa da quasi la metà degli elettori di centro-sinistra, ma da oltre i due terzi di quelli di centro-destra e grillini.

A Ettore Greco, direttore dello IAI, lettore attento dei dati raccolti, “il rapporto tra gli italiani e le relazioni internazionali appare complesso e non privo di sfumature e contraddizioni”. Gli italiani sono “attenti a ciò che accade nel mondo esterno, ma preoccupati per le conseguenze dei problemi globali sugli interessi nazionali e sul ruolo dell’Italia nel mondo; consapevoli dei vincoli europei, ma incerti e tendenzialmente scettici sul futuro dell’Europa; pacifisti e, in linea di principio, multilateralisti, ma poco inclini ad accettare onerosi impegni internazionali.

I problemi globali finiscono spesso ridotti a dimensioni locali. Nell’introduzione al sondaggio, si legge che gli italiani, più che “cittadini del mondo”, tendono a considerarsi “cittadini italiani nel mondo”; un popolo magari consapevole delle prospettive e dei rischi, innescati dai processi d’integrazione regionale e globale e tuttavia incapace di scorgerne e soprattutto di coglierne a fondo le opportunità.

Un’interpretazione preliminare dei risultati del sondaggio li propone scanditi in cinque aree tematiche, che riprendiamo e sintetizziamo dal rapporto che accompagna i dati.

Politica internazionale
Gli italiani prestano attenzione alla politica estera, ma i problemi globali hanno una posizione secondaria nella gerarchia delle loro priorità. Le questioni internazionali assumono rilevanza solo quando incidono direttamente sugli interessi del paese, come nel caso dell’immigrazione e delle sue conseguenze sulla sicurezza dei confini nazionali.

Gli italiani si considerano un attore debole all’interno dello scacchiere internazionale: solo tre su dieci pensano che l’Italia conti in Europa, meno di due su dieci che conti nel mondo.

Europa
Le differenze culturali sono ancora viste come un ostacolo all’integrazione europea, anche se ciò è molto meno vero per i giovani. L’amore per l’euro, a 12 anni dall’esordio della moneta unica, è basso, probabilmente ai minimi assoluti, e la disponibilità a fare sacrifici per restarvi e per rispettare le regole del gioco europee è scarsa - quasi il 70% non ci pensa proprio.

Fig. 2 – Quanto ci sentiamo europei.

Germania
L’imporsi della Germania come guida della politica economica europea è vissuta con insofferenza dagli italiani, che preferirebbero avere una libertà d’azione maggiore e pensano persino, un po’ velleitariamente, di creare una coalizione di stati in chiave antitedesca.

La politica di austerità economica praticata e predicata dalla cancelliera Angela Merkel suscita scarse simpatie: gli italiani sono poco disposti ad accettare una gestione tedesca della più grave crisi economica del secondo dopoguerra, anche se ormai è un po’ tardi per rendersene conto.

Fig. 3 – L’influenza tedesca in Europa.

Stati Uniti
Gli italiani hanno ancora fiducia nel patto atlantico, il cui concetto strategico sarà rivisto l’anno prossimo, ma non vedono più negli Stati Uniti l’alleato di riferimento per la tutela degli interessi della nazione.

La presenza delle basi militari Usa sul nostro territorio viene messa in discussione, ma non pare un tema caldo.

Uso della forza e il Medio Oriente
Gli italiani sono un popolo di pacifisti, contrari al 90% all’uso della forza e all’invio di truppe in missioni internazionali. Il mondo arabo, teatro di rivolte dall’esito incerto, preoccupa, specialmente per l’impatto che tali eventi potrebbero avere sui flussi migratori.

Ancora una volta, gli italiani prestano attenzione a ciò che accade nel mondo, ma interpretano gli avvenimenti internazionali alla luce degli interessi nazionali.

Fig. 4 – Le primavera arabe e l’Italia.
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