Dopo una settimana tumultuosa, il governo britannico guidato da Theresa May ha dovuto fare retromarcia: a differenza di quanto anticipato dal suo ministro degli Interni Amber Rudd al congresso del partito conservatore a Birmingham, le aziende del Regno Unito non saranno chiamate a schedare i loro dipendenti stranieri, né a dimostrare l’assunzione di un cittadino non inglese al posto di qualcuno nato e cresciuto nelle vicinanze.
Delle sanzioni non meglio specificate sarebbero state poi previste per chi avesse violato le nuove regole sull’omogeneità nazionale dei lavoratori.
Una levata di scudi generale - che ha coinvolto il mondo degli affari e il sistema sanitario, le università e i think tank - ha guidato la protesta contro la proposta del governo, denunciando tutte le minacce che ne sarebbero derivate: dallo sconvolgimento del mercato del lavoro all’interferenza nella gestione delle imprese; da una specie di pulizia etnica all’impossibilità materiale di andare avanti senza il contributo dei lavoratori stranieri in molti settori.
Tante voci hanno deplorato l’eclissi del dibattito sulle conseguenze economiche della Brexit, per fare posto alle rivendicazioni più estreme degli isolazionisti in tema di immigrazione.
Finalmente, però, nei talk-shows politici della mattina del 9 ottobre, altri ministri si sono affrettati ad insistere che vi erano state tanti malintesi, e che comunque qualsiasi cittadino comunitario con residenza nel Regno Unito per almeno cinque anni avrebbe potuto stare tranquillo, e che avrebbe avuto il diritto di fare domanda per la residenza permanente.
Toni da Ukip per i Tories I toni nazionalisti e agguerriti che hanno dominato il congresso dei Tories hanno sorpreso molti osservatori, e non solo quelli che ricordavano che la May aveva sostenuto la causa del Remain nella campagna referendaria (anche se tiepidamente).
Invece di calmare le acque e cercare una sintesi tra le varie correnti interessate ai negoziati per la Brexit, May avrebbe esplicitamente corteggiato i sostenitori dell’Ukip e legittimato le posizioni più dure sulle questioni del controllo delle frontiere, sulle leggi europee e sull’autorità del Parlamento di Londra.
Sul Financial Times, l’editorialista Robert Shrimsley ha fatto ricorso alla caricatura della ‘piccola Inghilterra’ nostalgica della vittoria nella Seconda guerra mondiale, che ha intravisto nelle parole degli attivisti al congresso.
Sul Guardian, John Harris ha deplorato tutta l’enfasi che avvolge i presunti interessi e desideri di questa ‘piccola Inghilterra’, ma ignora del tutto quello che pensano scozzesi, gallesi, e nord irlandesi, per non parlare dei milioni di immigrati stabili nel paese da decenni.
L’ex policy advisor di David Cameron, Steve Hilton, è arrivato a chiedere - usando una pesante ironia - perché non obbligare allora i lavoratori stranieri a portare un numero tatuato sul braccio. Non pochi hanno visto l’ombra di precedenti molto sinistri in questo approssimarsi del governo a punti di vista fin qui di proprietà esclusiva dell’Ukip di Nigel Farage.
Un discorso di classe All’inizio del congresso del suo partito, May ha implorato i delegati a non lasciarsi abbagliare totalmente dalla questione Brexit. A giudicare dai resoconti dei lavori offerti dai media, questo suo desiderio non è stato minimamente rispettato. In realtà, il discorso fatto da May andava ben oltre l’orizzonte dell’uscita di Londra dall’Ue, e - echeggiando le parole già pronunciate al suo insediamento - toccava una serie di temi sociali e filosofici di grande interesse, almeno potenzialmente.
Per la prima volta in decenni, poi, un esplicito discorso di classe è stato pronunciato, per indicare che chi parlava riconosceva i disagi della classe operaia davanti alle dinamiche della globalizzazione e del cambiamento tecnologico, e tutte le forme di disuguaglianza che essi avevano prodotto.
Altrettanto originali le sue parole sui meccanismi di mercato che funzionano male, sugli sperperi e sull’avidità di certe classi di capitalisti, e sulla necessità di uno Stato forte per correggere queste contraddizioni nel paese.
Se da una parte non ha espresso una sola parola di critica all’indirizzo dei governi di cui lei stessa ha fatto parte, né tanto meno di autocritica, dall’altra la May ha però lasciato intendere che è finita l’epoca dell’austerità.
Nessuna concorrenza a sinistra Vista la sofferenza inflitta in tutti gli anni dei governi Cameron ad ogni angolo del settore pubblico, questa radicale svolta della May avrebbe meritato più di un commento da parte degli osservatori di professione. Così non è stato, se non per qualcuno che vi ha visto un opportunistico tentativo di attirare quegli elettori laburisti non convinti dalla leadership di Jeremy Corbyn.
Vedremo negli anni a venire se le tante belle parole sulla giustizia sociale pronunciate in quest’occasione saranno trasformate in interventi decisivi a favore dell’edilizia pubblica, per esempio, o nel rilancio del sistema sanitario.
Un piccolo pronunciamento della May a favore della ricostituzione delle grammar school, una vecchia forma di liceo basato sulla selezione dei suoi allievi tramite esame, all’età di undici anni, non promette bene, poiché condanna quelli non selezionati ad una forma di scuola decisamente inferiore.
Comunque, tutte le indicazioni suggeriscono che la May avrà tutto il tempo che vuole per sperimentare le sue idee: e potrà tranquillamente dimenticarsi dell’opposizione laburista, almeno fino alle elezioni programmate per il 2020.
David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.
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