Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

venerdì 17 luglio 2015

Europa: il nodo grego

’Ue e la Grecia
Salvare l’Europa restringendola?
Riccardo Perissich
11/07/2015
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La questione principale che si pone all’Europa dopo il referendum di Atene non è se la Grecia rimarrà o meno nell’euro: quale che sia la conclusione della partita in corso, la Grecia resterà infatti a lungo un problema che, volente o nolente, l’Europa si dovrà accollare.

Un grave errore di analisi compiuto per comprensibili ragioni demagogiche dal governo greco, ma che ha sedotto molta gente anche altrove, è di credere che il problema greco sia un paradigma per giudicare l’intero sistema dell’euro. In realtà la Grecia è sempre stata un caso del tutto anomalo: dirlo è politicamente scorretto, ma se lo si fosse trattato dall’inizio come tale forse avremmo evitato molti guai.

La domanda che assilla invece tutte le cancellerie è cosa bisogna fare dell’eurozona (e anche dell’Ue) per consolidare un sistema che palesemente funziona male e che è rigettato o mal compreso (in termini politici è la stessa cosa) dall’opinione pubblica.

Sul tavolo c’è il cosiddetto rapporto “dei 5 Presidenti” che costituirà, arricchito da altre idee fra cui un documento del governo italiano, la base per le discussioni dei prossimi mesi.

Il testo contiene molte proposte utili e si muove nella linea tradizionale del gradualismo e del pragmatismo delle istituzioni: fare proposte ambiziose, ma non troppo da essere giudicate irrealiste e velleitarie. In Italia e altrove è considerato del tutto insufficiente, addirittura “irritante”.

All’Europa non servono nuove proposte tecniche, si dice, ma la volontà di correggere finalmente il vizio d’origine del trattato di Maastricht: la mancanza di unità politica. Giusto; talmente giusto da essere semplicistico. C’è da chiedersi se chi lo dice abbia riflettuto fino in fondo alle conseguenze.

I malintesi dell’Unione politica
Quando in Italia si parla di unione politica, si pensa in genere a istituzioni di tipo federale che abbiano una sufficiente legittimità democratica da essere considerate “cosa loro” dai cittadini; istituzioni che dovrebbero anche avere una capacità finanziaria propria per poter giocare il ruolo stabilizzatore che in America appartiene al governo federale.

Tutto ciò è giusto e convincente, ma a cosa assomiglierebbero queste istituzioni? Ci sono molte riflessioni dell’accademia e dei think tanks, ma nulla che faccia supporre che i principali governi abbiano maturato idee concrete.

Non deve sorprendere. Per prima cosa l’Europa unita non potrà assomigliare agli Stati Uniti, nel senso che l’assoluta separazione dei poteri alla base della Costituzione americana è estranea alla nostra cultura politica fondata su governi parlamentari.

Inoltre, poiché è inconcepibile che si riparta da zero, si dovrà necessariamente costruire sull’esistente. Quale ruolo assegnare alle istituzioni che abbiamo: Commissione, Consiglio europeo, Consiglio, Parlamento europeo, Parlamenti nazionali?

Su tutto aleggia una divaricazione nel pensiero politico europeo, che possiamo identificare in Francia e Germania: da un alto la preferenza per un esecutivo forte anche se legittimato dalla volontà popolare, dall’altro la diffidenza verso l’esperienza del II e del III Reich che spinge verso un esecutivo con poteri discrezionali molto limitati, espressione di un Parlamento fortissimo.

Non sarà facile trovare un equilibrio, anche perché le difficoltà che incontra il Parlamento europeo dimostrano quanto sia arduo avere un dibattito democratico a livello dell’Unione. Il pericolo è che si finisca con un aumento massiccio dei poteri dei Parlamenti (europeo e nazionali), ma privi di un esecutivo degno di questo nome.

C’è infine l’ostacolo di sempre: la riluttanza della Francia e di altri ad accettare vere cessioni di sovranità. Quanto sopra basterebbe a illustrare la difficoltà del percorso. Tuttavia, le istituzioni non sono tutto. L’Europa ha anche (o crede di avere) una Costituzione economica. Per capirci, un po’ di storia.

La Costituzione economia europea
Quando, alla fine degli Anni ’60 si cominciò a rompere la stabilità monetaria che aveva sostenuto le economie occidentali durante i “30 gloriosi”, in Europa assistemmo a un duro confronto fra due filosofie i cui poli erano rappresentati (ancora una volta!) dai francesi, definiti “monetaristi” e dai tedeschi, definiti “economisti”.

Gli addetti ai lavori ancora sopravvissuti ricorderanno i duri scontri fra Giscard D’Estaing, allora ministro delle Finanze, e il suo collega tedesco Schiller. Lo scontro prendeva le mosse dalle misure da prendere per far fronte a un’incipiente instabilità monetaria, ma fu particolarmente aspro perché rifletteva due opposte visioni di politica economica. I francesi, privilegiavano strumenti per assicurare la stabilità monetaria; i tedeschi, sostenevano che nulla aveva senso senza convergenza delle politiche economiche.

Dietro il confronto c’era il problema dell’accettazione dei principi fondamentali dell’economia sociale di mercato, vero fondamento costituzionale e filosofico della Germania nata dalle macerie della guerra: rigore dei conti pubblici, gestione della moneta indipendente dalla politica, mercato aperto ma regolato, scarso intervento statale.

La disputa continuò con alterne vicende per tutti gli Anni ’70, sembrò sopirsi con l’accordo fra Giscard e Schmidt per la creazione dello Sme, ma riesplose con il primo governo Mitterrand. Gli altri paesi membri non assistevano inerti, ma si riconoscevano più o meno nell’una o nell’altra posizione. Il secondo governo Mitterrand segnò una svolta che permise più tardi di condurre al trattato di Maastricht.

I tedeschi avevano ceduto il controllo della moneta, ma ottenevano su tutto il resto vittoria completa. Con buona pace dei neo keynesiani così popolari in Italia, l’economia sociale di mercato nella sua versione tedesca (termine poi addirittura consacrato nel trattato di Lisbona) diventava la costituzione materiale dell’Unione.

Compromessi ed eccezioni
Partita chiusa? Le condizioni per poter accedere all’euro furono in alcuni casi “massaggiate” per motivi politici: marginalmente per l’Italia, in modo massiccio e addirittura fraudolento per la Grecia. Poi venne l’incidente del 2003 quando Francia e Germania, con la complicità della presidenza italiana, sforarono i parametri: episodio grave a causa dell’importanza dei due colpevoli.

In realtà la Germania peccava per finanziare le riforme che l’avrebbero ricondotta sulla retta via. La Francia, per poter continuare a spendere senza riforme. L’Italia fu complice per ottenere lo stesso salvacondotto della Francia.

Il vulnus fu grave e mai dimenticato; comunque, il fatto che il debole apparato istituzionale creato da Maastricht si rivelasse incapace di assicurare la convergenza delle politiche non sembrava preoccupare più di tanto.

La crisi ha fatto esplodere tutto: i meccanismi di funzionamento del sistema, ma soprattutto l’illusione di un consenso europeo sui principi della politica economica comune.

Il conseguente crollo della fiducia reciproca non poteva che condurre a una gestione sempre più intergovernativa accentrata nel Consiglio europeo. Alla retorica di una solidarietà rispettosa della sovranità nazionale, si è contrapposta una retorica della responsabilità e del rispetto delle regole.

In realtà il sistema è stato via via profondamente modificato ed è diventato allo stesso tempo più stringente, più flessibile e più solidale. L’accento sul rispetto dei saldi contabili è ora accompagnato, ed è una grande novità, da un’attenzione prioritaria alle riforme strutturali. Quanto sì è fatto negli ultimi anni ha prodotto indubbi risultati in paesi come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, ma anche l’Italia.

Risultati concreti e retoriche populiste
Tuttavia la guerra le opinioni pubbliche percepiscono solo un insieme farraginoso di procedure prive di coerenza politica. La retorica dell’egoismo dei creditori contro l’irresponsabilità delle cicale ha ovunque alimentato un populismo che si nutre spesso anche, e soprattutto, di altri temi come l’immigrazione incontrollata e il disprezzo delle classi dirigenti. Una delle letture più fallaci del dramma greco è che si tratti di un confronto fra una democrazia e una tecnocrazia.

Al netto degli errori commessi dall’eurogruppo durante i negoziati, le istituzioni hanno agito con un mandato politico fortissimo, altrettanto democratico di quello del governo greco; mandato politico non solo da parte della Germania e dei paesi a lei affini, ma anche di chi avendo ottemperato alle regole pagando un prezzo politico elevato, comincia a vedere la luce in fondo al tunnel.

Ricostituire un triangolo funzionante fra le tre parole chiave di responsabilità, solidarietà e fiducia sarà possibile solo se si ricreerà un consenso credibile e senza riserve intorno ai principi. Una delle più pericolose illusioni dei federalisti ostili al corso attuale è credere che in una federazione la maggioranza degli europei si esprimerebbe per una politica radicalmente diversa.

I principi consacrati nei trattati attuali non sono frutto di un’imposizione tedesca, ma rappresentano la convinzione della maggioranza dei paesi membri anche dell’attuale Parlamento europeo.

Trasparenza e legittimazione democratica
Tuttavia questo rinnovato consenso non resisterebbe ai fatti e non sarebbe compreso dall’opinione pubblica se non fosse accompagnato da una maggiore trasparenza e legittimazione democratica delle istituzioni.

Il ritorno della fiducia e la creazione di istituzioni più forti non annullerebbe la responsabilità dei singoli Paesi, ma scaricherebbe la Germania del suo imbarazzante fardello di “egemone riluttante” che sta ovunque inquinando il dibattito e renderebbe possibili ipotesi oggi irrealistiche come gli eurobonds o una capacità fiscale dell’eurozona.

I due problemi costituzionali dell’Europa quindi s’incontrano. Su questa strada ci sono tre scogli da affrontare: il consenso sulla politica economica, la definizione di un nuovo assetto istituzionale e l’accettazione di nuove importanti cessioni di sovranità.

Non bisogna del resto dimenticare che c’è necessariamente una terza gamba di ogni Unione politica. La debolezza dell’Europa nel contesto mondiale (politica estera, difesa, gestione dell’immigrazione) è percepita sempre più dai cittadini come un’inaccettabile carenza dell’Unione. Tutto ciò, sapendo che il risultato dovrà necessariamente essere ratificato da numerosi referendum, compreso (se si prende sul serio la posizione espressa da Bvg) in Germania.

Com’è agevole vedere, si tratta di un compito immane. L’errore più grave sarebbe di convocare al buio una nuova conferenza intergovernativa senza che sia sul tavolo un’ipotesi coerente. L’esempio da seguire è quello della proposta di Robert Schumann, formulata dopo essersi assicurato il consenso tedesco e con la certezza dell’accordo del Benelux.

Oggi l’iniziativa dovrebbe necessariamente essere tedesca, il consenso francese resterebbe indispensabile, ma sarebbe necessario anche il concorso di altri paesi del nord, del centro e del sud dell’Europa; senza massa critica, nulla avrebbe senso.

A costo di perdere per strada pezzi
C’è in tutto questo un prezzo che dovremmo essere pronti a pagare: perdere per strada alcuni pezzi dell’Ue e forse anche dell’eurozona. In un’Europa che affrontasse seriamente la sintesi fra responsabilità, solidarietà e sovranità si porrebbe con più acutezza un problema di compatibilità politica oltre che economica: è difficile che il primo Mitterrand, Orban o Tsipras (per non parlare di Lepen, Grillo o Salvini) possano trovarvi posto.

Il problema di come organizzare la transizione non sarebbe giuridico; i trattati offrono molti strumenti idonei. Il problema sarebbe però politico poiché ciò che si creerebbe al centro del sistema sarebbe tanto forte da rendere obsoleti tutti i principi di differenziazione e di velocità multiple finora sperimentati.

L’Italia sarebbe particolarmente esposta. Sempre accompagnati da diffusa diffidenza, entrammo nella Ceca e nella Cee per la buona volontà di De Gasperi e dei suoi eredi, nell’euro per l’ostinata determinazione di Ciampi e in Schengen per il paziente lavoro di Giorgio Napolitano.

Malgrado le mai risolte debolezze politiche e strutturali, abbiamo comunque operato all’interno del sistema contribuendo spesso in modo determinante al suo progresso.

Tuttavia la mancanza di fiducia ci investe ancora in pieno. Il compito degli europeisti italiani è reso oggi più arduo perché in passato i governi operavano con il consenso distratto ma largamente maggioritario dell’opinione pubblica e delle forze politiche. Oggi non è più così, anche se è ragionevole pensare che il diffuso euroscetticismo sia un fenomeno effimero che non reggerebbe di fronte a un progetto convincente.

Può darsi che la realtà o la carenza di leadershipci conduca alla conclusione che nell’attuale situazione economica e con la persistente fragilità di molti governi, un balzo in avanti non sia possibile. Allora dovremo continuare a cercare di evitare Grexit e Brexit e a navigare nel quadro attuale, cercando gradualmente di migliorarlo come abbiamo fatto finora e affrontando pragmaticamente le crisi future. Dovremo però farlo senza mugugni e assumendo anche il gravoso compito di educare un’opinione pubblica sempre più disorientata.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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