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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 23 febbraio 2015

Grecia: impatto e forti ripercussioni sull'economia dell'Eurozona

Elezioni greche
Effetto Syriza sulle dinamiche politiche europee
Chiara Franco, Eleonora Poli
18/02/2015
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La vittoria di Syriza in Grecia avrà forti ripercussioni sull’economia dell’eurozona. Non sono meno rilevanti le conseguenze che la vittoria di Alexis Tsipras avrà sugli altri paesi dell’Unione europea (Ue) e sul suo Parlamento.

Fine del bipolarismo greco
A parte il pericolo di una deriva populista della democrazia greca, la vittoria di Tsipras rappresenta una débacle storica per i due protagonisti indiscussi del teatro politico ellenico da ormai quattro decenni, Nuova democrazia e Pasok.

Schierati rispettivamente a destra e sinistra del quadro elettorale, entrambi i partiti sono stati fortemente indeboliti dalla crisi economica e dalle conseguenze delle politiche di austerità. Dal novembre 2011 nessuno dei due è stato in grado di disporre di una larga maggioranza con cui governare il paese, ottenendo alle ultime elezioni rispettivamente il 27,81% (9 punti meno di Syriza) e il 4,68% dei voti.

Alla loro sconfitta politica si deve sommare quella morale. Tsipras infatti non si è limitato a vincere le elezioni. Alleandosi con il partito di estrema destra ed euroscettico Anel ha di fatto mosso i primi passi verso lo smantellamento di quel sistema bipolare fondato su una logica di antagonismo, almeno di forma, tra destra e sinistra che ha caratterizzato i governi di Atene dalla fine della dittatura dei colonnelli.

Questo trend non è senza dubbio scevro di implicazioni sui partiti euroscettici ed eurocritici della scena europea.

Parlamento europeo: laboratorio di alleanze inedite?
Le ultime elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014 hanno visto numerosi partiti euroscettici ed eurocritici, situati alla periferia della scena politica, divenire attori centrali con 140 seggi.

Se il gruppo dei critici non contesta il progetto di integrazione europeo di per sé, ma è fortemente contrario alle attuali politiche europee, i partiti euroscettici puntano invece a uno smantellamento più o meno radicale delle istituzioni comuni cha va da Schengen alla politica monetaria.

Se la valanga euroscettica ha suscitato numerosi timori a livello europeo, di fatto l’incapacità di questi gruppi di allearsi, prescindendo dal loro schieramento ideologico, ha indebolito notevolmente la loro forza di azione.

Per esempio, gli inglesi di Ukip (24 seggi) hanno rifiutato di accordarsi con il Front National della francese Marine Le Pen, considerato troppo razzista e xenofobo, mentre, per gli stessi motivi, Alternative for Germany non ha a sua volta accettato l’invito di Ukip di unirsi al gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta. Solo il Movimento 5 Stelle (17 seggi), che di fatto si definisce un’associazione né di destra né di sinistra, si è associato ad Ukip.

A prescindere dal superamento del bilateralismo ideologico a favore di un bieco pragmatismo, una vittoria di Tsipras sulle politiche di austerità imposte dalla troika andrà senza dubbio a beneficiare il Gruppo confederale della sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl, 52 seggi), di cui fanno parte sei rappresentanti di Syryza. Questo potrà acquisire maggiore legittimità agli occhi di quei partiti che, a prescindere dal loro colore, criticano l’Europa e le politiche di austerità.

Eurocritici, euroscettici ed europeisti
Le più immediate conseguenze politiche della vittoria di Tsipras si riscontrano nel rafforzamento dei partiti “eurocritici”, che, come Syriza, non contestano il progetto di integrazione di per sé, ma sono fortemente contrari alle attuali politiche di austerità europee.

È il caso dello spagnolo Podemos, fondato nel 2014 e il cui leader, Pablo Iglesias, si rifà esplicitamente a Syriza. Podemos sfiorerebbe oggi il 30% delle intenzioni di voto, rischiando di diventare il primo partito in gara per le prossime elezioni nazionali del 2015.

Se l’effetto immediato della vittoria di Syriza su Podemos è positivo, nel medio periodo, però, bisognerà vedere quali risultati concreti Tsipras saprà ottenere. Se l’esperimento di Syriza dovesse rivelarsi fallimentare, gli elettori spagnoli che (tra elezioni amministrative e politiche) saranno chiamati al voto più volte nel corso del 2015, sarebbero più restii a concedere fiducia a Iglesias.

Il fallimento di Tsipras nei negoziati con la troika e una conseguente Grexit, potrebbe invece rafforzare i partiti propriamente euroscettici, in particolare Ukip e Front national che propongono scenari più manichei. Ciò infatti dimostrerebbe la difficoltà di sostenere una politica moderata che concili integrazione europea ed interessi nazionali.

A poter capitalizzare sui nuovi venti che soffiano dalla Grecia sono anche i partiti europeisti che, seppur con strategie diverse dalla retorica infiammata di Tsipras e con obiettivi forse più modesti, premono anch’essi per un allentamento delle politiche di austerità.

È questo il caso soprattutto del Pd e del Partito socialista francese. Per il momento, Matteo Renzi e François Hollande hanno adottato una retorica cauta che, pur riconoscendo le esigenze greche, evita il conflitto aperto con le posizioni rigoriste. Si apre per loro una grande opportunità: quella di agire come mediatori nella ricerca di un compromesso che riconcili Atene e Bruxelles.

Chiara Franco è stagista dello IAI. Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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sabato 21 febbraio 2015

Bruxelles: le due crisi da affrontare rilevano le due Europe

Grecia e crisi ucraina
La Cancelliera pivot nelle partite europee
Cesare Merlini
16/02/2015
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“Temo di meno la potenza della Germania che non la sua inazione”. Così disse Radek Sikorski nel novembre del 2011 e l’affermazione fece scalpore, venendo dall’allora ministro degli esteri di quella Polonia che dell’“azione” del vicino tedesco ha conosciuto molti effetti nel corso della sua travagliata storia. E adesso?

Adesso due complessi processi negoziali, dai quali dipenderà molto dell’ordine europeo dei prossimi anni, sono in corso e resteranno di fatto aperti per un po’, al di là dei ricorrenti annunci di successo o di fallimento che i nostri mezzi di comunicazione sono ansiosi di darci ogni giorno. Orbene, in entrambi ricopre un ruolo centrale una Cancelliera tedesca che fino a ieri validamente contendeva al presidente statunitense il titolo di “leader riluttante”.

La posizione di Angela Merkel sarà centrale, ma non è facile. Per la portata intrinseca delle due crisi parallele, innanzitutto. In un mondo al contempo economicamente globalizzato e strategicamente frantumato è in questione la collocazione geopolitica dell’Unione europea (Ue) con i suoi confini e le sue zone-cuscinetto: oggi rispetto alla Russia, domani rispetto ad altri vicini non meno sgradevoli.

Integrazione Ue e alleanza con Usa
È in questione il processo di integrazione europea nel cuore stesso della zona euro, con un rischio di sfaldamento esteso al tutto, compresi i comuni valori fondanti, contestati all'interno da sciovinisti, xenofobi e populisti e all'esterno dallo zar moscovita che non a caso li sostiene.

Ed è in questione anche il rapporto di alleanza con gli Stati Uniti a fronte della più grossa sfida dalla fine della Guerra Fredda, sfida che si tenta di vincere con gli strumenti della cosiddetta “sicurezza ibrida”: economici,finanziari, informatici e di immagine anziché militari.

I due processi negoziali non son certo lì per risolvere tutte queste questioni, ma sono indicativi del percorso che si intende seguire per affrontarle. Percorso arduo, lungo il quale sappiamo in partenza che i successi saranno ambigui e insufficienti, mentre gli insuccessi rischiano di esser gravi e forse irreversibili.

Asse Partenone-Cremlino?
Contribuisce alle difficoltà dei negoziati la natura delle controparti, entrambe ostiche ancorché molto diversamente. Da un parte Vladimir Putin, un ex-Kgb incline alla menzogna e alla manipolazione dei fatti, e tuttavia oggetto di grande consenso nazionalista interno pur nella prospettiva di un drammatico impoverimento conseguente all'effetto combinato delle sanzioni economiche e del crollo dei prezzi del petrolio.

Dall'altra Alexis Tsipras, un ex-radical chic incline al populismo e al sinistrismo,che gode anch'egli di appoggi interni di tipo nazionalista, ma accompagnati, questi, dal desiderio di uscire da un drammatico impoverimento seguito alla lunga fase di vita vissuta al di sopra dei propri mezzi.

In base al principio che gli opposti si incontrano, entrambi hanno sventolato la possibilità di aiutarsi a vicenda, l’uno offrendo l’aiuto delle sue casse pur in via di svuotamento e l’altro cercando di indebolire l’arma delle sanzioni, l’unica di cui si può avvalere un’Europa saggiamente non bellicosa. L’ipotesi di un asse fra il Partenone e il Cremlino non è molto credibile, ma aiuta a vedere che il legame fra i due processi negoziali va oltre la contemporaneità.

Poi ci sono i compagni di viaggio. Giustamente Merkel, pur tenendo la crisi dell’Ucraina nell'ambito europeo, è volata a Washington, dove Barack Obama, finora provvidenzialmente incline alla cautela (dopo i disastri ereditati dall'aggressività del suo predecessore), è diviso fra la convinzione diffusa oltre-Atlantico che agitare la minaccia delle armi aiuta sempre la diplomazia e il ragionevole sospetto che almeno con Putin potrebbe non essere così.

Obama è però premuto da un Congresso dominato da repubblicani dal grilletto facile e poco inclini ad apprezzare il fatto che le sanzioni economiche contro la Russia costano agli europei più di quanto costerebbe loro inviare carichi d’armi a Kiev - letali o non che fossero.

Nella crisi con la Grecia, peraltro, il sostegno del Presidente Usa va alla flessibilità e alla crescita, quindi cade paradossalmente più dalla parte dei sostenitori di Tsipras, tradizionalmente anti-americani di sinistra o di destra, che da quella del rigido ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schoeuble, pur di antica fede atlantica. Ma nell’uno come nell’altro contesto le preferenze degli Stati Uniti non sembrano poter essere decisive.

Partita europea
La partita si gioca prevalentemente in Europa, dove il composito schieramento dei partner dell'Ue vede variamente divisi falchi e colombe, “flessibilisti” e “rigidisti” a seconda del processo negoziale considerato. La presenza del Presidente francese di spalla alla Cancelliera tedesca attorno ai bianchi tavoli di Kiev, Mosca e Minsk, e la distanza da essi del Primo Ministro britannico simboleggiano ad un tempo i pesi rispettivi e la disponibilità ad operare congiuntamente.

Così come l’assenza dei vertici dell'Ue (ma non l’Alto Rappresentante Mogherini che non è al livello dei capi di governo) simboleggia il prevalere dell’approccio intergovernativo su quello integrato. Le istituzioni comuni sono tuttavia la sede dell’altro processo negoziale, quello dell’area euro, dove tutti i partecipanti sono uguali in teoria, ma uno, per dirla con Orwell, è più uguale degli altri. La vera differenza sta nella presenza, qui, di un attore indipendente e a vocazione federale come la Banca centrale europea.

In verità, il nodo più difficile da sciogliere nello scenario di una Germania che esce dall'inazione sta forse proprio nella Repubblica federale stessa. Il ruolo centrale della Merkel discende meno dall'ambizione del personaggio e più dalla centralità - geopolitica nell'Eurasia e geoeconomica nell'Ue - riacquistata dallo stato tedesco, anche grazie a gentile concessione della Francia e della Gran Bretagna, avare di integrazione europea per miope fierezza nazionale.

Il problema è che la centralità stenta a prendere i connotati della leadership nell'operare della dirigenze tedesca, cioè lungimiranza e strategia. Per spiegarci, gli Stati Uniti hanno assunto la guida dell’Occidente nella seconda metà del secolo scorso non solo vincendo la guerra, ma anche lanciando il Piano Marshall.

La partita dell’Ucraina non si gioca solo nella guerra negoziale con Putin, ma nella capacità di far sorgere in quel paese uno stato e un’economia efficienti, per il che, calcola il finanziere Soros, ci vorrà almeno il decuplo delle risorse al momento contemplate.

E la partita della Grecia non si vince solo brandendo l'icona tedesca del bilancio virtuoso, che altrove, in assenza del forte avanzo commerciale, rischia di portare all'asfissia economica. Occorre alimentare con risorse un programma di uscita comune dalla recessione. Ma dai contabili che circondano la "leader riluttante" ci si può aspettare un Piano Marshall foss'anche in formato supermini?

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
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Ucraina: la fragile tregua di Minsk2

Crisi Ucraina
Il tour de force di Minsk finisce, i dubbi restano
Francesco Bascone
16/02/2015
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Il tour de force diplomatico compiuto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande potrebbe diventare un caso di scuola nello studio della mediazione.

Anche se la Merkel ha definito il risultato della sua fatica niente più che “un barlume di speranza”, segno che l'atteggiamento tenuto dal presidente russo Vladimir Putin nel corso del negoziato non ispira molta fiducia e che i termini dell'intesa sono esposti a numerose alee.

Nuovo accordo di Minsk
La facile previsione che le clausole dell'accordo riferite al medio termine rimarranno inapplicate non sminuisce il grande merito di aver condotto le parti ad accettare la cessazione dei combattimenti, sia pure con la grave anomalia di un rinvio di due-tre giorni e un termine di altre due settimane per il ritiro delle armi pesanti dalla zona cuscinetto.

Se l'armistizio terrà, sia pure con qualche incidente, si sarà evitata una moltiplicazione delle sofferenze per la popolazione civile, l'avanzata dei ribelli su Mariupol, l'incombente decisione americana di armare l'Ucraina, e l'accusa russa agli Stati Uniti di aver lanciato una proxy war (guerra delegata), pretesto per un intervento più aperto e più massiccio di Mosca a fianco dei ribelli.

Fattori di fragilità del cessate-il-fuoco sono la tentazione di rettificare a proprio vantaggio la linea di demarcazione, conquistando vie di comunicazione e punti strategici, e lo scarso controllo sia di Kiev che di Mosca sulle milizie di volontari.

Entrambi i governi dovranno mostrare determinazione nell'imporre loro il rispetto delle regole, senza lasciarsi condizionare da preoccupazioni di politica interna. L'insoddisfazione russa per l'insufficiente riduzione delle sanzioni e l'eventuale decisione statunitense di fornire materiale bellico sia pur “difensivo” a Kiev costituiscono ulteriori rischi.

All'Osce spetterà il gravoso, ma essenziale, compito di osservare il rispetto delle clausole armistiziali lungo tutta la fascia di sicurezza. L'esperienza delle fasi precedenti non è molto incoraggiante: i ribelli impedivano alle pattuglie Osce di ispezionare il loro territorio, prendendole in alcuni casi in ostaggio. Un test della buona fede di Mosca sarà il rispetto da parte dei suoi protetti della funzione degli osservatori.

Cessate il fuoco
L'accordo di Minsk non traccia un confine fra le due regioni a statuto speciale e il resto dell'Ucraina, ma solo delle linee che delimitano la fascia di sicurezza da cui devono essere ritirate le armi pesanti.

Ed ecco la ragione dell'entrata in vigore posticipata del cessate il fuoco: Putin, non potendo ottenere dal presidente ucraino Petro Poroshenko la cessione della sacca di Debaltsevo che si insinua nel territorio controllato dai ribelli (e tanto meno dell'importante città portuale e industriale di Mariupol), ha a lungo insistito per un rinvio di dieci giorni dell'armistizio, in modo da avere il tempo per raddrizzare sul campo di battaglia quella linea di demarcazione che da provvisoria potrebbe un giorno trasformarsi in definitiva.

Ha poi dovuto accontentarsi di 60 ore, fino alla mezzanotte del 14 febbraio. La recrudescenza dei combattimenti durante quell'intervallo era dunque scontata. Ma l'obiettivo dei ribelli non è stato raggiunto. E non è detto che sia un bene: Debaltsevo rimane una spina nel loro fianco e, a meno di uno scambio di territori negoziato, rischia di fare da detonatore a una ripresa delle ostilità.

Se invece il cessate il fuoco terrà, la maratona di Minsk sarà stata un successo, anche se - come è probabile - le clausole sul reintegro del Donbass nel territorio nazionale e sul ristabilimento del controllo di Kiev sul confine sud-orientale entro fine anno rimarranno lettera morta.

Le posizioni sono troppo distanti, l'accordo si è potuto fare solo grazie al largo margine di ambiguità insito nel termine “autonomia”. Poroshenko acquisisce solo il riconoscimento dell'integrità territoriale, principio che peraltro Mosca riconosce anche per la Moldova, pur sostenendo la secessione di fatto della Transnistria!

Se il previsto negoziato si rivelerà infruttuoso si andrà verso un analogo “conflitto congelato”. Intanto Mosca ha incassato la rassegnazione degli europei a non sollevare la questione dell’annessione della Crimea.

Novorossija
Teoricamente si potrebbe anche immaginare un interesse della Russia a favorire un accordo su base federale, che dia alla regione Donetsk-Luhansk il pieno auto-governo e il potere di condizionare le scelte internazionali dell'Ucraina, a cominciare dalla neutralità e dall'allentamento dei legami con l'Unione europea: è proprio questa la finalità principale che guida l'azione di Mosca (e infatti questa strada è stata tentata anche nei confronti della Moldova).

Ma una soluzione dualistica, sul modello del piano Annan per Cipro, è assolutamente inaccettabile per Kiev.

Il ristabilimento della sovranità effettiva sul Donbass è dunque una prospettiva poco più che teorica. Salvo miracoli, la “Novorossija” rimarrà uno stato non riconosciuto, sotto protettorato di fatto della Russia, anche se nominalmente parte dell'Ucraina anche secondo Mosca.

Uno status identico a quello della Transnistria, e a quello di Abkhazia e Sud-Ossezia fino all'agosto 2008. E con la stessa funzione, quella di esercitare una costante pressione su una repubblica ex-sovietica incline a gravitare verso la Nato e l'Ue.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia
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venerdì 20 febbraio 2015

Ucraina: Lo scenario Ucraino e i conflitti congelati del Caucaso: imparare dal passato per analizzare il presente.

 di FEDERICO SALVATI
(federicoslvt@gmail.com)

Prima di dire qualunque cosa è doveroso fare una premessa. Dall'inizio della crisi in Crimea e nel Dombass molti dei mie conoscenti sapendo il mio coinvolgimento e il mio interesse per i conflitti dell'area post sovietica mi hanno chiesto: “cosa ne pensi dell'Ucraina, come finirà?”. La mia riposta standard a questa domanda, con tono provocatorio, è sempre stata: “l'Ucraina finirà come L'Ucraina ne più ne meno”.  Il significato di questa sciocca tautologia è presto detto: nonostante i conflitti post sovietici abbiano tutti una sottile sottotrama comune, ognuno di loro rappresenta un caso unico. 

Nell'analisi di ogni conflitto c'è sempre bisogno di adattare le categorie teoriche al caso specifico. Si deve cercare ad ogni costo di non essere prevenuti riguardo agli avvenimenti ed evitare ogni inferenza che non sia fondata su basi argomentative stabili. In caso contrario alto è il rischio di una visione puramente teorica e non aderente alla realtà. Se questo da una parte rappresenta un must nell'analisi dei conflitti (non solo post-sovietici) dall'altra, l'accumulazione empirica di dati ci permette di creare delle categorie cognitive che tendono a rendere la realtà più intellegibile e ci permettono rendere le nostre previsioni più realistiche.
 Cosa ci suggerisce l'esperienza analitica passata riguardo al conflitto ucraino? 
Quale sarà il destino di questo scenario?

Cominciamo ad affrontare la questione dal punto di vista russo.

LA PROSPETTIVA RUSSA
A patire dai primi anni 90 dello scorso secolo Mosca è sempre stata coinvolta nei conflitti dell'area post sovietica. Guardando allo scenario nel suo insieme le somiglianze con i singoli casi sono numerose ma uno tra tutti risalta più degli altri: quello del sud Ossezia Agosto 2008. I commentatori che hanno fin qui dato la loro opinione sull'argomento ucraino hanno esposto come maggiori motivazioni dell'attacco russo:
1 Il soffocamento di Mosca da parte della NATO
2 L'assenza di un regime politico amico in Ucraina che garantisse sicurezza
3 L'importanza strategica dei territori occupati (e in particolare della Crimea)
Tali questioni erano già state sollevate a loro tempo nel caso della Georgia e da questo punto di vista stiamo rivivendo una realtà che abbiamo già visto. Anche le pratiche di “passaportizzazione” all'interno dei territori occupati sono un altro aspetto in comune, così come lo è l'appello alla prevenzione di genocidio e alla Responsabilità a Proteggere da parte di Mosca per giustificare l'intervento. Ci fa notare Jeffry Mankoff, però, che questo conflitto ha un elemento di grande innovazione che non era mai comparso prima: l'annessione territoriale. Se l'obbiettivo in questa situazione per Mosca fosse stato solo la destabilizzazione del paese, la presa di possesso di un cuneo strategico nel territorio avversario e il ristabilimento della propria area d'influenza all'interno dell'area post sovietica, l'annessione risulta una scelta alquanto discutibile. Che cosa ha fatto scattare questa opzione che, è doveroso ricordare, è invocata dal Sud Ossezia ormai da un ventennio? Il primo assunto da accettare per capire la situazione è che Putin agisce in maniera razionale cercando di conseguire i propri obbiettivi strategici con tutti i mezzi a sua disposizione. La Crimea è uno spazio territoriale 36 volte più grande del Sud Ossetia che permette un buon un buon accesso al Mar Nero e di mantenere una posizione nel Mar di Azov. In Crimea è presente la base di Sevastopol che ha un valore non solo strategico ma anche simbolico per Mosca. La penisola inoltre rende possibile una migliore difesa dei confini trovandosi a 1.300 KM dalla capitale e praticamente al confine con il Caucaso russo. Secondo Sergei Markov (un commentatore russo legato al Cremlino) inoltre l'annessione non era l'opzione primaria.  Infatti questa sarebbe stata una reazione al rifiuto da parte dell'America delle condizioni di Mosca durante le prime negoziazioni. L'altra possibile spiegazione per l'annessione della Crimea è di carattere ideologico e politico. L'azione in un modo o nell'altro identificherà per sempre Putin per le generazioni a venire. Questa sarà l'evento per cui verrà maggiormente ricordato. L'intervento da questo punto di vista è in linea con i concetti politici su cui si basa l'amministrazione del presidente. È centrale comprendere che il grande progetto di Mosca è quello di lanciare sulla scena internazionale un polo russo che sia un alternativa ideologica e politica all'occidente post guerra fredda. Nel conseguire ciò egli rivendica il proprio diritto, a livello interno, di governare il paese secondo i principi della “democrazia sovrana” e a livello estero di seguire i propri interessi attraverso il conseguimento degli obiettivi strategici nella propria area d'influenza (quello che l'ex ministro degli esteri Sergjiev Lavrov aveva chiamato “Nazionalismo Pragmatico”). L'annessione sarebbe quindi la realizzazione pratica di una dottrina politica Putiniana risultato di una miscellanea di alcuni concetti provenienti dal neo-eurasiatismo di Durin e dal mondo multipolare di Prinakov.

LA PROSPETTIVA UCRAINA
Dal punto di vista Ucraino la situazione è altrettanto grave e complessa. Mentre per alcuni commentatori la Crimea era una tragedia annunciata per altri è stato uno shock. La situazione sociale in Ucraina era infatti nettamente diversa da quella dell'Ossetia, del Karabakh e anche della Transnistria. La minoranza Armena in Azerbaijan soffriva di un livello di emarginazione altissimo rispetto alla minoranza russa in Crimea. In Georgia le politiche di Gamsakhurdia avevano un chiaro intento di identificare le popolazioni non georgiane come “ospiti” sul territorio nazionale. In Ucraina la sensazione che c'era tra gli abitanti della Crimea e del Dombass era piuttosto di carattere localistico. La coscienza di essere una minoranza linguistica era piuttosto attenuata. Uno studio recentemente condotto a riguardo ha dimostrato come in questo paese il rapporto tra identità e provenienza linguistica non fosse così marcato come la tradizione geopolitica tende a far trasparire. Secondo Kiev un ruolo fondamentale nello scoppio degli scontri l'ha giocato la situazione economica. L'Ucraina tra i paesi dell'ex blocco sovietico è quello con il maggior numero di giovani con un diploma universitario. La buona educazione però non corrisponde allo stesso modo a opportunità concrete lavorative a causa della situazione sociale di corruzione e crisi economica. Questo ha generato un senso di frustrazione collettiva che si è propagata in maniera particolare nell'est del paese, sede dell'industria pensante ucraina e colonna portante dell'economia nazionale.
La priorità per Kiev in questo momento è di rinforzare la propria forza di difesa. Fino a qualche settimana fa infatti la penetrazione delle forze russe verso Odessa sembrava una realtà molto concreta. Questa operazione (denominata progetto “Novorassia”) avrebbe permesso a Mosca d'impadronirsi dell'altro obiettivo strategico di rilievo sulle coste del Mar Nero: il poro di Odessa. Il possesso di questa città gli avrebbe permesso non solo di controllare meglio l'accesso alla costa ma di congiungersi anche con i territori della Transnistria  e controllare completamente l'area russofona del paese. Al di la di ciò non è ancora chiaro quale sia la strategia d'ingaggio adottata dal governo nei confronti del problema.
Fino alla fine dell'anno scorso Kiev era ben decisa a seguire l'esempio di Tbilisi per quanto riguarda l'Ossetia e l'Abkhatia. Attraverso riforme e incentivi di carattere sociale ed economico, il governo sperava di convincere i separatisti a deporre le armi per ricongiungersi in una società più equa e prospera. Negli ultimi mesi la situazione si è fatta, però, più torbida. Kiev rifiuta ancora un approccio di tipo nazionalista e retorico, tipo quello che Baku ha adottato per il Karabakh. Tale impostazione in 20 anni di conflitto “congelato”  non ha portato nessun risultato concreto all'Azerbaijan se non l'inasprirsi delle tensioni e l'irrigidirsi delle posizioni negoziali. Una soluzione militare pura e semplice, sembrerebbe quindi da escludere in questo caso(visto anche l'esempio Georgiano del 2008).  Alcuni esponenti del mondo estremista hanno proposto un altra strategia. Kiev dovrebbe creare una linea di contatto, isolare le regioni occupate, fortificare la pressione politica sulla Russia e sospendere la somministrazione della spesa sociale per i territori occupati. Questo scenario è sicuramente più realistico rispetto al precedente ma di certo non più incoraggiante. La privazione sistematica delle risorse statali per i residenti delle regioni secessioniste è già partita. In questo caso l'Ucraina congelerebbe il conflitto. Si verrebbe a creare uno scenario simile  quello del Karabakh in cui le pressioni dalla Madre Patria avvicinano sempre di più le regioni secessioniste alla nuovo stato di accesso. La pressione politica ed economica su Mosca nel tempo potrebbe poi rivelarsi di dubbia efficacia. Chi conosce anche un minimo la cultura popolare russa sa che questa nazione ha insito il concetto di sacrificio e sofferenza della comunità. Una rinnovata pressione potrebbe avere un effetto contrario a quello desiderato fornendo a Putin il capitale sociale per realizzare i propri progetti.
Una scelta  più saggia sarebbe quella di riconoscere, come ha fatto la Georgia, i territori come temporaneamente occupati e provvedere ai bisogni dei residenti attraverso programmi economici e sociali nel tentativo di riportarli verso la madrepatria.
Fondamentale sarà il ruolo degli IDP nel futuro politico dello scenario. È vitale che il Governo di Kiev provveda ai bisogni sociali degli IDP che sono sul territorio nazionale e quelli ancora presenti nei territori occupati. Questi in futuro saranno la base sociale dell'autorità governativa per ristabilire la sovranità sul territorio e impostare la riconciliazione.

Conclusioni
In questo breve spazio non abbiamo potuto affrontare tutti i fattori della questione che sicuramente merita una trattazione più estesa. L'intervento Russo in Ucraina da un punto di vista storico può essere annoverato nella politica revisionista di questo paese, susseguente la conferenza di Monaco del 2007. Una risposta univoca e secca a quale sarà il destino dello scenario non esiste ma di certo dagli elementi esposti si possono trarre delle conclusioni. È chiaro che l'Ucraina si prepara ad una situazione prolungata di tensione. Il governo di Kiev spera di giocare con successo la carta delle riforme strutturali. Un'azione ben riuscita in questo senso gli permetterebbe da una parte d'ingaggiare le popolazioni delle regioni secessioniste e dall'altra di accaparrarsi definitivamente il sostegno della comunità occidentale. Le speranze di Kiev potrebbero però scontrarsi con un'amara verità. Per Mosca infatti congelare il conflitto per ora non sembra un'opzione valida. Per adesso non esiste una situazione di stallo militare, la Russia ha raggiunto tutti i suoi obiettivi strategici nel teatro e il favore della popolazione gli permette di conservare i territori annessi con facilità. Per queste ragioni oggi l'azione russa si concentra su attività di normalizzazione e di state-building, secondo il modello transdiniestro. Mosca a differenza di quanto ha fatto con il sud Ossetia non sembra voler gettare i territori occupati in un limbo giuridico tanto scomodo quanto incerto.


Concluderei citando un episodio che molto probabilmente è caduto nel dimenticatoio ma potrebbe essere esemplificativo per il caso ucraino. Nel 2008 Putin rivolgendosi a Bush durante consiglio Russia-Nato disse: “George, vedi, l'Ucraina non è uno stato sovrano”.  Dopo questa affermazione avrebbe poi aggiunto come la nazione rappresentava una costruzione artificiale e che la parte ovest sarebbe appartenuta al mondo europeo mentre la parte orientale invece sarebbe stata invece “Nostra”.

venerdì 13 febbraio 2015

Ucraina: la vecchia e la nuova Europa a confronto

amburi di guerra in Ucraina
O per paura, o per speranza di guadagno, oppure per onore
Giuseppe Cucchi
11/02/2015
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Problemi con la Russia? Noi italiani certamente non ne abbiamo. Si tratta di un paese cui ci legavano relazioni commerciali particolarmente forti, da cui in buona parte dipendevamo per le forniture di gas e che per decenni era stato un forte riferimento ideologico per circa un terzo della nostra popolazione.

Storie diverse e percezioni diverse
Inoltre, benché la sua flotta sia già presente in acque mediterranee, e che tale presenza appaia destinata a crescere nel prossimo futuro, la Russia rimane un paese lontano dall'Italia: già in tempi di guerra fredda faticavamo ad immaginarcela come un pericolo costantemente incombente. Figuriamoci adesso, ad una generazione circa di distanza da quel conflitto mai combattuto!

In un orizzonte più vasto, la Russia appare come la naturale candidata ad un rapporto più stretto con l'Unione europea (Ue), così da sfruttare al meglio la loro complementarità. Si tratterebbe, oltretutto, di un ruolo per cui la Russia rimane l'ultima possibile candidata dopo che la progressiva islamizzazione rischia di fare della Turchia un partner non credibile.

Quanto detto per l'Italia è certamente valido, per buona parte dei paesi dell'Unione, almeno di quelli che Donald Rumsfeld, negli anni di G:W.Bush, accorpava nella “vecchia Europa".

Il discorso si fa invece molto diverso , allorché si passa alla "nuova Europa", vale a dire agli Stati rimasti prigionieri dell'Urss per circa un cinquantennio ed a quelli che, come i baltici, erano stati addirittura inseriti nell'Unione Sovietica. 
Lì i problemi con la Russia sono particolarmente gravi, coinvolgendo sentimenti importanti quali la paura e l'odio. Paura per un possibile ritorno russo, temuto con tale intensità da generare reazioni così negative che potrebbero, nel tempo, trasformare quello che per ora è soltanto un incubo in una "self fullfilling prophecy".

Odio tanto intenso da motivare, come avviene in Lettonia ed Estonia, leggi che trasformano le minoranze russofone in cittadini di seconda categoria, così da impedire la formazione di una “partito russo” legittimo che potrebbe minacciare l’indipendenza.

Europa a guida tedesca o americana?
La Germania ha con la Russia lo stesso tipo di fruttuosi rapporti economici e pericolosa dipendenza energetica che caratterizza l'Italia, ma in più appare indecisa ad assumere quel ruolo di leadership europea cui molti fattori sembrano inesorabilmente destinarla.

Un ruolo che comporta privilegi e vantaggi ma che è nel contempo ricolmo di oneri e di rischi. Primi fra tutti, nel caso in oggetto, quello di riuscire a rendere più razionale il comportamento della "nuova Europa", agendo in maniera tale da mitigare il suo odio verso la Russia e da porre un freno alle sue esagerate paure.

Ciò detto, è chiaro come una oculata prudenza dovrebbe essere d'obbligo ogni volta che l'Ue tratta con la Russia su temi che almeno una delle parti, se non tutte e due, considerano come particolarmente delicati.

Nel caso dell'Ucraina invece è avvenuto tutto il contrario nonostante che quanto era successo in Georgia alcuni anni fa avrebbe dovuto farci comprendere come la Russia assolutamente non tollerasse intromissioni che considera pericolose per la propria sicurezza nell'area che valuta come il suo "near abroad".

Ucraina al confine tra Washington e Mosca
Perché dunque aver scelto un comportamento tra l’assurdo e il suicida? Da quando sono divenuti la superpotenza per antonomasia, gli Usa tendono a considerare per molti aspetti anche se stessi come un paese europeo. O forse, meglio, tendono a considerare l'Europa come una loro esclusiva riserva di caccia, un pochino come il loro "near abroad".

Probabilmente non hanno torto, visto che l'unica cosa che potrebbe mettere in forse a breve scadenza il primato americano nel mondo sarebbe proprio la separazione degli Usa dalla Ue, l'unico alleato con cui essi condividono oltre a momentanei interessi anche valori permanenti.

La crisi ucraina non è di conseguenza solo una crisi fra Ue e Russia ma anche, più e prima di questa, una crisi scoppiata per definire con chiarezza ove finisca il "near abroad" russo ed inizi quello americano.

Ogni ipotesi di soluzione rischia così di decadere, o di non essere addirittura presa in considerazione, se non è gradita in partenza a tutti e tre i protagonisti. Oltretutto in questo momento, mentre è nell'interesse dell' Europa, e forse anche della Russia, chiudere il pericoloso contenzioso quanto prima possibile, l'interesse dell'America sembra invece essere quello di prolungarlo.

Oltre a ricompattare i vecchi legami fra gli Stati europei e gli Usa la tensione ha infatti ridato una ragion d'essere alla Nato, ha affondato definitivamente il progetto del gasdotto Southstream che avrebbe consentito al gas russo di aggirare il ricatto ucraino, ha evidenziato a tutti gli stati europei come la Germania non sia ancora né pronta né disposta a sostituirsi agli Stati Uniti quale leader di riferimento e sta rilanciando quel progetto della cintura di missili anti missile schierati in Europa cui gli americani, pur accantonandolo, non avevano mai completamente rinunciato.

Il permanere del contenzioso infine rende utopica l'ipotesi dell'accordo fra Ue e Russia di cui si è già fatto cenno e che avrebbe permesso la nascita di una entità capace di insidiare nel tempo il primato americano nel mondo, un ruolo che per ora rimane riservato unicamente alla Cina.

Pace senza onore, o onore senza pace?
Non ci resta quindi che sperare che la consapevolezza del rischio immanente convinca tutti che è giunto il momento di recedere dalle prese di posizione più dure per elaborare un compromesso che consenta a ciascuno di salvare la faccia.

Un punto, quest'ultimo, estremamente importante. Putin accusa l'Occidente di avere umiliato per anni l'orgoglio russo. Il Presidente Obama promette ai cadetti di West Point che non permetterà a nessuno di trasformare gli Stati Uniti nella seconda potenza del mondo. Gli stessi Stati europei oppongono resistenza ad una maggiore integrazione, malgrado evidenti vantaggi, per non rinnegare almeno in parte una storia nazionale gloriosa.

Sono tutti fatti che evidenziano quanto sia forte l'orgoglio dei protagonisti coinvolti in questa vicenda e quanto essi tengano a salvaguardare ciò che considerano come il proprio onore.

Tucidide, nel parlare delle guerre, precisa come esse scoppino "o per paura, o per speranza di guadagno oppure per onore".

Nel pasticciaccio ucraino paura ed interessi, cioè speranza di guadagno, giocano già un ruolo molto forte. Se trasformassimo poi questo conflitto anche in una questione d'onore la misura sarebbe colma ed il volano che abbiamo da tempo avviato potrebbe rivelarsi inarrestabile.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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Terrorismo e politica europea

Lotta al Terrorismo
Più solidarietà per la sicurezza Ue 
Vincenzo Delicato
08/02/2015
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Che ruolo può e deve giocare l’Unione europea (Ue) nelle attività antiterrorismo? È ancora efficace il sistema di sicurezza comune? Sono queste alcune delle questioni tornate in auge dopo gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo.

La lotta al terrorismo rientra principalmente tra le competenze nazionali. Secondo i trattati, l’Ue non può incidere sulle responsabilità degli stati membri in materia di ordine pubblico e sicurezza, ma è destinata a sostenerne l’azione promuovendo uno standard di riferimento normativo unitario e misure di collaborazione in campo penale. Il terrorismo assume rilievo sia nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune sia nella cooperazione giudiziaria e di polizia

Solidarietà comunitaria
“Disposizioni specifiche del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (artt. 67 ss.) mirano al ravvicinamento delle legislazioni nazionali attraverso ‘norme minime’ per la qualificazione dei reati e delle sanzioni. Al contempo dettano i criteri per il congelamento di beni e per la cooperazione penale. Le agenzie Europol ed Eurojust provvedono alla raccolta di informazioni e possono coordinare le attività giudiziarie e di polizia. Il terrorismo costituisce, infine, motivo di attivazione della “clausola di solidarietà”, per l’assistenza di altri Stati membri con propri mezzi a disposizione (art. 222).”

La materia è disciplinata anche da norme europee derivate, in particolare da regolamenti, direttive, decisioni e altre fonti subordinate.

Le banche dati europee, e soprattutto il “Sistema informativo Schengen”, offrono agli stati membri un numero elevatissimo di informazioni. Le reti ufficiali di collegamento e le squadre investigative congiunte agevolano lo scambio di dati e il raccordo giudiziario.

Sempre in materia di terrorismo è applicabile il “mandato di arresto europeo”. Comitati strategici e gruppi di lavoro del Consiglio affrontano periodicamente la materia sia dal punto di vista delle relazioni esterne, sia per le questioni di giustizia e affari interni.

Inoltre dal 2004 è operativo il Coordinatore antiterrorismo, al quale si deve la definizione di importanti documenti di analisi, raccomandazioni politiche e proposte a contenuto strategico.

Quanto alle numerose iniziative della Commissione europea, nella sua funzione di garante dei trattati, essa ha sempre posto il terrorismo come priorità, indicando le misure per il migliore utilizzo degli strumenti esistenti e avanzando proposte e azioni di raccordo con gli ordinamenti nazionali.

Sono particolarmente significativi al riguardo la “Strategia di sicurezza interna” 2010-2014 e le comunicazioni relative al prossimo programma 2015-2020.

La lotta al terrorismo beneficia, peraltro, di finanziamento europeo nell’ambito del fondo sulla sicurezza interna (ISF 2014-2020). Va, infine, considerato che dal 1° dicembre 2014 la Commissione europea e la Corte di giustizia esercitano le proprie funzioni anche per i settori di giustizia e affari interni, e questo renderà più agevole l’applicazione delle disposizioni europee.

Direttiva sul Pnr?
L’Ue ha certamente realizzato un meccanismo di cooperazione penale complesso e suscettibile di sviluppo in grado di offrire concrete e importanti possibilità di intervento per gli stati membri.

Anche la Presidenza italiana di turno che si è conclusa ha portato a termine una serie di dossier strategici, sostenendo tra l’altro soluzioni volte ad agevolare le informazioni sui foreign fighters e migliorare i rapporti tra forze di polizia e servizi di intelligence.

Tutte le iniziative devono confrontarsi con le diversità ancora esistenti tra gli ordinamenti nazionali e devono tener conto del bilanciamento tra la sicurezza e l’esercizio dei diritti umani, in particolare quelli di privacy e di circolazione delle persone.

Proprio su questi aspetti l’attività delle istituzioni europee negli ultimi anni è stata a volte frenata da divergenze di carattere politico, che non hanno consentito l’approvazione di atti voluti dai governi. È questo ad esempio il caso della proposta di direttiva sul Pnr (Passenger Name Records) per l’acquisizione di dati sui passeggeri alla prenotazione del viaggio.

Sicurezza Ue dopo l’attentato a Charlie Hebdo
Le situazioni di stallo, come quella appena richiamata, rischiano di minare l’efficienza del sistema europeo e non rendono giustizia per gli sforzi effettuati finora.

Dopo i fatti di Parigi, l’Europa è oggetto di rinnovate aspettative in materia di sicurezza. Il Consiglio Giustizia e affari interna (Gai), tenutosi informalmente a Riga il 29 e 30 gennaio, è stato principalmente dedicato al terrorismo.

Qualora l’Ue non fosse in grado di assicurare credibilità nei propri meccanismi decisionali e concreta funzionalità per gli strumenti a disposizione, finirebbe per lasciare l’iniziativa ai soli ordinamenti nazionali.

Al di là del giudizio sull’efficacia operativa di una scelta di questo genere, saremmo certamente di fronte a un risultato deludente per il futuro assetto dello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia.

Vincenzo Delicato è Direttore reggente del Servizio relazioni internazionali, Dipartimento pubblica sicurezza del Ministero dell’interno. Le opinioni espresse nel presente articolo riflettono idee dell’autore, senza coinvolgere l’amministrazione di appartenenza.
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sabato 7 febbraio 2015

Georgia: Kopuleti progetto youth for peace

 di 
Federico Salvati
(federicosvl@gmail.com
 (articolo in progress: saranno pubblicate le foto)

La città



Kobuleti è una piccola cittadina sulle rive del mar nero a pochi Km da Batumi. Il piano urbano è molto semplice. La strada principale, parallela al lungomare, rappresenta il cuore del centro abitato. La popolazione per la maggior parte vive in zone laterali a questa e non ci sono molte case che affacciano direttamente sulla strada. La città è costituita da abitazioni basse, dalla forma irregolare e dal tetto piatto. Man mano però che ci si allontana dalla strada principale le case monofamiliari si trasformano in palazzi di 5 o 6 piani in stie sovietico. Vicino la piazza centrale è situata quella che sarebbe definita la “zona commerciale”. Il termine è comunque completamente fuori luogo e non descrive la natura di questo quartiere. Sotto dei portici molto spartani si accumula ogni genere di merce in maniera apparentemente casuale. I commercianti più fortunati dispongono di un “basso” o un anfratto in cui espongono a i passanti la mercanzia. Tutti gli altri invece si arrangiano come possono con dei banchetti o delle casse, vendendo qualsiasi cosa: dalle sigarette sfuse, alle candele votive, fino ai fazzoletti di carta. Mentre camminiamo le persone ci guardano in maniera incuriosita denunciando di non essere abituate a vedere molti stranieri. Noi d'altro canto da come ci muoviamo, dai nostri vestiti e da come guardiamo ogni cosa in maniera interessata, gridiamo “occidentali” da ogni poro della pelle.



Il progetto

Dopo 4 e mezza di autobus in cui, a causa del livello del nostro russo, la conversazione con gli altri passeggeri non è stata particolarmente brillante, arriviamo nel nostro albergo in cui trascorreremo i seguenti 8 giorni lavorando tutti insieme sul nostro progetto di gruppo.
6 delegazioni provenienti da
1Azerbaijan
2 armenia
3 georiga
4 turchia
5 moldavia
6 italia
durante questo lasso di tempo avrebbero convissuto nello stesso luogo per studiare analisi del conflitto e discutere su pianificazione e progettualità d'intervento. Personalmente, visti i miei studi, la cosa che mi incuriosisce da subito è vedere come le delegazioni azerbaijana e armena si relazioneranno tra di loro. Per tutti e 8 i giorni però, contrariamente alle mie paure, i rapporti si rivelano molto rilassati. I ragazzi, estrapolati  dal loro contesto, tendono a denazionalizzarsi e a impostare rapporti sociali in maniera diretta e schietta. Aimè triste verità è che però quest'effetto, la maggior parte delle volte, persiste solo per la durata della situazione in cui si trovano. Per lo più, i soggetti una volta tornati al contesto di appartenenza riassumeranno i vecchi comportamenti e perderanno il grado di empatia che aveva acquisito grazie alle attività svolte. Da parte mia però mi vergogno un po' perchè sento che la mia esperienza, parziale, in questi paese aveva dato vita (con l'aiuto dell'estesa lettura delle analisi accademiche) ad una narrativa che tendeva a depersonalizzare le relazioni legate all'appartenenza etnica e non avevo considerato la capacità degli individui di adattarsi, avere pensiero critico e spirito d'iniziativa.
Le attività procedono in maniera fluida e ordinata.
La didattica viene portata avanti in maniera circolare e non convenzionale. Si parla di cosa sono i concetti di pace e guerra, la violenza e l'idea di conflitto. Il gruppo condivide, analizza e sintetizza. Background accademici e culturali diversi tra di loro offrono la possibilità di guardare le tematiche affrontate attraverso prospettive che vanno dall'esperienza diretta a quella scientifico-matematica.
Nei giorni successivi l'attività si fa più pratica. I nostri trainers ci coinvolgono in attività di negoziazione, competizione strategica e cooperazione inter-gruppo. Le reazioni che si hanno nelle attività situazionali in cui siamo posti varia da persona a persona. Alcuni hanno dei comportamenti esclusivi e competitivi, altri sono sottomessi e passivi mentre atri ancora cercano di costruire una cooperazione paritaria con i propri simili.
Nell'ultima parte finalmente affrontiamo in maniera diretta i nostri problemi nazionali. Ognuno parla della situazione interna al proprio paese. La tensione è palpabile, soprattutto per quanto riguarda Armani, Turchia e Azerbaijan. L'italia cerca di stemperare e portiamo l'esempio del Trentino, facendo in modo da mostrare una narrativa alternativa, una convivenza che nonostante i suoi problemi, le sue dimensioni di violenza e i sui errori non è sfociata in un eccidio o in un conflitto sanguinoso.
L'ultimo giorno del nostro progetto si conclude con una relazione generale sui temi teorici più importanti (fatta dal sottoscritto) e un riepilogo delle analisi e delle proposte di risoluzione riguardo a i vari scenari di conflitto.

È stato entusiasmante vedere come la forza della cooperazione ci abbia portato a condividere queste esperienze e ritorno in Italia soddisfatto e fiducioso per quanto riguarda il mio futuro e quello dei ragazzi che hanno collaborato con me (con i quali ci siamo ripromessi di portare avanti un'agenda comune per il prossimo futuro). 

giovedì 5 febbraio 2015

Ucraina: le onde lunghe di una crisi

Crisi ucraina
Nel Baltico col fiato sul collo
Giovanna De Maio
29/01/2015
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Numerose e frequenti sono state quest’anno le violazioni dello spazio aereo e marittimo dei paesi che affacciano sul mar Baltico a opera dell’aviazione e della marina russe.

Questi episodi, per quanto lontani dall’essere preludio di una crisi simile a quella ucraina, riaccendono le paure di questi paesi per i quali dieci anni di esperienza europea non sono bastati a cancellare l’incubo del pericolo russo.

Allo stato attuale, le loro scelte di sicurezza si dirigono inevitabilmente verso la ricerca di protezione da parte delle strutture europee e atlantiche e verso un aumento considerevole della spesa militare.

Lettonia teme il bis di una crisi ucraina 
Delle tre repubbliche baltiche, la Lettonia è forse quella che maggiormente avverte il pericolo di un ripetersi del copione ucraino. La convivenza con la minoranza russa (che ammonta al 26% della popolazione) non è mai stata semplice e ha spesso dato adito a sviluppi piuttosto amari.

Sono circa 319 mila i russi che vivono in Lettonia dal 1940 ai quali dalla caduta dell’Urss è stato negato il diritto di cittadinanza. Non hanno così potuto partecipare al referendum del febbraio 2012 sull’uso del russo come seconda lingua di stato, il cui esito negativo è simbolo di una volontà difficile da contestare: staccare la spina con il passato sovietico.

Attualmente sul suolo lettone ci sono 150 uomini della Nato, ma Riga ha chiesto di incrementare questa presenza e ha annunciato che presto le spese per la difesa raggiungeranno il 2% del Pil.

Stando alle dichiarazioni del ministro della difesa Raimonds Vejonis, per cinquanta volte in quest’anno, navi da guerra russe sarebbero transitate a circa nove miglia marine di distanza dalle acque territoriali lettoni, mentre sarebbero duecento i casi di jet militari russi giunti in prossimità dello spazio aereo.

Corsa al riarmo di Estonia e Lituania
Scelte analoghe per la Lituania, che ha disposto la creazione di una forza di intervento rapido di 1600 soldati, mentre l’Estonia, la cui spesa militare ha già raggiunto il 2% del Pil, si è data a una vera e propria corsa al riarmo.

Oltre a chiedere all’alleanza atlantica di insediare in modo permanente sul territorio estone soldati e dispositivi militari, Tallin ha registrato un raddoppio nelle reclute della Kaitseliit, la lega di difesa paramilitare formata su base volontaria.

Se Svezia e Finlandia pensano ad allinearsi
È da ottobre che l’intelligence svedese è alle prese con attività sottomarine straniere e teme che dietro a questo ci siano proprio i russi. All’inizio del nuovo secolo la Svezia aveva ridotto l’apparato militare utilizzato durante la guerra fredda per concentrarsi sullo sviluppo tecnologico.

Nel 2009 aveva posto fine alla leva obbligatoria, tagliando il numero dei militari. Tuttavia la consapevolezza della propria importanza geostrategica, unita alle inquietudini sollevate dalle incursioni, ha spinto Stoccolma ad optare per una più profonda collaborazione con la Nato.

La concessione dell’uso del proprio territorio e delle infrastrutture in caso di azione militare non implicano, almeno per il momento, che il paese rinunci al proprio status di non-allineato.

In Finlandia, invece, inquietano le previsioni dell’analista dell’Istituto affari esteri finlandese Charlie Salonius-Pasternak.

L’esperto aveva paventato possibili mire di Mosca sulle isole Aland, una regione autonoma smilitarizzata da mezzo secolo, appartenuta alla Russia zarista, che si trova a 50 km dalla costa svedese e a 70 km da quella finlandese: possedere queste isole significherebbe in sostanza controllare tutto lo spazio aereo baltico.

Al ministro degli esteri Erkki Sakari Tuomioja - che ha definito queste parole come provocatorie e inopportune - ha fatto però eco la dichiarazione del primo ministro Alexander Stubb che non ha escluso la possibilità di un referendum per l’adesione all’alleanza atlantica.

Espansionismo russo
Il summit Nato in Galles ha cercato fornire risposte a queste preoccupazioni. La messa a punto di piani alternativi, la creazione di una forza reazione rapida e il coinvolgimento degli stati baltici nella preparazione delle esercitazioni (la base aerea di Amari in Estonia diventerà un centro di addestramento Nato) si muovono in questa direzione.

Resta tuttavia da capire fino a che punto questi cambiamenti potranno considerarsi efficaci in caso di minaccia concreta. Probabilmente l’obiettivo di Mosca è comprendere proprio questo. Per quanto impensabile un’invasione possa essere, la minaccia stessa costituisce un motivo di allarme.

Per i paesi baltici l’espansionismo russo ha rappresentato per secoli il principale problema geopolitico e l’immobilismo euro-atlantico nelle crisi di Georgia e Ucraina non ha fatto altro che confermare queste preoccupazioni invero mai sopite.

Al di là di ogni dubbio pretesto per un attacco armato, è pur vero che una Russia che si sente accerchiata tende generalmente a scalciare. Siamo però sicuri che la risposta alleata sarebbe, in queste circostanze, rapida e armata?

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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