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Le previsioni sull’entità degli effetti economici e politici che la Brexit provocherà continuano a rimanere incerte. L’unico facile pronostico riguarda il tenore dell’addio, che si prospetta lungo e complesso per ragioni procedurali e convenienze politiche. Iniziamo da queste ultime.
Alla Gran Bretagna la prima mossa Il referendum tenutosi lo scorso 23 giugno aveva valore consultivo, ovvero di semplice indirizzo politico. Ciò significa che la decisione di recedere dall’Unione deve essere formalmente sancita da un voto del parlamento del Regno Unito, a cui è ipotizzabile che seguiranno le pronunce di sostanziale conferma/opposizione dei singoli parlamenti nazionali (scozzese, nord-irlandese e gallese). In teoria, Westminster potrebbe anche rinviare sine die il voto, di fatto non accogliendo il suggerimento dato dai cittadini britannici; tuttavia, in un clima saturo di antipolitica, tale opzione appare non sostenibile. La neo-premier britannica Theresa May ha però bisogno di tempo. Tempo per ricucire le fratture interne ai conservatori emerse durante la campagna referendaria. Tempo per preparare il voto parlamentare senza il rischio di alimentare spinte secessioniste mai sopite. Tempo per predisporre al meglio la strategia e il terreno diplomatico sul quale dare il via agli incontri (scontri) negoziali che definiranno il futuro quadro delle relazioni tra l’Ue ed il Regno Unito. Ed è su questo punto che gli interessi politici s’intersecano con le questioni procedurali. La prima mossa tocca a Londra, da cui si attende la richiesta di avviare la procedura di recesso prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (Tue). Tale clausola fu pensata ai tempi della Costituzione europea per tranquillizzare l’opinione pubblica di Sua Maestà sui possibili rischi di un’Unione troppo stretta che sfociasse nella federazione. Ma le cose sono andate diversamente, e la procedura potrebbe oggi ritorcersi contro gli inglesi. Come svelato da Valéry Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, l’art. 50 venne formulato con l’idea di non dover essere mai utilizzato. Affermazioni che evidenziano il fine più politico che giuridico che ispirò la sua scrittura, e che testimoniano la comune pratica di sacrificare sull’altare del compromesso politico una più chiara e coerente scrittura delle norme europee. Tempi biblici L’articolo prevede che, dopo la notifica da parte dello Stato uscente, il Consiglio europeo detti gli orientamenti negoziali e scelga il negoziatore dell’Ue, che avrà due anni di tempo per giungere ad un accordo di recesso con la controparte. Accordo che, per entrare in vigore, dovrà essere approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo stesso. Immaginando le centinaia di capitoli negoziali in discussione, nella ridefinizione dei rapporti fra Londra e l’Unione, due anni sono pochi. A voler tracciare un difficile parallelismo, basti ricordare che l’uscita della Groenlandia dalla Comunità europea nel 1982 ne richiese tre. In questa situazione, il governo inglese potrebbe ritrovarsi fuori dall’Ue senza un nuovo accordo che ne tuteli gli enormi interessi economici che ha nel continente. Il periodo di negoziazione può essere esteso, ma solo su decisione unanime del Consiglio europeo, che ha quindi il notevole vantaggio di poter dettare i tempi di una partita nella quale ha molto meno da perdere. Nel ritardare la richiesta ufficiale di recesso - le ultime indiscrezioni dicono che arriverà ad inizio 2017 - c’è anche il tentativo britannico di ridurre il più possibile il coinvolgimento della Commissione, rivelatasi fino ad oggi l’attore più intransigente e potenzialmente più ostico nell’offrire concessioni. Viste le materie in gioco e le competenze tecniche necessarie, ci sono pochi dubbi sul ruolo centrale nelle trattative che sarà tuttavia richiesto alla Commissione, che nell’attesa ha già dimostrato di essere pronta ad usare sia il bastone sia la carota. Difatti, se da un lato il suo presidente Jean-Claude Juncker ha scelto come capo negoziatore per l’Ue l’ex commissario europeo Michel Barnier, politico francese non troppo amato al di là della Manica per ragioni di carta d’identità e di curriculum, dall’altro ha nominato l’inglese Julian King come nuovo commissario alla Sicurezza. Una scelta che, dopo le dimissioni di Jonathan Hill, riporta all’interno del collegio dei commissari un britannico, e che lascia intravedere il possibile fulcro delle cooperazioni politiche che verranno tra l’Ue ed il Regno Unito. Alla premier May conviene perciò dilatare le tempistiche per ricercare all’interno del più confortevole metodo intergovernativo a porte chiuse del Consiglio europeo le migliori condizioni da cui far partire i round negoziali. A fare sponda all’attendismo britannico è anche subentrato il consueto conflitto interistituzionale tra il Consiglio europeo e la Commissione, la quale rivendica, con il sostegno del Parlamento, una maggior indipendenza d’azione rispetto all’interpretazione dell’art. 50 sopra-descritta e fatta propria dai governi. Questi ultimi, scegliendo come proprio capo negoziatore il diplomatico belga Didier Seeuws, non sembrano però volersi fare da parte tanto facilmente. Il futuro di eurodeputati e funzionari britannici I prossimi mesi vedranno così un Regno Unito in procinto di fare le valigie con pragmatica lentezza e con qualche “piccolo” imbarazzo da affrontare. Se la May ha assicurato di voler rinunciare alla presidenza di turno del Consiglio Ue prevista per la seconda metà del 2017, rimangono ancora incerte le modalità di partecipazione dei britannici - rappresentanti, funzionari statali seconded e giudici - all’interno delle istituzioni europee (secondo i Trattati, lo Stato recedente non può partecipare alle sole delibere e decisioni che lo riguardano). È probabile che si giungerà a una partecipazione di basso profilo che non irriti gli altri paesi e la Commissione, la quale, nel caso in cui la notifica di recesso tardasse troppo, ha fatto intendere di voler portare Londra davanti alla Corte di giustizia per violazione del principio di leale cooperazione (art. 4 Tue). Riguardo il destino dei 73 europarlamentari eletti nel Regno Unito, la durata del negoziato sembra suggerire una loro “dolce uscita” in coincidenza con la fine del mandato, anche se maggiori incognite rimangono sul loro coinvolgimento nei processi legislativi da qui al 2019. Discorso diverso per i tanti funzionari europei di nazionalità britannica che, non lavorando per il loro paese ma per l’Ue, rimarranno al loro posto semmai con minori possibilità di carriera e qualche battuta in più nei corridoi. Lorenzo Vai è ricercatore dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo. |
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