Regno Unito e Ue Nebbia europea sulla Manica Antonio Armellini 23/09/2013 |
L’Inghilterra di David Cameron può continuare a essere un partner attivo dell’Unione Europea? Se sì, in che misura? Gli alleati liberaldemocratici sembrano presi da un balbettio paralizzante sull’Europa, mentre i conservatori sono sotto l’influenza dall’ondata isolazionista del partito indipendentista antieuropeo Ukip. In un simile scenario sembra che il referendum annunciato sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione – ma sinora non confermato – potrebbe sancire una separazione per più versi traumatica.
Non tutta l’opinione pubblica inglese è su queste linee e le voci della ragionevolezza cominciano a farsi timidamente sentire. Oltre che dalla volontà e dalle nevrosi dell’elettorato britannico, la sorte dell’Unione dipenderà in misura decisiva dalla reazione degli altri paesi membridinanzi a una simile eventualità.
Europa minimalista
Per capire l’importanza della Gran Bretagna nel futuro dell’integrazione europea, è bene chiedersi di quale Europa si intenda parlare. L’euroscetticismo che alligna nelle opinioni pubbliche di più consolidata tradizione europeista – a cominciare dalla nostra – è probabilmente figlio di un embarras de richesses e alimenta più o meno consapevolmente la progressiva rinazionalizzazione delle politiche, con buona pace delle dichiarazioni di intenti di Lisbona.
L’ipotesi di una Europa “minimalista”, sempre meno comunitaria e più intergovernativa, è un ircocervo non impossibile. In essa il contributo britannico rimane fondamentale per il completamento del processo di razionalizzazione economica intorno al mercato unico e per la costruzione di una economia aperta in linea con i dettami di un capitalismo liberale avanzato.
La Gran Bretagna resta fondamentale anche per la gravitas che lo status di media potenza nucleare può attribuire alla dimensione intergovernativa della politica estera e di difesa. La presenza inglese è importante anche per l’impegno a salvaguardare i principi di quel “recinto delle regole” dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa che costituiscono la piattaforma irrinunciabile di quanti si riconoscono nel processo di costruzione europea, quali ne siano contenuti e finalità ultime.
Si tratta di un’Europa in linea con gli interessi di Londra da sempre. Pochi ricordano come al momento dell’adesione, nel ’72, il governo Mac Millan spiegasse che l’ingresso nella Comunità economica europea conteneva sì alcuni aspetti relativi a un’entità politica sovranazionale, ma che i rischi che essa si realizzasse erano ben poca cosa rispetto al vantaggio certo che il paese ne avrebbe ricavato sul pianoeconomico e commerciale.
Collante politico tramontato
Il mantra di una ever closer union tendenzialmente sovranazionale continua a essere stancamente recitato, quasi ad esorcizzare il fatto che un simile obiettivo appare oggi politicamente astratto. Quantomeno a ventotto. Una volta tramontato con la fine della guerra fredda il collante politico originario dei fondatori, le motivazioni che hanno indotto i paesi ad aderire al progetto comunitario sono troppo diverse perché di essa si possa parlare di altro, oltre la mera retorica.
D’altro canto, la crisi finanziaria ha messo chiaramente in luce come, senza un salto di qualità, l’intero edificio europeo rischi di crollare. Chi pensasse che la fine dell’euro potrebbe essere in qualche modo gestita, sottovaluterebbe pericolosamente l’importanza politica decisiva della moneta unica. La sua eliminazione innesterebbe una deriva euroscettica inarrestabile.
La via che si presenta è quella di un’Unione a diverse velocità, in cui la stessa sopravvivenza dell’Europa minimalista sarebbe legata alla volontà di altri di dar vita, attraverso la cessione di quote crescenti di sovranità, a modelli più avanzati di integrazione. “Più Europa” per l’euro (ma anche per la difesa) non vuol dire solo operare per salvaguardare la moneta comune, ma mettere in piedi un argine per l’insieme della costruzione europea.
Una domanda agli inglesi
Di questa Europa “avanzata” la Gran Bretagna non vorrà mai fare parte: storia, tradizioniculturali ed economia militano irrevocabilmente contro. Londra ha costantemente cercato non solo di correlare il proprio impegno comunitario a una rigida visione dell’interesse nazionale, ma di impedire che altri potessero procedere sulla via di una integrazione sovranazionale che la lasciasse ai margini.
È qui che si trova il nodo fondamentale della compatibilità o meno di una presenza della Gran Bretagna in Europa. È giunto il momento di porre chiaramente agli inglesi la domanda di come vedano il loro futuro europeo.
Chiedere se, partendo dal riconoscimento di un loro opt out generalizzato da forme più avanzate di integrazione, siano disposti a collaborare con quanti intendano procedere più speditamente sulla via dell’integrazione sovranazionale, riconoscendo come tale processo sia fondamentale per la sopravvivenza di quella parte della costruzione europea più vicina ai loro interessi.
Parlando a Chatham House, lo scorso luglio il premier Enrico Letta ha chiesto, con toni felpati, “più Europa” a Londra e Bill Emmott ha constatato lo scetticismo della City. L’imperativoposto dalla crisi esclude nuovi tatticismi da parte britannica e la costruzione europea non può permettersi il rischio dell’entropia.
Rinegoziare condizioni più eque – come ripete Cameron – ha senso solo in un quadro d’insieme condiviso: l’impressione è che ne siamo ancora lontani. Sarà bene che dalla Manica ci si convincesse una volta per tutte che, quando cala la nebbia, non è l’Europa, ma la Gran Bretagna a restare isolata.
Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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Non tutta l’opinione pubblica inglese è su queste linee e le voci della ragionevolezza cominciano a farsi timidamente sentire. Oltre che dalla volontà e dalle nevrosi dell’elettorato britannico, la sorte dell’Unione dipenderà in misura decisiva dalla reazione degli altri paesi membridinanzi a una simile eventualità.
Europa minimalista
Per capire l’importanza della Gran Bretagna nel futuro dell’integrazione europea, è bene chiedersi di quale Europa si intenda parlare. L’euroscetticismo che alligna nelle opinioni pubbliche di più consolidata tradizione europeista – a cominciare dalla nostra – è probabilmente figlio di un embarras de richesses e alimenta più o meno consapevolmente la progressiva rinazionalizzazione delle politiche, con buona pace delle dichiarazioni di intenti di Lisbona.
L’ipotesi di una Europa “minimalista”, sempre meno comunitaria e più intergovernativa, è un ircocervo non impossibile. In essa il contributo britannico rimane fondamentale per il completamento del processo di razionalizzazione economica intorno al mercato unico e per la costruzione di una economia aperta in linea con i dettami di un capitalismo liberale avanzato.
La Gran Bretagna resta fondamentale anche per la gravitas che lo status di media potenza nucleare può attribuire alla dimensione intergovernativa della politica estera e di difesa. La presenza inglese è importante anche per l’impegno a salvaguardare i principi di quel “recinto delle regole” dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa che costituiscono la piattaforma irrinunciabile di quanti si riconoscono nel processo di costruzione europea, quali ne siano contenuti e finalità ultime.
Si tratta di un’Europa in linea con gli interessi di Londra da sempre. Pochi ricordano come al momento dell’adesione, nel ’72, il governo Mac Millan spiegasse che l’ingresso nella Comunità economica europea conteneva sì alcuni aspetti relativi a un’entità politica sovranazionale, ma che i rischi che essa si realizzasse erano ben poca cosa rispetto al vantaggio certo che il paese ne avrebbe ricavato sul pianoeconomico e commerciale.
Collante politico tramontato
Il mantra di una ever closer union tendenzialmente sovranazionale continua a essere stancamente recitato, quasi ad esorcizzare il fatto che un simile obiettivo appare oggi politicamente astratto. Quantomeno a ventotto. Una volta tramontato con la fine della guerra fredda il collante politico originario dei fondatori, le motivazioni che hanno indotto i paesi ad aderire al progetto comunitario sono troppo diverse perché di essa si possa parlare di altro, oltre la mera retorica.
D’altro canto, la crisi finanziaria ha messo chiaramente in luce come, senza un salto di qualità, l’intero edificio europeo rischi di crollare. Chi pensasse che la fine dell’euro potrebbe essere in qualche modo gestita, sottovaluterebbe pericolosamente l’importanza politica decisiva della moneta unica. La sua eliminazione innesterebbe una deriva euroscettica inarrestabile.
La via che si presenta è quella di un’Unione a diverse velocità, in cui la stessa sopravvivenza dell’Europa minimalista sarebbe legata alla volontà di altri di dar vita, attraverso la cessione di quote crescenti di sovranità, a modelli più avanzati di integrazione. “Più Europa” per l’euro (ma anche per la difesa) non vuol dire solo operare per salvaguardare la moneta comune, ma mettere in piedi un argine per l’insieme della costruzione europea.
Una domanda agli inglesi
Di questa Europa “avanzata” la Gran Bretagna non vorrà mai fare parte: storia, tradizioniculturali ed economia militano irrevocabilmente contro. Londra ha costantemente cercato non solo di correlare il proprio impegno comunitario a una rigida visione dell’interesse nazionale, ma di impedire che altri potessero procedere sulla via di una integrazione sovranazionale che la lasciasse ai margini.
È qui che si trova il nodo fondamentale della compatibilità o meno di una presenza della Gran Bretagna in Europa. È giunto il momento di porre chiaramente agli inglesi la domanda di come vedano il loro futuro europeo.
Chiedere se, partendo dal riconoscimento di un loro opt out generalizzato da forme più avanzate di integrazione, siano disposti a collaborare con quanti intendano procedere più speditamente sulla via dell’integrazione sovranazionale, riconoscendo come tale processo sia fondamentale per la sopravvivenza di quella parte della costruzione europea più vicina ai loro interessi.
Parlando a Chatham House, lo scorso luglio il premier Enrico Letta ha chiesto, con toni felpati, “più Europa” a Londra e Bill Emmott ha constatato lo scetticismo della City. L’imperativoposto dalla crisi esclude nuovi tatticismi da parte britannica e la costruzione europea non può permettersi il rischio dell’entropia.
Rinegoziare condizioni più eque – come ripete Cameron – ha senso solo in un quadro d’insieme condiviso: l’impressione è che ne siamo ancora lontani. Sarà bene che dalla Manica ci si convincesse una volta per tutte che, quando cala la nebbia, non è l’Europa, ma la Gran Bretagna a restare isolata.
Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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