Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 27 aprile 2016

Gran Bretagna: un declino inarrestabile

Europa
Brexit, la débâcle di Cameron e i Panama Papers
Eleonora Poli
16/04/2016
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Alla vigilia delle elezioni del maggio 2015, il primo ministro David Cameron mise il futuro del Regno Unito, e forse anche la sua stessa integrità territoriale, nelle mani di un referendum popolare sull’opportunità per la Gran Bretagna di rimanere membro dell’Unione europea (Ue).

Mentre l’annuncio di questo referendum fu una delle ragioni che permise a Cameron di vincere le elezioni, a 11 settimane dal voto del prossimo 23 giugno, potrebbe essere proprio la questione europea a costare al premier la legittimità politica per governare il Paese.

Popolarità a picco per il premier
Di fatto, con il 58% dei cittadini - contro il 34% - che sostiene di non essere soddisfatto dell’operato di Cameron, l’indice di gradimento del primo ministro è ai minimi storici e, per la prima volta, addirittura inferiore a quello del leader laburista Jeremy Corbyn.

David Cameron è stato sicuramente indebolito politicamente dal suo coinvolgimento, seppur parziale, nello scandalo dei Panama Papers. Tuttavia, secondo i sondaggi di YouGov, che ha analizzato il livello di gradimento popolare verso Cameron prima e dopo la scandalo dei Panama Papers, la ragione di tale delegittimazione sembra imputabile più alla posizione assunta dal primo ministro britannico sul tema della membership nell’Unione europea, che alle recenti accuse di evasione fiscale.

Lo scorso anno, David Cameron aveva sostenuto che avrebbe spinto i partner europei ad accettare termini negoziali sulla membership britannica favorevoli a Londra. In particolare, oltre alle questioni della governance economica europea, della necessità di maggior competitività e del progetto di integrazione rifiutato dai britannici, il Regno Unito chiedeva di limitare l’accesso ai benefit da parte dei cittadini europei così come l’invio di aiuti statali ai loro figli, se non residenti in Gran Bretagna.

Tuttavia, i successi di Cameron al tavolo negoziale di Bruxelles del 19 febbraio scorso non sembrano aver soddisfatto gli elettori, soprattutto i conservatori, perché avranno un impatto lieve su quelli che sono sentiti come i problemi maggiori, come la migrazione o l’accesso al mercato del lavoro britannico.

Benzina olandese sul fuoco di Londra
A parte i tentativi di poco successo di rinegoziare i termini della partecipazione di Londra all’Ue, altri fattori esterni non aiutano di certo i cittadini britannici a propendere a rimanere nell’Ue.

Da un lato il recente no del referendum olandese ha dato maggiore legittimità alla campagna sulla Brexit, che vede le istituzioni di Bruxelles come profondamente anti-democratiche; dall’altro, nonostante l’accordo Ue-Turchia, il problema dei rifugiati rimane ancora al centro del dibattito referendario.

Inoltre, gli attacchi terroristici a Bruxelles hanno aumentato il senso di vulnerabilità dei britannici e alimentato una sindrome di chiusura verso l’Europa. Infatti, parte del problema è certamente percepito come essere legato a Schengen e alla possibilità di libero movimento da un paese all’altro senza forme di controllo stringenti.

Mentre la campagna per la Brexit capeggiata da Vote Leave impazza, i sostenitori della membership - sotto la guida del gruppo Uk to stay -sembrano essere meno aggressivi. Inoltre, l’iniziativa del governo di inviare volantini informativi ai cittadini sulle conseguenze della Brexit è stato fortemente criticato dai partiti euroscettici come l’Ukip di Nigel Farage come spreco di denaro pubblico.

La campagna per lo “Stay”
D’altro canto, i tentativi del mondo politico di manifestare apertamente il proprio favore per l’opzione di rimanere nell’Ue sono limitati. Il partito conservatore è diviso tra sostenitori della membership e coloro invece che optano per un Regno Unito indipendente, come Boris Johnson, il sindaco di Londra.

I laburisti, invece, nonostante si siano dichiarati a favore dell’Ue, sembra metteranno più energia nella campagna per lo “Stay” solo dopo le elezioni amministrative di maggio. Inoltre, la credibilità del leader progressista Corbyn come una voce pro-Ue lascia molto a desiderare.

Ad oggi, la situazione non appare molto chiara ed è difficile fare previsioni sia in un senso che nell’altro. I sondaggi mostrano che la partita è ancora tutta da giocare. Il 42% dei cittadini sembra a favore di rimanere, il 41% è contrario mentre il 17% è ancora indeciso.

Senza dubbio, in un'epoca di estremi, in cui le voci moderate vengono spesso rapidamente soffocate da facili populismi, la possibilità che la Gran Bretagna non rimanga nell’Unione europea non è certamente più una chimera.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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Francia: il problema del lavoro

Europa
Francia, un jobs act fra necessità e proteste
Céline Torrisi
15/04/2016
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Il disegno di legge del ministro Myriam El Kohmri costituisce il primo passo di un ampio progetto di riforma del codice del lavoro che il primo ministro Manuel Valls intende portare a termine entro il 2018.

La riforma - al centro di vive proteste sociali, fra cui “Nuit Debout”, la mobilitazione notturna nelle piazze di Parigi e nel resto del paese - si propone di semplificare, chiarire e rendere più flessibili le norme che disciplinano il mercato del lavoro in Francia.

Spesso queste norme sono percepite come un ostacolo alle esigenze di adeguamento imposte dal passaggio al digitale, o dalle nuove consapevolezze ecologiche oppure dalla mutazione dei percorsi professionali (sempre meno lineari), e alla fine queste vecchie norme rischiano di essere considerate come un limite alla crescita dell’economia e dell’occupazione del Paese.

Mercato flessibile e diritti
Il testo accoglie i 61 “principi essenziali” per la riforma espressi nei lavori della commissione guidata dall’ex ministro della giustizia Robert Badinter, ed è fortemente ispirato dalle riforme adottate in altri paesi europei; in particolare, segue il modello tedesco e la recente riforma italiana (il cosiddetto “jobs act”).

Il governo Valls intende agire su tre fronti per rendere più flessibile il mercato del lavoro cercando, al contempo, di non far venire meno la tutela dei diritti dei lavoratori. In concreto, l’esecutivo ha annunciato la promozione di un sistema di formazione professionale dei lavoratori per aiutarli a sviluppare le proprie competenze e facilitarne la mobilità, il rafforzamento del dialogo sociale nelle imprese e, per ultimo, il favore per i contratti a durata indeterminata.

Tutto ciò implica una serie di modifiche in quasi tutti gli ambiti disciplinati dal diritto del lavoro: formazione professionale, ferie e giornate di riposo dei lavoratori, orario di lavoro, licenziamenti, contrattazione collettiva e medicina del lavoro.

La pagina web del governo dedicata alla riforma presenta come novità di maggior rilievo la creazione del Cpa (“compte personnel d’activité”), strumento di garanzia dei diritti sociali, destinato a tutti i lavoratori del settore privato e del settore pubblico.

Un altro aspetto di notevole importanza riguarda il rafforzamento della contrattazione collettiva con l’introduzione del referendum sindacale, la promozione degli accordi d’impresa e degli accordi di settore e la maggiorazione del 20% delle ore dei delegati sindacali.

Il terzo filone della riforma è costituito da misure di flessibilità del mercato del lavoro che riguardano principalmente il licenziamento per motivi economici, l’orario di lavoro e le indennità di licenziamento stabilite dai probiviri. Le regole relative al licenziamento per motivi economici sono state ridefinite e, alla luce delle ultime sentenze della Corte di Cassazione sono state precisate le ragioni suscettibili di giustificare un licenziamento per motivi economici (calo delle ordinazioni o dell’utile, perdite di esercizio, etc) e le conseguenze che comporteranno.

Orari di lavoro e flexicurity
Per quanto attiene alla questione degli orari di lavoro, la riforma mantiene le dieci ore come limite della durata giornaliera di lavoro ma introduce la possibilità di innalzare questa soglia, con accordo collettivo, fino a dodici ore in caso di un aumento di attività o per motivi legati all’organizzazione dell’impresa.

La disciplina dell’orario di lavoro è stata modificata anche per quanto riguarda la retribuzione del lavoro straordinario. Il nuovo regime riduce la maggiorazione a un 10% invece del 25% o 50% attualmente in vigore.

Infine,è prevista un’unificazione delle indennità di licenziamento stabilite dal collegio dei probiviri, ponendo un tetto massimo e definendo una tabella nazionale. Tale limitazione è stata introdotta con l’intento di ridare fiducia alle imprese, che potranno contare cosi su un punto di riferimento al momento di valutare il rischio finanziario legato ad una eventuale cessazione del rapporto di lavoro.

Se l’obiettivo della riforma è condiviso da tutte le parti sociali, le misure proposte per raggiungerlo sono oggetto di numerose critiche. Mentre il ministro del lavoro e il primo ministro sbandierano il principio della cosiddetta flexicurity, presentando la riforma del codice del lavoro come uno strumento che rafforza la concorrenza e la tutela dei diritti dei lavoratori, dall’altra parte i sindacati temono invece una maggiore flessibilità e precarietà del lavoro, mentre i datori rimproverano al governo le concessioni fatte ai rappresentanti dei lavoratori nelle ultime settimane.

Scontri sociali
Inoltre, la proposta di riforma del codice del lavoro ha suscitato immediate reazioni nella cittadinanza. La petizione “Loi travail: non, merci!” ha raccolto sin dai primi di marzo 1 milione di firme e varie proteste sono state organizzate in tutta la Francia, sia da parte dei datori di lavori sia da parte dei lavoratori. Una prima protesta si è tenuta in più di 200 città francesi il 9 marzo, giorno in cui il testo doveva essere presentato in Consiglio dei ministri.

Tuttavia, Manuel Valls aveva deciso di rimandare la presentazione del testo al 24 marzo perché potesse continuare il dialogo con le parti sociali. Il 22 marzo, sette organizzazioni patronali, tra cui il Medef e la Cgpme, hanno denunciato nuove modifiche introdotte nel disegno di legge. I sindacati e le organizzazioni studentesche, insoddisfatti dalle concessioni del governo, hanno organizzato una seconda giornata di protesta per chiedere l’abbandono totale della riforma.

Dalla fine di marzo, invece, una periodica mobilitazione notturna ha attraversato varie piazze francesi, fra cui place de la République a Parigi, dove - dopo alcune tensioni - i contestatori sono stati sfollati all’alba di lunedì scorso.

Test per Hollande
Indetta sotto lo slogan “Touche pas à mon Code”, questa seconda mobilizzazione, alla quale - secondo gli organizzatori - avrebbero partecipato più di un milione di persone, annuncia momenti difficili per l’ultima grande riforma sociale del mandato di François Hollande.

Consapevole che il rilancio dell’occupazione, promessa elettorale tra le più importanti del 2012, sarà decisivo nel giudizio che i francesi si faranno sul suo operato, il capo dello stato non può che augurarsi che durante l’iter parlamentare della riforma, iniziato il 4 aprile, si riesca a smorzare il clima di tensione.

Céline Torrisi è membro de l’École française de Rome ed esperto in diritto francese presso il Servizio studi della Corte costituzionale italiana.
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venerdì 22 aprile 2016

Russia. il problema delle sanzioni

Strategie e percorsi alla luce delle sanzioni contro la Russia: conferenza tematica al Centro Russo di Scienza e Cultura

Il 26 aprile 2016 alle 17:45 il Centro Russo di Scienza e Cultura a Roma invita tutti gli interessati alla conferenza tematica dedicata alle possibili soluzioni per il superamento della crisi dovuta all’introduzione delle sanzioni contro la Federazione Russa, attraverso uno sviluppo mirato dei rapporti commerciali ed imprenditoriali italo-russi.

In programma il dibattito sulle proposte valide e concrete per l’avviamento delle attività commerciali sul mercato russo da parte dell’imprenditoria italiana. Basandosi sugli esempi di successo, i relatori forniranno tutte le indicazioni necessarie sulle opportunità di collaborazione tra i due paesi attraverso la creazione delle joint venture e delle reti commerciali sul territorio russo. Particolare attenzione verrà dedicata al meccanismo delle sanzioni ed alle nuove strategie commerciali adatte a fronteggiare la recente crisi.

Durante l’incontro interverranno diversi esponenti del mondo della finanza e del commercio, tra cui un delegato della Coldiretti, l’ex-presidente della Commissione Assembleare Ambiente di Roma Capitale Andrea de Priamo, la presidente del movimento giovanile italo-russo RIM Irina Ossipova, la direttrice dell’associazione per la collaborazione commerciale italo-russa «Strateghia» Maria Asatrian Pompei, il rappresentante dell’associazione «Roma-Russia» Francesco Filini, il rettore dell’Università «Niccolò Cusano» Fabio Fortuna.




Конференция в РЦНК о преодолении последствий санкций в отношении России

26 апреля в 17:45 в Российском центре науки и культуры в Риме пройдет конференция «Преодоление последствий санкций посредством развития итало-российских торговых и промышленных связей».

На встрече будут представлены конкретные возможности для итальянских предпринимателей на российском рынке на примере успешно реализуемых проектов. В частности, будут представлены инструменты развития сотрудничества между Италией и Россией в условиях санкций и экономического кризиса: путем открытия совместных предприятий и организации продаж на территории России.

На конференции выступят:
- представитель Итальянской ассоциации сельскохозяйственных производителей («Кольдиретти»),
- бывший председатель Комиссии по вопросам охраны природы и сельского хозяйства мэрии Рима Андреа Де Приамо,
- президент ассоциации Российско-итальянская молодежь (РИМ) Ирина Осипова,
- президент ассоциации «Стратегия» по поддержке итало-российской кооперации в области бизнеса Мария Асатрян Помпеи,
- представитель ассоциации «Рим-Россия» Франческо Филини,
- ректор университета УНИКУЗАНО Фабио Фортуна.

lunedì 18 aprile 2016

Più Europa in Turchia o più Turchia in Europa?

Migranti
Accordo Ue-Turchia: rinuncia ai valori europei?
Marina Castellaneta
13/04/2016
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Tra necessità legate a ragioni elettorali nazionali, populismo e una malintesa esigenza di sicurezza e di tutela del benessere in casa propria, il Consiglio europeo del 18 marzo scorso si è chiuso con una dichiarazione/accordo con la Turchia che presenta molte zone d’ombra sulla strada che l’Unione europea (Ue) intende perseguire nel “risolvere” la crisi umanitaria in Siria e il dramma dei migranti.

Dubbi di legittimità
All’indomani dei primi round di trasferimenti avviati, in esecuzione dell’accordo, il 4 aprile dalla Grecia verso la Turchia, e che hanno portato - come scrive la Commissione europea - a una riduzione degli arrivi sulle coste greche dai 1.667 del 20 marzo ai 339 del 3 aprile, è opportuno soffermarsi sui dubbi, sotto il profilo della legittimità e dell’opportunità politica, che l’accordo suscita.

L’intesa è incentrata su tre pilastri: ritorno automatico in Turchia dei migranti che arrivano da quel paese in Grecia; reinsediamento dei profughi siriani in Europa (sulla base del principio un ritorno in Turchia, un reinsediamento in Europa) e concessioni alla Turchia per accelerare l’adesione all’Ue.

Vediamo perché, al di là della probabile ineffettività dell’accordo - che non farà altro che chiudere una rotta e aprirne un’altra - l’intesa segna una sconfitta nell’azione Ue relativa alla politica comune d’immigrazione che è “fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi”.

Prima di tutto, per l’arretramento e forse proprio per l’implosione dei valori fondanti dell’Ue. Poi perché la regola base dell’accordo è un baratto, fondato sul sistema di scambio tra esseri umani, molti dei quali puniti - coloro che dalla Turchia fuggono in Grecia, per inseguire il miraggio di una vita dignitosa - e pochi altri premiati.

Non solo. L’intesa mette in secondo piano, nella sostanza, gli obblighi di diritto internazionale - dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - imposti agli stati e alla stessa Ue.

L’imbarazzante abbraccio con Ankara
Al di là del contenuto, poi, è l’abbraccio con la Turchia a essere in sé imbarazzante, proprio in una fase in cui il presidente Erdoğan è sempre più incline a sopprimere libertà fondamentali sull’altare del proprio potere.

Malgrado ciò, però, l’Ue mette il destino di esseri umani nelle mani di Ankara e acconsente all’accelerazione nella roadmap che porterà all’eliminazione, entro giugno 2016, degli obblighi di visto per i cittadini turchi che intendono entrare nello spazio Schengen.

Un do ut des stigmatizzato anche dal Parlamento europeo che, tra l’altro, è stato tagliato fuori dall’intesa con ulteriori dubbi circa la sua conformità al Trattato sul funzionamento dell’Ue (in particolare all’articolo 218, sulla procedura di conclusione degli accordi internazionali).

Controllo delle frontiere e diritti umani
Per quanto riguarda il primo punto, ossia l’accantonamento dei valori europei che è un colpo di piccone alla già debole identità europea, è evidente che tra “ripresa del controllo” delle frontiere esterne e tutela degli individui in fuga da miseria e guerra, l’Ue sceglie senza esitazioni la prima. E questo, malgrado le parole scritte nel Trattato di Lisbona che ha rafforzato la tutela dei diritti umani.

Alle parole dovrebbero seguire i fatti, con la conseguenza che l’Ue dovrebbe essere in prima linea nel bloccare ritorni di massa e reinsediamenti di poche e selezionate vittime e favorire, piuttosto, corridori umanitari che possano condurre chi cerca scampo da guerra, povertà estrema e persecuzioni, in zone sicure.

Come detto, poi, è proprio l’upgrade di Ankara a destare allarme. In pratica, la Turchia di Erdoğan, che stringe il paese sempre di più in una morsa autoritaria, viene classificata come paese sicuro (malgrado mantenga ancora la riserva geografica all’applicazione della Convenzione di Ginevra), con la conseguenza che la domanda di asilo di un migrante che compie la traversata dalla Turchia alla Grecia dovrà essere dichiarata inammissibile, come si legge nelle conclusioni del 18 marzo, “sulla base del concetto di ‘paese di primo asilo’ o ‘paese terzo sicuro’, in conformità del diritto europeo e internazionale”.

Eppure poche righe dopo, al paragrafo 5, l’Ue “ribadisce che si attende che la Turchia rispetti gli standard più elevati in materia di democrazia, stato di diritto, rispetto delle libertà fondamentali, compresa la libertà di espressione”. Un auspicio che Ankara rafforzi i diritti umani, senza alcuna base fattuale sufficiente, considerando che tutto va nella direzione opposta.

L’allarme dell’Unhcr
Sul fronte degli impegni internazionali, l’intesa ha già suscitato allarme nell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per la quale “i rifugiati hanno bisogno di protezione, non di respingimenti”.

Ed invero, dal 20 marzo 2016, in esecuzione dell’accordo, i migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia fanno ritorno in Turchia, in un primo tempo, anche sulla base dell’accordo bilaterale di riammissione tra Grecia e Turchia, che sarà sostituito dal 1° giugno 2016 dall’accordo di riammissione Ue-Turchia.

Ora, considerando che era già operativo l’accordo bilaterale, è evidente la connotazione tutta politica dell’intesa, che suona proprio come un premio ad Erdoğan. E se non è preclusa la possibilità di presentare domanda di asilo nelle isole greche di sbarco, è probabile che, in applicazione della ‘direttiva procedure’, scatti il ritorno in Turchia in quanto paese sicuro.

Di qui, poi, il piano di reinsediamento di cittadini siriani presenti nei campi profughi in Turchia sul territorio Ue, fino ad un massimo di 72mila persone nel 2016. Un sistema connotato da automaticità che non convince in base agli obblighi di analisi individuale richiesta dalla Convenzione di Ginevra.

Il ‘baratto’ dei siriani
Sotto il profilo del baratto “un siriano che ritorna in Turchia contro un siriano reinsediato dalla Turchia nell’Ue”, le perplessità sono proprio di ordine etico. Di fatto, l’Ue procede a una classificazione aprioristica dei rifugiati, operando un sistema punitivo per i migranti costretti a rischiare la vita in mare per sfuggire alla guerra.

Che dire, poi, della limitazione contenuta nel piano di reinsediamento per i soli siriani, escludendo in modo discriminatorio gli altri rifugiati che fuggono da altre parti in cui rischiano persecuzioni?

Analoghe osservazioni per il rapporto “uscita migranti dall’Unione europea - nel caso di specie dalla Grecia - e incassi della Turchia”, la quale ultima in tempi rapidi otterrà, oltre ai 3 miliardi di euro già assegnatili, altri 3 “una volta che queste risorse saranno state utilizzate e a condizione che gli impegni siano soddisfatti” e, in ogni caso, entro il 2018. Con l’auspicio, poi, che questi soldi non servano a ultimare la costruzione del muro al confine sud-est con la Siria, che di fatto blocca le persone vittime della guerra nel proprio Paese.

Marina Castellaneta è Professore associato di diritto internazionale presso l’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
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Terrorismo in Europa: finalmente si parla di strategia

Europa e Terrorismo
Dopo Bruxelles, quale strategia di contrasto?
Diego Bolchini
07/04/2016
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I tragici eventi dello scorso 22 marzo a Bruxelles hanno riportato ancora una volta alla ribalta lo stragismo terroristico affiliato o ispirato al brand Is (l’autoproclamatosi Islamic State). Tra simbolismi e psicologia, il terrorismo induce una cascata di disponibilità, accedendo ad immagini vivide ed influenzando percezioni di individui, società e governi.

Aeroporti e metropolitane sono già stati in passato luoghi di elezione scelti per attacchi terroristici. Si pensi agli attentati del luglio 2005 a Londra, e andando ancora più indietro nel tempo, agli attentati occorsi all’aeroporto di Fiumicino nel 1985.

Affrontare una simile minaccia comporta il ripensamento, ancora una volta, degli strumenti di monitoraggio e contrasto implementabili allo scopo. Alla luce della magnitudo e della frequenza degli eventi stragisti occorsi su suolo europeo negli ultimi due anni, due sembrano le direttrici prioritarie: potenziare la rete di raccolta dell’intelligence, tanto dal versante di ricerca umana quanto elettronica, e rafforzare ed affinare il comparto analitico e predittivo delle forze di polizia e degli organismi di sicurezza, in modo da intercettare i cosiddetti “segnali deboli” in un contesto sovraccarico di informazioni.

In un testo del dicembre 2007, il generale statunitense Russel D. Howard, direttore del Jebsen Center for Counter Terrorism Studies presso la Fletcher School e del Combating Terrorism Center dell’Accademia militare di West Point, già prefigurava l’esigenza operativa sempre più pressante contro le schegge europee di Is: occorre raccogliere intelligence “azionabile” e “preventiva” nelle denied areas, vale a dire in aree (culturali e geografiche) normalmente interdette alle intelligence occidentali.

Precedentemente, nel 2005, John Brown e Jeffrey Cooper, dalle pagine del Washington Post così meglio caratterizzavano ed estendevano il concetto:“The objective of intelligence must be to penetrate not only denied areas but denied minds in order to gain an understanding of intents and motivations of individuals and small groups in countries that are unfamiliar to us”.

Nella realtà europea odierna, gli esempi di denied areas sono purtroppo molteplici: si pensi, uno per tutti, al quartiere di Molenbeek, capace di offrire protezione e riparo a Salah Abdeslam per diversi mesi, quasi una Abbottabad pakistana nel cuore dell’Europa, apparentemente impenetrabile (quanto meno nel breve periodo) al contesto securitario occidentale.

Difronte ai nuovi fenomeni di violenza virulenta, puntiforme e molecolare che attraversa lo spazio di confronto e interlocuzione europeo/nordafricano/mediorientale, occorre ripensare con attenzione alle identità multiple dei singoli.

Se l’Is è capace di sfruttare e manipolare anche cittadini formalmente europei a scopi distruttivi sulle nostre strade e infrastrutture di trasporto così come in Siria ed in Iraq, allora l’occidente deve ripensare a questi stessi individui e alla capacità di attrazione esercitabile su di essi, rendendoli parte attiva di una rete preventiva e di conoscenza “dall’interno”.

Mappare la polisemia delle identità e delle propensioni ideologiche sarà la più grande sfida per le intelligence occidentali nei prossimi anni, in società sempre più ibride, composite e liquide. Una radiografia mirata delle identità dunque contro i lone wolves, i lupi solitari che colpiscono cittadini inermi, scardinando certezze.

Un cittadino etnicamente arabo ma di nazionalità belga guarderà nel prossimo futuro,come riferimento identitario, più alla sua carta di identità e al suo Stato di adozione o ad una affiliazione ideologica antagonista e nichilista? Questa è la sfida da vincere per gli stati di diritto in una società aperta.

Diego Bolchini è analista di relazioni identitarie, autore di contributi per diverse riviste specializzate nei settori afferenti geopolitica, sicurezza e difesa.
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martedì 12 aprile 2016

Russia: lo sguardo rivolto al passato

ssia-Siria
Putin e le paranoie da Guerra Fredda
Francesco Bascone
01/04/2016
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L'annuncio del ritiro russo dalla Siria ha colto di sorpresa un po' tutti. Ma specialmente coloro che sospettano che in ogni mossa di Mosca vi sia un animus nocendi, una volontà di mettere sotto scacco l'Occidente.

Esperti che nella migliore delle ipotesi avevano visto nell'intervento in Siria un tentativo di rovesciare gli equilibri geopolitici mediorientali e di estendere la propria sfera di influenza.

Ma non sono mancati quelli che hanno accusato Mosca di bombardare gli ospedali e massacrare i civili al fine di ingrossare le file dei profughi, e in tal modo mettere in crisi l'Europa: si è infatti parlato di "weaponization" degli sfollati. A tanto può arrivare la mentalità paranoide dei nostalgici della guerra fredda.

Il rischio di un nuovo Afghanistan
Qual è allora la ratio del passo indietro fatto da Putin? Se accettiamo che la Russia di oggi sia una potenza "normale", un rational actor, può essere logico supporre che, una volta messi sulla difensiva gli avversari del regime di Damasco, e convinti i loro sostenitori che la pace va negoziata senza la pre-condizione dell'uscita di scena di Bashar al-Assad, Mosca abbia deciso di incoraggiare il dittatore siriano a tentare seriamente la via negoziale, togliendogli l'illusione di una soluzione puramente militare.

Una seconda spiegazione (una non esclude l'altra) è che Putin abbia voluto evitare di scivolare nelle sabbie mobili della lotta anti-guerriglia, di ripetere cioè l'errore fatto dagli statunitensi dopo la cacciata dei talebani da Kabul.

Come nel caso degli Usa in Afghanistan, in questo "ritiro" c'è forse più continuità che discontinuità: escluso che i russi abbandonino la base navale di Tartus, se terranno una buona parte dei loro aerei in quella di Latakia e - a protezione di entrambe - le batterie di missili anti-aerei S-300 e S-400, la presenza militare russa in Siria non cambierà di molto.

Le unità terrestri da ritirare sono poca cosa. Il cambiamento potrebbe essere essenzialmente nell'impiego della forza aerea: da offensivo a difensivo. Ma come vediamo oggi in Afghanistan, dopo il presunto "ritiro" il ruolo delle forze straniere residue a protezione di quelle governative può ancora comportare un'alta frequenza di missioni dell'aviazione.

Guerra civile e trattative
In queste condizioni la guerra civile è destinata a durare a lungo, senza vincitori né vinti. Una prospettiva che dovrebbe incentivare le parti a trattare.

Ma le probabilità che il negoziato sul power-sharing fra le parti dell'accordo di tregua fallisca sono alte, vista la sete di vendetta e la frammentazione delle forze ribelli, e i fondati timori del gruppo dirigente e delle minoranze religiose per la propria sopravvivenza. Ma anche qualora avesse successo, rimarrebbe il conflitto con l’autoproclamatosi stato islamico e con la filiale siriana di al-Qaida, Jabhat al-Nusra.

Uno stallo militare in tale conflitto può portare ad una divisione territoriale, sia pure solo di fatto ma duratura: da un lato la regione occidentale, fertile, comprendente le maggiori città, sotto il regime attuale allargato a parti dell'opposizione; dall'altro la regione semi-desertica a oriente - con Raqqa, Deir es-Zor, Palmira - unita a Mosul e la sua provincia sotto l'Isis fino a quando la coalizione internazionale non riuscirà a tagliare tutte le teste dell'Idra.

Un'ipotesi, questa della rinuncia ad abbattere lo stato islamico e della conseguente divisione territoriale, non ottimale neanche per la Russia, ma compatibile con il suo interesse primario: proteggere le proprie basi nella regione nord-occidentale della Siria e assicurare la sopravvivenza del regime "laico" di Damasco.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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Sono finiti "i giorni felici" sulla Vistola

Europa
Polonia, come evitare di diventare un pariah
Daniele Fattibene
04/04/2016
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La crisi istituzionale in Polonia sembra aver raggiunto ormai un punto di non ritorno. Da quando si è insediato, il nuovo governo guidato da Beata Szydło del Partito Diritto e Libertà (Prawo i Sprawiedliwość - PiS) ha lanciato un attacco senza precedenti contro media e potere giudiziario, mettendo in serio pericolo il sistema democratico del Paese.

Questa situazione ha creato un grave clima di scontro non soltanto a livello nazionale, ma anche internazionale, con diverse istituzioni che hanno condannato la condotta del governo.

Varsavia è stata già messa sotto osservazione da parte dell’Unione europea (Ue), che da gennaio ha avviato un “dialogo strutturato” con il governo per analizzare la situazione nel paese all’interno del nuovo “Quadro sullo Stato di diritto” adottato nel 2014.

E, forse anche per rintuzzare diffidenze e ostilità, il presidente Andrzej Duda ha appena rilasciato, a margine del Vertice di Washington contro la proliferazione nucleare, una serie d’interviste nelle quali sostiene che “Europa e Usa hanno una visione sbagliata della Polonia”.

Governo contro Corte costituzionale
La crisi si è acuita un paio di settimane fa, quando la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge varata dal governo lo scorso 22 dicembre e volta a emendare la legge sulla Corte costituzionale approvata nel giugno precedente. Il governo ha fortemente criticato questa decisione, e il ministro degli Esteri Witold Waszczykowski ha addirittura accusato il presidente della Corte di agire come un “ayatollah iraniano”.

Inoltre, il primo ministro Szydło ha dichiarato che il governo non pubblicherà il verdetto della Corte sulla Gazzetta Ufficiale, passo necessario per rendere il documento legalmente vincolante. Un fatto questo senza precedenti nella storia recente della Polonia, che ha scatenato forti proteste da parte dell’opposizione e della popolazione civile e che mette in serio pericolo l’intero sistema di “pesi e contrappesi” all’interno del paese.

La Commissione di Venezia condanna Varsavia 
La condotta del governo è stata oggetto di critica non soltanto da parte delle istituzioni nazionali, ma anche da parte del Consiglio d’Europa. La “Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto” (meglio conosciuta come “Commissione di Venezia”), che si occupa di fornire consulenza legale a quei paesi membri che vogliono mettere le proprie legislazioni in linea con gli standard europei, ha condannato il governo di Varsavia.

L’11 marzo la Commissione ha pubblicato, su richiesta di Waszczykowski, un’opinione sugli emendamenti votati dal governo. I membri della Commissione hanno dichiarato che i cambiamenti proposti mettono in pericolo non solo l’efficace funzionamento della Corte costituzionale, ma l’intero stato di diritto nel Paese.

La Commissione ha poi condannato la decisione del governo di non pubblicare il giudizio espresso dalla Corte costituzionale e ha invocato un accordo politico con l’opposizione per superare la situazione di impasse attuale.

Il giudizio della “Commissione di Venezia” è molto importante in quanto potrebbe condizionare fortemente le scelte future che saranno prese in seno all’Ue. Il rischio per la Polonia è che venga attivato prima il “meccanismo preventivo” previsto dall’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea (Tue) e che poi si arrivi a un’eventuale “meccanismo sanzionatorio” con la potenziale sospensione di determinati diritti previsti dai Trattati, compreso quello di voto nel Consiglio. Misure mai prese fino ad ora, ma nate osservando l’atteggiamento dell’ungherese Victor Orban.

Intanto la decisione della Commissione di Venezia ha creato forti malumori all’interno del governo e pesanti critiche sono state rivolte a Waszczykowski, reo di aver chiesto il parere del Consiglio d’Europa. Sebbene alcuni organi di informazione abbiano ipotizzato le dimissioni del ministro, questo scenario appare ora improbabile perché indebolirebbe la posizione del Paese che si sta preparando a ospitare il prossimo summit Nato.

Nel frattempo all’interno dello stesso PiS stanno emergendo voci dissidenti che propongono un compromesso politico con l’opposizione. Tra queste spicca quella del parlamentare Kazimierz Ujazdowski, il quale pare abbia sottoposto una proposta al leader del partito Jaroslaw Kaczyński.

La “quarta Repubblica” di Kaczyński
La “quarta Repubblica” di Kaczyński sta spingendo la Polonia verso una pericolosa deriva autoritaria. Il tentativo del governo di rafforzare il controllo sui vari centri nevralgici del paese rischia non solo di aggravare il livello di scontro nel paese. Il pericolo maggiore è infatti quello che queste reiterate azioni possano isolare la Polonia a livello europeo e internazionale, incrinandone la credibilità di fronte ai partner euro-atlantici.

Dopo essersi faticosamente guadagnata un ruolo significativo nei tavoli decisionali europei (ad esempio attraverso un ruolo attivo svolto per promuovere l’Eastern Partnership e anche tramite l’elezione di Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo) la Polonia rischia di diventare un pariah in Europa, spalleggiata solo dall’Ungheria di Orban.

Il governo deve pertanto trovare un accordo politico interno sul tema della riforma della Corte costituzionale, avviando un dialogo ampio con tutte le componenti della società per arrivare a un testo di riforma il più possibile condiviso.

Questo sarebbe un messaggio molto importante sul piano sia interno che esterno e dimostrerebbe che è possibile conciliare il desiderio di riformare la struttura del paese senza violare i principi europei di democrazia, diritti umani e stato di diritto.

In questa difficile partita l’Ue deve giocare un ruolo costruttivo, dialogando con Varsavia per fare in modo che il governo cambi verso alle sue politiche. In un momento di per sé già molto delicato, l’Ue non può permettersi il rischio di veder sorgere “democrazie illiberali” all’interno dei suoi confini.

Daniele Fattibene è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI Twitter @danifatti.
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