Stringendo fra le sue mani quelle di George W. Bush e Vladimir Putin, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, annunciò al mondo la fine della Guerra fredda. Era il 2002, al vertice Nato-Russia di Pratica di Mare.
In realtà, la Guerra fredda era finita da oltre un decennio. Non Berlusconi, entusiasta di natura, né gli altri partner di quel vertice potevano immaginare che entro un altro decennio sarebbero tutti tornati a qualcosa di simile a una seconda Guerra fredda.
Guerra fredda, capitolo due Sul “what went wrong” gli analisti, e con una certa fretta anche alcuni storici, hanno già scritto pagine e pagine. In genere, il giudizio è di parte: fu colpa degli americani, è colpa dei russi; difficile trovare posizioni intermedie, spesso nemmeno fra le diplomazie coinvolte. La differenza è anche sull’uso dei tempi: furono le amministrazioni Clinton e Bush junior a umiliare la Russia in declino, rifiutando di riconoscerne la vocazione imperiale (seguì poi la relegazione a “potenza regionale” di Barack Obama); è il comportamento revanscista e vetero-imperialista di Putin a rendere oggi l’Europa e il mondo più instabili.
La verità, se ne esiste una, è probabilmente nel convergere delle due tesi: entrambe riflettono il reale andamento della storia e delle cronache. Un Paese i cui interessi incominciano al confine ucraino e finiscono nelle isole Curili difficilmente può essere considerato una potenza regionale: è giusto trattarlo con rispetto perché se non ha più mezzi economici da superpotenza, ne possiede ancora gli arsenali nucleari.
Allo stesso tempo, l’annessione armata della Crimea e le violazioni russe degli accordi legati al nucleare (l’ultima riguarda il trattato Inf sulle forze nucleari a medio raggio in Europa) hanno spazzato ciò che restava della sicurezza collettiva continentale. Per i comportamenti di Putin non c’è più un ordine internazionale: un Congresso di Vienna, una Yalta, una Helsinki cui riferirsi per risolvere i problemi prima che diventino crisi.
Le sensibilità dei Grandi verso Mosca Fino a che una delle due parti o miracolosamente entrambe non decidono di tornare a un punto zero (la parola “reset” porta male), fino a che russi e americani non rinunciano ad accusarsi fra chi ha cominciato per primo e chi ne ha approfittato dopo, Vladimir Putin non sarà a Taormina e il G7 continuerà a essere solo G7. Era diventato G8 nel 1998, quando l’impero benevolente di Clinton sembrava non conoscere tramonti; è tornato G7 nel 2014, quando, rivendicando diritti sull’Ucraina, Putin ha svelato definitivamente la sua ambizione di ripristinare una versione leggermente più moderna della sfera d’influenza sovietica sull’Europa orientale.
Esiste un certo paradosso nell’assenza causa-sanzioni della Russia all’incontro di Taormina. Osserviamo i Paesi del G7. Francesi, tedeschi e italiani fanno a gara nel dichiarare con più convinzione la loro amicizia per Mosca e nel mostrare rassegnata ostilità per sanzioni economiche che sembrano quasi subire di dover imporre.
Con la presidenza Trump, mai gli Stati Uniti sono stati così poco ostili alla Russia: fra Fbi, Cia e Campidoglio, la storia è ancora tutta da raccontare. Il Canada di Justin Trudeau è sostanzialmente agnostico sulla materia, se non sono minacciati i suoi interessi nell’Artico. Il Giappone ha ben altre preoccupazioni. Solo la Gran Bretagna è convinta della minaccia russa, come il George Smiley di Le Carré lo era dell’esistenza di una talpa di Karla dentro l’MI6.
Quattro dichiaratamente o potenzialmente amichevoli; uno non ostile, quasi amichevole; uno disinteressato; uno solo contro. Eppure, nonostante un’assemblea mai così favorevole, a gennaio il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha fatto ufficialmente sapere che la Russia avrebbe lasciato “in modo permanente” il G8.
A meno che a Taormina non venga formalizzata la sua uscita, infatti, la partecipazione russa alla struttura del gruppo allargato a otto Paesi era solo congelata. Una porta sbattuta in faccia a tutti, dunque: anche al ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano, che aveva esortato una riapertura a Mosca.
Nessuno spazio per un ritorno al G8 Il comportamento russo è forse duro, ma coerente. Al momento non esistono gli spazi per un ritorno nella grande casa del G8, che non è un’istituzione, ma una mega-lobby globale con valori comuni: democrazia e libero mercato. Si possono fare molti distinguo, ma è difficile sostenere che la Russia pratichi con la stessa trasparenza l’una e l’altro.
Quello che a Washington viene considerato il “new normal” delle relazioni internazionali vede una Russia che hackera, disinforma e mesta nei sistemi occidentali, cercando di orientarne le elezioni. Una posizione dichiaratamente ostile alle democrazie rappresentative e di sostegno ai populismi ovunque si formino e abbiano forza per contendere il potere.
In questa forma adulterata di Guerra fredda, probabilmente i russi fanno il loro mestiere. Ma è un mestiere non meno pericoloso per l’Occidente di quanto non lo fosse l’immensa forza militare sovietica di un tempo.
Quegli arsenali la Russia oggi non se li può più permettere. Non è un Paese che rischia il tracollo economico, ma vive una forma di eterna stagnazione. Il Pil americano è superiore ai 18mila miliardi di dollari, quello russo è di circa 1,3. Le Forze Armate americane contano un milione e 400mila donne e uomini, le russe 750mila.
Putin non può più permettersi le stesse spese militari dei tempi in cui il barile di petrolio superava i cento dollari. I 65 miliardi recentemente stanziati da Mosca, dollaro più dollaro meno, equivalgono al solo aumento della spesa per la difesa americana previsto da Donald Trump per il 2018.
Come dice Dmitri Trenin del Carnegie Moscow Center, Vladimir Putin è “an autocrat with the consent of the governed”. Sa come stimolare il patriottismo innato dei russi. E se l’hard power necessario per conquistare spazio geopolitico non è più applicabile dispiegando divisioni corazzate e caccia di ultima tecnologia, la Russia usa i mezzi meno costosi, ma forse più efficaci, del web. È per questo che non parteciperà al vertice di Taormina. Ed è per questo che subito dopo l’Occidente dovrà ingaggiarla in un dialogo essenziale per il futuro suo e nostro.
Ugo Tramballi è editorialista del Sole 24 Ore.
|
Nessun commento:
Posta un commento