Come aveva chiesto l’Italia, si è finalmente riunito un Consiglio europeo straordinario sull’emergenza immigrati nel Mediterraneo. Puntualmente, la maggioranza dei media il cui peso è amplificato dalla voce della Chiesa grida al fallimento.
Che cos’è stato concluso a Bruxelles? In primo luogo di potenziare le operazioni comuni nel Mediterraneo con mezzi finanziari e navali adeguati e che potrebbero aumentare. Inoltre si lavorerà all’Onu e in altre sedi sulle misure più opportune per bloccare il traffico di esseri umani. Infine il problema della modifica delle disposizioni del regolamento di Dublino che attribuiscono al paese di primo ingresso l’esclusiva responsabilità dell’esame delle domande d’asilo è finalmente posto sul tappeto.
In sostanza, una decisione e due buone intenzioni: quanto basta per dichiarare fallimento? No, perché nemmeno in un mondo ideale il risultato avrebbe potuto essere diverso.
Non vi è dubbio che la coesione europea è necessaria per affrontare il problema. Tuttavia chi tuona contro l’insufficienza delle decisioni di Bruxelles e l’egoismo dell’Europa dimentica che siamo probabilmente il continente più aperto e sensibile ai mali del mondo: da noi la costruzione di un muro come quello che esiste in alcuni punti della frontiera fra gli Stati Uniti e il Messico non sarebbe possibile.
Consenso europeo e consensi nazionali La verità è che gli europei non riescono ad accordarsi su una politica comune in materia d’immigrazione perché ogni paese è lacerato al suo interno e fatica a trovare un consenso nazionale su cosa fare di fronte a quella che potrebbe rivelarsi la più grande sfida alle nostre istituzioni democratiche e al nostro modello sociale. Le prime sono minacciate dalla crescita del populismo, il secondo dalla difficoltà di sopportare i costi dell’integrazione di masse di diseredati.
Sostenere che il problema di una politica europea si esaurisce negli egoismi nazionali, nella necessità di salvare le persone in pericolo e in una maggiore solidarietà nella ripartizione dell’accoglienza, è pura ipocrisia.
Osserviamo il dibattito italiano, che poi non è così diverso da quello che ha luogo altrove. La platea dei media è quasi interamente occupata da due scuole di pensiero. Gli angelici, che godono dell’attivo sostegno della Chiesa, sostengono che dobbiamo accoglierli tuttiperché il fenomeno è ineluttabile, perché abbiamo bisogno di immigrati, per dovere morale e anche perché tutti i mali dei paesi da cui provengono questi disperati dipendono da colpe nostre, passate o presenti.
Poi ci sono gli spietati che pensano e a volte dicono: lasciateli annegare; noi comunque non li vogliamo. I primi dominano i media e si ritengono depositari di un’incontestata superiorità morale. I secondi, anche se meno loquaci sono altrettanto numerosi e sono mossi da istinti meno nobili ma altrettanto umani.
Entrambi sono incontaminati dal buon senso. Per fortuna i governi almeno quando non inseguono il populista di turno e, si spera, la maggioranza silenziosa, cercano di mantenere i piedi per terra; purtroppo faticano a coagulare il consenso intorno a soluzioni ragionevoli.
La pancia dell’opinione pubblica è cattiva consigliera; gli angelici di oggi possono facilmente diventare gli spietati di domani. Una politica coerente dovrebbe perseguire tre obiettivi, fra loro non necessariamente conciliabili; alcuni di essi, ma non tutti, dovrebbero essere di competenza europea.
Priorità: evitare le stragi in mare. Ma non solo In primo luogo, bisogna evitare le stragi in mare. Ce lo impone il diritto internazionale, la morale e i nostri valori. Dobbiamo sapere che non sarà possibile evitare del tutto nuove tragedie, ma il dispositivo deciso a Bruxelles, anche se le regole d’ingaggio non sono chiare dovrebbe migliorare la situazione.
Una volta che le navi saranno in mare, è difficile pensare che rifiuteranno di esercitare anche una funzione umanitaria. Quindi salveremo molte più persone. Fin qui gli angelicihanno soddisfazione, ma entrano in campo gli spietati: limitarsi a salvarli, dicono, serve solo ad attirarne altri. L’osservazione non è priva di fondamento; non lo dice solo Salvini, ma anche alcuni governi europei che spietati necessariamente non sono.
Arriva quindi il secondo problema: cosa facciamo di quelli che abbiamo salvato, o che comunque riescono ad arrivare? Cambiare il regolamento di Dublino sarebbe un passo importante, ma difficile e meno risolutivo di quanto si pensa in Italia. Molti migranti attraversano il Mediterraneo con il sogno di andare nel Nord dell’Europa; ora Francia, Germania e altri Paesi del Nord accolgono già un numero di rifugiati superiore al nostro. Dalla Gran Bretagna nulla si può sperare almeno fino alle imminenti elezioni.
Infine, i Paesi dell’Est. La loro posizione è difficilmente sostenibile; approfittano più di tutti della libera circolazione all’interno dell’Unione e non possono quindi sottrarsi a questa diversa forma di solidarietà. Non sarà facile, perché sono tutti attraversati da forti correnti nazionaliste e a volte razziste, ma vanno convinti.
Per l’integrazione, più di una generazione Tuttavia questa è solo una parte, forse nemmeno la più importante, del problema. Anche se si pervenisse a una ripartizione più equa, resterebbe il problema di cosa fare di quelli che sono destinati a restare sul territorio nazionale. È vero che nella nostra situazione demografica abbiamo bisogno di forze nuove. Tuttavia sarebbe disonesto negare che nella loro maggioranza, per formazione e cultura, questi non sono gli immigrati di cui avremmo bisogno: sono utilizzabili solo per lavori umili e a costante rischio di sfruttamento.
Ci vorrà forse più di una generazione perché l’integrazione raggiunga livelli accettabili. Bisogna però cominciare subito, con forme di assistenza, formazione linguistica e scolastica, soluzioni abitative che evitino la formazione di ghetti ancora peggiori di quelli che afflissero in passato le città americane e che già vediamo in alcune città europee.
In assenza di tutto ciò, è inevitabile che una parte di essi venga assorbita da varie forme di criminalità. Infine, molti di loro sono musulmani. Anche se la quasi totalità sono probabilmente estranei a fenomeni estremisti, più sono disperati più saranno vulnerabili alla propaganda jihadista. Oltre al problema dei ghetti, si pone quindi quello dei luoghi di culto, della selezione e formazione degli imam e delle prigioni che, come si è visto in Francia, sono luoghi privilegiati di reclutamento.
In teoria il nostro obbligo legale si limita a chi ha diritto all’asilo. Se l’esame delle domande prende troppo tempo e se gli interessati sono lasciati vagare per il territorio senza inquadramento e senza assistenza, il rifiuto diventa di fatto impossibile.
Il problema di chi aspira all’asilo La sorte degli aspiranti all’asilo si confonde allora con quella di coloro, molto numerosi, che all’asilo non hanno diritto; se si può ragionevolmente presumere che l’asilo dovrebbe essere concesso a un siriano, un senegalese o chi viene dal Ghana con ogni probabilità non ne ha diritto.
Legalmente, le espulsioni richiedono una decisione di giustizia alla quale si può fare appello. Tuttavia, se la gestione dell’accoglienza è carente e la burocrazia e la giustizia troppo lente, i due gruppi di fatto si fondono. Prendere le impronte digitali di tutti è sicuramente una buona idea; è tra l’altro una ragionevole richiesta dei paesi che sembrano disposti a rivedere il regolamento di Dublino.
Ma, per vari motivi, molti immigrati si sottraggono ai controlli subito dopo gli sbarchi; altri limano o bruciano i polpastrelli. Se le procedure fossero ragionevolmente brevi, dovrebbe essere possibile immaginare luoghi di raccolta chiusi e protetti che non assomiglino agli ignobili lager che abbiamo visto in Italia e in altri paesi. Il problema è reso ancora più complicato perché in molti casi l’accoglienza è affidata a poteri locali, spesso privi di mezzi, inefficienti, o a volte politicamente ostili.
L’Italia è a questo proposito particolarmente in colpa e nessuno potrebbe accusare l’Europa per le nostre insufficienze. Le strutture d’accoglienza sono quasi inesistenti, spesso affidate solo al volontariato e alla carità privata, o peggio a strutture in teoria pubbliche, ma in mano alla criminalità e alla corruzione.
Ci accontentiamo di salvarli dal naufragio, ma poi non pensiamo nemmeno a curarli; come se un barcone che affonda fosse degno dell’apertura del telegiornale e ci induce alla pietà, mentre due disperati che si accoltellano in un ghetto hanno diritto solo a una notizia di cronaca e a una reazione di rigetto.
In molti paesi del nord è diffusa la convinzione che quella italiana non sia solo inefficienza, ma deliberato cinismo perché abbandoniamo coscientemente a loro stessi masse di poveracci nella giustificata speranza così si accelererà lo loro fuga verso il nord dell’Europa. Paradossalmente, a causa di inefficienze italiane e della volontà degli interessati, il regolamento di Dublino è comunque superato nei fatti.
Il problema più difficile: limitare i flussi Infine il problema che si è rivelato più intrattabile. Legalmente, chi non ha diritto all’asilo, dovrebbe poter essere espulso a meno che il paese interessato decida di accoglierlo. La realtà è che, contrariamente agli Stati Uniti, nessun paese europeo e tanto meno l’Italia ha avuto successo nella politica di espulsione anche quando era legalmente giustificata.
È possibile fare meglio con buona pace degli angelici?Come si vede, una sana politica di accoglienza e di gestione degli arrivi è una sfida immane che comporterebbe la messa in opera d’ingenti risorse finanziarie, organizzative e culturali. Possiamo farlo per alcuni, ma certamente non per tutti. Quindi, bisogna assolutamente riuscire a limitare i flussi.
Se facciamo la guerra agli scafisti e alle organizzazioni cui appartengono, non è solo per combattere un crimine orrendo. Pensare che l’Europa sia in grado di assorbire ogni anno centinaia di migliaia di persone, forse molte di più, che vogliono attraversare il Mediterraneo è pura ipocrisia. Colpisce che siano proprio le associazioni di volontariato, che si prodigano con abnegazione nell’assistenza, a essere spesso in prima linea a chiedere ingressi illimitati e indiscriminati. Nessun governo europeo riuscirebbe a farsi eleggere su un simile programma.
Chi credesse che quello dell’accoglienza e della ripartizione dei rifugiati sia un problema insolubile, non ha ancora fatto i conti con la questione dei flussi e di come controllarli.
Il problema comincia in Libia. Le difficoltà logistiche e tecniche sono evidenti, ma i militari dovrebbero trovare le modalità più opportune; se non lo fanno, è perché ritengono a ragione di non avere la necessaria copertura politica.
È vero che le analogie sono spesso fuorvianti, ma ciò che avuto successo in Albania e nell’oceano indiano dovrebbe almeno fornire qualche indicazione. Poi ci sono ovviamente le difficoltà giuridiche. Se la Libia riuscirà ad avere un governo legittimo, riconosciuto dalla comunità internazionale e capace di esercitare un minimo di controllo sul territorio, una delle prime cose su cui si dovrebbe impegnare sarebbe di permetterci di fare quanto necessario per neutralizzare gli imbarchi.
Se invece la Libia è condannata a restare a lungo un failed state, le Nazioni Unite non potranno negarci la possibilità di difendere un interesse prioritario e legittimo. La conclusione del Consiglio europeo parla anche della necessità di accordi con i paesi di origine degli emigranti. È probabilmente la parte più velleitaria.
Le rotte di transito, in prevalenza attraverso il Sahara, non erano controllabili nemmeno quando c’erano le potenze coloniali; sono fin dall’antichità terreno d’elezione di bande di predoni dediti a ogni genere di traffico, compreso quello degli schiavi. L’idea di organizzare canali umanitari attraverso accordi con i paesi d’origine è particolarmente velleitaria.
Forse qualche accordo limitato si può concludere, per esempio per i rifugiati siriani in Turchia; per il resto, si tratta nella maggior parte dei casi di paesi in guerra, spesso corrotti, comunque inaffidabili; ci sono fondati sospetti che in alcuni casi siano i governi stessi a organizzare il traffico.
Del resto anche se alcuni corridoi umanitari potessero funzionare, le masse degli esclusi s’indirizzerebbero comunque verso i canali illegali. C’è anche l’ipocrisia suprema che dovrebbe mettere d’accordo angelici e spietati: un piano Marshall per l’Africa per far sì che lo sviluppo economico fermi la spinta alla fuga. Ottima idea, ma perché abbia effetto serve almeno una generazione. Inoltre proprio l’esperienza africana ci dice che la stabilità è un prerequisito per lo sviluppo; con paesi strutturalmente instabili e corrotti sarebbe come gettare soldi in un pozzo senza fondo.
Con buona pace degli angelici, degli spietati e della loro demagogia a buon mercato, l’opinione pubblica dovrebbe essere educata a una doppia dura realtà. Da un lato siamo destinati ad assorbire un numero importante di disperati e che quindi bisogna accettare di mobilitare le risorse necessarie per un’accoglienza umana e per la loro integrazione. Dall’altro, una politica basata unicamente su principi umanitari e di solidarietà non reggerebbe a lungo.
C’è un limite alla capacità di assorbimento di una società europea che sta faticosamente uscendo da una grande crisi, le cui finanze pubbliche sono esangui ed è attraversata da crescenti fenomeni di razzismo e xenofobia. È utile ricordare che nazioni come l’Olanda e i paesi scandinavi, bastioni della tolleranza, sono anche fra i più vulnerabili al successo elettorale di partiti populisti e xenofobi. Il fenomeno è però generale; parafrasando François Mitterrand, l’Europa non può essere la soluzione di tutta la miseria del mondo.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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