LA DISSOLUZIONE DELLA URSS E LA COMUNITA’ DEGLI STATI INDIPENDENTI
Stefano Silvestri
Due elementi sono stati peculiari del periodo storico apertosi nel 1945: il sistema internazionale fondato sul bipolarismo e la guerra fredda e lo sviluppo economico realizzato fino al 1970 dai sistemi del capitalismo e del socialismo.
Le loro storie sono corse a lungo parallele, fino a che è resistita l’autarchia voluta dall’URSS con il rifiuto di entrare nel sistema di “Bretton Woods” .
La convergenza cominciò al principio degli anni settanta, quando con la distensione l’Unione Sovietica dovette aprirsi alle relazioni economiche con il mondo capitalista. Nel corso degli anni settanta-ottanta, però, l’URSS non riuscì a compiere il cruciale passaggio alla terza rivoluzione industriale, ma dovette fare i conti con la globalizzazione e la sua sola potenza militare si rivelò una carta di basso valore. Finiva un epoca storica dei rapporti fra sistema internazionale sviluppo economico, segnata da sostanziale stabilità.
L’epoca successiva è quella del capitalismo globale e della rivoluzione telematica, con il multipolarismo economico (Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, India) e l’unipolarismo politico-militare degli USA tentati dalla carta unilaterale, ma in difficoltà nel governare un mondo reso fortemente instabile dal moltiplicarsi dei conflitti locali e dal terrorismo.
a. La crisi e la dissoluzione dell’URSS
Tra il 19 e il 21 agosto 1991 venne intrapreso a Mosca un tentativo di colpo di stato. Sono stati giorni cruciali per la fine dell’URSS. Molti forse pensarono che in tre giorni si potessero gettare le basi di una democrazia in un paese che tali basi non ne ha mai avute storicamente.
Eppure quei tre giorni, con Gorbaciov imprigionato nella sua dacia in Crimea e i carri armati per le strade di Mosca, furono l’alba abortita della democrazia russa ed il tramonto dell’esperienza sovietica.
Gorbaciov sostiene da anni che, se non fosse stato per il famigerato Comitato per lo Stato di Emergenza e suoi carri armati, le sue riforme avrebbero prodotto gli effetti sperati e, forse, la storia dell’URSS sarebbe potuta essere diversa. D’altronde oltre il 70% dei cittadini sovietici, interpellati nel referendum del 17 marzo 1991 aveva espresso il proprio sostegno ad una rinnovata Unione Sovietica.
In quei giorni sembrava imminente la firma di un nuovo patto federativo fra le Repubbliche Sovietiche che, nelle intenzioni di Gorbaciov, sarebbe dovuto diventare il trampolino per il nuovo futuro del paese più grande del mondo, finito invece in tragica macchietta: generali ubriachi a cui tremavano le mani durante la conferenza stampa, carri armati con musiche di pace, proclami di Eltsin, ordini di manette per tutti, generali galantuomini che si sparavano. Nel contempo, c’era tanta, tanta gente per le strade a difendere qualcosa che non aveva ben chiara in mente, pronta a morire per un ideale fumoso e confuso, ma con un idea apparentemente chiara in testa: indietro non si torna.
Le vicende del “golpe” e del “controgolpe” hanno d’altronde dimostrato come gli organi esecutivi del potere, tutti in mano ai cospiratori, non rispondessero più ai loro ordini, automaticamente e disciplinarmente come un tempo, e come, avendo rinunciato perciò ad utilizzarli per reprimere l’opposizione, sia stato facilissimo per il “controgolpe” demolire completamente gli organi di comando (Partito, KGB, Stati Maggiori e Governo) senza quasi reazione; di conseguenza tutte le Repubbliche dello Stato multinazionale sovietico hanno dichiarato immediatamente la loro indipendenza, sostituendosi al potere centrale ormai inesistente.
Il processo storico che ha condotto a tale esito si è svolto nel contesto di una sfida globale tra due mondi, o “imperi”, nella quale ha avuto un ruolo fondamentale la crisi di stagnazione dell’economia, dei valori, dello sviluppo sociale e della politica estera del blocco Orientale, compromettendone, di fatto per sempre, il futuro.
In sostanza, la rapida dissoluzione dello Stato multinazionale sovietico e del suo “Impero del Male” , verificatasi praticamente senza spargimento di sangue, ha avuto fattori lontani e profondi nonché cause prossime contingenti.
Con la facile “scienza del poi” si può affermare che negli anni di Brezniev si sono via via accumulati i presupposti della crisi della società comunista, cioè si è assistito alla lenta maturazione di una crisi potenziale.
In essa non c’era più uno Stato al servizio della società ma, al contrario, una società divenuta il materiale e il campo per l’attività dello Stato, il mezzo per soddisfarne ambizioni ed esigenze. Tutti gli aspetti della vita sociale erano ricaduti sotto la sua attenzione, compresi l’ideologia, la politica, l’economia, la cultura e lo sport; cioè tutto ciò che poteva avere importanza per la vita delle persone e per la società nel suo complesso.
Nel sistema brezneviano l’apparato del Partito assunse un superpotere nello Stato sopra delineato, con metodi di gestione conservatori e burocratici. L’ingranaggio era mastodontico e non poté che rivelare agli occhi di milioni di sovietici il suo scandaloso distacco dalla realtà, avviando un inarrestabile declino morale e ideale della società .
Di rilevante importanza nel processo di spinta verso la deflagrazione della crisi dell’URSS è stato anche il prolungato periodo di “guerra fredda” in cui l’economia di sussistenza dell’Unione Sovietica ha sostenuto spese superiori alle sue reali capacità, per assicurare al suo apparato militare le risorse necessarie per cercare di mantenere il passo con lo sviluppo degli armamenti attuato dall’Occidente e dagli USA in particolare (Scudo Stellare), in prospettiva di una possibile futura guerra contro l’Occidente stesso che Lenin aveva dichiarato “inevitabile”.
In tale contesto si inquadrano anche gli oneri di circa nove anni di guerra in Afghanistan che avevano visto, altresì, diffondersi largamente nell’URSS il risentimento nazionale per la perdita di vite sovietiche in una guerra straniera dagli incerti obiettivi e di grande costo materiale. Le truppe sovietiche completarono il loro ritiro il 15 febbraio 1989, ma l’URSS continuò a sostenere il regime fantoccio di Najibullah, insediato a Kabul, con cospicui aiuti economici e militari fino alla fine del 1991.
Si può quindi affermare che il sistema sovietico è invecchiato fino alla decrepitezza e non è stato capace di rinnovarsi, come anche la stessa società sovietica richiedeva, tanto da morire rapidamente per esaurimento prima che Gorbaciov, almeno nelle intenzioni, riuscisse a rianimarlo.
L’ascesa al potere di Gorbaciov rappresentò, in qualche modo, un cambio di generazione e diede un nuovo impulso alle riforme che erano sostanzialmente entrate in stallo nel periodo 1964 – 1982. Tuttavia, paradossalmente causa contingente del crollo subitaneo dello Stato Sovietico e dell’Impero è stata proprio il tentativo gorbacioviano di salvare il sistema politico e l’economia al collasso per mezzo di due principi:
• Perestrojka , quale processo di ristrutturazione della gestione del potere e dell’amministrazione dello Stato, a partire dal 1986, al fine di dare vita ad un nuovo sistema economico più efficiente e redditizio, basato sul decentramento, sull’iniziativa degli enti locali periferici e su quella privata;
• Glasnost , entrata nel linguaggio politico dal 1987, con riferimento alla necessità di rendere pubblici, trasparenti, gli atti del Governo e del Partito; diventata poi sinonimo di libertà di stampa, di parola, ecc.. Strumento per cambiare la mentalità della gente, coinvolgerla e renderla partecipe del processo generale di rinnovamento del Paese.
Concedere autonomie ed alcune libertà e limitare poteri e possibilità di azione degli organi ed apparati che avevano tenuto fino ad allora sotto controllo centrale tutti i Paesi e le Istituzioni della galassia sovietica, impedire o frenare le forze di repressione, ha fatto cessare la paura, uno dei collanti del sistema, ha fatto emergere le opposizioni ed ha consentito il rinascere ed il riaffermarsi degli antichi sentimenti nazionali e degli antichi rancori e contrasti di interessi .
In definitiva, i programmi politici di Gorbaciov sono stati una sorta di trappola, in quanto ebbero effetti negativi sulla economia sovietica, che già soffriva di una forte inflazione nascosta e di una diffusa carenza di approvvigionamenti, e non hanno salvato il sistema comunista, anzi hanno aggravato ulteriormente la crisi già prima in atto.
Oggi la fine dell’Impero Russo, già zarista, già sovietico, ci appare come una formidabile cesura storica. Un dramma ancora in atto, che evoca scenari complessi e preoccupanti per il mondo e anzitutto per l’Europa.
b. La Comunità di Stati Indipendenti (CSI)
Dopo la disgregazione dell’URSS e la formazione di 15 repubbliche indipendenti, concretizzatesi tra febbraio e dicembre 1991, la sussistenza di un sistema economico integrato in piena crisi produttiva, costruito su un’interconnessione industriale, commerciale e finanziaria, favorì la costituzione fra 12 delle citate ex Repubbliche sovietiche della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Organismo interstatale, egemonizzato da Mosca, dalla natura, caratteristiche e strutture in costante evoluzione.
(1) Gli accordi precedenti allo Statuto del 1993.
L’Accordo di Minsk dell’8 dicembre 1991, sottoscritto dalle tre Repubbliche “slave” dell’ex URSS (Russia, Bielorussia e Ucraina) chiude un’epoca storica e ne apre una nuova. Infatti, sancisce la fine dell’Unione Sovietica come soggetto di diritto internazionale e da vita alla Comunità degli Stati Indipendenti .
L’Accordo è il risultato finale di un processo storico-politico iniziato nel 1989 con lo scopo, ufficialmente dichiarato dai protagonisti, di riformare il Trattato d’Unione del 1922 da cui era nata l’URSS. Il negoziato durò circa due anni, messo in pericolo, ma non interrotto, dal “golpe” del 19 agosto 1991, caratterizzato dal continuo operare di forze centrifughe e da uno scontro tra la volontà dell’Unione Sovietica di salvare se stessa e l’inaccettabilità di tale disegno per le Repubbliche che nel frattempo si erano dichiarate sovrane. Tale scontro ebbe termine con la dissoluzione della struttura statale e politico-ideologica dell’URSS, il superamento dell’obiettivo di riforma del Trattato del 1922, l’abbandono del federalismo sovietico e l’adozione dell’Accordo di Minsk.
In sostanza, esso nasce dalla necessità di riordinare le relazioni economiche e soprattutto di suddividere le eredità sovietiche basandosi sul principio della convivenza pacifica e secondo le esigenze di “sovranità economica”, oltre che “politica”, dei nuovi Stati indipendenti.
La CSI in versione “slava” si era impegnata a promuovere riforme economiche coordinate, a costruire rapporti economici e contabilità sulla base di una moneta unica, il rublo, a controllare emissione e massa monetaria, a concordare la riduzione dei rispettivi deficit, a fissare un sistema unico per i pagamenti e a realizzare comuni politiche doganali, fiscali, dei prezzi, sociali approntando al più presto meccanismi per la realizzazione degli accordi interrepubblicani . Resteranno in gran parte intenzioni, anche dopo l’entrata in vigore nel 2005 di una zona di libero scambio ed unione economica fra gli stati membri dell’attuale CSI.
L’Accordo di Minsk fu accolto dalla maggior parte delle altre Repubbliche – esclusi i tre Stati Baltici e la Georgia – che dichiararono però di volervi aderire come membri fondatori originari. In particolare, l’Armenia mostrò da subito un sostanziale favore all’Accordo, non altrettanto può dirsi della prima reazione avuta dalle cinque Repubbliche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) indisposte per essere state escluse dal negoziato che aveva prodotto l’Accordo. Tuttavia, non potendo ignorare le conseguenze negative che avrebbe comportato la mancata partecipazione al processo di integrazione fra gli Stati dell’ex URSS e valutati gli aspetti positivi dell’Accordo, si allinearono a questo processo a condizione però che ciò avvenisse in qualità di membri fondatori originari e che fosse riconosciuta la loro integrità territoriale.
Il 21 dicembre 1991, in occasione del vertice di Alma-Ata (città kazaka), la CSI, avvalendosi della possibilità riconosciuta dall’Accordo di Minsk, accolse altre 8 Repubbliche (Azerbaijan, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldova, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan), la Georgia inviò soltanto propri osservatori. L’ingresso dei nuovi Stati fu sancito dalla sottoscrizione, anche da parte dei tre Stati contraenti l’iniziale Accordo di Minsk, di vari documenti che, tra l’altro, riaffermavano che con la nascita della CSI cessava di esistere l’URSS.
Gli Accordi di Minsk e Alma-Ata partono dalla presa di coscienza e dal riconoscimento dei fortissimi legami venutisi a creare fra i rispettivi popoli nel corso della storia, per dichiarare la convinzione che il rafforzamento delle relazioni di amicizia, buon vicinato e cooperazione corrisponde agli interessi fondamentali di ciascuna nazione. Gli stessi documenti però precisano che gli Stati membri della CSI intendono sviluppare i loro rapporti sulla base del rispetto reciproco, della propria sovranità statale, dell’uguaglianza e della non ingerenza negli affari interni altrui. Allo stesso modo gli Accordi prevedono che la CSI svolga le sue attività su base paritaria, tramite istituzioni comuni, ma nel contempo precisano che la Comunità non è uno Stato né una struttura sopranazionale.
Questa continua ambivalenza fra disponibilità a cooperare e rispetto della reciproca indipendenza, è la prova che l’obiettivo degli Stati membri della CSI era più quello di garantire una separazione pacifica ed una convivenza rispettosa della reciproca libertà d’azione appena conquistata, piuttosto che una sostanziale collaborazione; una sorta di sistema di coordinamento, insomma, da cui tutti avrebbero dovuto trarre utilità e convenienza.
L’istituzionalizzazione della CSI proseguì lentamente per l’opposizione dell’Ucraina, della Moldova e del Turkmenistan alla costituzione di nuovi organi di coordinamento, che temevano potessero condurre a limitazioni di sovranità. Tali stati si mostrarono interessati ad una cooperazione di tipo essenzialmente economico.
Per superare la situazione di stallo creata dallo scontro di opposte tendenze e rilanciare il processo di graduale rafforzamento della CSI, la ricerca della collaborazione per il mantenimento della pace e della sicurezza all’interno degli Stati membri apparve il modo migliore. Peraltro, già con la firma nel 1991 dell’Accordo di Alma-Ata erano stati attribuiti alla Russia sia il controllo sul deterrente nucleare ex sovietico di cui, in tal modo, si garantiva la sopravvivenza sia il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, già dell’URSS. In tale quadro, il 20 marzo 1992 a Kiev (capitale ucraina) ed il successivo mese di maggio a Tashkent (capitale uzbeka) vennero rispettivamente stipulati l’Accordo e i relativi Protocolli attuativi che istituivano un sistema di garanzia comune per prevenire o risolvere eventuali conflitti interni alla CSI, attraverso la costituzione e l’utilizzo di gruppi di osservatori militari e di forze di peace-keeping. I documenti furono sottoscritti da tutte le 10 Repubbliche che all’epoca aderivano alla CSI, con alcuni distinguo da parte dell’Ucraina e dell’Azerbaijan tese ad affermare la propria libertà decisionale anche in tale materia.
Già nell’estate 1992 Mosca, anche sulla base degli Accordi stipulati, mise in moto un minimo dialogo interstatale tentando di circoscrivere le diverse crisi (Transcaucasica, Asia Centrale e Moldova) impiegando inizialmente le forze ex-sovietiche ancora presenti in quei territori, successivamente affiancandogli contingenti di interposizione della CSI. L’istituzione di queste forze multilaterali non ha comunque significato il contestuale ritiro dai vari territori dei contingenti russi che, anzi, si sono andati trasformando in presenza militare federale stabile svolgendo anche una funzione residuale di peace-keeping (peace-enforcement, ove necessario) e di tutela delle popolazioni russe residenti in diverse Repubbliche ex-sovietiche, attraverso una serie di intese che la Russia ha progressivamente stipulato con questi membri della CSI che le hanno concesso l’uso di basi militari per le quali, in qualche caso, in anni recenti è stato avviato un processo di smantellamento tuttora in corso.
Questa particolare situazione ha di fatto istituito una sorta di droit de regard da parte della Russia nei confronti delle Repubbliche ex-sovietiche, nonostante le proteste nelle sedi internazionali ONU, OSCE e Consiglio d’Europa, che si sono viste limitare la loro capacità d’azione. Mosca ha consentito solo la presenza di missioni di osservazione e buoni uffici, ma ha sempre posto un fermissimo veto allo schieramento di forze militari internazionali extra CSI .
(2) Lo Statuto del 1993.
Il secondo e decisivo passo verso lo sviluppo della collaborazione interna alla CSI fu la decisione del Consiglio dei Capi di Stato della Comunità, presa al citato vertice di Tashkent del 15 maggio 1992, di conferire ai Ministri degli Affari Esteri e al Segretario il compito di elaborare il progetto di un nuovo Trattato. Il 22 gennaio 1993, durante il vertice di Minsk, venne firmato lo Statuto della CSI da 7 Stati (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan ed Uzbekistan), i quali approvarono anche una dichiarazione unitamente alla Moldova, alla Ucraina e al Turkmenistan in cui questi ultimi, che avevano preso parte solo alla discussione per la ratifica dello Statuto senza firmarlo, manifestavano fiducia sulle potenzialità della CSI riservandosi il diritto di sottoscrivere lo Statuto in data posteriore. L’Azerbaijan si era nel frattempo ritirato dalla Comunità.
Lo Statuto è stato successivamente ratificato anche dalla Moldova, dall’ Azerbaijan, che era rientrato nella Comunità, dall’Ucraina, dal Turkmenistan e in fine nel dicembre 1993 anche dalla Giorgia, in circostanze controverse a seguito di una guerra civile nella quale intervennero truppe russe. Del tutto estranee a questo processo sono invece sempre rimaste le tre Repubbliche Baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania).
Lo Statuto riafferma la natura volontaristica della CSI, che “non è uno Stato e non ha mandati sopranazionali” (Art. 1, par. 3), ed il principio di uguaglianza assoluta di tutti i membri, quali soggetti indipendenti e paritari di diritto internazionale. Le finalità della Comunità, oltre alla prevenzione o soluzione pacifica delle controversie e dei conflitti intestini, comprendono la collaborazione in campo politico, economico, giuridico, ecologico, umanitario, culturale e “in altri campi” (Art. 2). Quest’ultima disposizione di fatto lascia aperta la possibilità di cooperare per altre finalità che emergessero in futuro.
Artefici principali della collaborazione in tutte le suddette aree sono i due organi di vertice della CSI, il Consiglio dei Capi di Stato ed il Consiglio dei Capi di Governo . Il primo è l’organo direttivo della Comunità e svolge essenzialmente il ruolo politico di analizzare, decidere e/o risolvere le questioni di principio, mentre il secondo ricopre sostanzialmente il ruolo di coordinare l’operato dei vari esecutivi nazionali. Entrambe i Consigli adottano le decisioni con il metodo del consenso che consiste nel deliberare in assenza di qualsiasi obiezione che ostacoli la decisione stessa. Inoltre, lo Statuto prevede anche il principio della parte interessata che consente a qualunque Stato di dichiarasi disinteressato ad una questione senza che ciò ostacoli l’adozione della decisione i cui effetti non si estendono nei suoi confronti. Dalla combinazione delle due regole paradossalmente proprio gli Stati non interessati ad un problema possono, di fatto, esercitare un diritto di veto che di per se non sarebbe previsto. L’ambiguità di queste procedure incide negativamente sulle capacità della CSI di raggiungere obiettivi concreti, ammesso che questa sia la volontà di tutti i firmatari dello Statuto. Infatti, se da una parte si favorisce la stipula del maggior numero possibile di accordi tra gli Stati membri, dall’altra si tratta di accordi realisticamente difficili da realizzare e che potrebbero essere conclusi anche da due soli Stati membri pregiudicando il formarsi di una chiara ed univoca volontà della Comunità e finendo per ostacolare il suo stesso funzionamento.
Va altresì sottolineato che fra gli organi della CSI non esiste nessun tipo di collegamento, se non la possibilità di sottoporre ogni questione al Consiglio dei Capi di Stato che definisce in via esclusiva le norme procedurali per il funzionamento di ogni altro organo.
Nonostante la CSI abbia pochi poteri sopranazionali è comunque qualcosa di più che una organizzazione simbolica, in quanto ha un potere di coordinamento nel commercio, nelle finanze, nel campo legislativo e nella sicurezza. Tuttavia, ha vissuto e vive precariamente soprattutto per volontà di almeno qualcuno degli stessi Stati membri che teme di rientrare pesantemente sotto l’egemonia della Russia, la quale già occupa una posizione economica dominante nella CSI. Basti ricordare che le sue esportazioni verso i Paesi della Comunità sono costituite per circa il 70% da merci strategiche, quali materie prime e risorse energetiche, e la sua bilancia commerciale con gli stessi presenta negli anni 2003/2004 (ultime stime disponibili) un avanzo di circa 9 miliardi di dollari.
In sostanza, nonostante la struttura formalmente paritaria e le finalità istitutive, la CSI non è stata e non è né un foro consultivo né, tantomeno, un organismo decisionale costantemente capace di mediare i complessi e, tal volta, conflittuali rapporti tra la Russia e le Repubbliche ex-sovietiche, che più spesso si sono svolti in un sistema di relazioni bilaterali. Nonostante tutto, la capitale della CSI non è Minsk, come prevede lo Statuto, ma Mosca.
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