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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 29 febbraio 2016

Gran Bretagna, una riforma UE che non esiste

Brexit
L’azzardo di Cameron e l’imperscrutabile riforma dell’Ue
Ettore Greco
27/02/2016
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Non sarà facile per David Cameron convincere l’elettorato che, se la Brexit fosse bocciata al referendum del 23 giugno, il Regno Unito farebbe parte, grazie all’accordo raggiunto all’ultimo Consiglio europeo, di un’Unione europea, Ue, “riformata”, come ha ripetutamente sostenuto in questi giorni. Nella Decisione approvata a Bruxelles si fa infatti molta fatica a trovare traccia di effettive misure di “riforma” dell’Unione.

C’è chi aveva dato credito all’afflato riformatore di Cameron, sperando che il negoziato per evitare la Brexit potesse almeno dare impulso ad alcuni utili cambiamenti al modus operandi dell’Ue. Ma già le concrete richieste avanzate da Cameron il 10 novembre scorso, tutte incentrate su preoccupazioni e interessi tipicamente britannici, avevano spento ogni illusione.

La foglia di fico della riforma
Larga parte di quelle richieste sono state recepite nella Decisione assunta dal Consiglio Europeo il 19 febbraio. È positivo che si sia trovato un compromesso, evitando rotture traumatiche e potenzialmente destabilizzanti, ma da qui a dire che si è così aperta una qualche apprezzabile prospettiva di “riforma” dell’Ue ce ne corre.

Al Vertice è anzi emerso plasticamente lo iato tra le questioni, di portata tutto sommato limitata, su cui si è laboriosamente negoziato con Londra, e i paralleli tentativi di trovare una soluzione a problematiche di urgenza estrema - a partire dalla crisi migratoria- che stanno rimettendo in causa la stessa ragion d’essere dell’Ue. Di qui anche l’atmosfera un po’ surreale dell’incontro.

La Decisione del Consiglio Europeo include, a dire il vero, una sezione, quella sulla competitività, dedicata a un aspetto cruciale della riforma dell’Ue, ma si tratta della parte più debole del documento, essendo del tutto priva di efficacia cogente.

I 28 si sono infatti limitati a reiterare in una “Dichiarazione” l’impegno alla semplificazione burocratica e legislativa - peraltro parte integrante del programma della Commissione Europea - senza offrire nuove indicazioni o strumenti per il superamento degli ostacoli politici e tecnici che ne hanno finora frenato l’attuazione.

Integrazione differenziata
In realtà, quando Cameron parla di “Unione riformata”, sembra aver in mente soprattutto la sezione del documento sulla “sovranità” che sancisce, fra l’altro, lo status speciale del Regno Unito all’interno dell’Ue, con i suoi vari “opt-outs”, esentando Londra dall’impegno a realizzare un’”unione sempre più stretta”, e riconosce la possibilità che i paesi membri seguano differenti percorsi d’integrazione.

Quest’ultimo punto non è una grande innovazione: già nelle conclusioni dell’incontro del 26-27 giugno 2014 il Consiglio Europeo aveva esplicitamente ammesso la possibilità di un’integrazione differenziata, sminuendo la portata della clausola dell’”unione sempre più stretta”. Cameron può però legittimamente sostenere che questa volta il principio della differenziazione è stata formulato in modo più netto.

Un contributo alla chiarezza, se si vuole, ma resta da capire se e come una progressiva differenziazione – ammesso che questo sia il destino dell’Ue – sia compatibile con il mantenimento di un quadro istituzionale coerente. Anche perché il documento approvato al vertice sottolinea al contempo la necessità che, in ossequio ai trattati, si sviluppi ulteriormente il processo di integrazione dell’eurozona. Le nuove forme di governance da adottare per un’Unione a integrazione differenziata restano un nodo ancora tutto da sciogliere. Tuttavia, si può sostenere che l’accordo del 19 febbraio contribuisce a dare maggiore risalto alla questione.

Mossa difensiva
Quanto allo status speciale per il Regno Unito, si tratta di una mossa difensiva che ha ben poco a vedere con la “riforma” dell’Ue. L’obiettivo dichiarato di Londra è di proteggersi dalla prospettiva di un’ulteriore integrazione politica, mettendo al sicuro i suoi residui poteri sovrani. Molti dubitano però che l’esenzione dalla clausola dell’Unione più stretta serva davvero allo scopo. Sarebbe peraltro incorporata nei trattati solo in occasione della loro “prossima revisione”, cioè in un futuro imprecisato.

Molto più significativa e concreta è la parte della Decisione che mira a salvaguardare gli interessi e i diritti dei Paesi che non fanno parte dell’eurozona, evitando discriminazioni, ma anche escludendo ogni potere di blocco da parte dei non-euro su ulteriori progressi nell’ambito dell’Unione economica e monetaria. Su questo aspetto si è, in effetti, raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio fra opposte esigenze.

L’accordo non prevede in ogni caso alcun rimpatrio di poteri da Bruxelles - men che meno il ripristino della supremazia delle leggi nazionali su quelle comunitarie - con grande scorno degli euroscettici, almeno di quelli che si erano fatti delle illusioni, e che ora accusano Cameron, non del tutto infondatamente, di aver tradito le promesse elettorali. D’altronde, non è mai stata formulata, neanche da parte dei tories, un’indicazione precisa sui poteri che Londra dovrebbe riprendersi. Siamo insomma lontani da quel “cambiamento fondamentale” nelle relazioni tra Regno Unito e Ue che Cameron aveva baldanzosamente prospettato.

Incognite
L’accordo è stato presentato dai 28 come legalmente vincolante e perfettamente compatibile con i trattati, ma restano alcune incognite sulla sua attuazione che verranno inevitabilmente rinfacciate a Cameron durante la campagna referendaria. Due soprattutto.

Per entrare in vigore, alcune disposizioni, in particolare quelle che limitano l’accesso dei lavoratori migranti Ue alle prestazioni sociali richiedono modifiche di non poco conto alla legislazione secondaria (anche se difficilmente Cameron riuscirà a dimostrare che possono produrre un effettivo alleggerimento della pressione migratoria).

Per la loro entrata in vigore è quindi necessario l’assenso del Parlamento europeo che non si può dare per scontato. Inoltre, è probabile che scatterebbero alcuni ricorsi alla Corte di giustizia europea che, come paventato, fra gli altri, dal ministro della Giustizia Michael Gove, uno dei membri del gabinetto Cameron favorevole alla Brexit, potrebbe trovare alcune delle nuove norme in contrasto con i trattati (in particolare con il principio di non discriminazione e con quello della libera circolazione delle persone). Già adesso, d’altronde, la disputa politica s’intreccia con quella legale.

Cameron inedito
L’argomento dell’Unione “riformata” grazie all’accordo appare dunque quanto meno stiracchiato. Ed è perciò prevedibile che alla fine non sarà su quello che Cameron farà leva per conquistare gli indecisi. Ben altra presa potrà avere l’evocazione del “salto nel buio” in caso di Brexit a cui infatti il premier britannico sta ricorrendo con crescente intensità.

Cameron si sta in realtà già impegnando in una campagna positiva volta a sottolineare i vantaggi della permanenza nell’Ue. Di più: si è lanciato in un’inedita denuncia dell’”illusione della sovranità” in caso di Brexit, il che equivale a una sorprendente riabilitazione della sovranità condivisa. Resta da vedere come verrà accolto dall’elettorato questo drastico cambiamento di retorica politica dopo anni in cui i leader conservatori, e non solo, hanno condotto una sistematica denigrazione dell’Ue.

Ettore Greco è direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).
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domenica 28 febbraio 2016

Verso una Europa riformata

Unione Europea
L’Italia per un'Europa multipolare
Laura Garavini
24/02/2016
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Mai come adesso c'è bisogno di Europa. Di un'Europa che sappia superare gli steccati particolaristici dei singoli stati e riesca a mettere in campo una politica europea efficace, in grado di risolvere i grandi problemi internazionali che ci assillano.

Però mai come adesso l'Europa è fragile e sembra essere sul punto di implodere. C'è bisogno di un nuovo impulso per l'Europa per perfezionare quei processi di integrazione europea che aiutino ad uscire dalla crisi e a promuovere una nuova fase.

Italia, garante dei valori europei
Ed è una grande cosa che l’Italia, la nazione, che è stata la culla dell’Europa odierna, non resti in disparte, come è successo troppo a lungo nel recente passato, ma che al contrario, proprio in questa situazione complicata, si muova come una nazione di respiro internazionale, garante dei grandi valori europei. E al tempo stesso anche come una nazione moderna, sicura di sé, che stimola l’Europa a compiere i cambiamenti necessari.

Questo è possibile perché l’Italia, a soli due anni dall'insediamento del nostro Governo, si presenta oggi come una nazione che si sta rinnovando profondamente. Una nazione in grado di compiere grandi riforme che rendono il paese più solido, più forte e per questo più rispettato anche sul piano europeo.

Lo stato attuale dell'Unione Europea, Ue, fa vedere quanto ci sia bisogno di un cambio di passo. Il fatto che per anni, a Bruxelles, tutto sia ruotato intorno all'asse franco-tedesco non ha giovato all'Europa. C'è bisogno di un'Europa forte, multipolare.

L’Italia, da due anni a questa parte, si sta muovendo con un'energica azione di impulso, a tratti anche scuotendo l'Uea, pur di mettere in discussione automatismi che sembravano diventati irremovibili. E questo non solo e non tanto per sé, quanto piuttosto per la stessa Europa.

Oltre all’austerità
È notevole, ad esempio, che l'Italia sia riuscita a scardinare quello che per anni a Bruxelles è stato un dogma delle politiche economiche: il principio della stabilità basata esclusivamente sull'austerità. Grazie all'insistenza dell'Italia oggi finalmente l'Europa inizia a rendersi conto che quello della crescita non è un problema soltanto italiano. Il persistere di una insufficiente crescita è un problema europeo.

L'Intera Europa ha bisogno di un rilancio, prima di tutto economico. Il tema non è tanto l'austerità, quanto piuttosto se siamo in grado di prevedere un grande piano di investimenti che ci consenta di creare occupazione e di fare ripartire l'economia. Perché solo attraverso la crescita saremo in grado di garantire stabilità.

Ecco che l'Italia ha ragione a continuare ad insistere sulle richieste di flessibilità di bilancio, anche attraverso formule innovative. Non è un ottuso egoismo. È un modo per ribadire come ci prema rispettare le regole comuni poste da Bruxelles, ma al tempo stesso siamo impegnati a creare le condizioni per una ripresa economica.

Perché solo attraverso la crescita saremo in grado di garantire stabilità. Allo stesso modo è più che opportuno che l'Italia insista per il perfezionamento di una Unione economica e monetaria che includa anche un sistema europeo di garanzia sui depositi bancari.

Le sfide del 2016
ll 2016 è l'anno delle grandi sfide per l'Europa. L'Europa ha davanti due alternative: o affonda nelle beghe dei gretti egoismi nazionali, oppure promuove un nuovo inizio, per un migliore futuro insieme.

Ecco che è tranquillizzante sapere che dall'Italia sta venendo un contributo importante per ripartire insieme in Europa, per lavorare ad un'Europa più forte, un'Europa multipolare, un'Europa che sia comunità e non tecnicismo, un'Europa capace di affrontare le grandi sfide con cui ci troviamo ad essere confrontati.

Laura Garavini, parlamentare del Pd, eletta nella Circoscrizione Europa.
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Gran Bretagna, divisioni nella maggioranza

Brexit
Johnson, il sindaco alla guida del fronte anti-Ue
David Ellwood
24/02/2016
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Non è chiaro perché Boris Johnson, il controverso sindaco di Londra, abbia avuto bisogno di tanto tempo per decidere la sua posizione sulla ‘Brexit, ma leggendo l’articolo da lui scritto sul Daily Telegraph non ci sono dubbi sulla sua posizione sull’Unione europea, Ue, ritenuta un mostro di Frankenstein pronto a divorare ogni spazio di libertà giuridica, economica e - potenzialmente - politica che rimane ai suoi poveri membri.

La Gran Bretagna avrebbe una grandissima tradizione - incarnata nell’eroica figura di Winston Churchill - di opposizione radicale a ogni forma di progetto egemonico sul continente e con la sua sempre più marcata corsa verso lo super-stato federalista, l’Ue sarebbe niente altro che l’ennesimo esempio del vecchio vizio.

Le ambizioni politiche di Boris Johnson 
La stampa cartacea - tutta londinese al midollo - è sempre affascinata dalle mosse di questa curiosa figura politica, Boris Johnson, il quale non lascia passare una settimana senza fornirgli qualche vicenda o dichiarazione di cui parlare.

L’unico vero sindaco in tutta la nazione, Johnson può comparire un giorno come il buffone disposto a trasformare qualsiasi episodio in gioco, in un altro come il rivale più serio al leadership di David Cameron, col quale ha condiviso lunghi anni alla scuola (Eton) e all’Università (Oxford) più prestigiosi del regno.

Alla stampa piace presentarlo come l’uomo politico più amato del paese, ma in una società che dimostra un disprezzo sconfinato per tutti i politici, e dove i possibili altri concorrenti di Cameron sono pochissimi (2-3 al massimo), dimostrare una spiccata ambizione a svolgere un ruolo più grande di adesso, non ha molto significato.

Le prossime elezioni non possono svolgersi prima del 2020, e a meno che qualche disastro politico o personale non travolga Cameron, la sua posizione è fortissima. Sono pochi a credere che lui darebbe le dimissioni se perdesse il referendum di giugno.

Campagna elettorale sulla Brexit 
Eppure le discussioni sui media, sempre intenti a personalizzare tutto, non esitano a spiegare la decisione di Johnson in termini di ambizioni politiche. Suggeriscono che lui è popolarissimo tra i militanti dei Tory - di grande maggioranza anti-Ue - e poiché Cameron, con una mossa insolitamente goffa per lui, ha fatto capire che su questa questione non bisogna dare troppo ascolto alla base, allora Johnson d’ora in poi non può che guadagnare consensi in quell’area, ma oltre?

Non si sa se Johnson ha mai messo piede negli altri ‘paesi’ del regno: Scozia, Galles, Irlanda del Nord - ma è difficile credere che potrebbe suscitare gli stessi entusiasmi lì, o in qualsiasi altra zone del paese al nord di Oxford che, a quanto pare, trova sempre sulle strade di Londra.

Eppure un nuovo sondaggio indica in 9% gli intervistati disposti a spostare il loro punto di vista pro-Europa verso il campo degli indecisi dopo aver sentito Johnson (dati del 22/2/16).

Al disorientato elettorato britannico spettano quattro mesi di intensa battaglia politica e mediatica sulla Brexit. Il tutto in un Paese dove le campagne per le elezioni politiche durano non più di tre settimane e dove la comprensione e l’interessamento per le problematiche dell’integrazione europea sono sempre stati debolissimi.

Entusiasmo per la prospettiva europea?
Poiché qualsiasi forma di entusiasmo per la prospettiva europea è esclusa dalla forza attuale dei fatti e poiché l’Ue medesima non può parlare, è chiaro che le voci sempre più forti e chiare per l’alternativa isolazionista trovano un’ampia risonanza.

Quanti, tutti i partiti scozzesi e i laburisti di Jeremy Corbyn, sostengono la causa dell’Ue devono confrontarsi con coloro che insistono sulla storica sovranità della nazione e del suo parlamento, sull’inviolabilità dei confini, sulle possibilità di rilanciare il commercio britannico nel mondo e sul valore incomparabile del suo antico esempio democratico.

Se i sondaggi danno ancora in testa i sostenitori del ragionamento di Cameron, chi si può ancora fidare di loro? La partita che inizia in questi giorni è tutto da giocare, il suo esito assolutamente imprevedibile. Rimane comunque da vedere quali altri esponenti della vita nazionale - non solo i politici o i chief executives - vorranno seguire l’esempio di Johnson e scendere apertamente in campo da una parte o dall’altra.

David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.
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Gran Bretagna: chi si strappa le vesti per trattenerli chi si strappa le vesti per farli uscire

Brexit
L’Europa di Spinelli contro quella della Thatcher
Antonio Armellini
25/02/2016
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David Cameron ha ottenuto più o meno quello che voleva; i Ventisette hanno concesso più o meno quello che ritenevano possibile. Il risultato è un compromesso che forse eviterà la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, ma che lascia aperti molti interrogativi e fa intravvedere pericoli del cui impatto non tutti sembrano essersi resi conto.

Addio a un’Ue sempre più stretta
La cancellazione dell’impegno condiviso per una “unione sempre più stretta” è stata considerata a lungo alla stregua di una clausola di stile, o poco più, e lo stesso Cameron la aveva, almeno all’inizio, presentata così.

Man mano che ci si è avvicinati alla stretta finale del negoziato ci si è resi conto che essa è destinata a modificare l’impianto istituzionale europeo in maniera ben più dirompente.

Il mantra di un gruppo di paesi che condividono il medesimo obiettivo di dare vita ad una struttura sovranazionale comune - sia pure con tempi modalità differenziate - non ha più fondamento. Era un mantra un po’ frusto, qualcuno potrà osservare, ma era anche l’unico a costituire il tessuto politico unificante del progetto europeo.

Ora il re è nudo e nessuno può fingere di ignorarlo: per l’Ue si prospetta un futuro non già basato su geometrie variabili, velocità differenziate e quant’altro, bensì su due Europe distinte: una di Altiero Spinelli, intorno all’euro, una di Margaret Thatcher, basata sul mercato.

Due Europe separate e interconnesse - in una reinterpretazione del concetto di Europa “delle convergenze parallele” - nel quadro di una Ue più ampia - quella di Coudenhove Kalergi - basata su principi fondamentali di libertà, economia di mercato e diritti della persona, in cui si potrà far posto alla Turchia e si dovrà cercare di far ragionare gli Orban di oggi e di domani.

A volerla cogliere, l’accordo sul Brexit potrebbe fornire l’occasione per un ripensamento a fondo della natura e delle finalità dell’Ue (è quanto sostengono anche gli euroscettici inglesi, sia pure in una prospettiva diversa). Come potrà articolarsi l’Europa politicamente integrata della moneta? Quale sarà la sua governance? Quale la tempistica e le modalità di un processo unificante che dovrà partire da una unione economica e di bilancio, ma non fermarsi alla creazione di un unico ministro delle finanze? Chi ne saranno i membri?

L’Italia e la revisione dell’identità europea
Immaginare che tutti i Diciannove saranno disposti a compiere il salto di qualità verso l’unione sovranazionale che la sopravvivenza a lungo termine dell’euro richiede non è assolutamente scontato. Così come non è scontato se, e come potrà/vorrà parteciparvi un’Italia che sembra oscillare fra bordate euroscettiche e dichiarazioni d’impegno di sapore federalista (si veda l’ultimo position paper di palazzo Chigi).

Come verranno definite le relazioni fra l’Europa politica e l’Europa del mercato? Come si potrà evitare che la scomposizione del processo europeo avviata con il compromesso sul Brexit - in tema di immigrazione, welfare, rapporti finanziari - non diventi strutturale, alterandone definitivamente la natura? Come, di conseguenza, far sì che l’eccezionalissimo britannico resti tale, mentre si profilano all’orizzonte richieste del medesimo segno (Danimarca e Irlanda si agitano già)?

L’Italia ha storicamente svolto un forte ruolo propositivo nella costruzione politica dell’Europa: la debolezza francese e i condizionamenti della Merkel potrebbero consentirle di assumere la guida dell’indispensabile revisione dell’identità europea. Ci vorrebbe un forte colpo d’ala, che almeno per ora non si vede, mentre il governo Renzi resta ancorato a schemi come quello di sei fondatori che, aldilà del dato simbolico, è superato tanto dalla contingenza come dalla storia.

Brexit, campagna elettorale
La campagna per il referendum è partita in maniera diversa da come Cameron si aspettava. Sul piano razionale, vi sono pochi dubbi che per Londra uscire dall’Ue avrebbe effetti fortemente negativi; la più che probabile secessione della Scozia potrebbe decretare addirittura la fine del Regno Unito. La grande industria e la borghesia cosmopolita delle grandi città ha preso decisamente posizione per il sì, ma non è detto che basti.

Sull’esito del voto le valutazioni razionali rischieranno di cedere il passo a pulsioni che di razionale hanno poco e che sono profondamente radicate nelle zone rurali e nella vecchia cintura industriale: si tratta di un elettorato che diffida della City e che vede nell’Europa un pericoloso cavallo di troia della globalizzazione, dalla quale difendersi rivendicando l’insularismo della propria britishness. Gioca contro di ciò il tradizionale pragmatismo degli inglesi, che li porta in genere a preferire il “diavolo che si conosce” al rischio di nuove avventure.

Vittoria del Sì, ma …
Mi sentirei quindi di dire che - salvo stravolgimenti dell’ultimo momento, come una nuova crisi dei migranti o l’esplosione del caso Grecia - il sì prevarrà con un margine ristretto, simile a quello del referendum per la Scozia. Se così dovesse essere, il problema inglese non sarebbe risolto, ma continuerebbe a trascinarsi indefinitamente, con una Londra sempre più riottosa e alla ricerca di ulteriori scappatoie che allontanino il pericolo di finire contaminata dall’aborrito progetto di integrazione politica sovranazionale.

È quello su cui punta Boris Johnson, il quale si è schierato per il no ma ha poi spiegato, in un lungo articolo sul Daily Telegraph, di non volere l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ma di volersi servire del no per negoziare ulteriori concessioni con Bruxelles.

Sul piano interno il suo calcolo ha senso: se David Cameron dovesse vincere il referendum alla grande, le possibilità di Boris Johnson di soffiargli il posto alle prossime elezioni si ridurrebbero a zero mentre, nel caso di vittoria del no, le cose muterebbero a suo favore.

Sul piano comunitario però Johnson, e i molti che a Londra la pensano come lui, sottovalutano gravemente l’insofferenza degli altri partner per questa costante, querula insistenza britannica nell’accettare negando, nel negoziare ripromettendosi di cambiare idea. La pazienza degli Eurocrati potrebbe stavolta essere davvero finita.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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lunedì 22 febbraio 2016

Germania: la ristrutturazione della Difesa

Germania e politica di sicurezza e difesa
Difesa, il lungo risveglio di Berlino
Alessandro Ungaro
22/02/2016
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A due anni dall’ufficiale inaugurazione di un nuovo corso della politica estera e di difesa tedesca quali sono stati i risultati? Berlino ha davvero dimostrato di voler contribuire con maggiore responsabilità alla sicurezza e alla stabilità del sistema internazionale?

Lo spirito di Monaco in evoluzione
Alcuni osservatori hanno sottolineato come lo “spirito di Monaco” non abbia generato in realtà una vera e propria trasformazione della politica estera e difesa tedesca bensì una sua evoluzione, un riconoscimento da parte della classe politica sulla necessità di un maggior attivismo negli affari internazionali.

I primi segnali erano già circolati negli anni precedenti all'interno dell’intellighenzia tedesca, per poi emergere più distintamente dopo la crisi ucraina e in seguito ai fatti di Parigi.

Nel campo della politica militare, infatti, l’attivismo del governo tedesco è in forte crescita, sia sul piano nazionale sia su quello della cooperazione, come attestano i numerosi casi in cui Berlino si è fatta promotrice di numerose iniziative su base bi e multi-laterale: ad esempio, dopo aver contribuito massicciamente nel 2015 alla Very High Readiness Joint Task Force (Vjtf) della Nato, Berlino guiderà di nuovo la Vjtf nel 2019, giocando di fatto un ruolo cruciale per il successo della sua attuazione.

Dopo i tragici avvenimenti in territorio francese, Berlino ha autorizzato l’invio di assetti e di personale militare per alleviare le forze francesi impegnate in altri teatri operativi nell’ambito della lotta contro Daesh.

Sul piano nazionale, invece, dopo alcuni documenti pubblicati negli ultimi mesi - tra cui la più recente Air Capability Strategy di gennaio 2016 - si attende il Libro Bianco sulla politica di sicurezza e difesa che, a differenza dei precedenti, sarà redatto sulla falsariga di quello italiano attraverso un processo di consultazione con diversi stakeholders governativi e non.

L’anima pacifista della Germania
Tuttavia, le ambizioni e le azioni di carattere politico - certamente degne di nota e attese da tempo - devono affrontare alcuni limiti “strutturali” insiti sia nell’eredità storica della Germania sia nelle attuali capacità militari e industriali realmente esprimibili.

Se l’establishment tedesco, a partire dal Ministro della Difesa, appare più consapevole e pronto per un impegno più sostanziale sul palcoscenico della sicurezza internazionale, Berlino deve fare i conti con un passato - e forse ancora con un presente - in cui la cultura della difesa e dell’identità strategica sono ancora silenti all’interno del dibattito pubblico, in cui le anime pacifiste e anti-militariste criticano l’efficacia dell’uso della forza, preferendo posizioni attendiste, passive, e coadiuvate dall’impiego di strumenti civili e di prevenzione.

In altre parole, lo strumento militare fatica ancora oggi a farsi spazio nel ventaglio dei possibili strumenti in mano all’azione politica e forse il Libro Bianco ha proprio l’obiettivo di impostare una nuova narrativa con l’opinione pubblica e inaugurare un diverso approccio ai temi legati alla sicurezza e difesa.

Luci e ombre, invece, per quanto riguarda le capacità militari e industriali. Lo stato delle forze armate tedesche e dei suoi equipaggiamenti è stato più volte considerato disastroso.

Ristrutturare la difesa tedesca
Dopo un rapporto di Kpmg, commissionato dalla Difesa all’interno dell’iniziativa Agenda Ruestung e volto a rivedere i principali programmi di procurement, l’ultimo rapporto presentato dal commissario parlamentare per le forze armate Hans-Peter Bartels dipinge una situazione quasi al collasso.

È anche per questa ragione che, su iniziativa di Von der Leyen, alcune figure chiave del governo - tra cui la stessa Angela Merkel e Wolfgang Schäuble - sembrerebbero intenzionate a varare un piano da 130 miliardi da concludersi entro il 2030 per ristrutturare e rendere più efficiente l’interno settore della difesa.

Sul piano industriale, dopo diversi malumori interni è stata approvata la fusione tra la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann mentre la guida allo sviluppo del drone europeo Male 2025 simboleggia la volontà politica (più che la capacità industriale) di lasciarsi alle spalle alcuni insuccessi come il programma Euro Hawk abbandonato nel 2013.

Inoltre, a margine della riunione informale dei Ministri della difesa dell’Unione europea tenutasi ad Amsterdam, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti ha incontrato il suo omonimo Von Der Leyen e, tra i temi dell’incontro, si è parlato proprio di cooperazione industriale tra i due paesi.

In sintesi, il rinnovato attivismo della Germania nel campo della difesa può costituire un tassello certamente interessante anche nell’ottica di una maggiore spinta alla cooperazione europea nel campo della difesa.

Tuttavia, come naturale che sia, le potenzialità e le intenzioni politiche forse necessitano di un processo di maturazione e crescita reale delle capacità attraverso il quale conseguire risultati concreti all’altezza delle aspettative.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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L'invasione del continente: affrontata senza una strategia

Immigrazione
Rifugiati, il naufragio del sistema delle quote
Enza Roberta Petrillo
17/02/2016
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Sul Consiglio europeo di questi giorni spirano venti di tempesta e non solo per la discussione sulla Brexit, la temuta uscita del Regno Unito dall’Unione. A fibrillare, infatti, non c’è soltanto David Cameron.

La scorsa conferenza di Monaco sulla sicurezza ha offerto un anticipo di quello che sarà un altro tema centrale del summit di Bruxelles: il no francese al sistema delle quote fisse di accoglienza dei rifugiati.

Fallimento del piano europeo sull’immigrazione
“Bisogna dare un messaggio molto chiaro che dice: ora non accogliamo più rifugiati. Altrimenti saremo costretti a ristabilire le frontiere interne”. La sterzata del primo ministro Manuel Valls, dettata evidentemente anche da ragioni di politica interna, ha sancito, in un colpo solo, la fine del piano europeo sull’immigrazione e l’inizio di una nuova fase politica per il suo demiurgo, la cancelliera tedesca Angela Merkel, accusata in patria e all’estero di aver sottovalutato le implicazioni della sua politica liberale sulle migrazioni.

Mentre il piano europeo naufragava tra ricollocamenti mancati, hot spot mai aperti e identificazioni random, nelle prime sei settimane del 2016, in Europa, sono arrivati più di 80 mila migranti e rifugiati.

Secondo un recente rapporto della Commissione europea, il flusso, di gran lunga superiore a quello registrato nei primi quattro mesi del 2015, è stato gestito eludendo quasi completamente le indicazioni fissate a settembre 2015 dalla European Agenda on Migration.

Il gruppo di Visegrád
Nei fatti, a dispetto degli accordi sottoscritti, dei 160 mila richiedenti asilo che avrebbero dovuto essere trasferiti dalla Grecia e dall’Italia agli altri stati membri dell’Unione europea, Ue, “solo 218 risultano trasferiti dalla Grecia e 279 dall’Italia”.

Un epilogo che evidentemente tira in ballo i paesi che sin dall’inizio hanno impedito che il sistema quote decollasse. Non solo la Francia, quindi, ma anche Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria, quartetto est-europeo che forma il gruppo di Visegrád, una coalizione storicamente ostile alle indicazioni della Commissione in materia di politica migratoria.

In vista del Consiglio di domani il gruppo si è riunito a Praga in versione allargata, con due new entry tutt’altro che secondarie: il presidente della Repubblica macedone, Gjorge Ivanov e il primo ministro bulgaro Boyko Borissov. Due paesi esposti in prima linea ai flussi di richiedenti asilo che transitano lungo la rotta balcanica e che ora, su proposta ceca, potrebbero accettare di blindare del tutto le rispettive frontiere con la Grecia così da limitare i flussi che il governo ellenico continua a controllare poco e male.

Bulgaria e Macedonia e il blocco dei confini
Se, per la Bulgaria, il muro rappresenterebbe soltanto un’estensione di quello già avviato nel 2015 lungo il confine con la Turchia, per la Macedonia il progetto comporterebbe, di fatto, l’ufficializzazione definitiva a gatekeeper di Europa.

Ciò che pare certo è che la barriera metallica avviata lo scorso novembre lungo il corso del fiume Axios che separa la Macedonia dalla Grecia, si estenderà nel giro di qualche mese all’intero confine.

Il piano, inutile a dirsi, ha lasciato di stucco il gruppo sparuto di paesi che ancora puntano a rafforzare la rete degli hot-spot e il piano di cooperazione da tre miliardi di euro con la Turchia. Una linea possibilista capeggiata dall’Italia, consapevole che il blocco dei confini bulgaro e macedone potrebbe aumentare la pressione lunga la rotta albanese e di lì sulla Puglia.

Sullo sfondo, nel ginepraio di conversazioni tra cancellerie che litigano sull’opportunità di blindare i confini d’Europa, si staglia ciò che si scommette sarà il grande assente del Consiglio: una discussione franca sull’unica via per evitare il collasso, ossia l’apertura di canali d’accesso protetto per garantire l’ingresso in Europa ai titolari di protezione umanitaria in fuga dai paesi in guerra.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto da
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venerdì 19 febbraio 2016

Gran Bretagna: la Fratellanza da Sua Maestà

Gran Bretagna
L’ispettore Cameron indaga sulla Fratellanza
Marco Di Donato
13/02/2016
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Visite in 12 paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente per compilare 11 pagine dove sono riassunti i “principali risultati” del report dove i Fratelli Musulmani sono essenzialmente descritti come una compagine sociale e politica che non disdegna la violenza quando necessaria e che ha intrattenuto storiche relazioni con un’organizzazione terroristica del calibro di Hamas.

Non solo. La presenza della Fratellanza nel Regno Unito può essere letta come indice della progressiva estremizzazione della comunità musulmana locale.

I Fratelli Musulmani ed il (controverso) report britannico
Questi i risultati principali del rapporto presentato il 17 dicembre alla House of Commons, dai due autori: Sir John Jenkins (già ambasciatore per conto di Sua Maestà in Arabia saudita) e Charles Farr.

L’indagine condotta in meno di un anno pare giungere a conclusioni che dipingono i Fratelli Musulmani come un blocco di pensiero unico (pur evidenziando, laddove impossibile non farlo, alcuni distinguo) che nel corso degli anni ha assunto posizioni ambigue (per esempio riguardo l’11 Settembre) e che dal 2014 ha deliberatamente incitato alla violenza in Egitto.

Peraltro, afferma il rapporto, sembra che l’esperienza di governo (per quanto Mohammed Mursi sia rimasto in carica in Egitto solo un anno) non abbia apportato alcun cambiamento significativo nel modo di pensare e di agire di quello che è certamente uno dei movimenti islamisti più radicati, a diverso titolo, in Nord Africa e nel Vicino Oriente.

Per tutti questi motivi, gli “aspetti ideologici e la tattica della Fratellanza Musulmana, in questo paese così come all'estero, sono contrari ai nostri valori e sono contrari ai nostri interessi nazionali e nonché alla nostra sicurezza nazionale”.

Dopo aver letto il rapporto, il premier britannico David Cameron ha ribadito che nessuna misura restrittiva sarà intrapresa nei confronti dei Fratelli Musulmani. Eppure, dallo scorso dicembre, in molti si chiedono quale sarà il seguito pratico a questo studio che pare fornire una precisa indicazione politica.

Alle origini della presenza della Fratellanza in Gran Bretagna
Fra i vari aspetti indagati nel documento consegnato a Cameron c’è quello della presenza dei Fratelli Musulmani nel Regno Unito. Da vari altri studi, sappiamo che le radici dei Fratelli Musulmani in Gran Bretagna risalgono al 1997 grazie alla fondazione della Muslim Association of Britain, Mab. Secondo un articolo dell’Hudson Institute, la cellula londinese ha fin dal suo principio agito utilizzando una retorica anti-occidentale ed anti-semita, mostrando una chiara dedizione alla causa palestinese nonché ospitando alle proprie conferenze personaggi del calibro di Anwar al-Awlaki e Yussuf al-Qaradawi.

Ciò che però l’articolo più segnatamente sottolinea è che nella Fratellanza esistano una serie di correnti e posizioni che variano dal salafismo di matrice jihadista violenta ed armata sino a posizioni diametralmente opposte che considerano, ad esempio, assolutamente necessario far coincidere la sharia con i valori europei.

Le forti relazioni con la Gran Bretagna, e Londra in particolare, oltre che dalla presenza di esponenti della leadership in esilio, sono testimoniate anche dal grande numero di attivisti presenti nel paese.

Di più. I Fratelli Musulmani sono a pieno titolo inseriti nel dibattito interno alle comunità musulmane britanniche che da tempo si dividono fra varie correnti: dal salafismo, al qutbismo, al “sorourismo”, così come i deobandi.

L’acceso dibattimento interno al salafismo britannico, di cui la Fratellanza Musulmana fa certamente parte, è ben rappresentato in un articolo a firma di Sadek Hamid e recentemente pubblicato per la Isim Review della Leiden University.

Ad ulteriore dimostrazione di come lo storico legame tra Fratellanza e Regno Unito sia molto forte anche oggi, basti pensare come la sede fisica del sito ufficiale della Fratellanza (Ikhwanweb) sia proprio di stanza nella capitale britannica.

Rapporto parziale?
Dal 2013 organizzazione terroristica per Egitto, Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, a seguito del report britannico, la Fratellanza ha subito un durissimo colpo anche a livello delle relazioni con gli stati europei e ha dunque reagito di conseguenza provando a difendere con veemenza la propria posizione.

Ma c’è qualcosa in più. Se la reazione della Fratellanza era tanto dovuta quanto scontata, è interessante notare come anche alcuni studiosi ed intellettuali arabi abbiano criticato a vario titolo i contenuti del report curati proprio da diplomatici di paesi, Arabia Saudita, con una posizione chiara sulla Fratellanza.

Primo fra tutti Basheer Nafi che dalle colonne di Middle East Eye ha posto e si è posto alcune domande, denunciando la parzialità delle conclusioni e della metodologia presenti nel report di Jenkins e Farr.

Ad esempio, si chiede Nafi, come mai è stato estensivamente citato Sayyed Qutb e non si è mai fatto riferimento ai lavori, decisamente più moderati e dialoganti, della guida suprema Hasan al-Hudaybi? Allo stesso modo, ribadisce Nafi, l’esperienza violenta e militante di Hamas viene ampiamente analizzata eppure lo stesso report non è in grado di trovare legami fra i Fratelli Musulmani ed altri gruppi armati nella regione.

Telegrafica, ma altrettanto netta, la presa di posizione dell’analista Maha Azzam che ricorda come considerare i Fratelli Musulmani esclusivamente legati a logiche vicine all’estremismo politico, peggio armato, sia un errore.

Medesime considerazioni, motivate in un lungo report a firma di Muhammad Bushra, giungono dall’associazione londinese Cage, la quale ricorda in un lungo documento come “i Fratelli Musulmani non siano un'organizzazione che agisce nell’ombra con motivazioni oscure o con un impegno discutibile a favore della democrazia. Piuttosto sono il più vecchio e saldo gruppo che si è opposto negli anni ai governi autocratici in Medio Oriente”.

Marco Di Donato è Dottore di Ricerca in Scienze Politiche e ricercatore presso l'Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo).
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Gran Bretagna: tante altre Brixit

Gran Bretagna-Ue
Brexit, rischio effetto domino
Eleonora Poli
16/02/2016
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Alla vigilia dell’atteso vertice europeo dei prossimi giorni, il dilemma della Brexit continua ad accendere dibattiti nei Paesi europei e non solo.

In un’arena globale sempre più interconnessa, il referendum sulla membership indetto da Cameron spaventa non solo quanti temono i rischi di un indebolimento della stabilità Ue, ma anche coloro che sono preoccupati di ripercussioni internazionali di più ampio raggio.

Gli ultimi risultati presentati da What Uk Thinks sull’attitudine dei cittadini britannici al referendum, vedono il 51% a favore dell’Ue contro un pericoloso 49% che è contrario. Di fatto, una possibile Brexit non rimane quindi esclusa dai giochi.

Nonostante, nella sua lettera ai governi europei, Donald Tusk abbia in effetti adottato un approccio conciliatorio alle richieste di Cameron, soprattutto per quanto riguarda la questione dei benefit agli immigrati europei e della governance economica, bisognerà vedere che cosa i leader dei 28 Paesi saranno in grado di negoziare al vertice e soprattutto come reagiranno gli elettori britannici.

In effetti, il voto al referendum sembra dipenderà principalmente da come l’Ue verrà percepita in relazione agli andamenti economici e sociali del Regno Unito. In altre parole, nel caso in cui i vantaggi economici e politici della membership sembrino superare gli svantaggi, gli elettori britannici dovrebbero optare per rimanere nell’Ue.

Brexit, prospettiva britannica
Nonostante gli andamenti economici molto positivi rispetto alle controparti europee, la crescita britannica non è più così elevata (2,3% nel 2015 contro il 2,9% del 2014). Inoltre, i tagli ai benefit sociali perpetuati dal governo di Cameron al fine di ridurre il deficit pubblico sembrano aver contribuito ad allargare la forbice di disparità sociale.

Secondo l’ultimo rapporto della Joseph Rowntree Foundation, nonostante la disoccupazione si sia ridotta di circa il 30%, nello stesso periodo la percentuale di famiglie con reddito minimo è passata dal 21% nel 2008/09 a quasi il 28% nel 2013/14.

Questi dati potrebbero senza dubbio legittimare i partiti populisti come l’Ukip che spingono verso l’uscita da un’Ue ormai in declino, affinché la Gran Bretagna riacquisti piena autonomia nelle politiche economiche nazionali e rilanci la propria economia.

Certamente il mondo del business e dell’altra finanza non è di questo parere. Non solamente la Brexit porterebbe il Regno Unito fuori dal mercato unico, ma provocherebbe ingenti perdite di capitale umano, rendendo il Paese meno accessibile ai migranti europei.

Infatti, secondo il Centre for Research and Analysis of Migration della University College London, circa il 62% dei cittadini dell’Europa occidentale che si sposta nel Regno Unito dispone di un livello di educazione e preparazione altissimo.

Brexit e panorama europeo
Sul fronte europeo invece, sembra che tutti i paesi vogliano evitare il male maggiore, rappresentato da un’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Infatti, non solo il 53,2% delle importazioni britanniche provengono dall'Unione, ma il contributo netto del paese verso l'Ue è stimato a 13,5 miliardi di euro.

Una Brexit quindi colpirebbe certamente sia il bilancio interno europeo che i suoi trend commerciali. Diminuirebbe inoltre la capacità di difesa europea, rendendo l'Ue più dipendente dagli Stati Uniti. È quindi probabile che i leader europei cercheranno di trovare un compromesso. Tuttavia, un accordo che conceda alla Gran Bretagna troppe libertà potrebbe comunque essere svantaggioso.

Molti dei partiti euroscettici o eurocritici degli Stati membri, già notevolmente contrariarti dalla crisi migratoria, potrebbero infatti cavalcare l’onda della Brexit per chiedere un referendum simile a quello britannico e ottenere maggiore indipendenza da Bruxelles.

D’altro canto, la Brexit rappresenta anche una nuova opportunità per i movimenti indipendentisti. Nel caso in cui l’esito del referendum spingesse la Gran Bretagna a uscire dall’Ue, il Partito Nazionalista Scozzese potrebbe chiedere una nuova consultazione per l’indipendenza dal Regno Unito al fine di rimanere nell’Ue. Richiesta che Bruxelles potrebbe difficilmente non sostenere.

Questo darebbe nuovo impeto ai movimenti indipendentisti catalani in Spagna, Paese che stenta ancora a trovare una stabilità di governo proprio per questo motivo.

Brexit nella scacchiera globale
A livello internazionale, la Brexit potrebbe avere risvolti importanti per numerosi paesi. Gli Stati Uniti perderebbero un prezioso alleato all’interno dell’Ue. La Germania rimarrebbe l’unica forza trainante dell’Ue, causando malcontenti interni e delegittimando maggiormente il progetto di integrazione in un momento in cui gli Stati Uniti hanno più che mai bisogno di un alleato forte a Occidente.

In maniera simile, la Cina vede il Regno Unito come un membro strategico, in grado di esercitare un ruolo costruttivo nello sviluppo di relazioni economiche e politiche solide con l’Ue.

La Russia invece ne uscirebbe probabilmente favorita. In effetti, se la Gran Bretagna uscisse dall’Unione, Paesi europei come Germania e Italia potrebbero più agilmente ridurre o eliminare le sanzioni europee contro la Russia, visti gli ingenti interessi economici che legano i paesi dell’Europa continentale a Mosca.

Su un altro versante invece, anche la Turchia potrebbe giovarne visto che la Brexit costringerebbe la Gran Bretagna a negoziare un accordo economico con l’Ue per avere accesso al mercato unico e mantenere qualche forma di influenza sul processo decisionale di Bruxelles in relazione alle politiche commerciali. Questo porterebbe alla creazione di forme di partnership alternative che potrebbero essere usate anche nel caso turco, facilitandone l’iter di adesione.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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Gran Bretagna: Cameron: al bivio della Brexit

Brexit
Cameron-Tusk, bozza di un accordo anti-brexit
David Ellwood
08/02/2016
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Sarà davvero un momento come quello del settembre 1939 quando il Parlamento britannico ha dovuto decidere la risposta della nazione all’invasione nazista della Polonia?

Il parallelo è stato evocato dal Daily Mail in un clamoroso editoriale pubblicato dopo la presentazione al pubblico del pacchetto di accordi - meglio bozze di accordi - sullo status del Regno Unito dentro l’Unione europea, Ue, negoziato tra il Primo Ministro David Cameron e il Consiglio europeo, rappresentato dal suo Presidente Donald Tusk.

‘Siamo a una crocevia della storia della democrazia in queste isole britanniche’, ha tuonato il Mail, in seguito a un dibattito parlamentare che ha visto il Primo ministro attaccato da molti dei suoi propri deputati, mentre i partiti dell’opposizione -laburisti e nazionalisti scozzesi - si concentravano esclusivamente sulle implicazioni per loro del referendum promesso da Cameron sul suo accordo con l’Ue.

Punti per evitare la Brexit
Non c’è dubbio che una distanza notevole separa le promesse offerte dal Partito conservatore nel suo programma elettorale del 2015, sulla riforma dell’Ue, e quello che Cameron ha effettivamente - e provvisoriamente - ottenuto da Tusk.

Prima si parlava di un controllo molto più severo, se non blocco, dell’immigrazione dai paesi dell’Unione; dell’esclusione totale degli immigrati dai benefits del welfare per diversi anni; della neutralizzazione delle decisioni della Corte europea dei diritti umani e il ripristino della supremazia delle leggi nazionali su quelli dell’Ue; della separazione completa dal punto di visto giuridico e politico dei paesi dell’Eurozona dagli altri; dell’esclusione dalla Gran Bretagna da qualunque progetto che tenderebbe a costruire una ‘unione sempre più stretta’; del rafforzamento del mercato unico e l’abolizione di tutti quegli elementi protezionistici che danneggerebbero la ‘competitività’ dell’Unione, e così via.

Nella lettera che Tusk ha inviato a Cameron per formalizzare il loro accordo, il Presidente del Consiglio europeo si impegna a: 1. rispettare la differenza tra i membri della Eurozona e gli altri; 2. promuovere la competitività tramite la de-regulation; 3. rafforzare il principio e la pratica della sussidiarietà; 4. ‘chiarire’ le regole e le leggi esistenti sui problemi della libertà di movimento dei cittadini dentro l’area dell’Ue, soprattutto per quanto riguardo gli abusi veri o presunti da parte degli immigrati dei sistemi di welfare dei paesi che li ricevono; 5. esplorare la possibilità che ‘elementi’ dell’accordo possono essere incorporati nei Trattati di base dell’Ue al momento della loro prossima revisione.

Labour IN for Britain 
All’interno del partito di Cameron si sta alzando un’ondata sempre più rumorosa di quanti contestano l’accordo per la sua forma provvisoria, per l’ambito ristretto dei contenuti e per il non aver ricostruito i fondamenti dei rapporti con l’Ue su basi ancora più distaccate di quelle già esistenti.

Il tasto su cui più insistono i contestatori è quello della sovranità: mai più il parlamento britannico dovrebbe sottostare alle direttive, i regolamenti o qualunque altra forma di legislazione proveniente da qualsiasi istanza dell’Unione.

In un contesto del genere le opposizioni ufficiali si trovano del tutto emarginate. Il Partito laburista ha cercato debolmente di fare leva sulle divisioni tra i Tories, mentre sui contenuti, Corbyn ha fatto accenno soltanto alla questione dei ‘diritti dei lavoratori’, senza approfondire ulteriormente.

Il responsabile per il partito sulle questioni europei, Alan Johnson, ha messo in piedi un piccolo movimento di opinione, Labour IN for Britain¸(sic; di cui il suo sito personale non parla, né quello ufficiale del Partito).

La sua presenza sul Web si limita a un messaggio vocale di Johnson medesimo, insieme a una serie di affermazioni scritte, sui benefici economici per la nazione della permanenza nell’Ue. Dei grandi problemi esistenziali che l’Unione ha davanti, nessuno accenno, ma almeno compare la parola ‘inter-dipendenza’, un caso del tutto eccezionale nel confronto britannico.

Diversi nazionalismi
Quello che è certo è che mentre la classe politica e una parte di quella del business parlano soprattutto di sovranità, alle masse che leggono la stampa di Rupert Murdoch e gli altri giornali anti-Europa, è la questione dell’immigrazione che preoccupa. Intanto i nazionalisti scozzesi minacciano di chiedere un altro referendum sulla questione dell’indipendenza, se la maggioranza degli inglesi chiede di uscire dall’Ue.

Come gallesi ed irlandesi del nord e del sud, essi hanno sempre manifestato un atteggiamento verso il progetto europeo nel suo insieme ben diverso da quelli in Inghilterra che fanno la voce più grossa. Simpatia comunque non vuole dire comprensione.

Quello che più colpisce di questo dibattito è la povertà del linguaggio e dei ragionamenti, la sostanziale indifferenza al grande mondo fuori le isole, il rifiuto generale di contemplare le realtà dell’interdipendenza, persino quando queste stanno distruggendo l’industria del petrolio nel Mare del nord, e le acciaierie del Galles e del Nord Est, e minacciano la stabilità delle istituzioni finanziarie di Londra.

Non saranno né Cameron né Corbyn a spiegare tutto questo ai loro confusi elettori.

David W.Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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mercoledì 10 febbraio 2016

Italia ed Aiuti di Stato

Aiuti di Stato
Verdetto Ue sul futuro dell’Ilva
Marco Gestri
05/02/2016
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L’ennesimo Decreto “salva-Ilva” (ne sono stati contati 9), convertito in legge. Il 27 viene così definita la procedura per il ritorno sul mercato dell’Ilva, in amministrazione straordinaria dal 2013.

Incombe però lo spettro della Commissione Ue che il 20 gennaio ha deciso d’avviare un procedimento d’indagine formale sulle misure adottate a sostegno dell’Ilva di Taranto (per un importo intorno ai 2 miliardi). Il caso era stato sollevato da denunce presentate dall’associazione delle imprese siderurgiche tedesche e da Eurofer che riunisce le imprese europee del settore.

Qualcuno aveva commentato che l’azione evidenzia un intento della Germania di far chiudere l’Ilva. Accuse velatamente riprese da Matteo Renzi, scagliatosi contro “la lobby degli acciaieri di qualche Paese europeo”. Si profila un nuovo scontro Germania-Italia, che potrebbe diventare Ue-Italia. Quali la portata del provvedimento della Commissione e le prospettive di soluzione?

Commissione e aiuti di stato 
Con la Decisione del 20 gennaio,la Commissione ha ritenuto che sussistano dubbi riguardo alla compatibilità delle misure italiane con le norme Ue sugli aiuti di Stato e non sia possibile “archiviare” il caso. Ciò non comporta che le misure siano illegittime. Questo dovrà essere appurato dalla Commissione con un procedimento formale, nel quale sia l’Italia che gli altri soggetti interessati (denuncianti e concorrenti) potranno formulare osservazioni.

Il procedimento si concluderà con un’ulteriore decisione che potrà alternativamente dichiarare che: a) le misure non costituiscono aiuti di Stato; b) pur essendo tali sono compatibili col mercato comune; c) possono risultare compatibili solo nel rispetto di determinate condizioni, fissate dalla Commissione; d) si tratta di aiuti di Stato illegali.

In quest’ultimo caso, scatterebbe l’obbligo di sopprimere le misure e assicurare la restituzione degli aiuti erogati. La Commissione dovrà dunque accertare se le azioni contestate costituiscano un “aiuto di Stato” secondo l’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, Tfue.

Sotto la lente della Commissione si trovano in primo luogo le disposizioni legislative che hanno stabilito garanzie statali su prestiti contratti dall’organo commissariale dell’Ilva. La Commissione nutre altresì dubbi sulle norme che attribuiscono ai prestiti concessi all’Ilva priorità in caso di fallimento.

Per quanto riguarda le garanzie statali, il Decreto del 5 gennaio 2015 aveva disposto una garanzia pubblica per prestiti pari a 400 milioni. La legge di stabilità 2016 aveva previsto ulteriori garanzie statali per prestiti fino a 800 milioni. Queste ultime sono state “trasformate” dalla legge di conversione del Decreto del dicembre 2015 in finanziamenti statali che dovranno essere restituiti cogli interessi.

La medesima legge ha inoltre disposto un finanziamento di 300 milioni all’amministrazione straordinaria di Ilva “per fare fronte alle indilazionabili esigenze finanziarie del Gruppo” che dovrà essere restituito con gli interessi da coloro che si aggiudicheranno l’impresa.

Secondo la giurisprudenza europea, costituisce aiuto di Stato qualsiasi misura che, attraverso un intervento pubblico, determini a favore di un’impresa determinata un vantaggio economicamente apprezzabile. In tale nozione, possono rientrare non solo finanziamenti, ma anche garanzie statali nei riguardi di prestiti contratti da un’impresa, a meno che vengano prestate secondo le normali condizioni di mercato.

La Commissione dovrà quindi determinare se le norme che prevedono finanziamenti o garanzie a favore dell’Ilva conferiscano a tale impresa un vantaggio indebito, precluso ai concorrenti.

Aiuti a finalità ambientali 
L’Italia potrà far leva sul fatto che i finanziamenti erogati dalla legge di conversione dell’ultimo Decreto devono esser restituiti con gli interessi. Ma dovrà determinarsi che si tratta di finanziamenti erogati in condizioni di mercato, che avrebbe cioè potuto fornire anche un soggetto privato, pena una loro qualificazione come aiuti di Stato.

Questi sono in principio vietati dal Tfue in quanto pregiudicano una competizione ad armi pari tra le imprese. Il divieto non è assoluto, incontrando esenzioni sia automatiche (caso di calamità naturali) che subordinate a una valutazione discrezionale della Commissione.

Alcune categorie di aiuti sono poi dichiarati a priori, a certe condizioni, compatibili con il mercato comune (“esenzioni per categoria”). Tra queste gli aiuti a finalità ambientale. Nel settore siderurgico non sono invece ammessi aiuti volti a soccorrere imprese in difficoltà (Decisione Ceca n. 2496/96).

Qualora le misure a favore dell’Ilva fossero qualificate aiuti di Stato, l’Italia dovrebbe dimostrare che abbiano finalità esclusivamente ambientali. Le norme sopra ricordate prevedono che gli interventi statali hanno il fine esclusivo dell'attuazione del piano di tutela ambientale e sanitaria dell'impresa nonché di ripristino e di bonifica ambientale.

L’Italia cerca di convincere l’Ue 
Nessuno nega che la situazione ambientale dell’Ilva di Taranto sia critica. Essa è stata ripetutamente oggetto dell’attenzione delle istituzioni Ue. Tuttavia, secondo la Commissione, l’Italia non ha provveduto a far sì che l’azienda operi in conformità della normativa ambientale europea.

Dunque, anche se alcune delle misure previste dai Decreti salva-Ilva costituissero aiuti di Stato, l’Italia avrebbe buon gioco nel giustificarle con la finalità ambientale? Un elemento a favore dell’Italia è che la Decisione della Commissione del 20 gennaio, riconoscendo le necessità di bonifica ambientale, non sospende le misure varate.

Permangono tuttavia alcuni ostacoli per una soluzione positiva nei riguardi di tutte le azioni di sostegno. In una situazione intricata come questa non è facile distinguere le misure eminentemente ambientali da quelle volte al salvataggio dell’impresa. In aggiunta, secondo un principio consolidato, non sono ammessi aiuti “ambientali” per consentire a un’impresa (mediante ammodernamento degli impianti) d’allinearsi a norme comunque obbligatorie.

Quanto alle misure di risanamento dell’area, gli interventi di sostegno devono essere conformi al principio “chi inquina paga”. Al riguardo, la legge di conversione approvata il 27 gennaio richiama puntualmente l'obbligo dell'attivazione delle azioni di rivalsa e di risarcimento nei confronti dei soggetti che hanno cagionato i danni ambientali e sanitari. Basterà a convincere la Commissione?

Non lo sappiamo. Certo che se la rigidità delle norme Ue dovesse portare alla chiusura del più grande impianto siderurgico d’Europa, nel Mezzogiorno d’Italia e nel contesto dell’odierna congiuntura economica, sarebbe difficile qualificare come “populiste” le prevedibili reazioni.

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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venerdì 5 febbraio 2016

Bruxelles e Roma: dopo le turbolenze

Contenzioso Italia-Ue
Dopo i pugni sul tavolo, quo vadis Renzi
Riccardo Perissich
04/02/2016
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È normale che un leader abbia due priorità: governare il paese e vincere le prossime elezioni. La trappola sta in una celebre battuta di Juncker (proprio lui!) di alcuni anni fa: “Sappiamo perfettamente che cosa dovremmo fare, ma non sappiamo come essere rieletti dopo averlo fatto”. La verità e che con rare eccezioni i leader danno la priorità al secondo obiettivo, quello di essere rieletti. Non si può quindi rimproverare a Matteo Renzi di impostare la sua “campagna d’Europa” sul recupero del consenso interno.

Sposando l’europeismo spinelliano spruzzato di socialismo e l’attacco frontale all’Ue che esiste, Renzi spera evidentemente di coniugare la fedeltà alla “vera” Europa con il diffuso euroscetticismo presente anche nel nostro paese, recuperando così consensi che il fronte populista rischia di erodere. Difficile dargli torto a priori.

Dopo aver fatto (per finta?) pace con Angela Merkel, adesso apre il secondo fronte che forse ritiene più facile, quello con la Commissione. Può darsi che tutto ciò gli procuri i desiderati vantaggi elettorali. Proiettata nel medio periodo, la tattica comporta tuttavia un errore e un grave rischio.

Caratteristiche dell’europeismo italiano
L’europeismo italiano ha sempre avuto tre caratteristiche. In primo luogo, abbiamo un’immagine mitologica dell’Europa molto diversa da quella reale. Come per ogni mito, c’è il rischio che cada a pezzi a ogni difficoltà.

A fronte di questo c’è però stata una pratica di governo finalizzata spesso con successo a difendere quello che si è ritenuto essere, a torto o a ragione, l’interesse nazionale. Essa ha avuto tra l’altro momenti gloriosi: con de Gasperi, poi con Gaetano Martino ed Emilio Colombo, con Craxi e Andreotti e infine con Ciampi, Giorgio Napolitano e Mario Monti cui va il merito di aver provocato, nel 2012, la vera svolta della politica europea, quella che ha permesso a Mario Draghi di agire per salvare l’euro.

Infine soffriamo di una sistematica incapacità di adattare le strutture del Paese alle decisioni prese. In sostanza, agli italiani non è mai stata raccontata bene la vera storia dell’Italia in Europa. La narrativa del “vincolo esterno” che Monti ha tentato senza successo di correggere, ha aggravato le cose.

Non è detto che la retorica renziana permetta di colmare questo vuoto. Ben venga l’opera di verità, ma è un errore denigrare la politica europea di tutti i governi passati, bollandola come imbelle e rinunciataria. Così facendo si rischia di demolire in modo durevole l’immagine dell’Europa presso gli italiani che sarebbero legittimati a pensare di essere stati ingannati per sessant’anni.

Renzi batte i pugni sul tavolo 
Dopo l’errore c’è il rischio. Renzi ha deciso di mettere nel paniere del contenzioso pubblico le cose più disparate. È una tattica come un’altra che però non sembra molto convincente perché avvalora la tesi di un’Europa a noi ostile. Basta pensare ai due capitoli più importanti: l’economia (banche e politica di bilancio) e la crisi dei migranti/rifugiati.

Sul primo capitolo l’Italia ha le sue ragioni, ma il negoziato è complesso; andrebbe spiegato agli italiani perché troviamo così poche sponde non solo a Berlino e a Bruxelles, ma anche altrove. Sul problema dei rifugiati le ragioni per cui l’Europa si muove lentamente e male sono molteplici; nessuno è innocente, noi compresi.

A un paese frustrato e convinto di “non contare nulla” può far piacere vedere che il governo “batte i pugni sul tavolo”. D’altro canto sappiamo che nel frattempo i nostri valenti diplomatici e alcuni ministri negoziano in privato per raggiungere un compromesso soddisfacente. È legittimo chiedere se non sarebbe meglio abbassare i toni in pubblico e riservare i “pugni sul tavolo” ai negoziati privati.

David Cameron aveva proclamato la volontà di voler “riformare” l’Ue e di cambiare radicalmente il rapporto del paese con l’Europa. Dovrà ora presentare come un successo un risultato obiettivamente abbastanza modesto. Gli va comunque riconosciuto il merito di non aver mai alzato i toni.

Renzi, dopo aver dichiarato di voler “cambiare verso” all’Europa, guidare i socialisti europei, spezzare l’asse franco-tedesco ed essersi candidato alla guida dell’Ue, potrebbe scoprirsi prigioniero della sua stessa retorica. Potrebbe avere difficoltà a rimettere il genio nella bottiglia e spiegare gli inevitabili compromessi a un paese che continua a sognare un’Europa mitologica, ma nel frattempo è stato educato a detestare quella reale.

Usare ogni disaccordo con Juncker per bollarlo come “burocrate” è un altro errore che potevamo evitare, non solo per la tradizionale ragione che l’Italia ha interesse a una Commissione forte. Juncker avrà molti difetti, ma è tutto tranne che un burocrate e, come tutti i politici, deve tener conto di una constituency più vasta e complessa di quella di Renzi. Del resto far rispettare le regole è il primo compito di un’istituzione politica.

Le due carte di Renzi
Renzi ha in mano due carte forti: la consapevolezza che ogni alternativa di governo in Italia sarebbe peggiore per l’Europa e l’aver impresso una salutare accelerazione al processo di cambiamento del Paese. Tuttavia, se può presentarsi dicendo “abbiamo voltato pagina”, non può ancora dire “abbiamo riformato l’Italia”. Per leggere fondate critiche alla legge di stabilità e vedere il cammino che resta da fare nelle riforme, non c’è bisogno di andare a Bruxelles; basta la stampa italiana.

Né vale molto raccontarci che l’Europa ha bisogno di noi più di quanto avesse bisogno della Grecia e forse persino della Gran Bretagna. È vero, ma lo è altrettanto che noi abbiamo bisogno dell’Europa forse più della stessa Germania. Se dovesse intervenire la catastrofe, la domanda non è chi soffrirà (tutti). Bisogna invece chiedere chi soffrirà per primo è chi è più capace di parare il colpo.

C’è da sperare che i principali protagonisti, Merkel, Juncker, ma soprattutto Renzi, siano capaci di volteggiare sul trapezio e atterrare in piedi. Ci sono però rischi che superano l’abilità tattica dei giocatori. Gli dei accecano coloro di cui vogliono la rovina; si chiama hubris e proprio i greci meno di un anno fa ne hanno apprezzato in pieno il significato.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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martedì 2 febbraio 2016

Spagna: i conti con la frammentazione politica

Spagna
Madrid in uno stallo all’italiana
Riccardo Pennisi
26/01/2016
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Una situazione all'italiana, "in cui mancano gli italiani": così l'ex primo ministro Felipe Gonzalez descrive l'attuale stallo di una Spagna disabituata all'incertezza e alla frammentazione visto che dal 1979 è stata retta da saldi governi monocolori.

Le ultime elezioni hanno spaccato il vecchio bipartitismo in un sistema a quattro, in cui nessuno è abbastanza forte per imporsi sugli altri, come dimostrano le consultazioni con il re Felipe VI per cercare di formare un nuovo governo.

Il premier uscente Mariano Rajoy, del Partido Popular, Pp, ha vinto le elezioni a dicembre, ma è indebolito. Il suo 28,7% significa il 16% in meno rispetto a quattro anni fa. Anche se il Pp resta il primo partito del paese Rajoy ha, per ora, rifiutato l’incarico di formare il nuovo governo. Mercoledì il re aprirà quindi un secondo giro di consultazioni. Pur con qualche incertezza, l’esito che sembra delinearsi è quello di una svolta a sinistra.

Verso una coalizione di sinistra?
Per avere la maggioranza assoluta in parlamento, il Pp dovrebbe fare un accordo con i socialisti del Psoe. La grande coalizione, inedita in Spagna, è la soluzione preferita sia dal mondo economico e dalla grande stampa nazionale che dai centri di potere europei".

La ragione è semplice: i numeri dicono che l'unica alternativa alle larghe intese è un'alleanza di sinistra, simile a quella appena nata in Portogallo. I socialisti in tal caso dovrebbero accordarsi con i radicali di Podemos, con gli ex comunisti di Izquierda Unida, e anche con i nazionalisti baschi e i secessionisti catalani.

Se ciò accadesse, la Spagna sarebbe il terzo paese mediterraneo a spostarsi ben oltre i confini classici della sinistra moderata: eventualità che a Bruxelles e a Berlino, dove si stabiliscono le regole economiche di tutto il continente, è vista con il fumo negli occhi. I socialdemocratici tedeschi, che nel 2013 preferirono il patto con Angela Merkel piuttosto che il governo con Verdi e Sinistra, spingeranno perché a Madrid si adotti la stessa soluzione.

I socialisti custodiscono le chiavi della partita. Il Psoe è però spaccato: Il segretario-candidato Pedro Sanchez, subito dopo aver incassato il peggior risultato della storia del suo partito (22%), è stato attaccato da un agguerrito fronte interno che ne chiede la testa. A sostituirlo - con il consenso dei delegati delle regioni centro-meridionali, ultimo bastione elettorale socialista - andrebbe la potente presidentessa dell'Andalusia Susana Diaz.

E i nuovi partiti? Ciudadanos, formazione centralista (la questione territoriale è fondamentale sulla scacchiera spagnola) e liberale nata una decina d'anni fa in Catalogna in opposizione alla crescita dell'indipendentismo, ha pochi seggi per essere decisiva nelle consultazioni. Le urne hanno però offerto al suo leader trentaseienne Albert Rivera un discreto 13,9%.

Meglio Podemos: il partito-movimento di sinistra radicale guidato da Pablo Iglesias, l'ex professore di scienze politiche e indignado che con il suo inatteso 20,7% è arrivato a un passo dai socialisti.

Il nodo Catalogna 
Sanchez ha capito che proprio l'abbraccio con Podemos lo manterrebbe in sella e taglia i ponti con Rajoy: "se volete cacciarmi - sembra dire agli avversari interni - confessate allora la vostra vera intenzione, le larghe intese con il Pp". In molti nel Psoe le vorrebbero: i "vecchi" del partito, tra i quali potrebbe pesare il parere di Felipe Gonzalez, temono la rincorsa al radicalismo che secondo loro governare con Podemos comporterebbe.

E poi c’è il nodo del referendum sullo status amministrativo della Catalogna che Podemos potrebbe porre come condizione irrinunciabile ad un futuro governo di unità della sinistra. C’è chi teme che un accordo con i catalani, e anche i baschi, costerebbe varie concessioni ai poteri locali autonomisti: i loro elettori centro-meridionali, nel nome dell'uguaglianza di trattamento per tutte le regioni, non le tollererebbero.

Il nodo territoriale è centrale per capire la questione. Il Psoe ha perso il suo radicamento in Catalogna (dov'era molto forte) e nel Paese Basco: gli spagnoli che vivono nelle province più pluraliste per lingua e cultura, interessati a una revisione dei loro rapporti con il centro, seppur senza staccarsi, hanno votato Podemos.

Se il partito perdesse anche il sostegno della Spagna interna, centralista e egualitarista - Andalusia, Estremadura, Castiglia - sarebbe finito. D'altro canto, una grande coalizione con il Pp che non risolvesse i problemi del Paese (la disoccupazione tocca il 21%, l'emigrazione aumenta, la stagione dei tagli non è ancora conclusa) farebbe rischiare al Psoe la brutta fine del Pasok greco.

Le variabili delle consultazioni
Le consultazioni si svolgono dunque attorno a questo dilemma. Rajoy ha optato per la sua tipica tattica attendista, rinunciando a chiedere la fiducia in parlamento, dato che Sanchez appunto rifiuterebbe. La sopravvivenza politica di Sanchez dipende dalla formazione di una coalizione di sinistra, di cui lui stesso sarebbe il capo: come secondo classificato nel voto, ha diritto a condurre le trattative fino a presentare l'accordo al monarca.

A parte il grande dissidio interno, non sarà facile conciliare le vedute e gli interessi di tutti i partiti da coinvolgere. Ai separatisti catalani, che hanno appena conquistato la regione, farebbe gioco un governo centralista a Madrid, ma l'intesa con la sinistra, in fondo, potrebbe fruttare nuove devoluzioni di potere alla Catalogna. La trattativa sarebbe complicata dal parallelo negoziato con i baschi.

Podemos sa che, se il piano saltasse e si tornasse a votare, il partito socialista non reggerebbe, perdendo a suo vantaggio altre centinaia di migliaia di elettori. Per questo le condizioni che Iglesias fisserà per accordarsi con Sanchez saranno dure.

Se Sanchez fallisse, l'opzione di una grande coalizione tornerebbe probabilmente a imporsi, magari guidata da qualcuno che non sia Rajoy, per renderla più digeribile. Ma se la prova di forza e abilità a cui Sanchez è chiamato dovesse riuscire, una Spagna spostata a sinistra aprirebbe nuovi scenari in Europa.

Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, ISPI, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia.
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Polonia: la deriva di un europeismo d'interesse

Populismi europei
Polonia sotto sorveglianza
Daniele Fattibene
21/01/2016
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Stato di diritto messo in discussione e violazione della libertà di stampa. Sono queste le conseguenze delle ultime riforme adottate dalla Polonia guidata dal partito populista, nazionalista ed euroscettico di Beata Szydło.

Ai vertici del partito conservatore Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość- PiS), a nemmeno tre mesi dalle elezioni parlamentari, Szydłoha avviato un brusco cambiamento di rotta che rischia di minare fortemente la reputazione del Paese, con forti ripercussioni all’interno della stessa Unione europea, Ue.

Leggi controverse
All’indomani della vittoria elettorale,il PiS aveva attaccato la nomina di cinque giudici della Corte Costituzionale da parte del vecchio partito di governo Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska - PO) fatta a ridosso del voto.

Il governo Szydło ha poi deciso di nominare altri cinque giudici e ha fatto votare dal Parlamento una modifica allo statuto della Corte, cambiando in modo sensibile le procedure di voto e di funzionamento, mettendo a rischio l’intero sistema di “pesi e contrappesi” tra potere esecutivo e giurisdizionale.

Questo ha scatenato una reazione di sdegno da parte dei cittadini che sotto la guida del “Comitato per la difesa della democrazia” lanciato da Mateusz Kijowski hanno marciato in massa per le strade di Varsavia e di molte altre città polacche.

Altre proteste sono poi esplose a inizio mese dopo l’approvazione della legge sulla governance del Servizio Pubblico che minaccia di mettere i media sotto il controllo diretto della politica. I manager della radio e televisione pubblica saranno infatti nominati dal Ministero del Tesoro e potranno essere licenziati in qualunque momento.

Diritti europei minacciati
La Commissione europea ha reagito con forza, prima attraverso una lettera inviata dal Vice Presidente Timmermans a dicembre e poi attivando il cosiddetto “dialogo strutturato” con Varsavia per analizzare la situazione nel Paese all’interno del nuovo “Quadro sullo Stato di diritto” adottato nel 2014.

Questa procedura potrebbe anche sfociare nell’attivazione del “meccanismo preventivo” previsto dall’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea (Tue) e poi di un’eventuale “meccanismo sanzionatorio” con la potenziale sospensione di determinati diritti previsti dai Trattati, compreso quello di voto nel Consiglio. Misure mai prese fino ad ora, ma nate osservando l’atteggiamento dell’ungherese Victor Orban.

È probabile che questo sia stato agevolato dal fatto che il PiS è membro del gruppo parlamentare dei Conservatori e Riformisti europei, una forza marginale rispetto al gruppo del Partito popolare europeo, Ppe, al quale appartiene il Fidezs di Orban.

La piega presa dalla Polonia negli ultimi mesi ha suscitato già importanti frizioni con diversi partner europei. Diversi sono i motivi di scontro, dal rifiuto del governo di accettare quote obbligatorie di richiedenti asilo politico nel territorio nazionale, allo scetticismo verso la politica energetica dell’Unione, in particolare in merito alla de-carbonizzazione dell’economia.

Varsavia-Berlino, special relation deteriorata
La cosa più eclatante è il progressivo deteriorarsi della “special relation” con la Germania che aveva contraddistinto i governi Tusk-Kopacz. Anche se non sono arrivate critiche ufficiali da parte della cancelliera Angela Merkel, i provvedimenti delle ultime settimane sono stati stigmatizzati da diversi esponenti del suo partito, tanto che il Ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski ha convocato l’ambasciatore tedesco a Varsavia per chiedere spiegazioni.

Le tensioni sono montate a seguito della copertina del giornale polacco Wprost che raffigurava la Merkel in uniforme nazista circondata da Juncker, Schulz, il Commissario Oettinger e GuyVerhofstadt.

La crisi polacca rischia di rovinare la credibilità che il Paese si era faticosamente riconquistato negli ultimi anni. Il partito di Kaczyński sembra voler costruire una “quarta repubblica polacca”, basata su valori tradizionali e conservatori. Se però non riuscirà a conciliare la sua identità nazionalista e conservatrice con le regole europee il Paese sarà l’unico grande sconfitto.

La crisi istituzionale polacca mette anche a rischio la stessa architettura giuridica e identitaria europea. La reazione decisa della Commissione stabilisce un precedente importante volto sia a garantire il rispetto dei Trattati, sia a rispondere alle accuse di “doppio standard” tra ciò che viene chiesto a potenziali paesi candidati e le difficoltà nel reagire a misure prese dagli stati membri.

È ora lecito attendersi che le Istituzioni Ue elaborino una strategia forte e chiara contro tutti coloro (Orban in primis) che minacciano i principi fondamentali dell’Unione. Se così non fosse, i venti populisti che spirano da Lisbona a Varsavia rischiano di diventare una difficile gatta da pelare.

Daniele Fattibene è Assistente alla Ricerca del Programma “Sicurezza e Difesa” dello IAI (Twitter: @danifatti).
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