Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

mercoledì 28 giugno 2017

Un successo politico concreto

Roam-like-at-home
Roaming: un risultato concreto per rilanciare l’Unione
Federico Palmieri
25/06/2017
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Grazie alle nuove regole Ue, dal 15 giugno 2017 i cittadini europei non pagano più sovrapprezzi se utilizzano il proprio cellulare in un altro Stato membro. È finalmente andato a pieno regime il Regolamento “Roam-like-at-home”, varato nella sua ultima versione a fine 2015 da Parlamento europeo e Consiglio, che ha sancito l’abolizione dei costi di roaming nei paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo.

“Roam-like-at-home”
Dopo una progressiva riduzione dei costi di roaming iniziata nel 2015, con il 15 giugno si giunge alla totale parificazione delle tariffe per chiamate e messaggi: telefonare a Roma da Parigi costerà quanto farlo da Milano. Per il traffico dati, il periodo transitorio giungerà a termine solo nel 2018, ma già da oggi le tariffe sono praticamente parificate e le offerte nazionali che prevedono l’acquisto di un pacchetto di dati sonogià valide e utilizzabili.

Rimangono alcune eccezioni. Le nuove regole sul roaming si applicano agli utenti che utilizzano la propria Sim all’estero per brevi periodi, meno di quattro mesi all’anno: è il caso di brevi trasferte di lavoro o di viaggi perturismo. Per chi invece si trasferisce stabilmente in un altro Stato membro e continua a utilizzare la propria Simpermane un sovrapprezzo, la cui entità è però trascurabile. Inoltre, bisogna osservare che non rientrano nelle nuove regole le chiamate effettuate dal proprio Stato verso l’estero, che potranno ancoraessere soggette a maggiorazioni.

Roaming e Mercato unico digitale
L’abolizione dei costi di roaming si inserisce nella strategia per la realizzazione del Mercato unico digitale, una delle 12 priorità annunciate a inizio mandato dalla Commissione guidata da Jean-Claude Juncker. Le potenzialità legate all’instaurazione di un Mercato unico digitale nel territorio dell’Unione sono significative: si parla infatti di un contributo di 415 milioni di euro l’anno all’economia europea e di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Per questo, dall’inizio del suo mandato la Commissione Juncker ha firmato 35 fra proposte legislative e iniziative di carattere politico. In quest’ambito, si sono già registrati i primi successi, tra cui l’accordo sulla portabilità dei contenuti - che permetterà dal 2018 di fruire di abbonamenti a servizi come Netflix e Spotify in tutta l’Unione senza restrizioni - e l’accordo sulla liberalizzazione della banda dei 700 MHz, che permetterà lo sviluppo della tecnologia 5G e di nuovi servizi digitali.

“Roam-like-at-home” si inserisce in questa serie di iniziative. La misura, secondo la Commissione, avrà effetti positivi in numerose aree economiche all’interno dell’Unione. È il caso, primo fra tutti, proprio del mercato delle telecomunicazioni. I dati della Commissione parlano di 300 milioni di potenziali nuovi clienti: si tratta di quel 94% di utenti che, fino ad ora, hanno scelto di non utilizzare il cellulare all’estero per evitare i costi del roaming. Inoltre, la fine dei costi di roaming porterà grandi benefici nell’ambito della app economy e per tutti gli online business, specie quelli legati al settore del turismo. Da non trascurare, inoltre, il risparmio per le aziende con dipendenti che si spostano nel territorio dell’Unione per affari.

Un successo politico concreto
La fine dei costi di roaming è stata salutata dalle istituzioni di Bruxelles con grande entusiasmo. In una dichiarazione congiunta, i presidenti del Parlamento Europeo Tajani, della Commissione Juncker e quello di turno del Consiglio Muscat l’hanno definita “una vera success story europea”. Secondo i tre presidenti, i costi di roaming costituivano un vero e proprio “fallimento del mercato”: la parificazione delle tariffe nel territorio dell’Unione è un “successo concreto e positivo”.

L’entusiasmo pare motivato:“Roam-like-at-home” si prospetta come un traguardo tangibile che avrà un effetto concreto sulla vita di molti cittadini. Si tratta di un risultato che ben si inserisce nel nuovo modo di raccontarsi dell’Unione europea. Dopo un annus horribilis come il 2016, il 2017 potrebbe essere, a sorpresa, l’anno della rinascita. Il reboot iniziato con la Dichiarazione di Roma, firmata dai leader dei 27 in occasione del 60° anniversario dei Trattati, va concretizzandosi con nuovi passi verso una vera difesa comune e una timida ma promettente ripresa economica.

Rinvigorita dalla vittoria delle forze europeiste in Austria, in Olanda e in Francia, l’Unione si sta riscoprendo orgogliosa di sé stessa. Misure come “Roam-like-at-home” possono integrare il quadro, contribuendo grandemente al racconto positivo dell’Ue: dopo una stagione di grandi dibattiti, l’accento torna sugli effetti positivi che le politiche dell’Unione hanno sulla vita di tutti i giorni dei cittadini europei.

Federico Palmieri è tirocinante presso il Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter @fed_palmieri.

Europa e Migranti

Ricollocazione problematica
Migranti: quote, braccio di ferro tra Ue e alcuni Stati
Francesco Luigi Gatta
23/06/2017
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A metà giugno, la Commissione europea ha aperto procedure d’infrazione nei confronti di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, a causa della reiterata violazione degli obblighi in tema di ricollocazione di richiedenti asilo gravanti sugli Stati membri in forza del sistema di quote creato come risposta all’emergenza rifugiati.

Detti Stati, nonostante i ripetuti richiami delle Istituzioni europee, continuano arifiutarsi di accogliere i richiedenti asilo sul proprio territorio: la Commissione passa dunque all’azione, alimentando così lo scontro sul tema dei migranti che si arricchisce ora di un nuovo capitolo.

Il meccanismo di ricollocazione
Il meccanismo di ricollocazione, nato nel 2015 come risposta all’ingente pressione migratoria, prevede, in un’ottica di solidarietà e condivisione delle responsabilità, la redistribuzione da Italia e Grecia verso gli altri Stati membri di 98.255 persone in evidente bisogno di protezione internazionale (inizialmente era previsto un totale di 160.000).

Il programma ha durata biennale e obbliga ogni Stato membro a ricevere una quota di richiedenti asilo determinata in base ai seguenti parametri: popolazione, Pil, tasso di disoccupazione e numero di richieste d’asilo accolte in passato.

Come i dati chiaramente evidenziano, a ormai pochi mesi dalla conclusione del programma, il meccanismo sta dimostrando un funzionamento ampiamente insufficiente. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea, infatti, al 9 giugno, delle oltre 98 mila persone previste, ne risultano ricollocate nemmeno 21 mila.

La forte opposizione di alcuni Stati membri
Oltre a ritardi e problemi organizzativi, tra i motivi dello scarso successo del meccanismo europeo di ricollocazione ne vanno annoverati anche alcuni di natura politica: vi sono Stati membri che rivendicano sovranità ed autonomia nella gestione degli ingressi di stranieri sul proprio territorio nazionale, manifestando apertamente il proprio dissenso verso le politiche migratorie comuni dell’Ue.

Tra questi figurano, in particolare, l’Austria e un compatto blocco di Stati dell’area orientale dell’Unione, segnatamente Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Quest’ultima, soprattutto, su iniziativa del premier Viktor Orbán, ha “lanciato il guanto di sfida” all’Ue, adottando un atteggiamento di netta opposizione nei confronti delle politiche migratorie comuni.

Oltre a discutibili iniziative unilaterali quali la costruzione di barriere e muri lungo le frontiere nazionali e il dispiegamento dell’esercito in alcune zone di confine, il governo ungherese ha adottato nuove leggi fortemente restrittive dei diritti dei richiedenti asilo e per questo criticate a livello internazionale.

Un referendum e un ricorso contro la ricollocazione
Contro la ricollocazione e il sistema di quote di migranti il governo Orbán ha indetto il referendum del 2 ottobre 2016: la votazione non ha raggiunto il quorum di validità del 50 % (affluenza pari a poco più del 43%), ma ha rappresentato comunque un delicato segnale per l’Ue, il 98% dei votanti essendosi espresso contro il meccanismo di solidarietà e redistribuzione dei richiedenti asilo.

L’Ungheria inoltre, affiancata dalla Slovacchia, ha intrapreso le vie legali per contestare la legittimità del sistema di ricollocazione, presentando un ricorso per annullamento alla Corte di Giustizia (cause C-643/15 e C-647/15 attualmente pendenti).

Oltre a argomenti di carattere procedurale, tra i motivi invocati alla base dei ricorsi si lamenta la violazione di importanti principi generali dell’ordinamento Ue: proporzionalità e necessità, democrazia, equilibrio istituzionale e buon governo.

Insomma, secondo Ungheria e Slovacchia - supportate anche dalla Polonia - l’imposizione obbligatoria di quote di migranti rappresenta un intollerabile attacco alla sovranità statale e un’illegittima ingerenza nella gestione di un settore così delicato e sensibile come quello dell’immigrazione e dell’ingresso degli stranieri sul territorio nazionale.

L’inadempimento ai propri obblighi e il rifiuto di ricollocare: la procedura d’infrazione
Già il Parlamento europeo nella sua risoluzione del 18 maggio 2017 su come far funzionare la procedura di ricollocazione aveva espresso “il proprio rammarico per il mancato rispetto da parte degli Stati membri degli impegni a favore della solidarietà e della condivisione di responsabilità”, esortando gli stessi ad adempiere ai propri obblighi.

La stessa Commissione europea, nei suoi rapporti periodici sullo stato della ricollocazione, aveva più volte criticato il mancato rispetto degli obblighi da parte di alcuni Stati membri, minacciando il ricorso alla procedura d’infrazione. Ora, di fronte al reiterato rifiuto di ricollocare, la procedura è stata aperta contro Ungheria e Polonia (che non hanno ricollocato ancora nessun migrante) e Repubblica Ceca (solo 12 migranti ricollocati dalla Grecia).

Anche l’Austria non ha ancora ricollocato nessuno, tuttavia, avendo espresso l’impegno a procedervi in favore dell’Italia, rimane, per ora, fuori dalla procedura d’infrazione. Al momento ‘salva’ anche la Slovacchia, nonostante l’esiguo numero di persone ricollocate (in totale solo 16 richiedenti dalla Grecia, nessuno dall’Italia).

Le sanzioni in cui potrebbero incorrere i governi che si oppongo al sistema di quote di migranti non sembrano al momento in grado di scalfire il profondo dissenso verso le politiche migratorie comuni. Anzi, il rischio è quello di un inasprimento delle posizioni e di un rafforzamento dell’euroscetticismo già molto forte e radicato nei paesi in questione.

Dal canto suo, la Commissione - che in base ai trattati ricopre il ruolo di custode della legalità e del rispetto del diritto dell’Unione - non poteva tollerare oltre una condotta di così spregiudicata violazione degli obblighi di ricollocazione; obblighi che, invece, altri Stati membri stanno puntualmente procedendo ad assolvere.

La questione resta aperta, certo è che l’invocazione all’unità, alla solidarietà e al rispetto delle regole comuni fatta dai leader europei nella Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017 per la celebrazione dei 60 anni dai trattati di Roma appare ancora teorica e difficile da realizzare.

Francesco Luigi Gatta è avvocato, dottore di ricerca in diritto dell'Unione europea presso le università di Padova e Innsbruck, cultore della materia in diritto degli stranieri e diritto costituzionale sovranazionale presso l'università degli studi di Milano

mercoledì 21 giugno 2017

La sconparsa di un Grande Europeo

Ue/Germania
Morte Kohl: una lezione d’ottimismo europeo
Giampiero Gramaglia
17/06/2017
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Il 5 ottobre 1982, lo stato maggiore del Partito popolare europeo era invitato, a Bruxelles, a casa di Leo Tindemans, presidente del Ppe, ex premier belga, il più votato - un milione di preferenze - alle prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo.

Erano tutti lì per incontrare e conoscere Helmut Kohl, appena divenuto cancelliere della Repubblica federale di Germania. C’era, per l’Italia, Ciriaco De Mita, allora segretario nazionale della Democrazia Cristiana.

Negli ultimi anni, la Germania aveva avuto il volto politico d’Helmut Schmidt, socialdemocratico e più ‘atlantista’ che europeista, l’uomo degli euromissili, capace però anche d’abbozzare, insieme al liberale francese Valéry Giscard d’Estaing, il primo embrione di una unione monetaria europea, lo Sme.

Da Parigi a Bruxelles, da Mitterrand al Ppe
Kohl arrivò a Bruxelles da Parigi: aveva incontrato il presidente francese François Mitterrand, prima tessera di un mosaico destinato a diventare monumentale nella storia europea.

Prima di ripartire per Bonn, dopo una colazione di lavoro con il premier belga Wilfried Martens, il cancelliere, immediatamente soprannominato dai giornalisti ‘XXL’ per la sua taglia forte, volle recarsi nel palazzo allora sede del Parlamento europeo e intervenire all’ufficio politico del Ppe. Divenne così il primo capo di governo tedesco a visitare il Parlamento europeo.

Kohl fece un discorso “di accento europeista”: cito un dispaccio dell’Ansa di quel giorno - chi scrive era il cronista dell’agenzia presente all’incontro. “Gli Stati nazionali del XX Secolo devono evolvere verso gli Stati Uniti d’Europa: abbiamo forse indugiato troppo a fare il passo decisivo verso l’Unione europea”.

A chi lo ascoltava - fra gli italiani, oltre a De Mita, c’erano Flaminio Piccoli, Giulio Andreotti, Mariano Rumor, Paolo Barbi e altri -, quell’omone di 52 anni, dal volto rotondo e sorridente, disse di “non lasciarsi impietrire dal pessimismo”, anzi di “guardare avanti con ottimismo”, anche perché “abbiamo già fatto un tratto di cammino importante”.

Quelli contro l’Europa appartengono al passato
Citando grandi europeisti del passato democristiano, Adenauer, Schumann, De Gasperi, ma pure Lutero (“Anche se il mondo dovesse crollare, io continuerò a piantare il mio albero”), Kohl affermò: “L’Europa deve fare un balzo in avanti in questo decennio, se no la nostra generazione avrà fallito la sua occasione”.

Il programma del suo governo, sottolineò, avrebbe avuto “grande attenzione per i problemi dell’Europa”, anche perché “quelli che sono contro l’Europa appartengono al passato”.

A sentirle allora, parole d’ordinanza, magari di circostanza per un leader come De Mita, che commentò, con un pizzico d’ironico scetticismo: “Abbiamobuone relazioni, anzi ottime, perché ci conosciamo ancora poco”. E aggiunse: “Le elezioni in Germania sono nel 1983, da noi si vota nel 1984”, come dire “lui è sicuro di durare un anno, noi di più”.

A rileggerle oggi, subito dopo che Helmut Kohl se n’è andato, a 87 anni, sono parole che paiono profetiche e che inducono alla nostalgia - ve lo immaginate, uno dei tanti leader senza radici e aggressivi di questo decennio parlare con cognizione di causa di Stati Uniti d’Europa?. Un altro dei colleghi presenti a quell’incontro del 5 ottobre 1982, Antonio Foresi, corrispondente Rai, mi scrive: “Inesorabilmente, un altro pezzo del nostro mondo crolla”.

I tre giganti e l’icona di Verdun
Perché in quel decennio una triade di giganti, Kohl, il presidente francese Francois Mitterrand, eletto l’anno prima, e, dal 1984, il presidente della Commissione europea Jacques Delors traghettarono, con l’Italia a tenere loro bordone, l’allora Comunità economica europea verso l’Unione europea: archiviando il petulante ritornello della premier britannica Margaret Thatcher (“I want my money back”), ancorando alla democrazia europea Spagna e Portogallo, accelerando il completamento del mercato unico e, quando il crollo del comunismo aveva già cambiato dinamiche e geografie del Vecchio Continente, progettando la moneta unica.

Il decennio successivo sarà quello della riunificazione tedesca con il marco dell’Est valutato 1 a 1 con quello dell’Ovest - un’altra visione di Kohl sostenuta da Mitterrand -, dell’attuazione dell’Unione europea e poi della moneta unica, di ulteriori allargamenti. Un tempo di speranza e di fiducia europee, che aveva il suo fondamento e la sua icona nell’immagine di Mitterrand e Kohl, diversissimi per cultura, passato, appartenenza politica, che si tengono per mano a Verdun, uno dei campi di battaglia insensati della Grande Guerra, emotivamente e profondamente accomunati dall’imperativo “Mai più”.

Dei tre giganti, oggi resta solo Delors, che commenta: "Un cittadino dell'Europa ci ha lasciato.... Gli europei devono inchinarsi davanti all'uomo Helmut Kohl e alla sua azione".

Probabilmente, Kohl, nonostante l’ottimismo, neppure ipotizzava, quel 5 ottobre 1982, che sarebbero successe tante cose tanto in fretta: che lui sarebbe divenuto il più longevo - finora - cancelliere nella storia tedesca eche sarebbe stato protagonista della nascita dell’Unione europea e della riunificazione tedesca.

Anche grazie a lui, la sua generazione non ha fallito la sua occasione.

Giampiero Gramaglia è giornalista, direttore di Affarinternazionali (Twitter: @ggramaglia).
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martedì 20 giugno 2017

Regionalismi sempre più accentuati

Spagna
Catalogna: nuovo referendum per l’indipendenza
Elisabetta Holsztejn Tarczewski
14/06/2017
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In uno scenario di ricercata solennità, il presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont ha annunciato che convocherà per il prossimo 1° ottobre un “referendum di autodeterminazione” con la domanda: “Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di Repubblica?”.

“Il referendum è illegale e non si svolgerà”, ha subito risposto il governo centrale di Madrid, assicurando che saranno adottate tutte le misure necessarie per impedirlo. Ne è seguito uno scambio di accuse reciproco sulla mancanza di volontà di dialogo, sullo sfondo di una preoccupante incertezza su quello che effettivamente accadrà nei prossimi mesi.

Come si è arrivati a questo punto
Se è vero che la Catalogna - 15% della popolazione e quasi un quinto del Pil nazionale spagnolo - storicamente ha sempre avuto una propria specificità e una propria identità linguistico-culturale, il punto di flesso a partire dal quale si è innescato un rafforzamento del sentimento indipendentista (prima fisiologicamente stimabile attorno al 15-20%) si colloca nel 2010, quando una sentenza del Tribunale Costituzionale, su ricorso del Partito popolare, mutilò di ampie parti lo Statuto di autonomia catalano approvato nel 2006 con referendum regionale.

Con l’arrivo al potere dei Popolari nel 2011, la situazione si è sempre più esacerbata. Da una parte, la posizione di totale chiusura del governo guidato da Mariano Rajoy verso le esigenze di maggior autonomia ha alimentato una sensazione di crescente vittimismo nella società catalana, esasperato dall’acuirsi di una crisi economica nella quale Barcellona si sarebbe vista costretta a eccessivi trasferimenti di solidarietà verso le altre Comunità autonome.

Dall’altra, l’esecutivo catalano ha avuto gioco facile ad individuare nel governo centrale la causa di tutti i mali (“Madrid ci deruba”) e ha avviato un’azione di propaganda nazionalistica via via più capillare, servendosi ampiamente dei mezzi di comunicazione e del sistema educativo locale. La chiave economico-sociale, accanto a quella politico-culturale, rimane dunque fondamentale per una corretta lettura della questione catalana.

Il sostegno all’indipendenza raggiunse il suo massimo - sfiorando il 50% - nel 2013, quando l’allora presidente della Generalitat Artur Mas annunciò per la fine del 2014 un referendum che poi, di fronte all’opposizione di Madrid, fu costretto a trasformare in una “consultazione partecipativa volontaria”: il 9 novembre 2014 votò solamente un terzo dei catalani, che tuttavia per l’80,76% si espresse a favore dell’indipendenza.

Nelle successive elezioni regionali del settembre 2015, i partiti pro-indipendenza ottennero il 47,8% dei voti (pari però a 72 seggi su 135). L’appoggio all’autodeterminazione, dunque, non ha mai scavalcato la fatidica soglia del 50%, ma ciò non ha impedito alla Generalitat di avviare quello che a Barcellona chiamano “processo di disconnessione dallo Stato spagnolo”, ovvero la graduale costituzione di autonome strutture amministrative, a cominciare da una propria Agenzia tributaria e da una rete estera (sono già una decina le “ambasciate” catalane), nel sinora frustrato tentativo di raccogliere appoggi internazionali.

A Madrid manca una strategia politica 
Da una parte, dunque, la Generalitat- ormai fusa in un unicum con le forze indipendentiste - continua a “vendere” il sogno demagogico di una secessione indolore come rimedio a tutti i problemi economici e sociali, anche per distogliere l’attenzione dagli scandali di corruzione che stanno travolgendo il partito di Puigdemont.

Dall’altra, l’esecutivo centrale non ha saputo e non ha voluto, forse per calcolo elettorale, avanzare alcuna soluzione politica, trincerandosi piuttosto dietro una batteria di ricorsi giudiziari - amministrativi e costituzionali - contro ogni iniziativa delle autorità catalane, fino ad arrivare alla recente condanna all’interdizione dai pubblici uffici per l’ex presidente Mas. Un atteggiamento in buona parte controproducente, che ha creato “martiri”, contribuendo a fomentare l’indipendentismo.

Solo il secondo governo Rajoy - entrato in carica nel novembre 2016 - ha tentato di avviare un canale di dialogo con la Generalitat su temi quali investimenti infrastrutturali, finanziamento regionale, educazione. Troppo tardi e con troppo poca convinzione. La strategia di Madrid rimane fondamentalmente attendista, affiancata da un puntuale contrasto per le vie legali, nella speranza che il progetto indipendentista imploda per le sue stesse contraddizioni e rivalità interne, aiutato in ciò dalla ripresa dell’economia nazionale.

Sul tema catalano, Rajoy può del resto contare sull’appoggio non solo dell’alleato Ciudadanos, ma anche dei socialisti, principale partito di opposizione. Entrambe le forze rinfacciano tuttavia a Rajoy la sua inerzia e l’incapacità di offrire soluzioni politiche, con particolare riferimento ad una possibile riforma costituzionale che i socialisti vorrebbero in senso federale.

Rischio di escalation e possibili vie d’uscita
L’annuncio del referendum da parte di Barcellona è dunque solo l’ultimo di una serie di gesti provocatori del governo catalano, in un continuo gioco al rialzo che lascia intravedere il rischio (se non il deliberato disegno) di uno scontro istituzionale senza precedenti con Madrid, con possibili mobilitazioni di piazza, i cui potenziali sviluppi nessuno si azzarda a delineare.

Non è chiaro fino a che punto il governo Rajoy sarà pronto a spingersi, nel caso in cui la Generalitat chiami effettivamente i catalani alle urne ed approvi la già predisposta “legge di disconnessione”, né se attiverà il sinora mai utilizzato articolo 155 della Costituzione spagnola, che permette al governo di surrogarsi nei poteri di una Comunità autonoma per garantire l’“adempimento forzoso” della legge.

Per il momento, Madrid ha saggiamente optato per la moderazione, confermando che impugnerà l’eventuale convocazione del referendum, ma invitando al dialogo dentro i limiti della legalità. Secondo il governo centrale, lo scenario più probabile (o comunque più auspicabile) è quello che, di fronte all’impossibilità di svolgere il referendum, si convochino infine elezioni regionali anticipate.

Ciò smorzerebbe forse temporaneamente le tensioni, ma non risolverebbe in ogni caso il problema di fondo, destinato a ripresentarsi con le sue fasi di picco cicliche. Un problema che rappresenta, insieme al superamento del bipartitismo, uno dei sintomi più evidenti di “esaurimento” dell’architettura democratica uscita dalla transizione post-franchista e del suo modello territoriale. Un modello ormai superato, poco chiaro nella ripartizione delle competenze e non sufficiente per rispondere alle domande di “specialità” da parte di alcune realtà regionali.

Appare dunque necessaria una strategia proattiva, che punti a recuperare quel 20-30% di catalani convertitisi negli ultimi anni all’indipendentismo, molti dei quali tra gli elettori più giovani. Occorre approfittare della “fatigue” che la società catalana sta avvertendo rispetto ad un processo indipendentista ormai annunciato da anni, ma che sembra intrappolato in un copione che si ripete senza apparente via d’uscita.

Occorre, appunto, offrire questa via d’uscita, elaborando un nuovo progetto di convivenza del Paese, che ascolti le rivendicazioni economiche catalane e consenta forme più profonde di autogoverno, pur nel rispetto del principio di solidarietà intra-regionale, e mettendo, ove necessario, mano alla Costituzione in linea con le specificità e la pluralità della realtà spagnola.

Elisabetta HolsztejnTarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

lunedì 19 giugno 2017

Gran Bretagna: periodi di tempi cupi

Elezioni politiche
GB: Londra più debole, hard o soft Brexit 
Alessandro Marrone, Ester Sabatino
11/06/2017
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La sconfitta politica del premier britannico Theresa May che aveva puntato su una "hard Brexit" cambia il contesto dei negoziati sull'uscita della Gran Bretagna dall'Ue. Londra è infatti ora più debole nella trattativa con Bruxelles; e potrebbe riaffacciarsi l’opzione di una “soft Brexit”.

La May rimane capo del governo, così come sono confermati alcuni dei principali ministri del suo precedente esecutivo: Philip Hammond al tesoro, Boris Johnson agli esteri, Michael Fallon alla difesa, David Davis al ministero dedicato proprio alla Brexit.

Se il nuovo governo conservatore è un segno di continuità, non lo è la sua maggioranza parlamentare. Infatti, la netta perdita di seggi da parte dei Tory fa sì che non abbiano più i 326 deputati necessari a controllare la Camera dei comuni, e debbano quindi formare un governo con l’appoggio del Democratic Unionist Party - il partito nord irlandese fedele alla corona britannica a favorevole alla Brexit. Così, l’esecutivo conterà su un’esile maggioranza di due soli seggi.

Se la Brexit diventa soft
La nuova situazione politica oltre Manica ha un impatto sui negoziati per la Brexit, anche se è difficile capirne l’entità. Di certo, il mandato elettorale chiesto dalla May per un braccio di ferro volto alla “hard Brexit” non è arrivato. Anzi, partiti che al referendum del 2016 si erano schierati per rimanere nell’Unione, quali i Liberal-Democratici ei Laburisti, hanno aumentato voti e seggi.

Ciò rimette in discussione lo scenario di una “hard Brexit” e allontanal’ipotesi di un’uscita di Londra dall’Unione anche senza un accordo tra le parti, che la May esplicitamente contemplava quando in campagna elettorale affermava “no deal is better than a bad deal”.

Sarebbe però sbagliato pensare che il risultato del referendum del giugno 2016 sia stato rimesso in discussione dal voto politico. I conservatori restano fermamente schierati per la Brexit, pur con diverse visioni su quanto essa debba essere “hard”. Una parte significativa dei deputati laburisti ha vinto in collegi che vedono una maggioranza di elettori a favore dell’uscita dall’Ue e il loro leader Jeremy Corbyn si era comunque impegnato a rispettare l’esito del referendum ed a raggiungere un accordo con l’Unione per una “soft Brexit”.

Proprio la “soft Brexit” è una opzione resa possibile dall’attuale quadro politico britannico, ma non è detto che May la porterà al tavolo negoziale con Bruxelles. La premier potrebbe infatti insistere su una "hard Brexit", riguardo in primo luogo alla giurisdizione del diritto comunitario e alla libera circolazione delle persone, accompagnata però da un favorevole accordo di libero scambio con l'Ue.

Bruxelles (con Berlino) ha già fatto capire che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, ossia prendere solo gli elementi convenienti per Londra del mercato unico e lasciare gli altri; e sembra pronta a tenere il punto nei prossimi negoziati.

In un braccio di ferro del genere, la Gran Bretagna si trova indebolita a causa della fragilità politica e parlamentare del suo governo. L’Unione invece nel frattempo si è rafforzata con la vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi e si rafforzerà ulteriormente nel caso, probabile, di una vittoria del partito del presidente alle prossime elezioni parlamentari d’oltralpe.

Brexit e cooperazione europea nella difesa
Nel quadro generale della Brexit, il settore della difesa è tra i meno controversi, ma non per questo tra i meno importanti e complessi. Infatti, in meno di due anni si dovrà giungere a definire i futuri rapporti con l’Ue ed in particolare con l’Agenzia europea di Difesa (European Defence Agency - Eda), le modalità per un eventuale contributo di Londra alle missioni nell’ambito della Politica di Sicurezza e di Difesa comune (Psdc) e soprattutto l’accesso britannico al mercato europeo della difesa.

Nel caso dell’Eda, una volta fuori dall’Ue, per Londra esistono potenzialmente due strade per cooperare oltre Manica. Una è la sottoscrizione di accordi simili a quelli in essere tra Eda eNorvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina. L’altra, considerando la grande importanza militare e industriale di Londra, è la definizione di un accordo ad hoc, che però potrebbe richiedere tempi maggiormente dilatati.

Per quanto riguarda la partecipazioni alle missioni Psdc, uno studio della Camera dei Lord faceva riferimento alla possibilità per Londra di avere un seggio formale nel Comitato Politico e di Sicurezza dell’Ue - ipotesi discussa anche in altre capitali europee. In tal modo la Gran Bretagna potrebbe partecipare alla definizione e pianificazione delle missioni cui partecipa, mantenendo pertanto un ruolo attivo a livello sia politico che militare.

Visto però l’indebolimento del governo May, non è certo che Londra avrà la forza necessaria per giungere ad un accordo di questo tipo. Piuttosto, l’Ue potrebbe insistere per utilizzare l’esistente quadro normativo europeo, che prevede la possibilità per Stati terzi di partecipare militarmente alle missioni europee senza essere parte del processo politico che decide e pianifica l’intervento.

Ciò che è certo al momento è che il Regno Unito, quale membro dell’Alleanza Atlantica, continuerà a partecipare alle operazioni e attività della Nato. Pertanto, anche nel caso del mancato raggiungimento di un accordo tra Londra e Bruxelles sulle missioni Psdc, la cooperazione militare tra Regno Unito e stati Ue membri Nato continuerà nel quadro transatlantico.

In materia di industria e mercato della difesa, la situazione è estremamente complessa perché dipendente dai termini dell’accesso britannico al mercato Ue, ovvero il principale nodo dei negoziati tra Londra e Bruxelles. Qui si ritorna alla scelta, da parte di un indebolito governo May, di insistere o meno su una “hard Brexit” scelta come bandiera dopo nove mesi di incertezza - tanti ce ne sono voluti tra il referendum e l’attivazione dell’articolo 50 da parte di Londra - e in un certo senso sconfessata dalle ultime elezioni. A urne chiuse, la nebbia non si dirada sulla Manica.

Alessandro Marrone, Responsabile di RicercaProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Alessandro__Ma) Ester Sabatino, Junior Fellow ProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Ester_Sab1).

domenica 18 giugno 2017

Dalla padella alla brace

Elezioni politiche
GB: la hybris della May, l’avanzata di Corbyn
Lorenzo Colantoni
09/06/2017
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Jeremy Corbyn ha quasi fatto un miracolo; il leader del partito laburista britannico è riuscito a cambiare il risultato di un’elezione anticipata indetta a sorpresa dal primo ministro conservatore Theresa May lo scorso 18 aprile.

Nei primi sondaggi, c’era un distacco di oltre venti punti tra il suo partito e quello conservatore. I risultati finali, danno ai laburisti solo una cinquantina di seggi in meno rispetto ai tories e i numeri per potere fare addirittura un governo con l’eventuale supporto del partito nazionale scozzese, l’Snp, in netto calo, e dei liberal-democratici. La May sperava di riuscire quasi a spazzare via i laburisti da Westminster e, invece, Corbyn e i suoi ne escono rafforzati.

Se il quadro è positivo per Corbyn, la situazione rimane complessa per il Regno Unito in generale. Il risultato che emerge è un hung parliament, cioè una composizione del Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza e bisogna quindi ricorrere ad una coalizione di governo, oppure ad alleanze ad hoc su questioni centrali come il budget. E sussiste la possibilità di ulteriori elezioni, nel caso in cui né la May né Corbyn fossero in grado di formare un governo con la fiducia dalla Camera dei Comuni.

L’incertezza più grande riguarda i negoziati per la Brexit, che dovrebbero iniziare il 19 giugno. Il risultato paradossale di queste elezioni è così quello di lasciare il Regno Unito senza una chiara guida nelle trattative per l’uscita dall’Unione, nonostante il voto fosse stato indetto alla ricerca appunto d’una strong and stable leadership perché la May voleva avere una mano forte nella Brexit.

I risultati sorprendenti
Per una volta, il risultato finale ha rispettato gli exit poll, con i conservatori in maggioranza, ma in calo rispetto ai risultati delle elezioni nel 2015. Il partito di Corbyn ha guadagnato una trentina di seggi, i tories ne hanno persi una dozzina. Un risultato che conferma anche l’andamento dei sondaggi nei giorni immediatamente precedenti il voto.

L’arretramento dei conservatori era iniziato a metà maggio, quando i laburisti avevano iniziato a eroderne il vantaggio di oltre venti punti; guadagnando posizioni anche in Scozia sull’Snp, i laburisti erano riusciti ad arrivare a un distacco del 5/7%: a conti fatti, è stato appena del 2%.

I sondaggi sono stati confermati anche dagli altri partiti; l’Snp perde un numero abbastanza significativo di seggi (18, arrivando a 34), i liberal-democratici ne guadagnano invece una manciata, per a 12. Il primo, quindi, non replica il successo del 2015, ottenuto sull’onda del referendum per l’indipendenza, mentre i secondi non riescono a fare risorgere il partito, come sperato da molti (Economist incluso).

Interessante è vedere la mappa del voto, che da un lato ricalca quella della Brexit, dall’altra presenta alcune novità. Se infatti la campagna per una hard Brexit conferma le riserve delle grandi città britanniche, Londra principalmente, rispetto alla linea dei conservatori (sono le aree urbane che avevano largamente votato per il Remain), alcune zone dove Leave aveva ottenuto un netto favore tornano, invece, sotto il controllo dei laburisti: tra queste, il Galles, il Nord Inghilterra e le ex aree industriali intorno a Liverpool e Leeds.

L’elezione, infine, lascia alcuni caduti sul campo; perdono infatti il proprio seggio personaggi storici della politica britannica come Nick Clegg, l’ex leader dei liberal-democratici, Angus Robertson, una delle figure più rilevanti dell’Snp a Westminster, e Alex Salmond, l’ex primo ministro scozzese, che aveva guidato il partito nel referendum per l’indipendenza del 2014.

La campagna elettorale
Difficile dire quali siano stati gli elementi decisivi per giungere a questo risultato perché i fattori in campo sono molteplici. C’è stata però una grande evoluzione dei discorsi elettorali nel corso delle ultime settimane, e non solo sul tema della sicurezza.

Al momento della decisione della May di tenere le elezioni anticipate, il tema centrale era infatti la Brexit: questo era il campo di battaglia scelto del primo ministro, che contava di riuscire ad ottenere una forte leadership politica anche sul fronte interno, proponendosi come il leader adeguato a condurre il Paese nel processo di uscita dall’Ue.

L’idea era quella di portare ai Tories i voti del Leave del referendum del giugno 2016, e in generale quei quattro milioni di voti dati allo Ukip nelle elezioni del 2015 che, con l’uscita di scena del leader Nigel Farage, erano disponibili - infatti, lo Ukip è praticamente sparito.

Nel corso delle settimane, però, il tema dell’Ue si è fatto man mano da parte, per lasciare posto ad un discorso più ampio su argomenti chiave come tassazione, sistema sanitario nazionale, sicurezza. Non a caso, lo slogan strong and stable usato dai conservatori all’inizio della campagna è scomparso nelle ultime battute e non è mai stato usato durante il dibattito televisivo tra la May e Corbyn del 29 maggio.

Corbyn è così riuscito a capitalizzare voti su una maggiore solidità nelle argomentazioni e su una debolezza sui temi chiave da parte della May: sono costati cari alla May, che proponeva una stretta contro il terrorismo, i tagli alle forze di polizia di cui lei è stata responsabile da ministro dell’Interno.

Un fragile futuro
Le opzioni per il Regno Unito sono diverse, quelle funzionali sono poche. Il primo ministro britannico potrebbe rassegnare le dimissioni: convocare queste elezioni è stato un azzardo che molti non hanno gradito, anche all’interno dei Tories, soprattutto per la ricerca di legittimazione politica personale che molti hanno percepito come una delle ragioni chiave (considerando che i conservatori avevano già una maggioranza netta in Parlamento).

La corsa al nuovo leader del partito sarebbe aperta, con il ministro degli Esteri e noto Brexiter Boris Johnson in cima alla lista, insieme all’Home Secretary Amber Rudd e al ministro per la Brexit David Davis.

Chiunque sia il leader conservatore, il futuro del Regno Unito è probabilmente quello di un governo di coalizione, in cui iTories non avranno vita facile: i Liberal-democratici hanno già escluso una collaborazione con i conservatori, impossibile anche quella con altri partiti, l’Snp in primis.

È quindi da ipotizzare una difficile coabitazione con i laburisti. Esiste però la possibilità che venga presentato un governo di coalizione di minoranza proprio da Corbyn, visto che i numeri lo consentono e considerando il supporto che ha già ricevuto da Snp e Lib-dem. Quella che la May ha chiamato la “Coalition of Chaos” diventerebbe così realtà.

Esiste infine la possibilità di nuove elezioni, nel caso in cui non si riesca a formare un governo; un’opzione forse interessante nell’ottica di avere un governo stabile per affrontare i negoziati sulla Brexit (quello che cercava la May e che queste elezioni invece le hanno negato), ma che ridurrebbe ulteriormente il già poco tempo a disposizione (ormai meno di due anni) per concordare l’uscita con l’Ue.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI (Twitter@colanlo).

Prospettive di rilancio in Europa

Ue: proposte concrete per identità europea
Antonio Bultrini
06/06/2017
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L’auspicio generale è che l’elezione alla presidenza francese di Emmanuel Macron e l’esito delle elezioni tedesche in settembre permettano di rilanciare il processo di integrazione europea.

Il dibattito oscilla essenzialmente tra due orientamenti: da un lato l’idea di un nucleo di Stati membri dell’Unione europea che darebbe il via a un’integrazione stretta o proto-federale, anche in termini di maggiore democraticità della struttura istituzionale (l’Europa a più velocità o a cerchi concentrici); dall’altro un approccio minimalista, fondato sull’Europa dei piccoli passi dedicata alla risoluzione di problemi concreti.

La questione dell’identità europea è comunque ineludibile: il rafforzamento del sentimento di appartenenza a una comunità sovranazionale e di adesione al suo progetto resta cruciale e non può essere ottenuto con le sole riforme istituzionali. Del resto, la Storia ha mostrato in più casi (compreso quello italiano) che si tratta di questioni distinte: dopo che il processo di unificazione dell’Italia fu completato, occorse - per richiamare la nota affermazione di d’Azeglio - “fare gli italiani”, sfida non meno impegnativa.

Fornire la base di sostegno popolare
Le riforme e l’opera pedagogica sulla concreta utilità dell’Europa sono indispensabili ma poggiano sulla sabbia, poiché siamo alle prese con una profonda disaffezione nei confronti sia dell’idea di integrazione che delle istituzioni che la incarnano, aggravata dai dissensi tra i Paesi membri.

Vari fattori vi hanno contribuito (la lunga crisi economica, ma non solo). In ogni caso, le spinte anti-europee sono probabilmente facilitate da una debolezza di fondo, ovvero il fatto che non si è ancora formata un’autentica identità comune. E a sessant’anni di distanza dall’adozione dei Trattati di Roma è giocoforza constatare che, per quanto siano state e restino importantissime, né le riforme istituzionali, né la progressiva armonizzazione giuridica, né l’integrazione economico-finanziaria sono state di per sé in grado di forgiarla.

Peraltro, un serio processo di costruzione dell’identità europea è indispensabile anche per fornire la base di sostegno popolare senza la quale le pur imprescindibili riforme istituzionali non avrebbero successo nel lungo termine (o forse non sarebbero neppure possibili).

In effetti, gli europei che conoscono l’Europa e che si sentono “a casa” anche fuori dal loro Paese rappresentano tuttora una minoranza, per quanto certamente più consistente rispetto al passato. L’attaccamento della maggior parte degli europei va ancora soprattutto alle patrie nazionali.

La diversità come elemento identitario
Naturalmente non c’è nulla di più difficile che cercare di favorire la nascita di un’identità collettiva. Inoltre, un tentativo del genere deve tener conto delle caratteristiche specifiche del contesto cui si riferisce e non può seguire criteri univoci.

Nel caso europeo, in particolare, non si può mettere in discussione una caratteristica fondamentale, essa stessa forte elemento identitario, ovvero la diversità. Due vie percorse in passato sono quindi parimenti inadeguate: un’identità astratta, imposta dall’alto o costruita a tavolino, o peggio il tentativo di imporre l’egemonia di un particolare modello nazionale (e per carità di patria - europea - tralascio i vari possibili esempi).

Attualmente il tentativo di promuovere un’identità europea assomiglia molto alla prima via (si pensi ad esempio al generico richiamo alle “comuni radici culturali”), pur senza il carattere dell’imposizione. Occorre dunque individuare delle modalità capaci di coinvolgere le platee nazionali e di innescare autentici sentimenti di comunanza.

Tre proposte concrete
Provo a formulare tre proposte concrete (lasciando volutamente da parte la questione della lingua):

1) Com’è noto, la festa dell’Europa si celebra il 9 maggio, data che ricorda la Dichiarazione Schuman. Questa, così com’è, finisce con l’essere una delle tante ricorrenze secondarie sul calendario. Il 9 maggio può anche restare la festa dell’Europa, ma, primo e come minimo, deve diventare un giorno festivo; secondo, la ricorrenza può anche ispirarsi simbolicamente alla Dichiarazione Schuman, ma dovrebbe essere finalizzata soprattutto a promuovere una memoria collettiva imperniata su quei periodi storici cruciali che - nel bene e nel male - hanno forgiato la moderna coscienza europea, la quale contraddistingue (e identifica nel mondo) l’Europa e la sua visione.
Fra questi, l’illuminismo e i diritti umani, le rivoluzioni liberali, l’abolizione della schiavitù, la nascita dell’ambientalismo e ovviamente le due guerre mondiali e la loro catarsi, ovvero la pace. Si tratta di passaggi storici capaci di “parlare” a tutti gli europei: così all’illuminismo contribuirono filosofi di lingua francese ma anche Beccaria; a difesa degli ideali progressisti di metà ottocento migliaia di volontari europei andarono a battersi in Paesi diversi dal loro; alla nascita dell’ambientalismo contribuirono in modo significativo gli scandinavi ma anche il tedesco von Humboldt, che ne fu l’antesignano, oltreché grande umanista (durissimo contro la schiavitù e il razzismo).

2) Un altro ingrediente fondamentale è la conoscenza reciproca. Naturalmente i giovani sono il primo obiettivo, ma l’Erasmus ne coinvolge tuttora solo una porzione ridotta. Un Erasmus per le scuole (proposto da Macron) sarebbe una buona idea, ma avrebbe comunque una portata limitata. In realtà, sarebbe particolarmente utile se gli europei condividessero esperienze significative non solo sul piano personale. In passato alcuni Paesi avevano utilizzato la leva obbligatoria proprio a questo scopo. Per l’Europa di oggi questa via non è ovviamente percorribile. Resta dunque la possibilità di un servizio civile europeo, adeguatamente incentivato.

3) Gli stereotipi negativi, di cui si nutrono i discorsi di superiorità e di dileggio nei confronti di altre nazionalità europee, nuocciono considerevolmente allo sviluppo di sentimenti di comunanza. Conoscersi e condividere esperienze significative aiuterebbe naturalmente a superarli. Essi, tuttavia, non nascono solo dall’ignoranza, emergono anche nel linguaggio pubblico e dei media e vanno comunque contrastati.

È sorprendente che nei trattati non sia ancora inscritto un principio di rispetto per tutte le nazionalità che compongono il mosaico dell’Unione europea (principio di rispetto che figura invece - due volte - nella Costituzione svizzera). Questa lacuna potrebbe essere facilmente colmata. Inoltre sin da ora potrebbero essere avviati programmi specificamente dedicati alla lotta contro gli stereotipi negativi generalizzanti ai danni delle nazionalità europee, analogamente a quanto si fa già con riferimento al discorso d’odio e al razzismo in generale o ancora al linguaggio sessista.

Un’avanguardia unita da una Festa comune
Forse l’avanguardia di Paesi membri di cui tanto si parla potrebbe formarsi, indipendentemente dal cantiere istituzionale, proprio intorno a queste misure, a cominciare specialmente dalla prima.

Per tale “plotone di testa” il 9 maggio diventerebbe festivo e potrebbe peraltro assorbire, là dove esistono, le feste nazionali che attualmente celebrano la fine della prima o della seconda guerra mondiale (il 25 aprile in Italia, l’8 maggio in Francia e così via): questo non solo per evitare ricadute negative in termini di produttività, ma anche per cominciare a ricordare insieme (anziché separatamente) che la costruzione europea e i valori fondamentali che ne sono il collante sono il frutto, pagato a carissimo prezzo, dell’immane tragedia di due guerre che furono mondiali ma innanzitutto europee e fratricide. Senza quel patrimonio di memoria e di valori gli europei, semplicemente, non sarebbero quello che sono oggi.

Antonio Bultrini è professore di Diritto Internazionale e Diritti Umani, Università di Firenze.