I veri conoscitori del nuovo presidente americano e della sua personalità non si sono certo fatti stupire dalla prontezza con cui Donald Trump ha tenuto fede alla sua promessa di ritirare gli Stati Uniti dal Trans Pacific Partnership (Tpp).
L’inasprimento dei rapporti commerciali con le economie a bassi salari da cui provengono molte delle merci importante dagli Usa è sempre stato uno dei punti nodali nella sua offensiva volta a favorire le imprese statunitensi che producono sul territorio nazionale e danno lavoro ai cittadini americani.
Molti però pensavano che questo non implicasse un peggioramento dei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Unione europea, Ue. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Peter Navarro, appena nominato alla guida del Consiglio nazionale sul Commercio della Casa Bianca, hanno messo in dubbio questa visione ottimistica: il professore dell’Università della California si è espresso duramente contro la Germania e l’Euro, descritto come “un implicito marco tedesco svalutato volutamente per favorire le esportazioni”.
Le tesi di Navarro: realistiche o esagerate? Le parole di Navarro hanno suscitato dure reazioni da parte del governo tedesco e da parte di alcun esponenti europei quali il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem.
Allo stesso tempo, va riconosciuto come nelle dichiarazioni del consigliere di Trump riecheggiano molte delle argomentazioni usate da diversi Paesi membri dell’Eurozona (e, più recentemente, dalla stessa Commissione europea) per chiedere alla Germania un comportamento diverso nella gestione della propria politica fiscale.
Certamente non si può accusare la Germania di aver spinto o supportato Mario Draghi nel mettere in atto le politiche iper-espansive di questi anni. Anzi, l’establishment tedesco si è schierato più volte pubblicamente contro le mosse della Banca centrale europea, Bce, ritenute dannose per i risparmiatori tedeschi e pericolose per gli squilibri e le bolle finanziarie che potrebbero favorire.
Tuttavia, seppure la Germania non abbia mai sostenuto le misure monetarie alla base del deprezzamento nominale dell’Euro, lo Stato mitteleuropeo è senza dubbio quello che ne ha tratto maggior vantaggio, anche grazie al netto deprezzamento del suo cambio reale.
Le ragioni del surplus tedesco Le ragioni dello sproporzionato surplus tedesco vanno cercate nei primi anni 2000, quando quello che veniva definito “il grande malato d’Europa” intraprese una riforma radicale del mercato del lavoro, la riforma Hartz, che portò a una marcata riduzione del tasso di crescita del costo del lavoro in Germania rispetto agli partner europei.
Questa dinamica negli anni ha aumentato sensibilmente la competitività delle imprese tedesche. Non si può certo imputare come una colpa alla Germania il successo di una strategia politica difficile e dolorosa. Tuttavia, se lo stato governato da Angela Merkel avesse avuto una propria moneta, si sarebbe assistito a un apprezzamento nominale della stessa causato dalla crescente domanda per le merci tedesche. Ma, a causa dell’appartenenza della Germania alla moneta unica europea, ciò non è accaduto, permettendole di continuare ad avere avanzi commerciali record per molto tempo.
La Germania dal canto suo ha sempre visto il suo surplus commerciale come un merito e un segno di forza della sua economia. Non ci si può quindi realisticamente aspettare che il governo tedesco metta in atto politiche volte a ridurlo, andando così contro il suo interesse nazionale.
Va notato però che questo avanzo della bilancia dei pagamenti si accompagna all’avanzo dei conti pubblici, rafforzando le dinamiche contrarie alla crescita dei prezzi. Il risultato è che questo “twin surplus” continua a favorire la competitività delle imprese tedesche, anche a scapito del rapido depauperamento dello stock di capitale fisico (soprattutto infrastrutturale) dello Stato federale tedesco.
Trump e Renzi, due leve diverse L’Italia, soprattutto durante il governo Renzi, è assurta al ruolo di rappresentante del malcontento europeo contro le politiche tedesche. Non potendo costringere la Germania a vedere i danni che il suo surplus commerciale ha arrecato ai Paesi del Sud Europa, l’invito, raccolto recentemente anche dalla Commissione, era quello di mettere in atto delle politiche economiche che si rivelassero sì più congeniali agli altri membri dell’Eurozona, ma che primariamente non fossero contrarie ai suoi interessi nazionali.
Ciò si concretizzava nello spingere la Germania a una politica di investimenti pubblici che, date le condizioni attuali, non solo non appesantisse la dinamica del debito tedesco, ma migliorasse la produttività del lavoro nel lungo termine, ravvivando anche l’anemica domanda interna.
Ciò, a sua volta, spingerebbe al rialzo i salari tedeschi, diminuendo la competitività tedesca attraverso un apprezzamento del suo cambio reale. Inoltre, l’aumento della domanda aggregata della maggiore economia europea avrebbe effetti positivi sull’economie dei maggiori partner europei attraverso gli effetti di spillover.
Tuttavia, sino ad ora, la Germania ha respinto senza troppo fatica ogni offensiva, venisse essa dal governo italiano o dalla Commissione europea. Ora però queste argomentazioni sono state raccolte da un Paese che può vantare un peso totalmente diverso in termini di interesse nazioale tedesco, essendo in assoluto il più importante mercato di sbocco delle merci tedesche.
Nelle prime settimane da presidente in esercizio, Trump ha dimostrato come, se ritiene che un Paese stia avendo un atteggiamento dannoso nei confronti dell’economia statunitense, non si faccia scrupoli nell'osteggiarlo.
La minaccia di uno spregiudicato protezionismo à la Trump verso le merci tedesche e europee costituisce certamente un’eventualità non molto probabile, ma tuttavia in grado di scuotere maggiormente l’establishment tedesco dato il suo potenziale impatto sugli interessi nazionali.
Sarà forse Trump il fattore in grado di spingere finalmente la Germania verso un cambiamento delle politiche economiche? Per rispondere bisognerà attendere il risultato elettorale e la formazione del nuovo esecutivo federale. Nel frattempo però prepariamoci a un G7 a presidenza italiana e a un G20 a presidenza tedesca decisamente interessanti.
Simone Romano è ricercatore dello IAI.
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