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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

domenica 21 dicembre 2014

Sempre acque agitate nell'economia europea tra illusioni e fallimenti

Politica economica europea
Il piano d’investimenti di Juncker, cronaca di una morte annunciata
Alessandro Giovannini, Ilaria Maselli
07/12/2014
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L’incapacità dell’eurozona di uscire in modo deciso dalla crisi è confermata dai dati pubblicati questa settimana dall’Ocse. Dal 2012 a oggi, la crescita complessiva del Pil del continente è stata negativa: -0.3%, a fronte di una crescita del 6.7% negli Stati Uniti.

Le previsioni per i prossimi anni non sono necessariamente migliori: per il biennio 2015-2016 l’Ocse stima una crescita del 2.7% nella zona euro contro un 6% oltreoceano. Uno scenario ancora più desolante se si considera che in passato queste stime si siano rivelate sbagliate per eccesso di fiducia nella crescita.

Rilanciare l’economia europea
La performance deludente delle economie nostrane rende sempre più evidente l’imperfezione dell’architettura dell’eurozona: l’assenza di una politica fiscale condivisa che sappia controbilanciare in modo efficace le divergenze interne e assicurare un sentiero generale di crescita economica per l’intera unione monetaria.

Una politica economica simile alla politica monetaria della Bce, la quale ha come principale obiettivo il livello di inflazione generale dell’eurozona, non quello nei singoli paesi.

Davanti a questi dati molti governi europei hanno chiesto da un lato di allentare la morsa delle politiche restrittive per quei paesi con deficit di bilancio eccessivo, e dall’altro, un maggiore impulso economico da parte di quelle economie, come la Germania, in cui le attuali condizioni fiscali permettono una politica espansiva più decisa.

Abbastanza per rilanciare la crescita? Sicuramente no: le concessione accordate all’Italia (così come alla Francia) in termini di maggiore flessibilità di bilancio, difficilmente riusciranno a imprimere un cambiamento economico significativo.

Piccole modifiche al margine nel deficit pubblico possono al massimo evitare l’impatto negativo di ulteriori tagli, ma difficilmente porteranno una spinta economica decisiva.

Pacchetto Juncker
Un vento di novità sembra essere arrivato dalla nuova Commissione europea a guida Jean Claude Juncker: il lancio di un pacchetto che ha come obiettivo la mobilizzazione di 315 miliardi di euro in investimenti nel corso dei prossimi tre anni (pari a circa l’1% del Pil europeo ogni anno).

Senza voler ricoprire lo sfortunato ruolo di cassandre, è prevedibile che le grandi aspettative saranno probabilmente disattese.

In primo luogo perché i fondi effettivamente previsti a garanzia per il nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) sono per ora 21 miliardi (di cui solamente 13 esplicitamente individuati con certezza), su cui ci si aspetta un effetto leva di 15 volte grazie al coinvolgimento di altri fondi privati incentivati dalla presenza dell’attore pubblico nell’investimento.

Il secondo motivo per cui ci sentiamo di scrivere questa cronaca di una morte annunciata è che il meccanismo previsto assomiglia molto al pacchetto di 120 miliardi di euro per la crescita europea annunciato a giugno del 2012 dove, come oggi, la maggior parte dei finanziamenti proveniva da una riallocazione delle linee di bilancio, insieme con la speranza partecipazione dei privati.

Un pacchetto il cui impatto è difficilmente ravvisabile sull’economia europea, tanto che neanche la stessa Commissione europea ne fa più menzione.

Ruolo degli stati membri
In questo quadro piuttosto grigio, emerge però un elemento interessante che potrebbe aiutare a comprendere se davvero l’eurozona si sta muovendo verso una gestione migliore e congiunta della politica economica.

Da un lato il piano prevede che gli stati membri abbiano l'opportunità di contribuire con il proprio capitale al Feis senza infrangere le regole del Patto di stabilità.

Dall’altro prevede che la scelta di quali progetti finanziare con tale fondo seguirà una pura logica di merito, senza ipotesi di allocazioni geografiche e quote per paese. In altre parole, i fondi e le garanzie messi a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti italiana o dallo stesso governo nazionale potrebbero andare a finanziare infrastrutture in Germania o Polonia.

Un apparente controsenso, che tuttavia rappresenta quello che succede davvero quando la politica economica dell’eurozona è veramente unitaria.

Se infatti i fondi della Cassa depositi e prestiti dovessero andare a finanziare progetti di infrastrutture in Germania (perché meglio progettati e più rapidamente implementabili), questo dovrebbe anche beneficiare l'Italia attraverso una crescita per vie indirette dell’export italiano.

Se quindi gli stati membri sono davvero convinti, come spesso hanno ripetuto in questi anni, che quello che serve all’eurozona è una gestione coordinata dell’economia, dovremo aspettarci una forte partecipazione di fondi nazionali al capitale del Feis così come augurato da Juncker e una maggiore possibilità di raggiungere davvero il traguardo di 315 miliardi di investimenti.

Se invece i discorsi degli ultimi anni si dovessero rivelare solamente parole per coprire una logica di ritorno economico nazionale, allora l'incentivo a contribuire al Fondo sarebbe praticamente nullo e il rischio di fallimento del progetto complessivo ancora più alto.

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”, ripeteva Giulio Andreotti. Che il principio si applichi anche alla politica europea?

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli sono entrambi ricercatori della Economic Policy Unit del Centre for European Policy Studies di Bruxelles.
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mercoledì 3 dicembre 2014

Economia: alla ricerca di una formula magica

Unione europea e crescita
Il vicolo cieco della crisi economica 
Federico Losurdo
27/11/2014
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A ogni passaggio istituzionale dell’attuale crisi le misure di rigore finanziario sono accompagnate da quelle per lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, fino a evocare nei più recenti Consigli europei la ‘formula magica’ di “un consolidamento fiscale favorevole alla crescita” (“growth-friendly fiscal consolidation”).

Legittimazione asimmetrica 
A essere in discussione sono i faticosi equilibri raggiunti a Maastricht nel 1992. Mentre il governo della moneta è centralizzato nelle mani di un’istituzione indipendente - la Banca centrale europea (Bce), la cui stella polare è il controllo dell’inflazione (art. 119 Tfue) - le politiche economiche sono decentralizzate in capo ai singoli Stati membri, seppure coordinate all’interno delle istituzioni intergovernative (art. 121 Tfue).

Per rimediare a questa legittimazione asimmetrica della politica economica rispetto alla politica monetaria sono stati codificati dei vincoli alla politica fiscale per orientare il processo di bilancio degli Stati membri.

Vincoli fiscali che, ad ogni successiva tappa della crisi, sono stati resi più cogenti, fino a giungere con il Fiscal compact nel marzo 2012 a prevedere l’obbligo per gli Stati membri di codificare il principio del pareggio di bilancio con norme “preferibilmente” di rango costituzionale (art. 3, comma 2).

Austerità espansiva
L’insediamento della nuova Commissione europea, presieduta da Jean-Claude Juncker, frutto di un accordo bipartisan tra Partito popolare europeo e Partito socialista europeo, ha suscitato le attese di un deciso cambio di passo, nel senso di ri-orientare la politica economica in direzione della crescita (si pensi all’annunciato piano di 300 miliardi di euro con cui finanziare grandi progetti infrastrutturali comuni).

È, tuttavia, difficile immaginare che muti significativamente la filosofia di fondo della strategia Ue. Per un verso, la stabilità monetaria (dei prezzi) e fiscale (dei bilanci) continua ad essere la “norma fondamentale” dell’Unione, come ancora di recente ha sottolineato polemicamente il Tribunale costituzionale federale tedesco nell’ordinanza che ha contestato la legittimità del programma relativo alle “outright monetary transaction” della Bce (ordinanza del 14 gennaio 2014).

Per altro verso, nessuno ha ancora seriamente messo in discussione la ricetta di Bruxelles e Francoforte all’insegna dell’“austerità espansiva”. Una ricetta che predica il rigore dei conti e, allo stesso tempo, aspira a promuovere la crescita tramite le “riforme strutturali”: una consistente riduzione della spesa pubblica e una flessibilizzazione del mercato del lavoro che dovrebbero facilitare la creazione di nuova occupazione.

Circolo vizioso? 
Più che in una nuova fase di crescita, i paesi dell’Unione sembrano, tuttavia, essere entrati in una nuova fase della crisi. I provvedimenti finora adottati hanno ampliato il solco fra i paesi del nord Europa che non hanno intaccato il cuore delle proprie istituzioni di welfare e i paesi del sud Europa che sembrano, invece, assistere impotenti a una progressiva erosione delle conquiste sociali del passato, una strisciante deindustrializzazione.

Quest’ultimi rischiano di cadere in un vero e proprio circolo vizioso. A fronte, infatti, degli effetti recessivi determinati dalle politiche di austerità, essi sono indotti, nel tentativo di aumentare la competitiva internazionale del proprio sistema produttivo, ad adottare sempre più drastiche riforme strutturali.

Nella speranza che il calo della domanda interna venga compensato da un aumento della domanda esterna. Una concorrenza al ribasso tra gli ordinamenti europei rischia tuttavia di produrre effetti contrari a quelli auspicati.

“All’interno di una zona monetaria unica avere politiche concorrenziali non coordinate – ha osservato di recente Jean-Paul Fitoussi - è come avere un elefante in un negozio di porcellane” (Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, 2013).

Exit strategies?
Quali sono le possibili soluzioni? In primo luogo, sarebbe necessario che gli Stati in surplus incentivino la loro domanda interna, in maniera tale da sostenere le esportazioni degli Stati in deficit e stimolare una ripresa di tutta l’Eurozona.

Ed è proprio quanto è stato proposto dalla Commissione europea, nel quadro della procedura per la prevenzione e la correzione degli “squilibri macroeconomici” (disciplinata dai regolamenti Ue nn. 1174 e 1176 del 2011), che ha chiesto a diversi paesi (tra cui la Germania) di ridurre i propri avanzi commerciali.

In secondo luogo, si potrebbe consentire agli Stati europei più fragili (tra cui il nostro) uno sforamento temporaneo dei vincoli del Patto di stabilità, nella misura necessaria a implementare le riforme strutturali e a superare l’attuale fase di stagnazione.

Si tratterebbe, in fondo, di replicare quanto già accaduto nel 2005, quando, a causa della congiuntura sfavorevole, furono Germania e Francia a chiedere ed ottenere un alleggerimento dei vincoli del Patto.

In terzo luogo, e si tratta della soluzione più di lungo periodo (e per questo anche politicamente più difficile) si dovrebbero creare le condizioni per l’emissione comune di titoli di debito pubblico (i c.d. “stability bonds”).

Cosa che potrebbe risultare più accettabile, anche per le classi dirigenti dei paesi del nord Europa, se si accompagnasse con una più estesa “federalizzazione delle politiche economiche” (un’ipotesi avanzata dal “Blue Print for a deep and genuine EMU” della Commissione Barroso).

Una federalizzazione che, tuttavia, non può essere disgiunta da quelle forme di legittimazione e responsabilità democratica, che le opinioni pubbliche degli Stati membri hanno imparato a considerare elementi non negoziabili della vita politica.

Federico Losurdo è Professore a contratto di Istituzioni di diritto pubblico e assegnista di ricerca in Diritto costituzionale presso l’Uni
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Svizzera: tre risposte negative ai referendum

Referendum in Svizzera
Ecopop o Ecoflop?
Cosimo Risi
01/12/2014
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No, no, no. Così ha risposto la Svizzera ai tre quesiti referendari del 30 novembre che riguardavano rispettivamente l’aumento della riserva aurea della Banca Nazionale, la fine della fiscalità agevolata per gli stranieri residenti e il limite alla crescita della popolazione.

Dei tre quello di maggiore rilievo interno e per i profili internazionali è il cosiddetto Ecopop, dal nome dello schieramento verde che lo sosteneva. Il referendum chiedeva di limitare allo 0,2% la crescita della popolazione immigrata residente nel paese. Il quesito giustificava la richiesta del controllo dell’immigrazione per questioni quasi ambientali, ecologiche.

Controllo dell’immigrazione
Il quesito “stop alla sovrappopolazione - sì alla conservazione delle basi naturali della vita” mirava a limitare la crescita della popolazione mediante il controllo dell’immigrazione: non per xenofobia, ma in omaggio allo sviluppo sostenibile. Un eccesso di popolazione in un paese montagnoso e dal ridotto spazio sfruttabile significa, per i promotori, minacciare il modello svizzero.

La schiacciante maggioranza per il “no” è doppia: popolazione (oltre il 70% degli aventi diritto) e cantoni. La vittoria è ineccepibile. Il segnale è forte. I sondaggi prevedevano la triplice vittoria del “no”, ma in misura inferiore di quella uscita dai seggi. Molti di quanti si erano pronunciati per il “si” nelle intenzioni di voto hanno cambiato idea una volta arrivati ai seggi e gli indecisi hanno infine optato per il “no”.

Il Ticino - che a febbraio aveva determinato la vittoria con un voto larghissimo - si è ricreduto. Ancorché nel Cantone si pensasse a un testa a testa, è il “no” a prevalere.

Svizzera-Ue
È difficile misurare l’impatto del voto sullo scenario internazionale. Di certo la maggioranza della popolazione ha reagito al successo di febbraio, colpita dalle reazioni internazionali e dalle conseguenze sui rapporti con l’Ue. Che lo si voglia o no, l’Unione è il principale partner della Confederazione.

L’eventuale vittoria del referendum Ecopop avrebbe segnato un’ulteriore battuta d’arresto sulla via d’Europa. Sarebbe saltato l’accordo sulla libera circolazione delle persone e, con esso, la serie degli accordi bilaterali con l’Ue.

Non che la trama dei patti con Bruxelles sia salva col voto del 30 novembre. Resta l’ipoteca delle proposte che il Consiglio federale presenterà per applicare l’iniziativa costituzionale di febbraio. Il termine è il 2017, ma c’è tempo.

Prima ci sono le elezioni politiche generali nell’autunno 2015. Il panorama parlamentare potrebbe mutare e nel nuovo quadro potrebbe spirare aria nuova anche riguardo ai rapporti con l’Ue.

Italia e frontalieri
Il rapporto con l’Italia è una variante del binario europeo e in genere multilaterale. La libera circolazione delle persone, che implica quella dei lavoratori frontalieri, è materia eminentemente europea. Lo scambio automatico d’informazioni a fini fiscali rientra nel campo Ocse. Il ruolo italiano è di sostegno alle tesi europee.

Stiamo attenti a non duplicare i canali di comunicazione e chiarire i limiti della nostra azione negoziale. Di rilievo è la nostra strategia dell’attenzione verso le regioni italofone. Alcuni portano il tema dei frontalieri a simbolo del malessere nei confronti dell’Italia. Ora può essere rimesso nella giusta dimensione economica e sociale.

I cantoni francofoni e germanofoni hanno un numero di frontalieri che, nel caso di quelli provenienti dalla Francia, è il doppio del nostro. Eppure la Svizzera rimanda, non manifesta, particolari segni d’insofferenza. Per non parlare della Svizzera alemanna, dove la presenza tedesca penetra a tutti i livelli sociali.

Il rapporto con la Svizzera deve andare al di là di quello che in diplomazia si chiama di buon vicinato. È un rapporto d’integrazione basato sulla comunanza d’interessi e principi.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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Gran Bretagna: si affronta il tema dell'immigrazione

Regno Unito
Cameron anticipa il negoziato con l’Ue
Ferdinando Nelli Feroci
01/12/2014
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Con il suo intervento sull’immigrazione, il Primo ministro britannico David Cameron ha di fatto aperto la campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo maggio, anticipando i primi contenuti di un futuro negoziato con l’Unione europea (Ue).

Per farlo ha presentato una serie di richieste sui temi dell’immigrazione e della libera circolazione delle persone. Altre richieste, per ora evocate in termini molto generali, potrebbero essere formalizzate in un quadro più organico, dopo un suo eventuale successo elettorale.

Cameron insegue Farage
Da tempo Cameron era apparso costretto a seguire il partito euroscettico Ukip sul terreno scivoloso delle politiche europee e delle quotidiane polemiche contro Bruxelles e ridotto ad articolare la propria narrativa sul tema sensibile del rapporto con l’Ue sulla base di un’agenda che sembrava determinata solo dalla preoccupazione di non lasciare spazi alla formazione di Nigel Farage.

Con il discorso del 28 novembre, Cameron ha ripreso l’iniziativa, lanciando in contemporanea una sfida al suo rivale più temuto sul fronte interno, e all’Ue. E per lanciare questa duplice sfida ha scelto il terreno della gestione dei fenomeni migratori, sapendo di evocare una questione al tempo stesso altamente controversa, ma di grandissima sensibilità per l’opinione pubblica.

Come premessa Cameron ha dovuto constatare che, contrariamente a quanto aveva promesso all’inizio del suo mandato, i flussi migratori nel Regno Unito sono aumentati considerevolmente, soprattutto a partire dal 2004, e che il saldo netto dei flussi migratori (differenza fra emigranti e immigranti) è ugualmente aumentato.

Ha insistito sulla circostanza che l’aumento degli immigrati (di qualsiasi provenienza) pone un onere eccessivo sul bilancio pubblico per il welfare. E pone anche problemi crescenti di sostenibilità dei servizi pubblici essenziali (scuola, assistenza sanitaria, spese per la sicurezza, ecc.). Ne ha dedotto che il modello di una società eccessivamente “aperta” e destinata a incoraggiare l’immigrazione, grazie ai propri successi in termini di crescita e competitività, non è alla lunga sostenibile.

Gestione controllata dell’immigrazione
Cameron ha affrontato solo marginalmente il fenomeno dell’immigrazione proveniente da paesi extra Ue, anticipando ulteriori misure di controllo, ma concentrandosi soprattutto sull’immigrazione proveniente da paesi Ue.

In caso di rielezione, il primo ministro britannico si è impegnato a realizzare una gestione “controllata” di quell’immigrazione, possibilmente nel quadro di un accordo con i partner europei, mirato a definire un regime comune di libertà di circolazione delle persone con alcune significative limitazioni. In assenza di accordo, bisognerà definire un regime nel quadro di un negoziato esclusivo tra Regno Unito e Ue e valido solo per il primo.

Cameron ha dichiarato che non intende contestare il principio della libera circolazione delle persone - principio fondante del progetto europeo - ma ha indicato una serie di misure destinate a limitare e condizionare quella libertà:
a) riducendone gli abusi (maggior ricorso alle deportazioni e divieti di rientro per chi ha commesso reati, screening sui matrimoni di comodo ecc.);
b) riducendo gli incentivi (diminuzione drastica dei periodi consentiti di permanenza nel Regno Unito per i senza lavoro ecc.); e
c) riducendo soprattutto l’accesso ad alcune prestazioni del welfare per chi entra nel Regno Unito senza avere un lavoro o per chi rimane senza oltre un certo periodo (diminuzione o eliminazione di crediti di imposta e di altre forme di sussidi di disoccupazione, ecc.).

Brexit or not Brexit 
È stato osservato che Cameron poteva essere ancora più radicale nel suo attacco al principio della libera circolazione delle persone e che non avendo chiesto l’introduzione di quote per gli ingressi di cittadini Ue, ha lasciato una porta aperta per un negoziato con i partner europei.

È stato d’altronde anche sostenuto (da uno studio del Cer di Londra) che l’analisi dell’impatto dell’immigrazione Ue in termini di costi-benefici sul bilancio pubblico del Regno Unito è erronea e frutto di un pregiudizio di natura politica. Cameron ha però posto un problema politico. Gli altri partner Ue devono ora dare una risposta.

Un giudizio sulla praticabilità o accettabilità delle singole proposte o richieste dovrà esaminare in primis se c’è la volontà politica di assecondare il Primo ministro britannico sulla strada di un negoziato su limiti e condizioni dell’esercizio della libera circolazione delle persone. Successivamente bisognerà verificare se sia possibile operare a Trattati costanti - intervenendo eventualmente solo sulle legislazione secondaria - o se occorra intraprendere la strada molto più accidentata di una revisione dei Trattati.

Personalmente ho qualche dubbio che gli altri Paesi europei considerino l’immigrazione dai Paesi Ue il problema principale (l’attenzione prevalente è sulla immigrazione extra Ue). Osservo però che, con il suo intervento Cameron ha di fatto anticipato i tempi di un negoziato con l’Ue.

È legittimo non essere d’accordo con alcune proposte del Primo ministro britannico e alcuni paesi membri di recente adesione si sentiranno particolarmente colpiti da queste proposte. Sarebbe però un errore non prenderle in considerazione e non aprire una riflessione su di esse.

Non solo perché sono convinto che sia interesse comune garantire una permanenza del Regno Unito nell’Ue; ma anche perché i fenomeni migratori, se non gestiti correttamente, rischiano di generare dinamiche che potrebbero rapidamente condurre a derive in drammatico contrasto con i fondamentali del progetto comune europeo.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.
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Stress su 130 bilanci di banche della zona euro

Unione bancaria
Il nuovo tassello dell'architettura della zona euro
Alessandro Giovannini
19/11/2014
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Un duro lavoro, durato quasi un anno è finito. La Banca centrale europea (Bce) e l’Autorità europea bancaria hanno pubblicato i risultati degli stress test e dell’Asset Quality Review dopo aver analizzato i bilanci delle 130 banche più grandi della zona euro.

Anche se non si tratta del primo stress test per le banche europee, questo esercizio costituisce il punto di ingresso al meccanismo di vigilanza unico europeo, (Single supervisory mechanism, Ssm,) all’interno del quale la Bce ha la responsabilità di supervisione diretta per queste banche e la responsabilità indiretta per il resto delle banche della zona euro.

Meccanismi unici di supervisione e di risoluzione
La decisione di costruire un'unione bancaria è stata presa nel 2012 per rafforzare l'integrazione dei mercati finanziari nella zona euro, superando le attuali divergenze nei meccanismi di supervisione e di risoluzione delle crisi a livello nazionale.

Mentre l’Ssm è disegnato per superare il primo limite, il secondo verrà superato attraverso il meccanismo unico di risoluzione ( Single resolution mechanism, Srm) che sarà pienamente operativo nel 2015. All’interno del Srm le autorità di risoluzione nazionali verranno progressivamente coinvolte nel processo di mutualizzazione in caso di grandi risoluzioni bancarie, grazie soprattutto al Fondo unico di risoluzione europeo (Single resolution fund, Srf).

Per comprendere meglio come il sistema finanziario della zona euro dovrebbe diventare meno esposto all'instabilità regionale, basta immaginare come, in questa nuova architettura istituzionale, si sarebbe potuto gestire la recente crisi bancaria dell’Irlanda.

Nel 2009, dopo lo scoppio della crisi immobiliare locale, le banche irlandesi sarebbero comunque state in uno stato di difficoltà grave. Con gli attuali poteri, la Bce decide se consentire ad alcune banche di fallire, di essere messe in risoluzione o essere salvate, perché giudicate di importanza sistemica.

I fondi necessari per salvare le banche (o attivare una risoluzione ordinata), tuttavia, non arriverebbero dal governo nazionale irlandese, come è accaduto cinque anni fa, ma dal Srf.

Limiti del fondo unico di risoluzione
Il meccanismo appena descritto mostra bene come grazie a questa nuova architettura sia possibile rompere il diabolico anello che lega a doppio filo banche deboli e finanze pubbliche.

Un legame che è stato distruttivo durante la crisi dell'euro, come mostra il caso italiano in cui le tensioni sui titoli di stato sovrano nel periodo 2011-2012 si sono rapidamente trasmesse sui costi di finanziamento degli istituti di credito del paese e viceversa.

Questa architettura, nonostante in parte sia già operativa è lungi dall’essere perfetta. Per come è stato disegnato, l’Srf, non sarà necessariamente in grado di assicurare un’efficace gestione della crisi.

L'attuale dimensione del Srf (€55 miliardi a pieno regime) è relativamente piccola rispetto alle attività complessive del sistema bancario supervisionato dal Ssm (che ammontano a oltre € 25.000 miliardi) e anche rispetto al capitale complessivo del settore (oltre € 1.000 miliardi).

Inoltre, è ancora poco chiara la sua interazione con l'European stability mechanism (Esm o, più comunemente, il fondo europeo salva stati) per assicurare fondi adeguati a fronteggiare una crisi sistemica. Al momento il ricorso ai fondi dell’Esm (che ammontano a € 500 miliardi) è previsto solo una volta che i programmi di assistenza in corso sono terminati e sono stati rimborsati, cioè circa nel 2030.

Rompere il legame stati-banche
Questa situazione a metà del guado rischia di portare a una rottura parziale del circolo vizioso che si è creato tra le banche e il debito sovrano. Inoltre, il processo di ri-nazionalizzazione del debito sovrano massicciamente acquistato dalle banche nazionali e utilizzato come garanzia per ottenere prestiti da parte della Bce nelle sue operazioni di politica monetaria, ha ancor più rafforzato questo legame, aumentando così la difficoltà di romperlo.

Ad esempio, nel 2013 solo il 38% del debito italiano era detenuto da soggetti esteri, una percentuale notevolmente inferiore rispetto al periodo più acuto della crisi. Una considerazione analoga vale anche per la Spagna e per altri paesi periferici.

Nonostante i mercati finanziari appaiono oggi più solidi del 2012, il potere rivoluzionario dell’unione bancaria è ancora un obiettivo che va perseguito con decisione da parte dei leader europei.

Non si può escludere del tutto di un nuovo acuirsi delle tensioni finanziarie. Senza una solida architettura istituzionale pronta a rispondere a queste pressioni, si rischia una perdita di fiducia ancora più catastrofica di quella di due anni fa.

Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies.
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L'euroscetticimo ancora non fa presa

Parlamento europeo
La rivoluzione euroscettica? Molto rumore per nulla
Eleonora Poli, Chiara Rosselli
22/11/2014
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A sette mesi dai risultati delle elezioni europee e con 140 seggi su 751, i partiti euroscettici sembrano ben lontani dall’essere quella forza catalizzatrice del cambiamento in cui molti avevano sperato.

Anche se tutti questi movimenti accusano l’Unione europea (Ue) per la gestione dell'immigrazione, le difficoltà economiche e la perdita di sovranità e di identità nazionale, essi non sembrano aver ancora individuato un terreno comune d’azione politica. Il fronte anti-europeo appare infatti frammentato e diviso al suo interno.

Tra euroscettici ed euro-critici 
Al momento, il gruppo parlamentare di inclinazione euroscettica più grande è l'Europa della libertà e della democrazia diretta (Efdd), che, sostenuto dall’Ukip dell’inglese Nigel Farage (24 seggi) e dal Movimento 5 Stelle (17 seggi), annovera tra le sue file 48 euroscettici convinti.

A questo seguono la Sinistra unitaria europea / Sinistra verde nordica (Gue/Ngl, 52 seggi) e i Conservatori e Riformisti (Ecr, 70 seggi), cioè gruppi più euro-critici che euroscettici, che si collocano rispettivamente a sinistra e a destra dell’arena parlamentare.

Rimangono poi i 21 seggi detenuti da partiti di estrema destra come il Front National francese, il partito ungherese Jobbik e il greco Alba Dorata, i cui parlamentari rimangono non allineati. Efdd e Ecr hanno infatti rifiutato qualsiasi alleanza con quest’ultimi, considerati troppo radicali.

Al di là delle divisioni politiche intra-parlamentari, i membri degli stessi gruppi euroscettici sostengono spesso posizioni contrastanti tra loro.

Ad esempio, lo scorso settembre il M5S si è opposto a una proposta sostenuta da Ukip sul budget europeo che prevedeva un taglio netto di tutte quelle spese che non beneficiassero direttamente il Regno Unito.

Allo stesso modo gli euro-critici dell’Ecr, si sono recentemente divisi riguardo a una delle votazioni relative all'adozione dell'euro in Lituania, quando i parlamentari di Alternativa per la Germania hanno votato in opposizione al gruppo, sostenendo che, al fine di essere competitiva, l’ eurozona dovrebbe escludere i paesi del sud e dell'est europeo.

Europeisti serrano le fila
D’altro canto, l'ondata euroscettica sembra aver contribuito a potenziare la cooperazione tra i partiti europeisti. Il Partito popolare europeo (Ppe) di destra, l’Alleanza per liberal-democratici d'Europa (Alde) di centro destra ed i Socialisti e democratici (S&D) hanno appoggiato per l’85,5% dei casi le stesse risoluzioni parlamentari, un terzo in più delle volte rispetto allo scorso mandato, 66,5%.

I partiti tradizionali sembrano anche essere più efficaci nel coordinare i voti all’interno dei propri gruppi. Ad esempio, mentre l’Efdd ha un tasso di coesione interna pari al 45.39%, quello del Ppe è del 96%, quello di Alde è del 93% e quello di S&D è del 87,45%.

Quattro volte su cinque, questa maggiore intesa ha permesso a questi gruppi di vedere approvate le loro posizione in sede di votazione parlamentare, a dispetto dello scarso 41% registrato da Efdd e Gue-Ngl.

In particolare, Alde, Ppe e S & D insieme all’euro-critico Ecr hanno visto passare il 100% delle risoluzioni da loro votate nell’ambito degli affari economici e monetari.

Euroscettici che intralciano più che rivoluzionare 
Una maggiore fedeltà di voto e una migliore capacità di cooperazione intra-parlamentare hanno di fatto accresciuto di molto il potere reale di questi gruppi tradizionalmente eurofili, che secondo Vote Watch, supera mediamente del 2% il potere nominale derivante dal numero di seggi da loro detenuti (nel caso del Ppe è il 4,08%, per l’S & D l’1,64% e per Alde lo 0,95%).

Al contrario, Efdd, in possesso di una potere nominale di 6,37%, riesce a malapena ad esercitare un potere effettivo di poco superiore al 3%.

Il dado non è tuttavia ancora tratto. Con solo poche risoluzioni parlamentari votate, il gioco di coalizioni e negoziati politici e partitici è solo agli inizi. Lo spirito di adattamento dei partiti euroscettici sarà cruciale nel definire l'eredità che questo Parlamento lascerà in mano ai suoi successori.

Ciononostante, per il momento, gli euroscettici, seppure dirompenti nelle loro dichiarazioni, sembrano intralciare piuttosto che veramente cambiare la direzione istituzionale e politica europea.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
Chiara Rosselli è Assistente di programma dello IAI
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