Non è più un dibattito politico: lo scontro tra le due parti sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione europea Ue, è diventato una battaglia senza esclusioni di colpi retorici, un confronto sempre più serrato che rischia di guastare il partito dei Tories per decenni a venire.
Dalla seconda guerra mondiale in poi non si ricorda una scelta nazionale così discussa e sofferta, nemmeno nell’ambito del referendum scozzese. Quello che colpisce in tutta questa tempesta politica è l’assenza di qualsiasi considerazione di certe contraddizioni di fondo che caratterizzano le posizioni di entrambi le parti in causa.
Dribling di Brown Il campo che sostiene la continuità del ruolo della Regno Unito nell’Unione - compreso il governo di David Cameron, evidentemente - non ha mai voluto spiegare come si riconcilia questa posizione con il fatto che i governi - di tutti i colori - che lo hanno preceduto, per 40 anni hanno frenato l’azione dell’Ue ogni qualvolta essa non corrispondeva alle loro preferenze o istinti nazionali, non hanno quasi mai contribuito alla sua evoluzione positiva, hanno sovente espresso il massimo dello scetticismo e del distacco.
Solo al Regno Unito sono state date una serie di garanzie, come quelle che non sarebbe mai stato obbligato ad aderirea all’euro né a partecipare a qualsiasi fondo di sostegno a un Paese della zona euro in difficoltà.
L’espressione più bizzarra di questo paradosso si trova nella figura di Gordon Brown, ex-Primo ministro ed euro-scettico lungo tutto il corso della sua pluri-decennale carriera politica. Oggi Brown insiste parlando di continuità senza fare il benché minimo riferimento al suo comportamento da Ministro del tesoro e poi capo del governo.
Era stato Brown a tenere il suo Paese lontano dall’euro e da qualsiasi cooperazione finanziaria europea; anche Brown ha aggiunto le sue richieste - soprattutto finanziarie - alla lunga lista di opt-outs di cui godono gli inglesi (più di ogni altra nazione dell’Ue). Brown ha inoltre firmato il Trattato di Lisbona con esplicita riluttanza e ha imposto come primo Alto Rappresentante per la Politica estera - una figura creata dal quel Trattato - Catherine Ashton, un personaggio privo di qualsiasi autorevolezza politica in casa e tantomeno all’estero.
Brown è solo il caso più ovvio di un comportamento che ha caratterizzato gran parte della classe politica nazionale nei confronti dell’Unione europea fin dall’inizio.
Avendo vinto tante battaglie in negativo, con o senza alleati - contro ogni forma di ‘idealismo’ europeo, contro l’unione politica, contro i principi sovranazionali, contro qualsiasi impostazione seria della politica estera e della difesa, a fovore dell’allargamento comunitario al fine di indebolire l’intera Ue - la classe di governo inglese che vuole rimanere nell’Ue non sente ora la necessità di suggerire un atteggiamento più costruttivo per favorire il rilancio del grande progetto in una fase particolarmente critica della sua esistenza.
Invece di sottolineare questa contraddizione, comunque, la parte pro-Brexit si è limitata a controbattere, appellandosi alla somma presunta dei costi-benefici a breve per la nazione, nel caso di un esito invece di un altro, e sulla possibilità (del tutto ipotetica) di ripristinare il controllo assoluto delle frontiere nazionali.
Brexiters Il paradosso di fondo che caratterizza la posizione dei pro-Brexit è semmai ancora più ingombrante, anche perché più semplice e evidente. Mentre mette il recupero della sovranità nazionale al vertice delle sue preoccupazioni - ‘riprendiamo in mano il controllo del nostro paese - assiste inerme alla lunga mano straniera nel mondo manageriale e della finanza.
Muti sui problemi posti a tutti dalla globalizzazione, i Brexiters non esprimono alcun dubbio mentre porzioni significative delle industrie del gas, dell’acqua, dell’elettricità, delle ferrovie, delle telecomunicazioni, degli aeroporti finiscono in mano agli stranieri, commentando al massimo che è così che funzionano i mercati liberi. Incapaci di costruire da soli una centrale nucleare, il governo inglese ha affidato il progetto ad una combinazione di interessi statali francesi e cinesi.
Interessi stranieri nel Regno Unito Mentre scriviamo, l’azienda finanziaria australiana proprietaria del sistema idrico londinese ha annunciato che metterà sul mercato alcuni pacchetti delle sue azioni (altri azionisti comprendono fondi di Abu Dhabi e Cina).
Intanto dilaga la crisi dell’acciaio scatenata dalla sovrapproduzione cinese e si scopre che quello che resta delle acciaierie britanniche è in mano ad interessi thailandesi e indiani.
La fiorente industria automobilistica inglese è interamente in mano ad aziende Usa, indiane, giapponesi ed europee. Le ferrovie scozzesi sono di proprietà del sistema nazionale olandese.Tra le risorse pubbliche non ancora vendute a qualche interesse straniero figurano per ora i camion dei pompieri londinesi: sono stati acquistati da unprivate equity inglese per £2 nel 2012.
Il Regno Unito dovrebbe assumere la Presidenza del Consiglio dei ministri europei nel 2017. Se vince la Brexit potrà ancora pretendere quel diritto? Se vincerà invece il partito della permanenza, quale misure costruttive potrà proporre per giustificare tanto rumore, mobilitazione e conflittualità ?
David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.
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