Regno Unito e Europa Brexit or not Brexit, questo il dilemma David Ellwood 05/02/2014 |
Alta tensione nella coalizione di governo inglese. A fare aumentare la febbre tra conservatori e liberali è la notizia della bocciatura, da parte della Camera dei Lords, del progetto di referendum sui rapporti della Gran Bretagna con l’Unione europea (Ue).
Se si aggiunge il peso del referendum sull’indipendenza della Scozia – che si tiene in settembre - si può capire che la scena politica inglese stia conoscendo una fase di grande movimento. Per una volta, le questioni principali non sono economiche e finanziarie, ma riguardano le basi costituzionali del Regno Unito, la sua integrità come stato, la sua identità nazionale e il suo ruolo nel mondo.
Europa sconvolgente
La bocciatura - il 31 dicembre - del progetto referendario può anche essere il risultato di imbarazzanti errori procedurali. Il primo ministro ha subito detto che andrà avanti lo stesso, ma la vicenda conferma fino a che punto la ‘questione europea’ riesce a sconvolgere l’azione di qualsiasi governo o partito inglese. Dopo anni di dibattiti, sussulti e tensioni con gli altri membri dell’Ue, la questione europea sta convergendo rapidamente verso un singolo quesito: la Gran Bretagna vuole o non vuole rimanere dentro le istituzioni dell’Unione?
Le elezioni europee del prossimo maggio si avvicinano e tutte le indicazioni prevedono un’affermazione senza precedenti del partito per l’indipendenza del regno Unito (United Kingdom Independence Party - Ukip). Nato pochi anni fa e considerato del tutto marginale ed eccentrico fino all’epoca di Cameron, l’Ukip è dato dai sondaggi al 25%, il doppio rispetto a un’elezione generale nazionale.
Ukip ha fatto della ‘Brexit’ - l’uscita dall’Unione - la sua ragion d’essere, ed è comunque riuscito a concentrare l’attenzione degli altri partiti - soprattutto quello conservatore - su questa questione come nessuna altra forza politica.
Davanti all’ascesa dell’Ukip - ma soprattutto davanti alle simpatie sempre più evidenti per la ‘Brexit’ tra le file degli elettori, dei deputati, dei giornali conservatori e dei finanziatori del partito Tory - Cameron ha fatto la sua mossa, promettendo il referendum da tenere entro il 2017. Per ora la manovra ha fallito e l’ascesa continua degli ‘euroscettici’ in tutte le loro forme rischia di costare a Cameron le elezioni del 2015.
Unionisti vs separatisti
Cominciano le grandi manovre. I capi di Ford, Unilever e Vodafone in Gran Bretagna si sono espressi per la continuità della Gb dentro l’Unione, come hanno fatto governi come quelli australiani e giapponesi, e naturalmente quello degli Stati Uniti.
Ogni governo americano dall’epoca del Piano Marshall in poi ha tentato di convincere - senza alcun successo - gli inglesi che non hanno alternative al di fuori del progetto europeo. Sin da quando si iniziava a parlare di integrazione, i governi inglesi hanno fatto capire che ‘non se lo sentivano nelle loro ossa’, come ebbe a dire l’ex-ministro degli esteri Anthony Eden nel 1949, ed è tutt’ora l’istinto che sembra prevalere in tanti esponenti della classe politica e nel mondo dei media.
Per loro, il progetto non sarà mai altro che un sistema di libero commercio. È per questo che i 95 deputati conservatori che hanno scritto ultimamente a Cameron chiedendo un radicale ri-negoziato della posizione inglese puntano sull’eliminazione di qualsiasi obbligo in materia di welfare e giustizia, l’uscita dalla Carta europea dei diritti umani, radicali limiti sui movimenti dei lavoratori dentro l’Unione e, soprattutto, un veto parlamentare sull’applicazione delle leggi Ue in Gran Bretagna.
Tanti inglesi ‘euroscettici’ parlano di re-negoziazione o addirittura di rifondazione dell’Unione. Più alzano i toni, più diminuiscono però le loro probabilità di trovare ascolto tra gli altri 27 membri, come ha confermato il presidente francese François Hollande nel suo più recente incontro con Cameron.
Nessuna cessione di potere
Quello che gli inglesi condividono con le due altre grandi potenze dell’Ue è il rifiuto assoluto di concedere a Bruxelles e Strasburgo un quoziente di potere maggiore rispetto a quello che loro immaginano di possedere come singole potenze nazionali.
L’inconsistenza britannica tra una disponibilità di vendere qualsiasi struttura, servizio o azienda nazionale allo straniero nel nome del libero mercato, e un protezionismo militante sui fronti del mercato del lavoro, del welfare, della giustizia, dell’idea di sovranità nazionale, stride però a molti orecchi europei. Anche perché spesso è accompagnata dall’antica tendenza inglese a fare le prediche agli altri - e all’Ue nel suo insieme - sui loro difetti, presunti o reali.
Tesa tra un’America che non vuole sapere dei loro guai, e un’Europa che non le interessa, si può capire perché tanta cultura inglese si rivolga sempre di più a quel passato tanto glorioso che non delude mai.
David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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Se si aggiunge il peso del referendum sull’indipendenza della Scozia – che si tiene in settembre - si può capire che la scena politica inglese stia conoscendo una fase di grande movimento. Per una volta, le questioni principali non sono economiche e finanziarie, ma riguardano le basi costituzionali del Regno Unito, la sua integrità come stato, la sua identità nazionale e il suo ruolo nel mondo.
Europa sconvolgente
La bocciatura - il 31 dicembre - del progetto referendario può anche essere il risultato di imbarazzanti errori procedurali. Il primo ministro ha subito detto che andrà avanti lo stesso, ma la vicenda conferma fino a che punto la ‘questione europea’ riesce a sconvolgere l’azione di qualsiasi governo o partito inglese. Dopo anni di dibattiti, sussulti e tensioni con gli altri membri dell’Ue, la questione europea sta convergendo rapidamente verso un singolo quesito: la Gran Bretagna vuole o non vuole rimanere dentro le istituzioni dell’Unione?
Le elezioni europee del prossimo maggio si avvicinano e tutte le indicazioni prevedono un’affermazione senza precedenti del partito per l’indipendenza del regno Unito (United Kingdom Independence Party - Ukip). Nato pochi anni fa e considerato del tutto marginale ed eccentrico fino all’epoca di Cameron, l’Ukip è dato dai sondaggi al 25%, il doppio rispetto a un’elezione generale nazionale.
Ukip ha fatto della ‘Brexit’ - l’uscita dall’Unione - la sua ragion d’essere, ed è comunque riuscito a concentrare l’attenzione degli altri partiti - soprattutto quello conservatore - su questa questione come nessuna altra forza politica.
Davanti all’ascesa dell’Ukip - ma soprattutto davanti alle simpatie sempre più evidenti per la ‘Brexit’ tra le file degli elettori, dei deputati, dei giornali conservatori e dei finanziatori del partito Tory - Cameron ha fatto la sua mossa, promettendo il referendum da tenere entro il 2017. Per ora la manovra ha fallito e l’ascesa continua degli ‘euroscettici’ in tutte le loro forme rischia di costare a Cameron le elezioni del 2015.
Unionisti vs separatisti
Cominciano le grandi manovre. I capi di Ford, Unilever e Vodafone in Gran Bretagna si sono espressi per la continuità della Gb dentro l’Unione, come hanno fatto governi come quelli australiani e giapponesi, e naturalmente quello degli Stati Uniti.
Ogni governo americano dall’epoca del Piano Marshall in poi ha tentato di convincere - senza alcun successo - gli inglesi che non hanno alternative al di fuori del progetto europeo. Sin da quando si iniziava a parlare di integrazione, i governi inglesi hanno fatto capire che ‘non se lo sentivano nelle loro ossa’, come ebbe a dire l’ex-ministro degli esteri Anthony Eden nel 1949, ed è tutt’ora l’istinto che sembra prevalere in tanti esponenti della classe politica e nel mondo dei media.
Per loro, il progetto non sarà mai altro che un sistema di libero commercio. È per questo che i 95 deputati conservatori che hanno scritto ultimamente a Cameron chiedendo un radicale ri-negoziato della posizione inglese puntano sull’eliminazione di qualsiasi obbligo in materia di welfare e giustizia, l’uscita dalla Carta europea dei diritti umani, radicali limiti sui movimenti dei lavoratori dentro l’Unione e, soprattutto, un veto parlamentare sull’applicazione delle leggi Ue in Gran Bretagna.
Tanti inglesi ‘euroscettici’ parlano di re-negoziazione o addirittura di rifondazione dell’Unione. Più alzano i toni, più diminuiscono però le loro probabilità di trovare ascolto tra gli altri 27 membri, come ha confermato il presidente francese François Hollande nel suo più recente incontro con Cameron.
Nessuna cessione di potere
Quello che gli inglesi condividono con le due altre grandi potenze dell’Ue è il rifiuto assoluto di concedere a Bruxelles e Strasburgo un quoziente di potere maggiore rispetto a quello che loro immaginano di possedere come singole potenze nazionali.
L’inconsistenza britannica tra una disponibilità di vendere qualsiasi struttura, servizio o azienda nazionale allo straniero nel nome del libero mercato, e un protezionismo militante sui fronti del mercato del lavoro, del welfare, della giustizia, dell’idea di sovranità nazionale, stride però a molti orecchi europei. Anche perché spesso è accompagnata dall’antica tendenza inglese a fare le prediche agli altri - e all’Ue nel suo insieme - sui loro difetti, presunti o reali.
Tesa tra un’America che non vuole sapere dei loro guai, e un’Europa che non le interessa, si può capire perché tanta cultura inglese si rivolga sempre di più a quel passato tanto glorioso che non delude mai.
David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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