Neanche l’orrore degli 850 migranti annegati nel naufragio avvenuto nella notte il 18 aprile nel Canale di Sicilia è bastato a far cambiare passo all’Europa. Per l’ennesima volta, a dispetto delle dichiarazioni e delle attese, la montagna ha partorito un topolino.
Il Consiglio europeo straordinario convocato il 23 aprile su richiesta del Governo italiano, per lanciare un piano coordinato per fronteggiare l’intensificazione degli arrivi di migranti dal Sud del Mediterraneo, ha concordato misure limitate, non risolutive e soprattutto già vecchie. Altro che game-changing. La dichiarazione rilasciata dopo ore di confronto tra i capi di governo è tra i risultati più ordinari e prevedibili raggiunti in anni di dibattiti comunitari sull’immigrazione.
“Rafforzare la presenza europea in mare. Lottare contro i trafficanti nel rispetto del diritto internazionale. Prevenire i flussi migratori illegali. Rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne”. Un piano striminzito che ricalca senza fantasia quelli varati ciclicamente a partire dal 2005, anno in cui Frontex, l’agenzia per il controllo delle Frontiere esterne dell’Unione è diventata operativa. Che allora l’allerta fosse indirizzata ai flussi irregolari in partenza dall’Africa occidentale e diretti in Spagna conta poco. La sostanza resta la stessa.
Rafforzare il controllo delle frontiere esterne Oggi come allora, il vertice europeo straordinario dedicato all'emergenza immigrazione non è riuscito ad immaginare altro intervento che quello legato al rafforzamento dei mezzi per potenziare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione.
Tuttavia, se risorse aggiuntive per pattugliare le acque del Mediterraneo sono stati già assicurati da Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Croazia, Slovenia e Norvegia, manca, tra i 28, una visione comune sulle implicazioni umanitarie del rafforzamento delle operazioni Frontex, il cui mandato, ad oggi, resta invariato: non ‘ricerca e salvataggio’, ma mero pattugliamento delle frontiere esterne dell'Ue entro 30 miglia dalle coste.
Che la questione dei limiti territoriali del mandato continui a dividere l’Europa l’ha confermato anche la cancelliera tedesca Angela Merkel. “Sono stata io a sollevare la questione della portata di Triton e dell'area di intervento e ho notato che c’è una comprensione molto diversa di quello che Triton può fare tra i vari Stati membri. Saranno gli esperti e i legali a valutare”.
Dichiarazione che la dice lunga sia sulle tempistiche necessarie ad un eventuale cambio di mandato, sia sulla paura di molte cancellerie ad avviare un’operazione di search and rescue europea che potrebbe trasformarsi in un fattore di attrazione per nuovi flussi irregolari.
Punto chiave, quest’ultimo, visto che gran parte degli stati membri non ha alcuna intenzione di accogliere nuovi migranti. Cameron, il premier britannico ha chiarito che l’intervento britannico ci sarà, a patto “che le persone salvate siano portate nel Paese sicuro più vicino, probabilmente in Italia, e che non chiedano asilo nel Regno Unito”.
Posizione condivisa da un manipolo crescente di governi, sempre più orientati a gestire la questione flussi irregolari fuori da casa propria, agendo lì dove migranti irregolari partono e transitano. Misura che prevede, come già prospettato dal processo di Khartoum, il sostegno a paesi di transito come Tunisia, Egitto, Sudan, Mali e Niger per il monitoraggio e il controllo delle frontiere e delle rotte, e il dispiegamento di ufficiali di collegamento europei nei paesi chiave per raccogliere informazioni sui flussi migratori, garantendo un coordinamento con le autorità nazionali e locali.
Nessun riferimento a vie alternative e sicure Voci critiche ritengono che sarebbe questa la ragione dietro l’assenza di riferimenti al potenziamento delle vie alternative e sicure di accesso all’Europa. Misure esistenti e realizzabili, ha ribadito Christopher Hein del Consiglio Italiano Rifugiati, e che comprendono canali e visti umanitari, domande d’asilo da paesi terzi, un massivo programma di ricollocamento e re-insediamento.
Azioni, che ad oggi, restano bloccate dal malfunzionamento del sistema Dublino, rispetto alla cui ridefinizione anche il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker avrebbe voluto “un risultato più ambizioso”. Delusione comprensibile, considerato che le proposte del Consiglio per “rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne” hanno soltanto evidenziato la necessità di “aumentare gli aiuti d'urgenza agli Stati membri in prima linea, considerando opzioni per l'organizzazione di una ricollocazione di emergenza fra tutti gli Stati membri su base volontaria”. Ossia a discrezione degli stati membri.
Su questo fronte, la stessa proposta di istituire un primo progetto pilota volontario in materia di re-insediamento in tutta l’Ue, rappresenta un risultato magro e sottodimensionato: sarebbero soltanto 5.000 i posti disponibili per le persone ammissibili alla protezione. Un’offerta visibilmente sproporzionata rispetto al numero di migranti forzati che cercano salvezza in Europa: 2.800 quelli soccorsi soltanto in quest’ultimo fine settimana al largo delle coste italiane. Cifra, che secondo IOM, porta a15.000 le persone arrivate via mare in Italia nel 2015.
La priorità assoluta “salvare vite umane” e la sua negazione Se la priorità assoluta per l’avvio del Consiglio straordinario - per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, - era evitare altre morti in mare, le conclusioni raggiunte rischiano di produrre il risultato inverso anche rispetto alla più mediatizzata delle proposte in tavola: la lotta senza se e senza ma ai trafficanti di esseri umani. Una guerra dichiarata chiudendo gli occhi sull’aspetto sostanziale del fenomeno, ossia la scelta volontaria del migrante nell’affidarsi ai trafficanti per potere schivare le restrizioni frontaliere e cercare riparo in Europa.
Diversamente dalla tratta di esseri umani che esclude la consensualità tra trafficato e trafficante, lo smuggling, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, rappresenta l’effetto collaterale più evidente delle politiche migratorie restrittive varate nell’ultimo decennio. Per Zeid Ra’ad Al Hussein, commissario Onu per i Diritti umani, proprio “la mancanza di canali regolari, e il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dell’Unione, ha costretto i migranti a rivolgersi ai gruppi criminali di trafficanti che operano lungo le frontiere meridionali d’Europa”.
Temi che si intrecciano con i piani concreti che verranno varati per debellare la rete criminale dei trafficanti e che sollevano questioni anche sul secondo effetto collaterale del contrasto all’immigrazione irregolare: lo spostamento delle rotte irregolari in aree frontaliere meno presidiate come quella che dalla Grecia transita attraverso i Balcani, regione, per ora fuori dai radar di intervento dell’Unione, e che secondo Frontex, tra gennaio e marzo 2015 ha già registrato 32.421 ingressi irregolari a fronte dei 10.237 registrati nel Mediterraneo centrale.
Ciò che sarà lo si vedrà in due appuntamenti decisivi. Quello del 13 maggio quando Dimitris Avramopolous, il commissario Ue all’Immigrazione, presenterà il nuovo piano quinquennale per l’immigrazione. E quello del 25 Giugno, quando, in un Consiglio che si annuncia rovente, i 28 dovranno mettere nero su bianco la road-map per trasformare le chiacchiere in azione.
Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).
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