Gran Bretagna dopo il voto … il Continente è isolato Riccardo Perissich 14/05/2015 |
C’è un parallelo fra Brexit e Grexit. I due fenomeni hanno parecchi punti in comune. Nessuno desidera che avvengano; e tutti concordano che gli effetti sarebbero negativi per tutte le parti in causa, ma peggiori per chi esce che per chi resta.
C’è anche un altro punto in comune, di cui si parla molto nel caso greco ma poco per quello britannico: il pericolo di contagio ed è questo che, come nel caso greco, influenzerà la posizione negoziale degli altri stati membri.
Brexit e Grexit, le analogie fino al contagio
Anche se le ragioni non sono le stesse, molti paesi del Continente sono sottoposti a un’ondata di populismo antieuropeo che si nutre di un diffuso rigetto dell’opinione pubblica.
Certo, le motivazioni dei vari populismi sono molto diverse e nella disaffezione popolare si mescola irritazione sia per ciò che l’Europa fa, sia per ciò che dovrebbe fare e non fa. Tuttavia il fenomeno è diffuso e in alcuni casi costituisce una seria minaccia per i partiti moderati di destra e di sinistra.
Quali sono i paesi più vulnerabili? In primo luogo l’Olanda, tradizionalmente molto vicina a Londra e da qualche anno passata da essere alfiere del federalismo a un europeismo molto tiepido; membro fondatore dell’Unione, quello olandese non è un caso che si può trattare con leggerezza.
Poi i paesi scandinavi, tradizionalmente reticenti a impegnarsi per più integrazione, ma abituati a un comportamento pragmatico verso l’Europa: saranno utili mediatori, ma non seguiranno le sirene britanniche. Inoltre i paesi dell’est. Molti di loro sono sensibili a sirene populiste e nazionaliste; il caso dell’Ungheria è emblematico e le recenti elezioni polacche hanno dato un segnale negativo.
Tuttavia molti motivi dell’euroscetticismo post comunista sono incompatibili con quelli di Cameron che ha fatto del controllo dell’immigrazione, anche europea, uno dei suoi cavalli di battaglia.
Chi gioca con (o contro) Cameron
Restano i paesi più importanti: Spagna, Italia, Francia e Germania. Con l’incognita delle elezioni previste per fine anno, la situazione spagnola dovrebbe essere sotto controllo. A maggior ragione ciò vale per l’Italia, dove Renzi non ha per il momento rivali. Diversa è la situazione francese.
Anche se per ora improbabile, lo spettro di una vittoria di Marine Le Pen non può essere del tutto escluso; ancora più preoccupante è una contaminazione della destra, probabile vincitrice alle prossime elezioni.
Il pericolo non è tanto che altri Paesi si accodino alle richieste britanniche, ma piuttosto che ne traggano pretesto per chiedere di smantellare altri pezzi d’integrazione aprendo così un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Su questa strada farebbero però il gioco dei populisti che ne trarrebbero pretesto per giocare al rialzo.
Al centro di tutto questo c’è la Germania, con le sue rigidità, la sua Corte Costituzionale e i suoi ancora contenuti fermenti euroscettici. Ad essa spetterà il compito di definire la portata e i limiti del negoziato con la Gran Bretagna.
La sua politica europea è attualmente ancorata ai tre obiettivi della continuità, del rafforzamento dell’eurozona e del mantenimento della coesione europea verso la Russia. È quindi probabile che Cameron troverà a Berlino quella sorridente intransigenza che sembra essere la principale qualità di Angela Merkel: la Cancelliera dovrà tenere conto di tutto il contesto, ma con un occhio particolare per la Francia, il suo insopportabile ma indispensabile alleato con cui tutto cominciò e con cui tutto potrebbe finire.
Il fattore calendario
Ciò avrà un’influenza importante sul calendario. Fra il 2017 e il 2018 ci saranno elezioni in Italia, Francia e Germania. Nessuno vorrà affrontare quelle scadenze con l’incombente minaccia di un referendum britannico; la richiesta di accelerazione sarà quindi accolta con favore.
È comunque poco probabile che il problema britannico diventi il detonatore della dissoluzione dell’Ue: se vorremo arrivare a quel risultato, lo faremo per ragioni nostre e non per stimoli esterni.
Cameron, come Tzipras, scoprirà quindi che proprio la fragilità politica di molti governi europei trasformerà i potenziali alleati in difensori dell’esistente. Come in tutte le vicende umane, è sempre possibile che stupidità ed errori di calcolo conducano alla catastrofe, ma è più probabile che si trovi un compromesso ragionevole.
Secondo i piani, alla fine ci sarà un referendum. Gli europei chiederanno sicuramente a Cameron di impegnarsi a difendere il risultato del negoziato di fronte al popolo britannico. Se così sarà, sulla carta il successo dovrebbe essere garantito.
Tuttavia i referendum sono animali feroci: presentati come scelte strategiche, sono in realtà condizionati da emozioni e situazioni contingenti come la popolarità del governo e, nel caso britannico, dall’evoluzione della situazione scozzese. Cameron non potrà garantire l’unità del suo partito nella campagna.
Non mancano precedenti di referendum che hanno prodotto risultati opposti alle intenzioni dei loro promotori. Emblematici i due esempi francesi; i partiti erano in teoria uniti ma divisi nella realtà; Mitterrand vinse per un soffio il referendum su Maastricht e Chirac perse rovinosamente quello sulla Costituzione.
Nel caso britannico, il confronto fra i due schieramenti è asimmetrico. Gli euroscettici sanno esattamente cosa vogliono e lo teorizzano. I cosiddetti europeisti si limitano a sostenere che restare è meno costoso che uscire, ma non hanno alcuna visione dell’Europa che vorrebbero; in realtà si accontentano di restare ai margini.
Sorprende l’affermazione di alcuni filo-europei secondo cui il referendum sarà utile per decidere la questione “una volta per tutte”. Sarà certamente così se prevarranno i no. Una vittoria dei sì sarà invece solo un altro episodio nella interminabile saga dell’appartenenza del paese all’Europa.
È questa una ragione per auspicare la vittoria del no? La risposta deve essere negativa. In quarant’anni la Gran Bretagna ha largamente dissipato l’immenso capitale di simpatia che aveva accompagnato la sua adesione. Tuttavia, come nel caso della Grecia, auspicheremo il male minore: il trauma della separazione sarebbe superiore al costo di un’eterna ambiguità. Abbiamo grane più urgenti di cui occuparci.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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Brexit e Grexit, le analogie fino al contagio
Anche se le ragioni non sono le stesse, molti paesi del Continente sono sottoposti a un’ondata di populismo antieuropeo che si nutre di un diffuso rigetto dell’opinione pubblica.
Certo, le motivazioni dei vari populismi sono molto diverse e nella disaffezione popolare si mescola irritazione sia per ciò che l’Europa fa, sia per ciò che dovrebbe fare e non fa. Tuttavia il fenomeno è diffuso e in alcuni casi costituisce una seria minaccia per i partiti moderati di destra e di sinistra.
Quali sono i paesi più vulnerabili? In primo luogo l’Olanda, tradizionalmente molto vicina a Londra e da qualche anno passata da essere alfiere del federalismo a un europeismo molto tiepido; membro fondatore dell’Unione, quello olandese non è un caso che si può trattare con leggerezza.
Poi i paesi scandinavi, tradizionalmente reticenti a impegnarsi per più integrazione, ma abituati a un comportamento pragmatico verso l’Europa: saranno utili mediatori, ma non seguiranno le sirene britanniche. Inoltre i paesi dell’est. Molti di loro sono sensibili a sirene populiste e nazionaliste; il caso dell’Ungheria è emblematico e le recenti elezioni polacche hanno dato un segnale negativo.
Tuttavia molti motivi dell’euroscetticismo post comunista sono incompatibili con quelli di Cameron che ha fatto del controllo dell’immigrazione, anche europea, uno dei suoi cavalli di battaglia.
Chi gioca con (o contro) Cameron
Restano i paesi più importanti: Spagna, Italia, Francia e Germania. Con l’incognita delle elezioni previste per fine anno, la situazione spagnola dovrebbe essere sotto controllo. A maggior ragione ciò vale per l’Italia, dove Renzi non ha per il momento rivali. Diversa è la situazione francese.
Anche se per ora improbabile, lo spettro di una vittoria di Marine Le Pen non può essere del tutto escluso; ancora più preoccupante è una contaminazione della destra, probabile vincitrice alle prossime elezioni.
Il pericolo non è tanto che altri Paesi si accodino alle richieste britanniche, ma piuttosto che ne traggano pretesto per chiedere di smantellare altri pezzi d’integrazione aprendo così un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Su questa strada farebbero però il gioco dei populisti che ne trarrebbero pretesto per giocare al rialzo.
Al centro di tutto questo c’è la Germania, con le sue rigidità, la sua Corte Costituzionale e i suoi ancora contenuti fermenti euroscettici. Ad essa spetterà il compito di definire la portata e i limiti del negoziato con la Gran Bretagna.
La sua politica europea è attualmente ancorata ai tre obiettivi della continuità, del rafforzamento dell’eurozona e del mantenimento della coesione europea verso la Russia. È quindi probabile che Cameron troverà a Berlino quella sorridente intransigenza che sembra essere la principale qualità di Angela Merkel: la Cancelliera dovrà tenere conto di tutto il contesto, ma con un occhio particolare per la Francia, il suo insopportabile ma indispensabile alleato con cui tutto cominciò e con cui tutto potrebbe finire.
Il fattore calendario
Ciò avrà un’influenza importante sul calendario. Fra il 2017 e il 2018 ci saranno elezioni in Italia, Francia e Germania. Nessuno vorrà affrontare quelle scadenze con l’incombente minaccia di un referendum britannico; la richiesta di accelerazione sarà quindi accolta con favore.
È comunque poco probabile che il problema britannico diventi il detonatore della dissoluzione dell’Ue: se vorremo arrivare a quel risultato, lo faremo per ragioni nostre e non per stimoli esterni.
Cameron, come Tzipras, scoprirà quindi che proprio la fragilità politica di molti governi europei trasformerà i potenziali alleati in difensori dell’esistente. Come in tutte le vicende umane, è sempre possibile che stupidità ed errori di calcolo conducano alla catastrofe, ma è più probabile che si trovi un compromesso ragionevole.
Secondo i piani, alla fine ci sarà un referendum. Gli europei chiederanno sicuramente a Cameron di impegnarsi a difendere il risultato del negoziato di fronte al popolo britannico. Se così sarà, sulla carta il successo dovrebbe essere garantito.
Tuttavia i referendum sono animali feroci: presentati come scelte strategiche, sono in realtà condizionati da emozioni e situazioni contingenti come la popolarità del governo e, nel caso britannico, dall’evoluzione della situazione scozzese. Cameron non potrà garantire l’unità del suo partito nella campagna.
Non mancano precedenti di referendum che hanno prodotto risultati opposti alle intenzioni dei loro promotori. Emblematici i due esempi francesi; i partiti erano in teoria uniti ma divisi nella realtà; Mitterrand vinse per un soffio il referendum su Maastricht e Chirac perse rovinosamente quello sulla Costituzione.
Nel caso britannico, il confronto fra i due schieramenti è asimmetrico. Gli euroscettici sanno esattamente cosa vogliono e lo teorizzano. I cosiddetti europeisti si limitano a sostenere che restare è meno costoso che uscire, ma non hanno alcuna visione dell’Europa che vorrebbero; in realtà si accontentano di restare ai margini.
Sorprende l’affermazione di alcuni filo-europei secondo cui il referendum sarà utile per decidere la questione “una volta per tutte”. Sarà certamente così se prevarranno i no. Una vittoria dei sì sarà invece solo un altro episodio nella interminabile saga dell’appartenenza del paese all’Europa.
È questa una ragione per auspicare la vittoria del no? La risposta deve essere negativa. In quarant’anni la Gran Bretagna ha largamente dissipato l’immenso capitale di simpatia che aveva accompagnato la sua adesione. Tuttavia, come nel caso della Grecia, auspicheremo il male minore: il trauma della separazione sarebbe superiore al costo di un’eterna ambiguità. Abbiamo grane più urgenti di cui occuparci.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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