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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 31 luglio 2015

Macedonia: una terra inquieta ed esplosiva

Stabilità minacciata
L’Ue e la sfida macedone
Aleksandra Risteska, Maximilian Stern
24/07/2015
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Mentre il governo macedone è sotto accusa per lo scandalo delle intercettazioni ai danni dei propri cittadini e la repressione delle manifestazioni, la stabilità dello Stato è minacciata da accesi conflitti etnici e dall’intenzione russa di costruire un gasdotto che attraversi l’intero Paese. In questo frangente, l'Unione europea (Ue) deve prendere coscienza di poter giocare un ruolo rilevante.

Neo-barocco eclettico e nazionalismo kitsch
Il sole picchia su Piazza Macedonia, nel cuore di Skopje. La piazza è circondata da splendidi nuovi edifici di rappresentanza: ministeri, musei, monumenti, ponti: tutti in un eclettico stile neobarocco, quasi “Swank”, che riflette l’intenzione del governo di promuovere una nuova identità nazionale attraverso un nazionalismo kitsch, che non tiene conto delle diverse minoranze etniche e del passato socialista.

Sembra che anche il palazzo del primo ministro sia stato costruito nel XIX secolo. In realtà, la sua costruzione è stata completata di recente - dopo che lo scorso autunno due Opr sono stati sparati contro l'edificio in un attacco terroristico.

E anche se ora brilla più luminoso della Casa Bianca, la sua vista è guastata da un’altra immagine: sulla strada, di fronte alla sede del governo, si trova accampata da oltre cinquanta giorni una coalizione eterogenea di oppositori.

Come ha ben chiarito Stefan Bogoev, presidente dell’organizzazione giovanile socialdemocratica e parlamentare, “Noi andremo via solo quando il premier andrà via”.

Anche Zoran Zaev, il presidente del Partito Social-Democratico chiede le dimissioni del primo ministro Nikola Gruevski. Richiesta che ora ha unito diversi altri gruppi.

In effetti, i contestatori minacciano di diffondere documenti che provano come il governo abbia spiato migliaia di esponenti dell’opposizione, assieme ad ambasciatori e giornalisti. Una parte del materiale che è già stato reso pubblico: le registrazioni delle intercettazioni mostrano come alti responsabili chiacchierino allegramente di tangenti, brogli elettorali e altre attività illegali.

Ordine pubblico con l'artiglieria
Già due mesi fa, il governo aveva tentato di coprire lo scandalo delle intercettazioni permettendo alla polizia di rispolverare l’artiglieria per attaccare alcuni oppositori d’etnia albanese nella città di Kumanovo, fomentando così la minaccia di un conflitto etnico.

Con la mediazione del commissario per l'Allargamento, Johannes Hahn, l’Ue si era adoperata per favorire un accordo tra governo ed opposizioni che doveva garantire nuove elezioni nel 2016.

Tuttavia, il 9 luglio, il socialdemocratico Zaev ha rischiato di fare saltare ogni tregua quando ha deciso di lasciare i tavoli negoziali dopo il rifiuto categorico di Gruevski di abbandonare l’incarico di primo ministro sei mesi prima delle elezioni, favorendo un governo tecnico di transizione.

Seppur all’ultimo minuto, un accordo è poi stato raggiunto e il 15 luglio, poco dopo lo scoccare della mezzanotte. Il commissario Hahn ha annunciato: "Questo è un passo importante per superare la crisi attuale e per la soluzione di problemi fondamentali per la Macedonia".

Dimissioni del primo ministro, nuove elezioni, un investigatore speciale per lo scandalo intercettazioni e un impegno per l'integrazione euro-atlantica. C’è da dire, però, che l'Ue aveva già raggiunto un accordo simile nel 2013, che aveva avuto di fatto poco successo. Inoltre, lo scandalo intercettazioni rappresenta un problema molto rilevante per la stabilità del Paese.

Il gasdotto di Putin e la miopia dell’Ue
Con un tasso di disoccupazione di quasi il 30 per cento, e un salario medio di 350 euro al mese, la Macedonia sembra lasciata a se stessa, in un momento in cui gli occhi europei sono puntati su Atene.

L'Ue non deve tuttavia dimenticarsi della Macedonia, lasciandola in balia della Russia. La Russia è interessata a realizzare il cosiddetto “TurkishStream”, un gasdotto che si snoderà dalla Turchia attraverso la Grecia, la Macedonia e la Serbia fino all'Europa, ed ha già accusato l’Ue di ingigantire lo scandalo intercettazioni.

La Macedonia, inoltre, è terra di passaggio di numerosi rifugiati. Centinaia di siriani, iracheni e afghani attraversano ogni giorno il Paese, a volte anche in sella a biciclette noleggiate ai migranti dagli stessi macedoni.

L'Europa non deve trascurare situazioni come quella della Macedonia, concentrando la propria attenzione sulle crisi in Grecia e in Ucraina. Un simile atteggiamento rischia di provocare un’escalation dei conflitti interni, che avrebbe delle conseguenze devastanti non solo sul Paese ma su tutta la regione balcanica.

Non bisogna infatti dimenticare che la regione ha combattuto una sanguinosa guerra civile solo due decenni fa e che la sicurezza dell’area è ancora minacciata da numerose questioni irrisolte.

Ciò di cui la Macedonia ha bisogno non è una propaganda nazionalista e una gestione autoritaria dello Stato, ma piuttosto il superamento dei clientelismi e degli abusi sui diritti umani.

L'Ue non deve adagiarsi sul recente successo di mediazione, ma seguire da vicino il processo di applicazione dell’accordo tra i vari attori politici del Paese. La prima occasione che consentirà di verificare se l’Ue sia in grado di giocare efficacemente questo ruolo si avrà a settembre, in occasione dell’High Level Accession Dialogue, durante il quale verrà discussa la possibilità di avviare i negoziati per l’adesione della Macedonia.

Maximilian Stern, Co-founder of @foraus - Swiss Think Tank on Foreign Policy, Mercator Fellow.
Aleksandra Risteska, Communications and Research Officer at UN Resident Coordinator's Office to Somalia
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Grecia: ancora continua il duro confronto con la Germania

Ue e Germania
Merkel, dalla Grecia un primo scossone 
Eugenio Salvati
23/07/2015
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Il duro confronto tra Unione europea e Grecia, e in particolare tra governo tedesco e governo greco, si è avviato verso una conclusione positiva anche grazie al voto con cui il Bundestag ha approvato il nuovo piano di aiuti dell’Ue ad Atene.

La maggioranza che ha dato il via libera all’accordo è stata larga, anche perché numericamente è ampia la maggioranza di quella grande coalizione che governa la Germania.

Il dato di maggiore interesse sta però nelle defezioni e nelle voci critiche nei confronti di questo accordo. Rispetto ai due precedenti voti salva Grecia esse crescono sensibilmente.

Una sessantina di deputati della Cdu-Csu (il partito ddi Angela Merkel) ha votato contro il piano e anche Peir Steinbruck, autorevole esponente dei socialisti della Spd ed ex candidato alla cancelleria, ha criticato l’intesa sposando la tesi della Grexit temporanea proposta dal ministro delle Finanze Wolfang Schäuble. La stessa opinione pubblica tedesca appare spaccata in due sulla questione: il 49% si oppone al terzo salvataggio, il 46% invece è favorevole.

Spina nel fianco
Indipendentemente dal voto del Bundestag, quel che sembra probabile è che la trattativa burrascosa con la Grecia e le modalità con cui si è raggiunto l’accordo lasceranno dei segni profondi sugli assetti della politica tedesca, coinvolgendo anche la posizione della Merkel.

Un primo elemento sistemico rilevante è la dimostrazione di quanto le arene politiche nazionali ed europea si siano ormai intrecciate e di come quest’ultima incida prepotentemente sui processi politici che avvengono nelle prime: la questione greca è stata il centro del dibattito pubblico tedesco e gli equilibri interni alla grande coalizione e alla Cdu e il ruolo della cancelliera ne sono stati influenzati.

La politica tedesca, ormai schiacciata sul ruolo dominante di Merkel e della Cdu, con una Spd relegata a un ruolo ancillare come partner di governo, ha vissuto il primo scossone all’interno di una lunga stagione di stabilità sotto il segno della cancelliera.

A livello dei rapporti di coalizione, le durissime parole del vice-cancelliere e ministro dell’Economia Sigmar Gabriel e del presidente del Parlamento europeo Martin Schultz consegnano una Spd interprete fedele della politica europea dettata dalla Merkel, indebolendo così l’immagine dei socialisti come futuri sfidanti della cancelliera.

La posizione della Spd sembra chiudere anche la possibilità che il campo del Partito socialista europeo possa varare una proposta politica alternativa a quella del rigore tedesco.

La maggiore opposizione alla Merkel è arrivata dal lato destro dello schieramento politico tedesco, da quel variegato mondo che voleva imporre l’uscita di fatto della Grecia dalla zona euro e che ha trovato nel ministro Schäuble un nuovo punto di riferimento, capace di catalizzare attorno a sé il sostegno sia della fazione “rigorista” della Cdu-Csu sia quello degli ambienti euroscettici che si stanno organizzando alla destra del partito cristiano-democratico.

Una leader che perde forza 
Anche la scelta del premier greco Alexis Tsipras di abbandonare a fine giugno il tavolo delle trattative e di indire un referendum ha prodotto dei profondi riverberi sulla politica interna tedesca.

La Merkel aveva incarnato nel campo tedesco la posizione più incline al dialogo, ma tale atteggiamento è stato messo con le spalle al muro dalla scelta audace del leader greco che così facendo ha aperto un ampio varco ai falchi tedeschi guidati da Schäuble, il quale ha simbolicamente preso il vessillo di difensore della posizione tedesca in Europa.

Per questo motivo la leadership della Merkel sembra essere sempre più schiacciata tra la necessità di farsi carico dell’integrità della zona euro e del processo di integrazione e il bisogno di non essere messa nell’angolo dall’ala più intransigente del suo partito.

Se il voto del Bundestag ha promosso il ruolo di mediazione della cancelliera è anche vero che da tale voto ha prodotto delle crepe vistose rispetto alla forza della sua leadership, una cosa mai accaduta prima d’ora.

La leadership della cancelliera sembra destinata a mutare forma dato che si troverà costretta a fronteggiare all’interno del suo partito una solida opposizione rispetto alla politica da adottare nei confronti della Grecia (e a situazioni simili che potranno presentarsi in futuro).

Se fino ad oggi il baricentro della politica tedesca è stata la figura forte e rassicurante della Merkel, appare non improbabile che “il falco” Schäuble possa incarnare un’alternativa politica che, partendo da una diversa interpretazione dell’idea di Europa e della posizione tedesca nell’Ue, si proietta giocoforza anche nella politica interna.

Un’alternativa forte di una posizione politica chiara, espressa nel comunicato dell’ultimo Eurogruppo dove si parla di Grexit, forte di una porzione crescente del partito che è con lui, come dimostrano i 60 contrari del voto al Bundestag, e soprattutto sostenuto da una popolarità in crescita in Germania.

Eugenio Salvati è Dottore di Ricerca in Scienza Politica, Università di Pavia.
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giovedì 30 luglio 2015

Berlino- Mosca: il nodo riaffiora

Unione dell’Energia a rischio
Berlino con Mosca contro Bruxelles
Valeria Termini
15/07/2015
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In questi giorni difficili e gravi per la tenuta dell’Unione europea (Ue), la fiducia tra i Paesi membri è cruciale per rimarginare le ferite, ricostruire un sentiero di coesione e avviare nuove tappe politiche nella crescita dell’Unione, senza le quali il progetto europeo rischia di implodere sotto la spinta di una frammentazione corrosiva.

La responsabilità maggiore cade sui governanti dei Paesi più forti, ai quali la storia chiederebbe oggi visione di lungo periodo e capacità di leadership.

Stride dunque particolarmente, insieme alle tragiche vicende greche, l’accordo bilaterale tra Germania e Russia, siglato giorni fa per la costruzione di un gasdotto che porti il gas russo direttamente in Germania, nonostante la rigida posizione tedesca sulle sanzioni nei confronti della Russia.

Raddoppierà la capacità di trasporto di Nord Stream a 110 bm3, a fronte del totale di esportazioni di gas russo in Europa di circa 150 bm3.

L’accordo elude le regole europee del Terzo Pacchetto Energia che avevano fatto cadere South Stream a inizio 2015. Allora aveva vinto il principio che in Europa il “divide et impera” non passa e South Stream era stato bloccato, secondo molti a detrimento economico di entrambe le parti, dopo i tentativi di Putin di negoziare bilateralmente con Bulgaria, Romania, Slovacchia, Ungheria per saltare l’Ucraina, indebolendo la Commissione e il Regolatore europeo.

È proprio questo il problema che l’accordo russo-tedesco elude oggi, con una furbizia politica da free rider, poiché prevede il collegamento diretto tra un Paese produttore esterno e un consumatore europeo, senza transiti.

Conseguenze negative
Di esso si percepiscono subito almeno tre conseguenze negative per l’Unione.

1) A pochi giorni dall’incontro trilaterale con Russia e Ucraina per mediare sulla vicenda energetica, l’accordo ha svuotato di contenuto negoziale la posizione della Commissione. In questa tela di Penelope della costruzione politica europea non sorprende, dunque, che l’incontro sia fallito al suo esordio.

2) L’accordo russo-tedesco mostra appieno che a fronte dell’armonizzazione delle regole, quasi completata, si pone una drammatica criticità: è difficile dare credito al decollo politico dell’Unione dell’Energia (Energy Union) se i capi di governo non si impegneranno sul tema, lasciando prevalere gli interessi nazionali del Paese più forte.

3) Infine una conseguenza politica ed economica seria per il lungo periodo, gravemente divisiva per le relazioni tra Paesi membri: torna al Nord, intorno al rapporto diretto tra Germania e Russia, il fulcro dell’approvvigionamento energetico dell’Unione, dopo che per mesi Commissione e Consiglio hanno propagandato un impegno convinto nei confronti del Mediterraneo e della diversificazione delle fonti, anche con gli alleati americani.

In un’ottica micro-economica si noti poi in un inciso che le imprese tedesche con le alleate nordiche sostituiranno l’assetto composito degli azionisti di South Stream e le imprese di costruzione del gasdotto.

Le imprese italiane ne soffrono, come altre, estromesse dal fronte coordinato dal governo tedesco con quello russo. I gasdotti meridionali, tra i quali l’allargamento di Tap e Tanap dall’Asia centrale, Itgi e altri progetti del Mediterraneo rischiano di diventare esuberanti.

Il senso dell’Unione dell’Energia
L’energia, come la finanza, è un settore chiave in Europa: può contribuire a invertire il ciclo economico e promuovere strategie politiche comuni.

Le Istituzioni europee si stanno faticosamente muovendo in questa direzione. Dopo l’Unione bancaria, l’Unione dell’Energia è stata lanciata dalla Commissione Juncker a inizio anno, come “una svolta nelle strategie di lungo periodo dell’Ue”.

Anche le condizioni esterne sono favorevoli a una politica comune che rafforzi i primi barlumi di crescita - il crollo del prezzo del petrolio, i risultati delle politiche per la decarbonizzazione, ma soprattutto la rivoluzione tecnologica in corso con le nuove fonti rinnovabili e l’integrazione dell’Ict nella costruzione di reti e consumi elettrici “intelligenti” - concorrono a una svolta del settore che si può ben definire epocale, nella quale l’Europa primeggia, per innovazione, tra le regioni del globo.

Il momento giusto per negoziare con la Russia
Da ultimo, si noti, sarebbe il momento ideale per negoziare in modo coeso con la Russia, primo fornitore dalla quale l’Ue dipende per il 30% delle importazioni di gas e per il 35% di quelle di petrolio, poiché il crollo del prezzo del petrolio da 110$ a 59$ il barile insieme alle sanzioni nel settore finanziario ed energetico pesano; per di più la Russia stenta a trovare altri mercati di sbocco, dopo i tentativi avviati con la Cina per un orizzonte lontano.

Ma soprattutto nuove strade per l’offerta di gas all’Europa si stanno aprendo nei sommovimenti geopolitici in corso. Dal Mediterraneo in primis: l’Algeria ha ripreso a produrre, l’Egitto ha siglato i primi accordi con Israele e Giordania per il gas del Mediterraneo orientale, dove nuove enormi riserve sono disponibili intorno al Leviatano per una graduale esportazione attraverso Grecia, Italia e Spagna.

Dall’Asia centrale, Iraq e Iran, a fine embargo, hanno forniture che si aggiungeranno al gas azero già programmato per affluire al Tap, recentemente approvato, attraverso Albania, Grecia e Italia, mentre la Turchia si candida come paese di transito e di consumo e i Balcani sono coinvolti in progetti che gli Stati Uniti sostengono da anni per rafforzare l’autonomia energetica della regione.

Infine, l’America. Contro le aspettative dei più, le prime forniture di gas liquefatto arriveranno a breve con contratti di lungo periodo dopo la semi-indipendenza raggiunta dagli Usa con il gas di scisto e il livellamento dei prezzi relativi globali, che rende l’Europa un mercato competitivo con l’Asia Orientale.

Strategia politica comune
Come non trarne vantaggio con una strategia politica comune?

Al riguardo si nota tuttavia che i progetti menzionati implicano investimenti e infrastrutture nei Paesi meridionali dell’Unione. Richiedono sforzi condivisi dei Paesi membri, coordinati dalla Commissione nei Projects of Common Interest (Pci), a beneficio economico di tutti i Paesi membri e a sostegno del ruolo politico che l’Unione europea può e deve svolgere per raggiungere nuovi equilibri multipolari nel Mediterraneo.

Ed è proprio questa visione europea che l’accordo russo tedesco mina gravemente, contrapponendo la resistenza della via del nord e dando prova di una furbizia politica di cortissimo respiro. L’Unione dell’Energia diventa così un progetto importante, ma solo sulla carta. E l’Ue rischia di perdere un’occasione irripetibile.

Valeria Termini è Commissario dell’Autorità per l’Energia elettrica, il gas e il Sistema Idrico AEEGSI); VicePresidente del Council of European Energy Regulators (CEER).
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venerdì 17 luglio 2015

Russia: le inique sanzioni: una nota voste da Mosca

Sanzioni Russe: una prospettiva da Mosca
 di
Federico Salvati
 Mosca, 7 luglio 2017

Qui a Mosca negli ultimi giorni si fa un gran parlare della sanzioni europee alla Federazione Russa. Motivo del fermento è la presentazione di un rapporto ufficiale, da parte del Ministero delle Finanze, che stima, in termini monetari, i danni effettivi che la nazione ha subito dall'inizio delle sanzioni.
Il ministro delle finanze, Anton Siluanov, dichiara in questo rapporto che  le sanzioni sono costate al paese circa 40 miliardi d euro. Il danno provocato all'economia russa, di rimando, ha generato una perdita di 100 miliardi di dollari sui mercati internazionali. Dal rapporto traspare in maniera chiara che  le sanzioni non hanno significativamente colpito l'equilibrio economico russo. L'azione occidentale, tuttavia ha forzato il paese a cambiare il suo focus geoeconomico verso il mercato asiatico.
 Dalle cifre presentate si capisce, inoltre, che l'Europa e gli USA rimangono i principali investitori all'interno dell'economia russa. Nonostante ciò il programma sanzionatorio dell'occidente non è riuscito a destabilizzare, fondamentalmente, la vita economica della Federazione.
IL FALLIMENTO DELLA STRATEGIA OCCIDENTALE
“Inutile giraci intorno: colpire l'economia russa significa colpire le esportazioni energetiche”. Così esordiva ieri, in prima serata, su Rassia 1, durante un importante talk show, l'opinionista Rastislav Abramovic. Le riverse di gas e petrolio costituiscono il fattore cardine della dottrina di sicurezza nazionale. Putin sin dall'inizio del suo mandato mise in chiaro che la sicurezza e la potenza russa sarebbero passate attraverso l'esportazione di queste risorse.
Il vero problema del mercato energetico russo, però, oggi rimangono la ricerca e lo sviluppo. Il tasso di impoverimento delle risorse sfruttate è superiore a quelle che sono le aspettative di progresso tecnico per lo sfruttamento. In altre parole: le risorse stanno finendo e la Russia è incapace di accedere a nuovi bacini che sarebbero potenzialmente sfruttabili se si investisse nel settore.
Al di la dell'embargo su prodotti commerciali di base, come le mele trentine e il formaggio italiano, il vero obiettivo occidentale era scoraggiare lo sviluppo tecnico dello sfruttamento delle risorse naturali della Russia. Questo è il vero gambetto che Washington e Bruxelles hanno provato a intavolare. La breve intesa tra Washington e Rihad per abbassare il prezzo del petrolio era solamente una misura a breve termine che non era sostenibile sul lungo periodo. Creare delle prospettive non incoraggianti per la capacità produttiva a lungo termine nel capo energetico è forse stato l'unico grande risultato delle sanzioni europee. Al di la di tale azione tuttavia i risultati concreti rimangono piuttosto limitati.
LE SANZIONI E I LORO EFFETTI
L'azione europea ha effettivamente danneggiato la Russia che però, in buona sostanza, è ricaduta sui suoi piedi.
Dopo il primo round sanzionatorio l'inflazione non è salita a tassi preoccupanti e Mosca ha imparato la necessita di una consistente diversificazione delle esportazioni.
A questo proposito il governo ha già una sua strategia che vede coinvolti principalmente la pipeline “Sila Siberi” (potere della Siberia) da una parte e il progetto Sakhalin dall'altra.
La sfida per quanto riguarda questo frangente sarà, da una parte, evitare che il Gippone e la Cina (entrambi partner nei progetti) entrino in contrapposizione tra di loro; e dall'altra fare in modo che le questioni pendenti tra la Russia e i suoi partner non si trasformino in motivo di rottura.
IL FALLIMENTO DELLO SHALE GAS
Un altro fattore importante che ha incoraggiato la Russia a persistere nella sua politica è stato il grande fallimento, dal punto di vista strategico, dello shale gas.  Quella che doveva essere una rivoluzione di stampo globale nell'esportazione energetica, di fatto, si è rivelata, secondo molto opinionisti russi, un vero e proprio bluff. I costi proibitivi ancora non permetto un uso massivo di questa tecnica nel mercato e comunque il grosso della domanda per lo shale gas viene dalle nazioni asiatiche e non dai paesi europei come ci si potrebbe aspettare.
CONCLUSIONE
La ratio sostanziale delle sanzioni europee era quella di fare pressione sulla Russia senza privare il mercato globale delle delle risorse energetiche russe. Il risultato finale però, invece di essere una brillante azione strategica, si è rivelato una scadente “mezza misura” che ha scontentato tutti e accentuato i toni delle relazioni bilaterali.

La situazione sanzionatoria ora si è trasformata in un pericoloso dilemma per l'occidente. La Russia è la 10° economia mondiale e un'azione più coercitiva potrebbe trasformasi in una crisi energetica di livello mondiale. D'altro canto però un'eccessiva indulgenza potrebbe far perdere qualunque credibilità all'occidente che si dimostrerebbe incapace di reagire in maniera efficace all'assertività di Mosca.

MOldova: la storia del vitello intelligente: Nutrirsi da due vacche per rimanere a digiuno?

Elezioni amministrative
Moldova, un quadro politico confuso
Mirko Mussetti
12/07/2015
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Un quadro politico nazionale fragile e confuso ha segnato le elezioni amministrative locali svoltesi nella Repubblica Moldova il 14 e il 28 giugno.

Il Partito Democratico (Pdm) di Marian Lupu ha ottenuto il risultato migliore, garantendosi ben 287 sindaci, 70 in più rispetto alle consultazioni di quattro anni or sono, immediatamente seguito dal Partito Liberal-democratico (Pldm) con 285 sindaci.

Il Partito Comunista (Pcrm) ottiene 77 sindaci, un centinaio in meno rispetto alle precedenti amministrative, risultando essere in tutta evidenza il grande perdente di questa tornata. Il Partito Liberale (Pl) si ferma a 45; il Partito Socialista (Psrm) rimane stabile con 51 sindaci; la formazione Partito Nostro (Pn) di Renato Usatîi avanza con 43 sindaci, mentre il blocco elettorale Piattaforma popolare europea di Moldova (Ppem) si aggiudica 27 primi cittadini.

Il significato dei risultati
I risultati delle elezioni hanno rinvigorito il fronte costituito dai partiti pro-Ue (Pdm, Pldm, Pl, Ppem), i quali unendo le forze potrebbero condurre ben 24 consigli regionali su 32.

I partititi “filorussi” (Pcrm, Psrm, Pn) devono invece accontentarsi dei restanti 8 consigli regionali e prendere atto di una avvenuta “ristrutturazione” della propria base elettorale: a causa della considerevole perdita di influenza dei comunisti dell'ex presidente Voronin, storicamente forte nelle zone rurali, i risultati migliori sono stati conseguiti in contesti urbani.

Mentre i leader dei partiti filoeuropeisti, Marian Lupu (Pdm) e Vlad Filat (Pldm), si sono affrettati a dichiarare la propria soddisfazione per i risultati elettorali, Mihai Ghimpu (presidente Pl) ha tenuto a precisare quanto importante sia la riconferma a sindaco della capitale Chişinău del proprio candidato Dorin Chirtoacă, giocando quindi un'importante carta per la formazione di un nuovo governo.

È bene tuttavia sottolineare che nella capitale i partiti filoeuropeisti si sono aggiudicati a malapena la maggioranza del consiglio municipale con 26 seggi sui 51 disponibili (la richiesta di riconteggio dei voti è stata respinta e il 10 luglio è stata convalidata la riconferma del sindaco).

L'esuberante uomo d'affari e presidente di Partito Nostro, Renato Usatîi, diventando sindaco dell'importante città di Bălţi, ottiene una doppia “rivincita”: non solo governa la cosiddetta “capitale del nord” (seconda città per importanza della Moldova), in risposta alla vittoria dei liberali a Chişinău, ma riscatta pure la determinante esclusione del proprio partito Patria, per finanziamento illecito estero, dalle elezioni politiche del 30 novembre 2014.

In virtù del nuovo incarico, Usatii si candida ad essere quindi punto di riferimento delle forze d'opposizione a fianco (o in concorrenza?) del carismatico socialista Igor Dodon (Psrm).

Verso la formazione di un nuovo governo
Le elezioni amministrative influenzeranno inevitabilmente i futuri assetti politici e geopolitici dello stato, a partire dalla formazione di un nuovo governo. Dopo le dimissioni del premier Chiril Gaburici il 12 giugno, a soli due giorni dal voto locale, a causa della falsificazione di titoli di studio, la Repubblica Moldova si trova senza un governo sostenuto da una stabile maggioranza parlamentare.

Il presidente della repubblica Nicolae Timofti ha recentemente apprezzato l'auspicio espresso dal proprio omologo rumeno Klaus Iohannis, che ha notato “l'urgenza della formazione di una coalizione di governo stabile che possa proseguire sul percorso europeo delle riforme ad un ritmo serrato” e dichiarato che “in questo contesto, interno e regionale, ritardi ed esitazioni non sono affatto benefiche”.

Il ruolo dei negoziati con Ue e Fmi
L'europarlamentare e presidente della commissione di associazione Ue-Moldova, Andi Cristea, non solo a più riprese ha fatto appello alle forze politiche affinché siano in grado di formare rapidamente un nuovo governo che implementi l'Accordo di Associazione, ma ha anche espresso al premier ad interim Natalia Gherman apprensione per la capacità negoziale di Chişinău nei confronti del Fondo monetario internazionale.

E il capo missione Ue a Chişinău, Pirkka Tapiola, ha precisato che i fondi europei alla Moldova saranno sospesi fino a quando non verrà istituito un nuovo esecutivo capace di negoziare immediatamente con l’Fmi un accordo per la concessione di un nuovo finanziamento che metta al riparo il Paese da una crisi bancaria e dall'instabilità macro-finanziaria.

Proprio per via dei colloqui con l’Fmi ed in vista della proposta di un’eventuale nazionalizzazione della Banca de Economii (uno dei tre principali istituti di credito del paese), Vlad Filat si è detto sicuro che un nuovo governo europeista verrà costituito entro fine luglio.

L'ex premier Iurie Leanca (Ppem) ritiene che la formazione di una coalizione tra Pdm, Pdlm, Pl e Ppem sia l'unica via per impedire il rischio di insolvenza della Repubblica Moldova in stile Grecia, definendo socialisti ed esponenti Pn come la “Syriza moldava” che condurrebbe lo Stato verso il default.

I buoni risultati ottenuti dalle forze europeiste nelle elezioni amministrative potrebbero favorire un'intesa per la formazione in tempi rapidi di un nuovo esecutivo, anche se su base locale si stanno formando coalizioni promiscue caso per caso tra partiti pro-Ue, comunisti e socialisti.

Potenziali effetti sull'assetto istituzionale
La necessità e l'urgenza di un nuovo governo in grado di negoziare con Unione europea e Fondo monetario internazionale spingeranno con buone probabilità le forze europeiste a raggiungere un accordo che garantisca stabilità al Paese, probabilmente con qualche concessione in più al minoritario ma essenziale Partito liberale (Chirtoacă potrebbe essere così chiamato a dirigere il nuovo esecutivo).

Questo potrebbe però portare ad una maggiore domanda di “devolution” all'interno del paese: oltre a irrigidire ulteriormente le posizioni separatiste della regione transnistriana, potrebbe indurre l'Unità territoriale autonoma di Gagauzia, storicamente filorussa, a richiedere maggiore autonomia e il distretto di Taraclia (abitato in larga misura da una minoranza bulgara) ad aspirare a pari trattamento.

Non è da escludere che Chişinău, stretta da pressanti contingenze economiche e geopolitiche (crisi del sistema finanziario e della propria valuta e crisi russo-ucraina), ma intimorita dalle diverse forze centrifughe (conflitto transnistriano, desideri federalisti e simpatie filorusse), continui a perseguire una politica estera “oscillante”.

La Moldova, cioè, potrebbe non essere in grado di svincolarsi nel breve termine dal proprio destino di viţel deştept (formula spesso usata dall'ex presidente Vladimir Voronin), il “vitello intelligente” che cercando di allattarsi da due vacche (Ue e Russia) finisce per non nutrirsi affatto.

Mirko Mussetti è un giovane analista di stampo neorealista. Aree di interesse primario: Est Europa ed Asia Centrale (@mirkomussetti).
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Grecia: un referendum dalle mille discussioni

Grecia, Ue, referendum
Un’Agorà per la sovranità europea
Pasquale Lino Saccà
06/07/2015
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Se gli Dei stanno a Berlino, chi salverà Bruxelles? E se stanno ad Atene? Il referendum di domenica 5 luglio non risolve i problemi della Grecia, che dipendono dalla "generosità" dei creditori, mentre il Consiglio europeo ha dimostrato i limiti dell'Unione intergovernativa, delegando la questione all’Eurogruppo.

Bisogna distinguere le due sovranità e fare sì che 10 milioni non possano prevaricare 500 milioni di cittadini europei. L'Unione ha bisogno d’una sovranità politica europea davvero democratica: un’Agorà per la sovranità europea.

Se il deus ex machina sta a Berlino e ha le sembianze della Merkel, non è questo l’approdo decisionale corretto per una Unione i cui valori preminenti dello stare insieme sono le radici per decidere con proprie Istituzioni. Ma non lo è neppure se il voto di una parte - un esercizio democratico, ma nazionale, non europeo - condiziona l’intero.

Commissione pratichi potere d’iniziativa
Il potere d’iniziativa della Commissione è un esempio da praticare, in un contesto di equilibri istituzionali più incisivi e democratici. Certamente la Grecia poteva essere “salvata” prima, e sarebbe costata di meno al contribuente europeo, ma il gioco al rinvio del nuovo governo greco e gli egoismi nazionali che il metodo intergovernativo alimenta hanno creato un connubio in cui l’incomprensione rischia d’imporsi.

La furbizia degli uni si è contrapposta alla miope diligenza degli altri. Gli uni nella convinzione di ottenere di più, dichiarandosi disponibili, ma concretamente carenti a rendere certe e percorribili le “vaghe” proposte, che hanno diffuso una sfiducia sempre più ampia, visti gli andamenti al ribasso della Borsa di Atene (e non solo) ed i prelievi dalle casse delle banche che segnalano anche una fuga di capitali vistosa, in un momento in cui la stagione estiva incentiva il turismo e quindi esprime le maggiori potenzialità per la Grecia di creare ricchezza e sviluppo.

Gli altri impegnati, più da contabili che da politici, in un percorso di austerità significativamente perdente viste le statistiche sull’occupazione, i ritardi nella crescita del Pil e il ruolo di supplenza della Bce che finora ha consentito che il default greco avesse l’ossigeno di credito giusto per permettere anche all’Emu di respirare, fornendo liquidità attraverso l’Ela (Emergency Liquidity Assistance).

Il metodo intergovernativo impedisce di decidere al ritmo della realtà sociale, mentre il popolo greco, civilmente, manifesta la sua volontà di non essere escluso dal camminino dell’integrazione: la geografia, la storia e la cultura non lo consentono.

Sovranità nazionale e responsabilità comune
Il Governo greco, ancora prima, doveva comprendere che le eccezioni da concedere ad un singolo Stato non sono possibili, poiché vanno moltiplicate per i rimanenti Stati. Inoltre, le negligenze di pochi non possono essere addossate all’intera collettività europea, senza certezze di una buona politica che nel lungo periodo renda evidente un cammino virtuoso, questa consapevolezza o percezione di sfiducia generata avrebbe consentito la caduta di ogni alibi per gli interlocutori creditori, mentre la Commissione avrebbe potuto già avviare una politica d’investimenti. Però, così non è stato e non poteva essere viste le fughe in avanti e le mancate risposte.

Sono evidenti i limiti a cui si è giunti contrapponendo le sovranità e dimenticando il significato di Comunità e di responsabilità. Ma il popolo greco, che svuota le proprie banche portando a casa il proprio risparmio in euro, manifesta un atto di fiducia nell’Ue, poiché l’eventuale dracma lo azzererebbe.

Non finirà in tragedia: il contesto internazionale, la posizione geografica e l’aver allontanato la Turchia impone alla Nato e quindi all’Unione di non peccare di presunzione. Il Mediterraneo è un “tema” da trattare coerentemente con politiche d’integrazione.

La giusta memoria e l’economia possibile
L’Unione s’è affermata in un cammino d’integrazione, in nome della pace, della democrazia e della solidarietà; e, quindi, conservando la giusta memoria, deve rispondere alla domanda di maggiore coesione, non dimenticando che abbiamo tutti migrato.

Dalla Germania, ci si aspetta ancora un atto di visione politica: Helmut Kohl unificò la Germania nelle Comunità europee; ora si chiede che “una Angela” aiuti Atene a volare verso Bruxelles, per impedire l’avvio di un moltiplicatore negativo che ridimensioni il processo d’integrazione, dati i palesi ritardi nel governare democraticamente la politica economica nelle Istituzioni europee.

La Grecia in queste ultime ore sta prospettando certezze di politiche economiche possibili, oltre le dichiarazioni di buona volontà. E l’Unione non ha alternative al suo cammino unitario. Non sprechiamo l’insegnamento della crisi greca: rilanciamo l’Europa delle risorse proprie al 3%, della ricerca entro il 2020 al 3%; e investiamo per ristrutturare le politiche, affinché il Pil cresca del 3% e l’occupazione non rimanga una promessa.

La Grecia può essere un’opportunità da cogliere: bisogna andare oltre, distinguendo le due sovranità rafforzando democraticamente il governo dell’Unione eleggendo i commissari e lasciando agli Stati di promuovere lo sviluppo locale in modo sinergico al ruolo politico intercontinentale dell’Unione.

Il Mediterraneo è il nostro mare, riprendiamo il percorso di Barcellona e non trascuriamo una Convenzione che riscopra lo spirito e le capacità politiche che 60 anni fa si sono materializzate a Messina. Così non costruiremo muri, ma aquiloni per capire il vento e riprendere il cammino di pace. L’Euro non è solo moneta e l’Unione ha bisogno urgente di una Comunità politica. Grecia docet; l’Europa dell’intelligenza ha capito.

Pasquale Lino Saccà, J.M.Chair ad personam E.C. Roma.
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Europa: il nodo grego

’Ue e la Grecia
Salvare l’Europa restringendola?
Riccardo Perissich
11/07/2015
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La questione principale che si pone all’Europa dopo il referendum di Atene non è se la Grecia rimarrà o meno nell’euro: quale che sia la conclusione della partita in corso, la Grecia resterà infatti a lungo un problema che, volente o nolente, l’Europa si dovrà accollare.

Un grave errore di analisi compiuto per comprensibili ragioni demagogiche dal governo greco, ma che ha sedotto molta gente anche altrove, è di credere che il problema greco sia un paradigma per giudicare l’intero sistema dell’euro. In realtà la Grecia è sempre stata un caso del tutto anomalo: dirlo è politicamente scorretto, ma se lo si fosse trattato dall’inizio come tale forse avremmo evitato molti guai.

La domanda che assilla invece tutte le cancellerie è cosa bisogna fare dell’eurozona (e anche dell’Ue) per consolidare un sistema che palesemente funziona male e che è rigettato o mal compreso (in termini politici è la stessa cosa) dall’opinione pubblica.

Sul tavolo c’è il cosiddetto rapporto “dei 5 Presidenti” che costituirà, arricchito da altre idee fra cui un documento del governo italiano, la base per le discussioni dei prossimi mesi.

Il testo contiene molte proposte utili e si muove nella linea tradizionale del gradualismo e del pragmatismo delle istituzioni: fare proposte ambiziose, ma non troppo da essere giudicate irrealiste e velleitarie. In Italia e altrove è considerato del tutto insufficiente, addirittura “irritante”.

All’Europa non servono nuove proposte tecniche, si dice, ma la volontà di correggere finalmente il vizio d’origine del trattato di Maastricht: la mancanza di unità politica. Giusto; talmente giusto da essere semplicistico. C’è da chiedersi se chi lo dice abbia riflettuto fino in fondo alle conseguenze.

I malintesi dell’Unione politica
Quando in Italia si parla di unione politica, si pensa in genere a istituzioni di tipo federale che abbiano una sufficiente legittimità democratica da essere considerate “cosa loro” dai cittadini; istituzioni che dovrebbero anche avere una capacità finanziaria propria per poter giocare il ruolo stabilizzatore che in America appartiene al governo federale.

Tutto ciò è giusto e convincente, ma a cosa assomiglierebbero queste istituzioni? Ci sono molte riflessioni dell’accademia e dei think tanks, ma nulla che faccia supporre che i principali governi abbiano maturato idee concrete.

Non deve sorprendere. Per prima cosa l’Europa unita non potrà assomigliare agli Stati Uniti, nel senso che l’assoluta separazione dei poteri alla base della Costituzione americana è estranea alla nostra cultura politica fondata su governi parlamentari.

Inoltre, poiché è inconcepibile che si riparta da zero, si dovrà necessariamente costruire sull’esistente. Quale ruolo assegnare alle istituzioni che abbiamo: Commissione, Consiglio europeo, Consiglio, Parlamento europeo, Parlamenti nazionali?

Su tutto aleggia una divaricazione nel pensiero politico europeo, che possiamo identificare in Francia e Germania: da un alto la preferenza per un esecutivo forte anche se legittimato dalla volontà popolare, dall’altro la diffidenza verso l’esperienza del II e del III Reich che spinge verso un esecutivo con poteri discrezionali molto limitati, espressione di un Parlamento fortissimo.

Non sarà facile trovare un equilibrio, anche perché le difficoltà che incontra il Parlamento europeo dimostrano quanto sia arduo avere un dibattito democratico a livello dell’Unione. Il pericolo è che si finisca con un aumento massiccio dei poteri dei Parlamenti (europeo e nazionali), ma privi di un esecutivo degno di questo nome.

C’è infine l’ostacolo di sempre: la riluttanza della Francia e di altri ad accettare vere cessioni di sovranità. Quanto sopra basterebbe a illustrare la difficoltà del percorso. Tuttavia, le istituzioni non sono tutto. L’Europa ha anche (o crede di avere) una Costituzione economica. Per capirci, un po’ di storia.

La Costituzione economia europea
Quando, alla fine degli Anni ’60 si cominciò a rompere la stabilità monetaria che aveva sostenuto le economie occidentali durante i “30 gloriosi”, in Europa assistemmo a un duro confronto fra due filosofie i cui poli erano rappresentati (ancora una volta!) dai francesi, definiti “monetaristi” e dai tedeschi, definiti “economisti”.

Gli addetti ai lavori ancora sopravvissuti ricorderanno i duri scontri fra Giscard D’Estaing, allora ministro delle Finanze, e il suo collega tedesco Schiller. Lo scontro prendeva le mosse dalle misure da prendere per far fronte a un’incipiente instabilità monetaria, ma fu particolarmente aspro perché rifletteva due opposte visioni di politica economica. I francesi, privilegiavano strumenti per assicurare la stabilità monetaria; i tedeschi, sostenevano che nulla aveva senso senza convergenza delle politiche economiche.

Dietro il confronto c’era il problema dell’accettazione dei principi fondamentali dell’economia sociale di mercato, vero fondamento costituzionale e filosofico della Germania nata dalle macerie della guerra: rigore dei conti pubblici, gestione della moneta indipendente dalla politica, mercato aperto ma regolato, scarso intervento statale.

La disputa continuò con alterne vicende per tutti gli Anni ’70, sembrò sopirsi con l’accordo fra Giscard e Schmidt per la creazione dello Sme, ma riesplose con il primo governo Mitterrand. Gli altri paesi membri non assistevano inerti, ma si riconoscevano più o meno nell’una o nell’altra posizione. Il secondo governo Mitterrand segnò una svolta che permise più tardi di condurre al trattato di Maastricht.

I tedeschi avevano ceduto il controllo della moneta, ma ottenevano su tutto il resto vittoria completa. Con buona pace dei neo keynesiani così popolari in Italia, l’economia sociale di mercato nella sua versione tedesca (termine poi addirittura consacrato nel trattato di Lisbona) diventava la costituzione materiale dell’Unione.

Compromessi ed eccezioni
Partita chiusa? Le condizioni per poter accedere all’euro furono in alcuni casi “massaggiate” per motivi politici: marginalmente per l’Italia, in modo massiccio e addirittura fraudolento per la Grecia. Poi venne l’incidente del 2003 quando Francia e Germania, con la complicità della presidenza italiana, sforarono i parametri: episodio grave a causa dell’importanza dei due colpevoli.

In realtà la Germania peccava per finanziare le riforme che l’avrebbero ricondotta sulla retta via. La Francia, per poter continuare a spendere senza riforme. L’Italia fu complice per ottenere lo stesso salvacondotto della Francia.

Il vulnus fu grave e mai dimenticato; comunque, il fatto che il debole apparato istituzionale creato da Maastricht si rivelasse incapace di assicurare la convergenza delle politiche non sembrava preoccupare più di tanto.

La crisi ha fatto esplodere tutto: i meccanismi di funzionamento del sistema, ma soprattutto l’illusione di un consenso europeo sui principi della politica economica comune.

Il conseguente crollo della fiducia reciproca non poteva che condurre a una gestione sempre più intergovernativa accentrata nel Consiglio europeo. Alla retorica di una solidarietà rispettosa della sovranità nazionale, si è contrapposta una retorica della responsabilità e del rispetto delle regole.

In realtà il sistema è stato via via profondamente modificato ed è diventato allo stesso tempo più stringente, più flessibile e più solidale. L’accento sul rispetto dei saldi contabili è ora accompagnato, ed è una grande novità, da un’attenzione prioritaria alle riforme strutturali. Quanto sì è fatto negli ultimi anni ha prodotto indubbi risultati in paesi come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, ma anche l’Italia.

Risultati concreti e retoriche populiste
Tuttavia la guerra le opinioni pubbliche percepiscono solo un insieme farraginoso di procedure prive di coerenza politica. La retorica dell’egoismo dei creditori contro l’irresponsabilità delle cicale ha ovunque alimentato un populismo che si nutre spesso anche, e soprattutto, di altri temi come l’immigrazione incontrollata e il disprezzo delle classi dirigenti. Una delle letture più fallaci del dramma greco è che si tratti di un confronto fra una democrazia e una tecnocrazia.

Al netto degli errori commessi dall’eurogruppo durante i negoziati, le istituzioni hanno agito con un mandato politico fortissimo, altrettanto democratico di quello del governo greco; mandato politico non solo da parte della Germania e dei paesi a lei affini, ma anche di chi avendo ottemperato alle regole pagando un prezzo politico elevato, comincia a vedere la luce in fondo al tunnel.

Ricostituire un triangolo funzionante fra le tre parole chiave di responsabilità, solidarietà e fiducia sarà possibile solo se si ricreerà un consenso credibile e senza riserve intorno ai principi. Una delle più pericolose illusioni dei federalisti ostili al corso attuale è credere che in una federazione la maggioranza degli europei si esprimerebbe per una politica radicalmente diversa.

I principi consacrati nei trattati attuali non sono frutto di un’imposizione tedesca, ma rappresentano la convinzione della maggioranza dei paesi membri anche dell’attuale Parlamento europeo.

Trasparenza e legittimazione democratica
Tuttavia questo rinnovato consenso non resisterebbe ai fatti e non sarebbe compreso dall’opinione pubblica se non fosse accompagnato da una maggiore trasparenza e legittimazione democratica delle istituzioni.

Il ritorno della fiducia e la creazione di istituzioni più forti non annullerebbe la responsabilità dei singoli Paesi, ma scaricherebbe la Germania del suo imbarazzante fardello di “egemone riluttante” che sta ovunque inquinando il dibattito e renderebbe possibili ipotesi oggi irrealistiche come gli eurobonds o una capacità fiscale dell’eurozona.

I due problemi costituzionali dell’Europa quindi s’incontrano. Su questa strada ci sono tre scogli da affrontare: il consenso sulla politica economica, la definizione di un nuovo assetto istituzionale e l’accettazione di nuove importanti cessioni di sovranità.

Non bisogna del resto dimenticare che c’è necessariamente una terza gamba di ogni Unione politica. La debolezza dell’Europa nel contesto mondiale (politica estera, difesa, gestione dell’immigrazione) è percepita sempre più dai cittadini come un’inaccettabile carenza dell’Unione. Tutto ciò, sapendo che il risultato dovrà necessariamente essere ratificato da numerosi referendum, compreso (se si prende sul serio la posizione espressa da Bvg) in Germania.

Com’è agevole vedere, si tratta di un compito immane. L’errore più grave sarebbe di convocare al buio una nuova conferenza intergovernativa senza che sia sul tavolo un’ipotesi coerente. L’esempio da seguire è quello della proposta di Robert Schumann, formulata dopo essersi assicurato il consenso tedesco e con la certezza dell’accordo del Benelux.

Oggi l’iniziativa dovrebbe necessariamente essere tedesca, il consenso francese resterebbe indispensabile, ma sarebbe necessario anche il concorso di altri paesi del nord, del centro e del sud dell’Europa; senza massa critica, nulla avrebbe senso.

A costo di perdere per strada pezzi
C’è in tutto questo un prezzo che dovremmo essere pronti a pagare: perdere per strada alcuni pezzi dell’Ue e forse anche dell’eurozona. In un’Europa che affrontasse seriamente la sintesi fra responsabilità, solidarietà e sovranità si porrebbe con più acutezza un problema di compatibilità politica oltre che economica: è difficile che il primo Mitterrand, Orban o Tsipras (per non parlare di Lepen, Grillo o Salvini) possano trovarvi posto.

Il problema di come organizzare la transizione non sarebbe giuridico; i trattati offrono molti strumenti idonei. Il problema sarebbe però politico poiché ciò che si creerebbe al centro del sistema sarebbe tanto forte da rendere obsoleti tutti i principi di differenziazione e di velocità multiple finora sperimentati.

L’Italia sarebbe particolarmente esposta. Sempre accompagnati da diffusa diffidenza, entrammo nella Ceca e nella Cee per la buona volontà di De Gasperi e dei suoi eredi, nell’euro per l’ostinata determinazione di Ciampi e in Schengen per il paziente lavoro di Giorgio Napolitano.

Malgrado le mai risolte debolezze politiche e strutturali, abbiamo comunque operato all’interno del sistema contribuendo spesso in modo determinante al suo progresso.

Tuttavia la mancanza di fiducia ci investe ancora in pieno. Il compito degli europeisti italiani è reso oggi più arduo perché in passato i governi operavano con il consenso distratto ma largamente maggioritario dell’opinione pubblica e delle forze politiche. Oggi non è più così, anche se è ragionevole pensare che il diffuso euroscetticismo sia un fenomeno effimero che non reggerebbe di fronte a un progetto convincente.

Può darsi che la realtà o la carenza di leadershipci conduca alla conclusione che nell’attuale situazione economica e con la persistente fragilità di molti governi, un balzo in avanti non sia possibile. Allora dovremo continuare a cercare di evitare Grexit e Brexit e a navigare nel quadro attuale, cercando gradualmente di migliorarlo come abbiamo fatto finora e affrontando pragmaticamente le crisi future. Dovremo però farlo senza mugugni e assumendo anche il gravoso compito di educare un’opinione pubblica sempre più disorientata.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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mercoledì 15 luglio 2015

Europa: il punto sulla ricerca

Ue e ricerca
Horizon 2020 e Pmi: ancora molto da fare
Felice Simonelli, Osvaldo Piperno, Silvia Ciccarelli
30/06/2015
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In Europa operano circa 22 milioni di Pmi (il 99% del totale imprese attive) che generano 3.500 miliardi di euro di valore aggiunto (il 60% del totale) e impiegano quasi 90 milioni di addetti (il 67% del totale).

Questi numeri stridono con i risultati complessivi del Settimo Programma Quadro di ricerca e innovazione Ue: le Pmi rappresentano solo il 24% dei soggetti partecipanti e il 22% di quelli vincenti e raccolgono meno del 18% del budget complessivo.

Obiettivi specifici e canali preferenziali
La necessità di stimolare un maggior coinvolgimento delle Pmi è stata riconosciuta anche dall’Ue che ha introdotto uno specifico obiettivo “innovazione nelle Pmi” nel programma H2020.

La Commissione intende assegnare alle Pmi almeno il 20% dei finanziamenti inclusi nei pilastri “leadership industriale” e “sfide per la società”, ovvero circa 8,65 miliardi (poco più del 10% del budget complessivo H2020).

Parte di questa somma sarà erogata tramite un canale preferenziale di finanziamento, il cosiddetto Sme Instrument che dovrebbe garantire fondi alle Pmi per quasi 3 miliardi tra il 2014 e il 2020.

In aggiunta, le Pmi ad alta intensità di ricerca possono partecipare all’Eurostars Joint Programme. Un’altra opportunità è offerta infine dai finanziamenti sotto forma di capitale di credito o di rischio disponibili nell’alveo delle “call access to risk finance” (che non sono riservate solo alle Pmi).

Risultati ancora insoddisfacenti
Ciononostante, i risultati delle prime sub-call H2020 non hanno condotto a miglioramenti rispetto al precedente Programma Quadro: solo il 21% dei partecipanti e il 17% dei soggetti vincenti rientrano nella categoria Pmi cui è diretto meno del 14% del totale finanziamenti richiesti.

La nota positiva è che quasi 19% delle risorse erogate nell’ambito dei pilastri “leadership industriale” e “sfide per la società” sono andate alle Pmi, poco sotto il target iniziale. Nonostante gli sforzi compiuti, H2020 non è ancora un programma per Pmi.

Interrogativi e nodi da sciogliere
Restano una serie di dubbi e di nodi da sciogliere:

- È importante stimolare un maggior coinvolgimento delle Pmi in attività di ricerca e innovazione? È sufficiente riflettere sull’obiettivo, incluso nella strategia Europa 2020, di portare gli investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del Pil europeo: in Europa il settore privato investe in tali attività poco più dell’1% del Pil, negli Usa quasi il 2%, in Giappone il 2 e mezzo. Mentre gli investimenti delle grandi imprese reggono il confronto internazionale, le Pmi europee rappresentano il tallone d’Achille.

- È adeguato il target di 8,65 miliardi (10% del budget totale) da destinare alle Pmi? Il programma H2020 ha segnato un punto di svolta, puntando soprattutto sull’innovazione piuttosto che su ricerca e sviluppo. Con l’avvicinamento al mercato è ragionevole attendersi maggiore interesse da parte delle Pmi, anche in assenza di obiettivi o strumenti dedicati. Il target della Commissione, peraltro solo sfiorato nelle prime sub-call, ha tutta l’aria di essere un bersaglio a portata di mano.

- Come si spiegano i risultati deludenti delle prime sub-call? Vale la pena riflettere su alcune delle criticità già emerse. Le Pmi: i) sono meno informate sulle opportunità offerte dai programmi europei; ii) hanno risorse umane e finanziarie, e spesso anche competenze (si pensi alle barriere linguistiche), inadeguate per preparare proposte convincenti; iii) incontrano ostacoli nella ricerca di partner e nella gestione di consorzi internazionali; iv) hanno difficoltà di accesso al credito per integrare, laddove richiesto, i fondi comunitari.

- La strategia adottata dalle Istituzioni europee può migliorare le performance delle Pmi? Lo Sme Instrument ha il pregio di dedicare risorse alle Pmi. Lo strumento consente la partecipazione anche a singole imprese e questa è stata la forma di partecipazione finora preponderante, in particolare per la fase uno. Sarebbe opportuno incentivare la partecipazione in forma consorziata per: i) addestrare alla partecipazione alle altre call H2020; ii) garantire la spinta innovativa che discende da collaborazioni internazionali. Lo Sme Instrument inoltre: i) offre una copertura pari al 70% delle risorse necessarie per un progetto, mal conciliandosi perciò con i problemi di accesso al credito delle Pmi; ii) non consente la contemporanea presentazione o implementazione di un secondo progetto nell’ambito dello stesso strumento, riducendo ulteriormente gli incentivi a creare consorzi.

Bisogna certamente coinvolgere più Pmi e dirigere loro maggiori risorse. Non basta però rincorrere le statistiche. Serve migliorare la qualità della partecipazione e consentire alle Pmi di superare e non aggirare i tipici limiti che le contraddistinguono.

Felice Simonelli è Assegnista di ricerca presso l’Agenzia Spaziale Italiana, Unità Linee Strategiche e Relazioni Paesi Europei & Ricercatore presso il Centre for European Policy Studies (Ceps).
Osvaldo Piperno è Primo Tecnologo, responsabile Piccole e Medie Imprese e Trasferimento Tecnologico presso l’Agenzia Spaziale Italiana, Unità Linee Strategiche e Relazioni Paesi Europei.
Silvia Ciccarelli è Assegnista di ricerca presso l’Agenzia Spaziale Italiana, Unità Linee Strategiche e Relazioni Paesi Europei
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Europa: la sicurezza in una nuova prospettiva

Rapporto Mogherini
Verso una strategia europea per la sicurezza 
Jean-Pierre Darnis
30/06/2015
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Nel recente Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei 28, è stato adottato il rapporto presentato dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini «The EU in a changing global environment: a more connected, contested and complex world».

Questo rapporto risponde a una richiesta del Consiglio formulata nel dicembre 2013 quando l’Alto Rappresentante venne incaricato di provvedere entro il 2015 a fornire un’analisi delle mutazioni dello scenario globale.

Si tratta quindi di un mandato rivolto al precedente Alto Rappresentante, Catherine Ashton, che è stato colto al balzo da Federica Mogherini: il documento fornisce indicazioni molto interessanti sugli obiettivi ma anche sul metodo della sua azione.

Colpisce particolarmente il realismo del testo. Se uno ripensa alla cosiddetta «strategia Solana» del 2003, i toni sono nettamente più allarmisti, per non dire neri. L’Europa viene descritta come stretta nella morsa della crisi economica e dell’arco di crisi alle sue porte. Nel «mondo più connesso» dipinto in questo rapporto, si insiste sulle opportunità ma anche sulle fragilità legate alla globalizzazione.

Si tratta di una presa di coscienza forte, che in qualche modo rompe con l’idealismo di una visione di globalizzazione felice in auge nel decennio precedente. Seguendo questo filone, una serie di rischi strategici vengono elencati.

Possiamo sottolineare come questo filone realistico si ritrovi in un altro recente documento strategico, il libro bianco italiano per la sicurezza internazionale e la difesa. Queste convergenze illustrano l’emergere di un consenso europeo sulla necessità di analizzare lo scenario internazionale e l’opportunità della stesura di un documento strategico europeo.

Il quadrante geopolitico dell’Unione europea
Un altro fattore importante sta nel prendere in considerazione un vero e proprio quadrante geopolitico come base del ragionamento sui rischi e sulle opportunità future: il vicinato europeo (che include una vasta area che va dall’Europa dell’Est ai Balcani fino alla Turchia), il Medio Oriente e Nord Africa (Mena), l’Africa sub-sahariana, il Partenariato atlantico e l’Asia.

Questa visione copre più o meno l’intero pianeta e rinforza la percezione di un’Unione europea che deve necessariamente concepire una sua proiezione su scala globale.

È senz’altro un segno di maturità da parte dell’Unione di essere in grado di pensare l’intero mondo non solo in termini di scambi commerciali, tradizionale leva di azione europea, ma anche di sicurezza e sviluppo. Ciò rappresenta un interessante tentativo di elaborare una geopolitica post nazionale, ma anche post-federale.

L’Europa solo non pensa il mondo usando gli strumenti della potenza - caratteristica della proiezione nazionale, imperiale o coloniale per dirla con varie sfumature storica - ma mette anche un freno al sogno kantiano di una federazione mondiale della avrebbe costituito il nocciolo duro, mostrando anche estrema prudenza sul tema di futuri allargamenti dell’Ue, esplicitamente evocati soltanto per quanto riguarda i Balcani.

Anche se il meccanismo dell’allargamento viene considerato uno strumento importante, pare che i suoi campi di applicazione saranno assai ridotti nel prossimo futuro.

Proiettare stabilità e sicurezza
La visione è quella di una capacità di proiezione della stabilità e della sicurezza usando una panoplia di strumenti che vanno dallo sviluppo alla forza militare passando per le politiche migratorie o economiche.

Questo punto rappresenta uno degli aspetti fondamentali del testo: la promozione di una proiezione strategica dell’Europa con l’uso e il coordinamento dell’insieme dei tasselli a disposizione.

Fra questi strumenti, il testo esprime chiaramente una volontà di accrescere le capacità di difesa, sottolineando l’importanza della Politica di sicurezza e difesa comune (Psdc) evocando la possibilità non colta fino ad oggi di creare delle cooperazioni strutturate permanenti ai sensi del Trattato di Lisbona.

Anche in questo caso l’approccio pragmatico spinge verso una crescita delle capacità di difesa in ambito europeo usando meccanismi già esistenti che poggiano su gruppi di stati membri.

La visione “joint” della proiezione esterna rappresenta una prospettiva di evoluzione notevole del potere all’interno della Commissione, con DG che erano abituati a lavorare in parallelo e che sono chiamati non soltanto a cooperare, ma a contribuire a obiettivi comuni e definiti. Il testo auspica quindi una vera e propria trasformazione nelle istituzioni comunitarie con una potenziale crescita del ruolo dell’Alto Rappresentante.

Tuttavia non è tanto sullo sfondo (la visione strategica), bensì sulla forma(un’evoluzione o riforma del potere amministrativo e politico all’interno della Commissione), che questo testo potrebbe suscitare opposizioni.

Come già detto, ci troviamo di fronte a un opportuno esercizio di proiezione europea realista. Esso dimostra quindi un livello di coscienza seria, ma anche di maturità da parte dei responsabili politici che hanno promosso questo testo.

La descrizione del mondo “connesso, contestato e complesso” offre una diagnosi rigorosa delle forze e delle debolezze europee, e permette di meglio proiettare l’azione tramite una futura strategia. Il necessario realismo non deve però far perdere di vista il tema dei valori, che viene evocato nelle conclusioni.

L’Europa deve avere una strategia difensiva o di protezione in un contesto di crisi. Ma l’Europa ha sempre rappresentato ben altro, un insieme di valori democratici e di progresso delle istituzioni, sempre in movimento.

Dobbiamo augurarci che la futura strategia europea espliciti i valori di democrazia dinamica che sono al centro della costruzione europea e che ne definiscono la ragion d’essere, anche e soprattutto nella proiezione mondiale.

Le crisi e le minacce hanno fatto tramontare il “mondo migliore” che accompagnava “l’Europa sicura” della strategia Solana del 2003. Ma non dobbiamo perdere il progetto di migliorare il mondo, un’affermazione certo idealista ma che rimanda al senso stesso della nostra comunità politica.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
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Russia: l'arma strategica del "Turkish Stream"

Energia dalla Russia
L’Europa tra Tap e Turkish Stream
Alessandro Ronga
02/07/2015
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Sebbene il progetto sia ancora in fase embrionale, in ambienti economici e politici competenti si dà già per scontato che la nuova “arma energetica” della Russia sarà il gasdotto Turkish Stream, che - ormai accantonato il South Stream - avrà il compito di trasportare il gas russo fino in Turchia, da dove raggiungerà l’Europa attraverso la Grecia.

Atene poche settimane or sono ha siglato un memorandum d’intesa con Mosca, finalizzato alla realizzazione di un prolungamento del gasdotto sul proprio territorio: un impegno da due miliardi di dollari che può rivelarsi strategico, soprattutto politicamente, in un momento in cui il governo greco è impegnato in un negoziato con quella stessa Unione europea (Ue) che ha appena prolungato le sanzioni economiche contro il Cremlino.

L’Anatolia hub energetico
La formalizzazione dell’accordo per la realizzazione del Turkish Stream tra Mosca e Ankara è attesa a giorni. Ed è difficile pensare che, come accaduto con il suo abortito predecessore, l’infrastruttura nemmeno stavolta venga portata a compimento: troppo alto è l’interesse russo di trovare al più presto un sostituto del South Stream, impantanatosi in cavilli burocratici locali e norme anti-trust comunitarie, troppo appetitoso per la Turchia il ruolo di hub energetico tra Mediterraneo ed Europa.

Nella regione turca dell’Anatolia sta già per essere realizzato il Tanap, il Gasdotto Trans-Anatolico, che al confine tra Turchia e Grecia si unirà con il Tap, Gasdotto Trans-Adriatico, a completamento del Southern Gas Corridor, la colossale infrastruttura di 3500 chilometri che dal 2020 trasporterà il gas estratto nel Mar Caspio, al largo delle coste dell’Azerbaijan, fino in Puglia, da dove Snam Rete Gas (che potrebbe anche entrare nel progetto come azionista) avrà il compito di distribuirlo nel Vecchio Continente.

Ridurre la dipendenza dalla Russia
Il Tap rappresenterà qualcosa di più di un semplice gasdotto: segnerà un vero e proprio cambiamento epocale, poiché andrà a sfidare il monopolio russo per ciò che riguarda le forniture di gas all’Europa ed eleverà ulteriormente l’Azerbaijan al ruolo di potenza energetica, con tutti i benefici politico-economici che questo status comporta.

Se dunque il Turkish Stream costituirà una sorta di variante del South Stream, il Tap è destinato ad assumere il ruolo che avrebbe dovuto avere Nabucco, il gasdotto che l’Ue programmava di costruire per sganciarsi dall’eccessiva dipendenza dalle fonti energetiche russe, il cui progetto è stato accantonato per l’enormità dei costi.

A conferma dell’endorsement comunitario per il progetto azero, basta considerare un fattore non da poco. Nonostante appartenga per il 20% alla Socar, la compagnia energetica di Stato dell’Azerbaijan da cui l’Europa comprerà anche il gas, dal 2013 il Tap è esente dal rispetto delle rigidissime norme Ue contenute nel Terzo Pacchetto Energia, che proibiscono ad una compagnia energetica di essere contemporaneamente proprietario e gestore dell’infrastruttura attraverso cui la risorsa energetica verrà distribuita: un muro giuridico contro il quale invece è andato a schiantarsi il South Stream, bloccato dall’Ue per via del doppio ruolo di gestore-proprietario della russa Gazprom.

L’arma della norme anti-trust
Sebbene in questi mesi di crisi tra Ue e Russia si sia parlato spesso di diversificare le fonti di approvvigionamento con gas proveniente anche dall’Iran e dal Turkmenistan, ad oggi l’ “oro blu” dell’Azerbaijan resta l’unica alternativa concreta a quello russo: l’Europa ha già siglato accordi di fornitura di gas azero per 25 anni ed anche se le relazioni con Mosca dovessero tornare al sereno gli obblighi contrattuali imporrebbero comunque agli acquirenti europei di ricevere specifici quantitativi di gas.

Tuttavia, lo sbarco in Europa del gas azero non significherà affatto l’esclusione di Mosca dall’ ‘Albo Fornitori’ comunitario. Attraverso il Tap, infatti, l’Azerbaijan potrà inizialmente soddisfare il fabbisogno energetico dell’Europa per soli 10 miliardi di metri cubi di gas, un quantitativo notevole per la piccola repubblica ex sovietica, ma di molto inferiore a quello che la Russia è in grado di fornire: basti pensare che nel 2014 la quantità di gas russo giunto in Europa è stata di circa 155 miliardi di metri cubi.

Le scelte in bilico della Socar
Di questo gap con Gazprom la Socar è consapevole, tanto che l’obiettivo della compagnia azera per i prossimi anni sarà quello di incrementare la produzione per venire sempre più incontro alla domanda dei consumatori europei.

Ciò richiederà necessariamente altri investimenti per ampliare la capacità distributive del Tap in Europa, a meno che la Socar, considerate la vicinanza geografica e politica tra Turchia ed Azerbaijan, non decida di servirsi anch’essa del Turkish Stream, che a regime avrà una capacità annua di 63 miliardi di metri cubi di gas.

Un’ipotesi tutt’altro che remota, stando alle recenti dichiarazioni del numero due del colosso energetico azero Elshad Nasirov, secondo il quale, invece di investire sull’ampliamento del Gasdotto Trans-Adriatico, potrebbe essere economicamente più conveniente per Socar adoperare il Turkish Stream, e in particolare la sua appendice greco-russa per allargare la propria offerta commerciale.

Alessandro Ronga è giornalista e collaboratore del settimanale "Il Punto".
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Europa: prospettive a lungo raggio

Investimenti strategici
Ue, Parlamento dice sì a fondo Efsi
Antonio Scarazzini
01/07/2015
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Semaforo verde dalla plenaria del Parlamento europeo per il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi), lo strumento di attuazione del piano Juncker* da 315 miliardi per il rilancio degli investimenti e della crescita nell'Unione europea (Ue), pronto ad entrare in funzione nei primi giorni di luglio.

Con 464 voti a favore, la sessione plenaria ha infatti approvato in prima lettura l'accordo di compromesso raggiunto lo scorso 28 maggio dal “trilogo”, ossia dalla riunione dei delegati di Parlamento, Commissione europea e Consiglio dell’Ue.

Negoziati particolarmente serrati a sentire il vice-presidente della Commissione Katainen, che ha tenuto a ringraziare per la collaborazione e per la “prima alba ammirata dalle stanze del Parlamento”.

Investimenti strategici, ecco il nuovo accordo
La proposta iniziale della Commissione prevedeva l'istituzione di un fondo cogestito insieme alla Banca europea per gli investimenti, con una dotazione di 21 miliardi di euro, di cui 16 in forma di garanzia a favore della Bei stessa e 5 stanziati dalle risorse proprie dell'istituto con sede a Lussemburgo.

La componente a carico dell'Ue avrebbe dovuto ulteriormente essere assicurata da una sorta di controgaranzia di 8 miliardi, attinti dai margini non allocati del bilancio comunitario (2 miliardi) e da risorse stornate dai budget dei programmi di finanziamento di ricerca e infrastrutture, Horizon 2020 (2,7 miliardi) e Connecting Europe Facility (3,3 miliardi).

Proprio su questo aspetto il Parlamento è andato alla carica con l'intenzione di non detrarre neanche un centesimo dalle politiche d'innovazione già approvate. Con esiti favorevoli: viene aumentata di un miliardo la contribuzione da risorse non utilizzate del bilancio e i programmi Horizon e Cef vengono parallelamente “risarciti” di 500 milioni ciascuno, con la prospettiva di un'ulteriore riduzione dei tagli nei prossimi mesi, e vedranno inseriti i propri obiettivi strategici all'interno di quelli del Fondo.

In tema di governance e controllo del fondo, lo Steering Board verrà composto unicamente da membri di Commissione e Bei, chiudendo gli spazi di influenza inizialmente previsti per contributori terzi, che potranno limitarsi ad aumentare le risorse del fondo come già hanno fatto Germania, Francia, Italia e Polonia (8 miliardi ciascuno), Spagna (1,5 miliardi), Slovacchia (400 milioni) e Lussemburgo (40 milioni). Al Parlamento spetterà infine l'approvazione delle nomine del direttore e del suo vice, a seguito delle audizioni in aula.

Katainen: puntare sulla finanza di rischio
Se il Consiglio approverà quindi il regolamento di istituzione del fondo così come emendato dal Parlamento, l'Efsi entrerà quindi in azione già nei prossimi giorni e i primi investimenti potranno essere operativi dal mese di settembre, come ha affermato lo stesso Katainen.

“240 miliardi andranno agli investimenti, 75 direttamente alle piccole-medie imprese, vero nucleo forte dell'economia europea” afferma il relatore portoghese del Ppe José Manuel Fernandes. Gli fa da eco il co-relatore Udo Bullmann, socialdemocratico tedesco, che sottolinea l'importante ruolo di controllo ottenuto dal Parlamento e ricorda come gli investimenti rimarranno fuori dal Patto di Stabilità.

Ma è ancora Katainen a indicare i passi per la piena funzionalità del fondo: “in Europa non manca liquidità, anzi; - afferma il finlandese - ma mancano una finanza di rischio, che la sappia catalizzare dal settore privato, e l'intermediario tra la Bei e le piccole medie imprese”.

Oltre a consolidare il ruolo della Bei come garante degli investimenti privati, diventa così valida ipotesi l'istituzione di banche di sviluppo o di intermediari finanziari quali veicoli speciali che permettano di raccogliere capitali pubblici da fondi pensione e assicurativi, in modo da allettare la liquidità inutilizzata con un adeguato sistema di condivisione del rischio. Fondamentale poi l'orientamento verso una strumentazione finanziaria in ambito equity, cioè nel capitale di rischio, e venture capital, in particolare a favore di Pmi e startup.

Nessuna nuova emissione di debito - come aveva suggerito, tra gli altri, l'ex ministro Moavero - ma uno sforzo per recuperare con la grande liquidità “made in Bce” i 430 miliardi di investimenti mancati dal 2007, per il 75% dispersi in soli cinque Paesi: Spagna (31%), Italia (22%), Grecia (9%), Regno Unito (8%) e Francia (6%).

Ora c'è da spingere forte su quella leva moltiplicatrice che dovrebbe portare da 21 a 315 i miliardi di potenziali investimenti, che da Bruxelles assicurano possano aggiungere tra i 300 e i 400 miliardi al Pil dei 28 e creare oltre 1,3 milioni di posti di lavoro, come peraltro confermato da un recente studio dell'Ilo.

*Il tema sarà affrontato in un convegno a Torino venerdì 3 luglio. Articolo pubblicato per gentile concessione di Europae.

Antonio Scarazzini, Laureato magistrale in Studi Europei con una tesi in Relazioni euro-atlantiche, è direttore di “Europae” e membro del direttivo di “OSARE Europa”.
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Europa: un nuovo processo di convergenza economica

Rapporto dei Presidenti
Documento ingannevole fuorviante irritante
Fabrizio Saccomanni
30/06/2015
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Il rapporto dei presidenti Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi e Schultz su come "completare l'Unione economica e monetaria dell'Europa" è a prima vista un testo scritto con sapiente scelta dei temi e delle parole, che emette molti "suoni" giusti e individua tutte le sfide essenziali che l’Ue deve fronteggiare.

Si riconosce che occorre "un nuovo processo di convergenza economica" per estirpare le radici degli squilibri che hanno causato la crisi economica e finanziaria. Si afferma l'esigenza di progredire su quattro fronti: un'autentica Unione Economica, una piena Unione Bancaria e Finanziaria, una Unione di Bilancio e una Unione Politica.

Si ammette che "occorrerà passare da un sistema basato su norme e orientamenti per l'elaborazione delle politiche economiche nazionali a un sistema di condivisione ulteriore della sovranità nell'ambito di istituzioni comuni, la maggior parte delle quali già esistono e possono progressivamente svolgere questo compito".

Ma a ben vedere è anche un testo ingannevole, perché dà per scontato che la Ue disponga di tempi lunghi per riformarsi, e fuorviante, perché in realtà continua a subordinare la dimensione comune e sovrannazionale delle politiche e degli strumenti alle priorità e alle responsabilità degli stati nazionali.

Infine è per certi versi un testo irritante per chi ha vissuto la lunga vicenda della unificazione monetaria perché riporta il processo indietro nel tempo al 1989, ai giorni del rapporto del Comitato Delors, se non al 1970, ai giorni del Rapporto Werner.

A quindici anni dall'inizio dell'Unione Monetaria, si propone ancora una articolazione per fasi, si richiede ancora un decennio di sforzi di convergenza, si prefigura ancora il miraggio che l'obiettivo finale dell'Unione politica sarà il "coronamento" di quegli sforzi o non sarà.

I tempi lunghi del processo sono la naturale conseguenza del timore dei "rapporteurs", uomini tutti di grande esperienza, equilibrio e saggezza, di formulare proposte "politicamente" scorrette e irrealistiche ai leader politici che dovrebbero farle proprie e farle approvare dai Parlamenti e dalle opinioni pubbliche nazionali.

Quindi si configura una fase 1 (dal 1 luglio 2015 al 30 giugno 2017) che tiene conto della scarsa propensione dei maggiori Paesi europei a negoziare un nuovo trattato e in particolare del calendario elettorale della Germania e della Francia.

La fase 1, entro il 30 giugno 2017
Si propone in buona sostanza di portare a termine, con gli strumenti esistenti, il lavoro rimasto incompiuto durante la gestione della crisi, con qualche innovazione istituzionale.

Si propongono: la creazione di un sistema di autorità nazionali per promuovere la competitività della zona euro; il rafforzamento della procedura per gli squilibri macroeconomici, finora priva di strumenti correttivi e di sanzioni; una maggiore attenzione all'occupazione e alla performance sociale, essenzialmente attraverso riforme strutturali del mercato del lavoro; un più stretto coordinamento delle politiche economiche nell'ambito di un semestre europeo rinnovato.

Il semestre sarebbe articolato in due fasi: una fase europea, in cui verrebbero elaborate raccomandazioni di politica economica per la zona euro, e una fase nazionale che produrrebbe le raccomandazioni specifiche per ciascun paese, come avviene ora.

Il processo verrebbe accompagnato da un controllo rafforzato da parte del Parlamento europeo e di un nuovo Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche, composto dagli uffici parlamentari di bilancio già costituiti in ciascun paese ai sensi delle vigenti regole fiscali europee.

In questo ambito si propone di rivedere le regole fiscali del six-pack e del two-pack, al fine di "migliorarne chiarezza, trasparenza, conformità e legittimità".

Infine, nella prima fase si dovrà completare la creazione dell'Unione Bancaria, rafforzando le risorse del Fondo Unico per la Risoluzione delle crisi bancarie e formalizzando un accordo su un sistema comune di garanzia dei depositi bancari; si varerà l'Unione dei Mercati dei Capitali.

Vasto programma, che tuttavia non intacca la struttura meramente intergovernativa della politica economica europea e non contribuisce a dotare la zona euro degli strumenti per condurre una politica fiscale anticiclica.

Le prospettive di rilancio dell’attività economica, degli investimenti, dell'occupazione restano dipendenti dalle politiche di risanamento fiscale e dall'attuazione di riforme strutturali mirate al rafforzamento della competitività e della produttività. Una combinazione che ha finora avuto effetti modesti sulla congiuntura europea.

Medio termine, solo obiettivi di massima
Per il medio termine, il Rapporto si limita ad individuare solo alcuni obiettivi principali da realizzare nella seconda fase e nella fase finale, senza precisarne la scansione temporale, e comunque al più tardi entro il 2025. Ed è in questo esercizio che il Rapporto è deludente per carenza di ambizione e per qualche incoerenza rivelatrice.

Per realizzare l'Unione economica, il Rapporto propone una "formalizzazione e maggiore capacità di vincolo del processo di convergenza". Verrebbero fissati standard vincolanti di alto livello nella normativa dell'Unione: essi riguarderebbero principalmente i mercati del lavoro, la competitività, il contesto imprenditoriale, la pubblica amministrazione, nonché taluni aspetti della politica tributaria.

In questo ambito, la procedura per gli squilibri macroeconomici potrebbe essere utilizzata anche "per promuovere riforme e controllare i progressi compiuti in ciascun Stato membro della zona euro verso il conseguimento degli standard comuni".

Per attuare l'Unione di bilancio, il rapporto propone la creazione di una funzione di stabilizzazione macroeconomica per la zona euro. Sembra finalmente un passo nella direzione giusta, per dare alla zona euro una capacità discrezionale di politica economica, ma non è così e una lettura attenta del rapporto lo conferma.

In realtà, la funzione verrebbe sviluppata "a più lungo termine ... a coronamento di un processo di convergenza e di ulteriore condivisione del processo decisionale sui bilanci nazionali". La convergenza sarebbe cioè la condizione per l'accesso dei paesi al meccanismo di stabilizzazione.

Inoltre, la funzione non avrebbe la finalità di stabilizzare il ciclo economico della zona euro, bensì quella di "migliorare la resilienza complessiva della Uem contribuendo così a prevenire le crisi".

Si dovrebbero individuare degli ammortizzatori per i grandi shocks macroeconomici, ma il loro impianto per la zona euro richiederà studi più approfonditi che saranno condotti da un nuovo comitato di esperti che assisterà la Commissione per formulare le proposte per le fasi successive del processo.

Nell'immediato, il Rapporto ammette che la funzione di stabilizzazione potrebbe muovere dal Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), di recente costituito per dare attuazione al Piano Juncker per investimenti nelle principali infrastrutture europee (energia, economia digitale, trasporti). Ma si tratta appena di un accenno senza maggiori dettagli.

Unione politica: due iniziative di tenore diverso
Infine, in quello che dovrebbe essere il capitolo dedicato all'Unione politica, il rapporto propone due iniziative di tenore assai diverso. La prima sriguarderebbe l'integrazione del Meccanismo europeo di Stabilità (Mes - il cosiddetto Fondo salva-Stati) nel diritto dell’Ue.

Si riconosce che la struttura intergovernativa del Meccanismo comporta processi decisionali complessi e tempi lunghi e si propone la piena integrazione della governance del Mes nei Trattati dell’Ue.

La seconda iniziativa è invece di portata assai più ampia in quanto prevede la costituzione di una Tesoreria unica per la zona euro. Ma anche qui la proposta è di natura evolutiva:"Via via che la zona euro evolve verso una Uem autentica, sarà sempre più acuta la necessità di adottare alcune decisioni collettivamente, assicurando nel contempo il controllo democratico e la legittimità del processo.

Una futura Tesoreria della zona euro potrebbe essere la sede adatta per questo processo decisionale collettivo. Comunque questa Tesoreria unica non sarebbe un Ministero delle Finanze della zona euro perché "gli Stati membri continuerebbero a decidere autonomamente su fiscalità e assegnazione della spesa pubblica in funzione delle preferenze e scelte politiche nazionali".

In linea con questa più intensa comunanza, il rapporto ritiene opportuno unificare sempre di più la rappresentanza esterna della Uem nelle sedi internazionali.

Il rapporto un’occasione perduta
In conclusione, il Rapporto rappresenta un'occasione perduta. Si poteva dare un segnale più forte circa gli obiettivi verso cui tendere, specie in un'ottica decennale, con una più forte connotazione federale, per correggere la "zoppia" tra una politica monetaria gestita da un organo federale e politiche economiche gestite a livello nazionale in base a regole comuni.

Invece, si continua a prefigurare una "Europa delle patrie", in cui nuove "funzioni" vengono messe in comune per essere gestite da consessi intergovernativi senza che si facciano passi significativi verso l'Unione Politica.

Si poteva fare riferimento allo strumento della "cooperazione rafforzata" già previsto dai Trattati. Nei contenuti, il quadro che si prefigura accentua l'enfasi sulle politiche di consolidamento fiscale, sulle riforme strutturali e sulla competitività, temi su cui si verrebbe ad avere un sovraffollamento di competenze e di procedure, tra vecchi e nuovi comitati e autorità, con rischi di aggravare la complessità della governance e di minare la sua credibilità.

Per contro, sul tema della politica anticiclica della zona euro ben poco di nuovo viene proposto e si continua a chiamare "coordinamento delle politiche economiche" qualcosa che è in realtà solo un monitoraggio comune sul rispetto delle regole fiscali.

Il possibile uso anticiclico del Feis viene appena adombrato e nulla si dice del ruolo che potrebbe svolgere al riguardo una riforma del bilancio comunitario che preveda una utilizzazione di "risorse proprie" da individuare per fini anticongiunturali.

E infine continua l'ambiguità sulle vere finalità della procedura per gli squilibri macroeconomici che potrebbe essere utilizzata per monitorare progressi sull'attuazione delle riforme strutturali e la riduzione del debito pubblico, piuttosto che promuovere la correzione degli squilibri delle bilance dei pagamenti.

Comunque, nella primavera del 2017 la Commissione presenterà un libro bianco per valutare i progressi compiuti nella fase 1 e per elaborare proposte per completare la Uem nelle fasi successive. Fino ad allora, non molto di nuovo sul fronte europeo.

Fabrizio Saccomanni, economista, è Vicepresidente dello IAI. Ministro dell’Economia del governo Letta dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014. Già Direttore generale della Banca d’Italia.
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