Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

sabato 29 marzo 2014

Europa: l'investimento nella Difesa

Spese di difesa dei paesi della NATO

ATTENZIONE: Traduzione Testo automatica Dalla lingua originale in italiano
Venite Al Solito la NATO ha Pubblicato le Tabelle contenenti annuale Finanziaria e Dati Economici relativi alla Difesa della NATO. Il Documento, Pubblicato Oggi ONU comunicato stampa prodotta Dalla Divisione diplomazia pubblica, continua La Tradizione del Comitato del Retrospettiva.
Il documento contiene numerose tabelle con i pagamenti realmente effettuati o da effettuare durante il corso di esercizi 1990-2013.
I dati sono basati sulla definizione NATO delle spese di difesa. Questa definizione è leggermente diverso dal concetto di bilancio della difesa dei vari mods, ma, anche se le cifre indicate potrebbero divergere considerevolmente da quelle che vengono citati dalle autorità nazionali o riportati nei bilanci nazionali, alcune relazioni interessanti possono essere rilevati. ad esempio, Ricerca e Sviluppo spese legate alle grandi percentuali di attrezzature e globale di R & valori di T possono essere calcolati.
Il documento attuale:
  • Totale spese per la difesa
  • Prodotto interno lordo (PIL) e spese per la difesa variazione annua del volume (%)
  • Spese di difesa come percentuale del PIL
  • PIL e difesa spesa pro capite
  • Distribuzione delle spese per la difesa per categoria
  • Forze armate
  • Spese di difesa dei Paesi NATO (BUS $) - 7 principali contributori della Nato (esclusi Stati Uniti)
  • Spese di difesa dei Paesi NATO (BUS $) - Confronto Nord America vs Europa
  • Spese di difesa pro capite in US $ - 7 maggiori contribuenti della NATO
  • Spese di difesa pro capite in US $ - 7 capite più elevato contributori
  • Spese di difesa pro capite in US $ - Nord America e in Europa
  • 2013 La distribuzione della spesa totale per la difesa per categoria in percentuale - 8 principali contributori della Nato (senza dati per la Spagna)
  • 2013 La distribuzione della spesa totale per la difesa per categoria in valore assoluto - 8 principali contributori della Nato (senza dati per la Spagna)

venerdì 28 marzo 2014

Alleanza per lo sviluppo tra Europa e Africa

Articolo di Filippo Romeo

È ora che la UE abbandoni le politiche neocoloniali e pensi al territorio africano non come area da sfruttare ma come grande opportunità per lo sviluppo dei popoli. Continua a leggere su:

http://www.zenit.org/it/articles/alleanza-per-lo-sviluppo-tra-europa-e-africa

giovedì 27 marzo 2014

Francia: i risultati delle elezioni amministrative

Prospera estrema destra, mentre gli elettori stanno a casa in numeri da record - Alert: France rischio

25 marzo 2014


Traduzione dall'inglese in modo automatico. Utilizzare se necessario il Traduttore di questo post


I risultati del primo turno delle elezioni comunali, svoltasi il 23 marzo, ha rivelato, come previsto, la frustrazione approfondimento degli elettori con le più grandi partiti tradizionali. Per l'estrema destra Fronte nazionale (FN), questa serie di elezioni, che si conclude con un secondo turno di votazione il 30 marzo, sembra destinata a essere una svolta. Il partito ha già vinto un ufficio di sindaco al primo turno, e si sfideranno in 229 gare di secondo, un record per il partito. La sua dimostrazione di forza arriva nonostante una quota relativamente piccola del voto popolare. Secondo le stime iniziali, la FN assicurato il 7% dei voti totali, contro il 47% per il principale dell'opposizione di centro-destra Union pour un mouvement populaire (Ump), partito e del 38% per il socialiste Parti (PS) del presidente assediato, François Hollande.
Politica locale contano in Francia. Consigli locali esercitare un significativo potere e ogni città, paese e villaggio ha un sindaco. Quasi un milione di candidati gareggiato nel primo turno delle elezioni comunali equivalente ad un candidato ogni 49 elettori. Il PS ha una storia recente di eseguire fortemente a livello locale, ma crollo del partito in questa occasione era prevedibile. Con l'economia ancora in difficoltà e il signor Hollande continuando a sondare nuove profondità di impopolarità, una reazione era inevitabile.Durante un lungo periodo in opposizione prima del 2012, il PS usato per beneficiare della volontà degli elettori di utilizzare i suoi voti comunali per inviare un messaggio al partito in carica. Questa volta il PS è sul lato sbagliato della rabbia degli elettori.
L'UMP è stato un chiaro beneficiario travagli del PS ', e ha eseguito più forte di quanto molti si aspettavano. Ma il partito non è riuscito clamorosamente a capitalizzare quanto dovrebbe avere sul crollo nel supporto per il PS-UMP deve ancora riprendersi dalla sua sconfitta nel 2012, ma è lacerato da rivalità di fazione, e sia il suo leader, Jean-François Copé, e il suo ex capo (e predecessore del signor Hollande come presidente), Nicolas Sarkozy, sono coinvolti in scandali dannosi. La disillusione degli elettori con i partiti tradizionali è evidente in un tasso di astensione del 38% nel voto al primo turno, un livello record. Ma è più chiaramente di essere visto nella nascita di un numero record di candidati FN come potenziali titolari di cariche e l'inevitabile impatto che questo avrà sui termini del dibattito politico nazionale.
Guadagni di estrema destra
Il FN è venuto prima in almeno sette città ed è ben posizionata in molti di più in vista del secondo turno di votazione, anche se il suo successo finale dipenderà in misura significativa sulle tattiche adottate da altre parti. Successo comunale del partito non è una sorpresa. In vista delle elezioni, i sondaggi sono state rivolte a registrare numeri di elettori che esprimono simpatia per le politiche del partito e la volontà di prendere in considerazione votare per esso. Il FN ha chiaramente beneficiato della crisi circostanze-economica e di austerità in corso prevedono un terreno fertile per i partiti populisti-e dalla attuale leadership insolitamente debole dei due partiti principali. Ma il leader del FN, Marine Le Pen, è stato determinante nel recente successo del partito. Ha lavorato sodo per disintossicare il suo partito, presentando un'immagine più moderata agli elettori del suo predecessore e padre, Jean-Marie Le Pen, che ha fondato la FN.
Ms Le Pen e il FN restano controverse, tuttavia. Anche se sono in grado di superare questi guadagni locali alle elezioni del Parlamento europeo nel mese di maggio, vi è un divario significativo tra il comportamento degli elettori in queste elezioni di secondo ordine e il loro comportamento nelle elezioni di primo ordine per la presidenza e dell'assemblea nazionale, che sono dovute in 2017. Il progresso del FN in queste gare è probabile che sia meno evidente in termini di seggi conquistati.
Holding a Parigi
Un conforto per il signor Hollande e il PS è che sembrano propensi a mantenere il controllo della capitale. Il sindaco di Parigi è potente e prominente, e la posizione può servire come trampolino di lancio per incarichi di alto livello, come è il caso di Jacques Chirac, che ha governato Parigi prima di diventare primo ministro e poi presidente. Il sindaco uscente, Bertrand Delanoë, è in piedi dopo due mandati di successo. Il suo probabile successore è il candidato PS, Anne Hidalgo, già vice di Mr Delanoë. Prima del primo turno di votazione, UMP rivale della sig.ra Hidalgo, Nathalie Koskiusko-Morizet, ministro nel governo di Sarkozy e portavoce dell'ex presidente durante la sua perdita 2012 della campagna-aveva cominciato a guadagnare nei sondaggi d'opinione. La sig.ra Hidalgo trascinava leggermente dopo il primo turno di votazione, ma la distribuzione del sostegno dei due candidati in tutta la città favorisce il candidato socialista al secondo turno. Se vince, sarà un pezzo di benvenuto di una buona notizia per il signor Hollande in quello che sembra destinata a essere una serie di elezioni triste per lui.
Economist Intelligence Unit
Fonte: The Economist Intelligence Unit

mercoledì 26 marzo 2014

Bosnia: verso una nuova stagione politica

Balcani
Bosnia, come uscire dalla claustrofobia politica
Andrea Cellino
21/03/2014
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Dopo un inizio disordinato, in alcuni casi violento, la protesta che ha scosso la Bosnia Erzegovina si è mostrata legata a ragioni puramente socio-economiche e si è indirizzata verso forme di mobilitazione civica assolutamente nuove per il paese. Cerchiamo di analizzarne il significato, oltre che di inserirla nel contesto più generale di un paese che stenta a trovare la sua strada verso l’integrazione europea, al contrario di molti stati vicini.

Da Tuzla ai plenum 
Scaturita il 5 febbraio da un’iniziativa dei lavoratori di due società privatizzate e in via di fallimento a Tuzla, importante centro industriale nell’ex-Jugoslavia, la protesta ha trovato sostegno in alcuni gruppi organizzati tramite i social media. Le manifestazioni si sono estese a tutte le principali città della Federazione di Bosnia Erzegovina, una delle due entità che compongono il paese, ma anche, in forme diverse, a centri dell’altra entità, la Repubblica Srpska.

Inizialmente, atti di violenza gratuita hanno generato preoccupazione. Ma le proteste hanno quasi subito prodotto assemblee di cittadini, chiamati plenum: una sorta di democrazia diretta. Creati nella maggior parte delle città della Federazione, i plenum si sono concentrati su istanze legate alle realtà locali: soprattutto l’abolizione dei privilegi concessi ai politici dopo la fine dei loro mandati e la revisione degli accordi di privatizzazione di alcune società pubbliche.

Sotto la pressione dei gruppi di protesta, alcune importanti amministrazioni locali si sono dimesse. I plenum, in molti casi, stanno ora negoziando con le assemblee municipali e cantonali la nomina dei nuovi esecutivi, che vorrebbero composti principalmente da tecnici. Nel frattempo, anche se ridotti di numero, i cittadini continuano a scendere in piazza, pacificamente, quasi ogni giorno.

Tutto ciò rappresenta sicuramente un elemento nuovo nel claustrofobico panorama politico della Bosnia. Da tempo, gli osservatori lamentano un’eccessiva passività della società bosniaca che tende a sopportare apaticamente soprusi e incompetenze di una classe politica diffusamente corrotta, arricchitasi e mantenutasi al potere grazie a un astuto miscuglio di etno-nazionalismo e clientelismo.

Entrambi gli elementi sono stati favoriti da un sistema istituzionale, quello uscito dagli accordi di Dayton, basato sulla separazione e divisione del potere tra bosgnacchi, croati e serbi secondo un complesso sistema di autonomie locali. Questo non ha certo favorito l’integrazione sociale, e ancor meno la governabilità.

Le radici della frustrazione dei bosniaci sono quindi sia economiche che politiche. Spinti da disoccupazione e precarietà (aggravate dalla crisi mondiale), i cittadini vorrebbero essere governati da una classe politica più efficiente e meno corrotta. Ad accentuare la loro demoralizzazione contribuisce senz’altro il fatto che la maggior parte dei paesi balcanici vicini sta facendo progressi nell’integrazione europea. Mentre i politici bosniaci, per timore che maggiori controlli e trasparenza li priverebbero di molti privilegi, ostacolano le riforme.

Integrazione europea
La comunità internazionale, che da qualche anno ha ridotto la propria presenza e delegato al processo d’integrazione europea il compito d’incoraggiare le riforme, non è stata in grado di trovare la strategia giusta per scardinare il meccanismo che tiene al potere l’attuale classe dirigente. La quale è evidentemente impermeabile al “potere di attrazione” di Bruxelles.

Da un lato, l’Ue si è impegnata in negoziati diretti con i partiti politici per completare una riforma costituzionale richiesta da una sentenza della Corte europea per i diritti umani (Sejdić-Finci, 2009). Ha però dovuto dichiararsi sconfitta, proprio a tre mesi dalle consultazioni europee, e a sette dalle elezioni generali in Bosnia.

D’altro canto, se l’Ue dovrà ripensare la sua strategia, le residue strutture di Dayton non sembrano meglio equipaggiate per sciogliere l’impasse. L’ufficio dell’Alto rappresentante con mandato Onu, detiene ancora poteri esecutivi (i Bonn powers). Ma le conseguenze dell’ultima occasione in cui sono stati (maldestramente) usati sono senza dubbio all’origine di alcuni dei guai presenti, giacché la crisi d’ingovernabilità è particolarmente pronunciata nella Federazione.

È quindi importante chiedersi: dove andranno i nuovi movimenti di protesta? Saranno i plenum in grado di coagularsi in veri movimenti politici, capaci di offrire un’alternativa, perlomeno a livello locale, allo strapotere dei partiti tradizionali? I rischi di un fallimento sono grandi.

Esistono già tentativi dell’establishment politico di cooptare le proteste nello status quo, o di allungare i tempi delle riforme. Vi è anche un rischio di calo dell’entusiasmo popolare, o di un logoramento dei movimenti. La speranza è comunque che da questo nuovo attivismo civico nascano delle novità politiche, meglio se in tempo per le elezioni del prossimo ottobre.

Andrea Cellino è Direttore del Dipartimento politico e di pianificazione presso la Missione Osce in Bosnia Erzegovina. Le opinioni qui espresse sono sue personali.
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lunedì 17 marzo 2014

Ucraina: la crisi sempre più complessa

Crisi Ucraina
Ue locomotiva risolutiva verso Kiev
Jeffrey Laurenti
12/03/2014
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Vladimir Putin vive “in un altro mondo,” avrebbe detto la cancelliera Angela Merkel a Barack Obama, a seguito di una conversazione telefonica con il leader russo. Forse in un universo parallelo “orwelliano” in cui libertà è schiavitù, e bugie vengono propagate da un ministero della verità. E sembra quasi che con la crisi politica che sta consumando l'Ucraina si stiano riaccendendo sotto la cenere le braci dell’ostilità e della paranoia dell’epoca della guerra fredda.

Merkel contro le sanzioni
Eppure la Merkel è riluttante nel sanzionare e isolare Mosca, rea di aver destabilizzato l’Ucraina. Questa cautela tedesca monta lo sdegno dei conservatori intransigenti a Washington che deridono l’inefficacia dell’Unione europea: “Putin ha silurato il patto commerciale tra Bruxelles e Kiev e ora l’Europa vorrebbe che fossero gli Stati Uniti a rispondere?”

Anche il filo-europeo Henry Kissinger su questo punto è caustico, accusando l’Ue di “lentezza burocratica” che “trasforma una trattativa in una crisi”. Kissinger però riconosce i pericoli di una reazione impulsiva e sostiene un compromesso con Mosca basato sulla “finlandizzazione” dell'Ucraina. Altri repubblicani, invece, sferrano un attacco in piena gola ad Obama, accusato di essere un “leader debole” la cui “politica estera incapace” ha ispirato l’aggressione russa. Bisogna resistere!

Riflessi guerra fredda
Se i riflessi della guerra fredda si riaffacciano nei quartieri conservatori di Washington, questi sono radicati molto più profondamente in Russia. Putin, come è noto, ha dichiarato alla Duma che la dissoluzione dell'Unione Sovietica è stata “il maggior disastro geopolitico del secolo scorso”. E furono proprio le pressioni derivanti dall’espansione verso l’est della Nato, assieme alla guerra contro la Serbia riguardo il Kosovo, a fare da propulsione per l’ascesa di Putin al potere nel 1999.

Da Mosca, Putin vede ovunque un’implacabile campagna politica e strategica occidentale volta a ridurre il peso della Russia: velata dal linguaggio altisonante della democrazia e dei diritti umani, questa campagna cerca di imporre modelli economici e politici occidentali in tutto il mondo. Quindi la retorica russa sull’Ucraina fa un’amara parodia del vocabolario dell’internazionalismo occidentale:
“Le forze militari russe stanno effettuando un "intervento umanitario", proprio come fecero i paesi occidentali in Libia” (anche se in Ucraina le autorità non uccidono né minacciano nessuno).
“La regione autonoma di Crimea ha diritto alla secessione dall’Ucraina, allo stesso modo con cui i paesi occidentali lo affermarono per il Kosovo” (giuridicamente un parallelo abbastanza aderente, anche se manca il piccolo dettaglio della repressione serba).
“L’espulsione dei funzionari governativi da parte dei militanti filorussi nei distretti russofoni ucraini è espressione dell'autentica volontà popolare, una replica giusta all’azione dei manifestanti ‘euro-maidan’ che costrinsero alla fuga il presidente Viktor Yanukovich”.

Ucraina e Nato 
In realtà questa simmetria è alquanto pretestuosa. Putin considera minaccioso per la Russia qualsiasi modesto collegamento tra Europa e Ucraina, per paura che diventi un primo passo per l’ingresso di quest’ultima nella Nato.

Il patto commerciale negoziato da Yanukovich e gli europei sembrava loro un compromesso innocuo. Per Putin, no. Quindi la sua scommessa di novembre che è fallita spettacolarmente, mobilitando schiere di manifestanti che hanno buttato Yanukovich giù dall’equilibrio, e infine giù dal potere.

Sebbene Obama non vede più alcuno "scacchiere della guerra fredda", Mosca al contrario crede di aver appena perso la sua “regina”. Per questo Putin ha alzato la posta.

In realtà, la sfida russa è meno rischiosa per l’Occidente di quanto non lo sia per una Russia che resta fragile in termini economici, politici, con le proprie innumerevoli enclave etniche, e diplomatici.

L'anno scorso il Pew Research Center riscontrò che appena un terzo dei cittadini di trentotto paesi avevano un parere favorevole sulla Russia, rispetto alla metà favorevole alla Cina - e ai due terzi favorevoli agli Stati Uniti. Senza legami di amicizia, ogni rapporto diventa transazionale; e ora la ripugnanza internazionale è in crescita.

Crimea verso il plebiscito
Presumibilmente un accordo si può trovare: Putin non manifestava interesse al controllo russo della Crimea fintanto che il governo di Kiev si è mantenuto neutrale tra Oriente e Occidente. Logicamente, il modello finlandese o austriaco, cioè un’Ucraina fuori della Nato con la presenza di osservatori internazionali, potrebbe essere la chiave per una soluzione della crisi.

Tuttavia, la gestione maldestra e improvvisata della Russia della crisi ad oggi, tra cui un plebiscito assurdo in Crimea, può rendere impossibile un compromesso ragionevole a breve termine. L’annessione della Crimea non metterebbe solo a rischio i confini tenui del mondo post-sovietico, compresi quelli della Russia, ma la perdita dei votanti di Crimea farebbe pendere la bilancia elettorale dell'Ucraina decisamente verso l'Occidente, e la temuta Nato. Se persegue l’annessione, l'Occidente dovrebbe bloccare la Crimea dal commercio e dagli investimenti.

In questa crisi, Washington certamente sostiene gli europei, ma l’Ucraina è un affare prettamente europeo. L'Europa ha il peso economico che conta per tutt’e due Russia e Ucraina. Nel treno delle trattative, deve essere l’Europa in testa.

Jeffrey Laurenti, ricercatore e analista delle Nazioni Unite e della politica estera americana, è stato direttore di studi politici presso l'Associazione delle Nazioni Unite degli Stati Uniti e senior fellow e direttore dei programmi di politica estera presso la Century Foundation a New York.
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sabato 15 marzo 2014

Ucraina: giorni cruciali

Crisi ucraina
Il grande azzardo di Putin 
Stefano Silvestri
06/03/2014
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Il parlamento regionale della Crimea ha deciso di complicare la vita a tutti, e di aggravare la crisi, votando a favore dell’integrazione della penisola nella Russia, e annunciando un referendum confermativo per metà marzo, a condizione naturalmente che Vladimir Putin e la Russia dichiarino il loro accordo.

Ciò mette Putin in difficoltà perché pone indirettamente il problema delle altre regioni dell’Ucraina a maggioranza russofona, obbliga il governo di Kiev a reagire e rende più difficile la soluzione della crisi che sembrava delinearsi con il “soffice” ultimatum europeo alla Russia, che offriva a Mosca la foglia di fico di un “gruppo di contatto” per decidere assieme del futuro dell’Ucraina.

Guerra fredda
Molte cose possono quindi ancora andare male e obbligarci ad una sorta di nuova “guerra fredda”. I nazionalismi contrapposti dei militanti russi ed ucraini non sono facili da gestire e possono sempre provocare un pasticcio insanabile. D’altro canto anche Putin potrebbe decidere che il compromesso offertogli è insufficiente, o il Consiglio europeo potrebbe veder dissolversi quell’unione apparente di intenti che si è sinora coagulata attorno all’iniziativa tedesca.

E infine, tanto per completare il quadro del “caso peggiore”, una grossa crisi potrebbe scoppiare in qualsiasi momento nel Golfo o nel mar della Cina, rimescolando tutte le carte.

Tuttavia, in questo momento, a bocce ferme, e malgrado la grave provocazione della Crimea, la possibilità che la crisi ucraina possa cominciare a rientrare nei binari della normalità sembra ancora forte. Le cose ancora da decidere - quale status dare alla Crimea, come formalizzare i rapporti tra Ue e Ucraina, come regolare il triangolo Ue-Ucraina-Russia - occuperanno a lungo il tempo e l’ingegno di numerosi negoziatori, ma il rischio di uno scontro aperto al centro dell’Europa sembrerebbe recedere.

Russia perdente?
Se così fosse, ancora una volta, il perdente sarebbe la Russia, anche se dovesse assicurarsi un qualche controllo sulla Crimea e un qualche “droit de regard” sull’Ucraina. Comunque si rigiri la situazione, infatti, il “grande disegno” attribuito a Putin di ricostituire un grande spazio strategico, politico ed economico sulle terre dell’ex-Urss, con al centro Mosca, sarebbe fallito, perché non riuscirebbe ad includere l’Ucraina oltre a buona parte del Caucaso, alla Moldova e, ovviamente, alle tre repubbliche baltiche che già sono parte dell’Ue e della Nato.

In altri termini la Russia non avrebbe “clientes” europei, a parte la Transnistria, l’Armenia e forse la Biellorussia (ma per quanto ancora? Persino Lukaschenko, il padre padrone di Minsk, deve essere rimasto scosso e preoccupato per il trattamento sprezzante riservato da Putin all’ex-presidente ucraino Viktor Ianukovich).

Le ragioni di questa possibile sconfitta non sono ancora chiare, ma si possono fare alcune ipotesi. In primo luogo la crisi finanziaria ucraina, che minaccia soprattutto le banche e l’economia russa: a salvare il salvabile è dovuto intervenire con una sua dichiarazione il Fondo monetario internazionale (Fmi), ed ora potrebbero arrivare, se approvati, gli aiuti dell’Ue, ma questo significa che Mosca, oltre ad aver perso uno strumento di pressione, deve anche stare attenta a non aggravare una crisi che le farebbe molto male.

In secondo luogo, l’ipotesi di annettersi la Crimea ha lo svantaggio di aprire il vaso di Pandora delle altre regioni russofone dell’Ucraina: come dire loro di no? E se invece la Russia si imbarcasse in questo smembramento dell’Ucraina, malgrado i solenni impegni internazionali presi nella opposta direzione, come potrebbe evitare l’isolamento, la ghettizzazione e le inevitabili sanzioni?

Non basterebbe certo Gazprom a salvarla e la sua ambizione di ridiventare una grande potenza si allontanerebbe. Addio Europa, il futuro incerto di Mosca si giocherebbe solo in Asia, in un rapporto certo non facile né evidente con la Cina, vera grande potenza globale emergente.

In terzo luogo una simile operazione di smembramento e annessione porterebbe in Russia anche molti problemi economici e politici, incluse nuove minoranze agguerrite e ferocemente contrarie al governo di Mosca. Un cavallo di Troia?

Se la crisi rientra
Mettiamo dunque che la crisi finisca come vorrebbe l’Ue. Cosa accadrà poi? Sul fronte russo, un Putin insoddisfatto e frustrato sarebbe sempre più convinto della esistenza di un grande complotto occidentale per favorire in ogni occasione i mutamenti di regime; una strategia che, agli occhi di Putin, non può che mirare, a breve o lungo termine, a Mosca. Sarà possibile instaurare con il Cremlino un rapporto più equilibrato e comprensivo? Sinora l’Occidente non ha compiuto grandi sforzi in questa direzione, ed è un peccato.

Sul fronte europeo, l’Ue è oggi più tedesca di ieri, anche in senso politico, e non solo finanziario, e questo non piace molto alla Francia, che però non ha alternative, soprattutto perché il Regno Unito è divenuto sostanzialmente un “non-attore” europeo, privo di idee e di politiche.

Ciò potrebbe aprire qualche spazio per paesi come l’Italia, la Spagna, la Svezia o la Polonia, ammesso che abbiano qualcosa di proporre.

Certamente un’Europa che riuscisse a risolvere la crisi ucraina utilizzando l’appoggio americano, ma di fatto prendendo l’iniziativa, deve poi riuscire a restare all’altezza delle aspettative che suscita, sia ad Est che a Sud, ma per far questo ha bisogno di mobilitare grandi risorse e di uscire dallo schema riduttivo in cui si è rinchiusa durante la crisi economica.

È una grande sfida cui non sembriamo molto preparati, ma che difficilmente potremo evitare, specie se, in questa occasione, avremo successo.

Stefano Silvestri è direttore di Affarinternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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giovedì 13 marzo 2014

Germania: Riduzione dell'acquisto di Eurofighter Typhoon. Da 180 a 143


germania 60
Dando seguito ad una decisione già presa nel 2011, il Ministero della Difesa tedesco ha comunicato la riduzione degli ordinativi totali dell’Eurofighter Typhoon da 180 a 143, a fronte di 112 esemplari già consegnati alla Luftwaffe.
I 37 aerei in meno, originariamente destinati alla Germania, avrebbero fatto parte della tranche 3B, il cui completamento, a questo punto, rischia di non andare in porto, poiché nessuno degli altri Paesi partner ha ancora deciso se portarne avanti o meno l’acquisizione e in quali quantità. Una decisione definitiva da parte delle autorità britanniche, italiane e spagnole è attesa per la metà del 2014 e riguarda la sorte di ben 87 velivoli.
Nel 2009, per venire incontro alle crescenti difficoltà finanziarie dei Paesi membri del consorzio Eurofighter, il terzo lotto era stato suddiviso in due tranche ulteriori: la 3A, da 112 esemplari, e la 3B, originariamente composta da 124 velivoli. La produzione del lotto 3A dovrebbe essere completata nel 2018.
Ad oggi sono quasi 450 gli Eurofighter (tranche 1 e tranche 2) già consegnati ai quattro Paesi partner, all'Austria e all'Arabia Saudita, a cui bisogna aggiungere la commessa in Oman, prevista a partire dal 2017. Da segnalare, inoltre, il recente fallimento delle trattative tra Regno Unito e Emirati Arabi Uniti, concernenti la fornitura di 60 Typhoon per un valore complessivo di 6 miliardi di sterline.
Nonostante il taglio tedesco, il recente accordo tra Arabia Saudita e BAE Systems sul prezzo degli ultimi 48 velivoli tranche 3 (con spiccate capacità aria-suolo) consente al consorzio Eurofighter di guardare con fiducia al futuro. Infatti, grazie ai finanziamenti sauditi sarà possibile completare lo sviluppo multiruolo del Typhoon (grazie all’introduzione del radar AESA e all’integrazione dei missili da crociera Storm Shadow) portando il velivolo alla maturità e rendendolo più competitivo sul mercato export.

Viaggio in Crimea. Appunti di Viaggio. Volume


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mercoledì 12 marzo 2014

Ukraine: The energy impacts

March 5th 2014 | Multiple countries | Oil and gas | Gazprom
Europe does not face a gas crunch, but Russian actions in Ukraine could hasten efforts to shore up EU energy security.
Russia’s intervention in Crimea has sent countless economic indicators hurtling downwards—the Moscow stock market, for instance, and the Russian rouble’s value against the US dollar. Others have shot skywards. Oil prices, ever sensitive to political risk, fall in the latter category: the threat of conflict has escalated. So too do natural-gas prices, the upwards forces on which were compounded by a threat on March 1st by the Russian state gas-export giant, Gazprom, to raise the price it charges Ukraine. Yesterday Russia’s president, Vladimir Putin, confirmed Gazprom will end the discount granted to Ukraine’s now ousted president, Viktor Yanukovych, in December.
The apparent willingness on Russia’s part to use its control over gas supplies as a political tool rings alarm bells throughout Europe. One-half of Russian supplies to the EU, which looks to Russia as a key gas supplier but has sided with Ukraine’s new government, flowed through Ukraine in 2013. Memories have been awakened of episodes in 2006 and 2009 when, amid pricing disputes, Russia cut off supplies to Ukraine at the height of winter, causing European gas prices to spike. But this time, while the threat of military clashes is higher, the energy risks for Europe are not.
Dependent, but less so
Graph showing EU imports of Russian gas by absolute value and percentage share of total gas importsRussia supplies a far smaller share of Europe’s gas supplies than used to be the case. In 2013 Gazprom accounted for about 30% of EU supplies, a record high in absolute terms and a 16% increase on 2012 volumes. But Gazprom’s share of EU gas imports has diminished from nearly 50% in 2000 (see chart). Spurred partly by worries about its Russian dependence, Europe has turned in greater measure to liquefied natural gas (LNG), coal and especially renewable energy for electricity generation.
Certainly, EU reliance on Russian gas is still uncomfortably large, particularly among its eastern members. But Europe is more resilient than it would have been even a few years ago in the event of a relatively short break in supplies, provided it lasts only a matter of days or weeks. Given that Russia depends heavily on European gas demand, a longer switch-off than this would be strongly against its interests too.
Not only are Russian supplies less important for Europe than they used to be, but Ukraine’s role as a gas-transit hub is also diminished. Opening the Nord Stream pipeline through the Baltic Sea to Germany in 2011 gave Russia a 55bn-cu-metre/year alternative route into Europe, less vulnerable to disputes. (The Brotherhood pipeline across Ukraine can transport over 100bn cu metres/y.) Spare capacity on Nord Stream and the Yamal pipeline through Poland and Belarus gives Gazprom other ways to get its gas to EU customers.
Heating up
For Europe, moreover, the timing of the current flare-up could have been much worse. A stoppage now would be far less serious than one in early winter. Warmer months are ahead, meaning lower gas demand. First, Europe must cope with March, the last cold month of the winter. But European gas storage facilities are well-stocked: the UK’s, for instance, is filled well above average levels at this time of year (Ukraine’s would reportedly last four months if Russian supplies, which satisfy one-half of Ukrainian gas demand, were cut). After all, EU gas demand has flagged along with the economy. We expect it to grow by under 1% in 2014, as economic activity recovers only mildly and coal remains cheap.
Seen in a larger context, the consequences of the Ukrainian crisis for European gas prices are also less dramatic than they may seem. Prices had fallen appreciably in the months preceding the current rise in tensions. The subsequent rebound, fuelled by fears of war rather than physical supply limits, leaves them well below their previous peak.
What if Russia did turn off the Brotherhood pipeline? One effect would be to drive up LNG prices, already very strong especially in Asia. Cargoes selling for US$18-19 per million British thermal units (mBtu) now could then command more than US$20/mBtu. New LNG projects set to come online in Papua New Guinea and Australia later this year will not help Europe if Russian supplies falter soon. Expected output rises in Norway and the UK in 2014 would help, but are not sure to materialise.
Make no mistake, however: the biggest effect on energy markets of a shutdown of gas exports through Ukraine would be on Europe’s coal demand. As in recent years when gas has been expensive, the EU would burn greater quantities of cheap coal to generate power. Plentiful supplies from the US would help European consumers switch energy sources with relatively little impact on their costs.
Looking to the long term: LNG
On balance, though, the implications of events in Ukraine for European gas supplies are less shocking than the dramatic events on the ground might suggest, even in the event of a limited outage. This is in line with comments yesterday from the EU’s energy commissioner, Guenther Oettinger. "We are not concerned about short-term security of supply [for the EU]," he said, while expressing anxiety about Ukraine’s energy security. But the troubling recent events could nonetheless halt the revival in Gazprom’s exports to Europe and strengthen the urge among utilities there to seek other sources of supply.
Before intervening in Crimea, Mr Putin seems likely to have calculated that Europe relied too heavily on Russian gas to take strong action against him. Taking the long view, he might assume the episode will have little effect on the European market for Russian gas. Yet this logic could possibly prove too sanguine. Although Europe does not currently face a supply crunch, Russia’s actions could help concentrate European minds on further shaking off dependence on Gazprom.
In the long run, the effects of this could be felt in the LNG market. For the EU, LNG imports are the readiest direct substitute for Russian gas. Needless to say, increasing European LNG imports would threaten the interests of Gazprom and Russia.
Certainly, Europe will be constrained in any attempts to buy more LNG by competition for limited supplies with gas-hungry Asia, where shipments fetch higher prices. Still, Russian moves in Ukraine could play into the hands of those in the US who argue it should speed up approvals for LNG export facilities. A US boom in extracting natural gas from shale rock has depressed gas prices there, but policymakers have been slow to sanction LNG shipments. The pace of approvals has lifted in the US, as it has in Canada, but building LNG-export infrastructure is a painstaking process. Indeed, construction has only begun at one of the six facilities approved by the US government so far.
Another dampener is that Canadian and US gas would be destined mainly for Asian markets—also true of supplies from the main LNG-market insurgent, Australia. The prices of cargoes heading to Europe would have to account for outlays on liquefaction and transport. Despite low gas prices across the Atlantic, then, Europe would be unlikely to gain any price advantages from buying North American gas. Still, a better-supplied market should help European utilities if they seek further shipped gas supplies.
If they do so, there will be no shortage of LNG-receiving infrastructure available to them (though the gas grid connecting heavily Russia-reliant East and Central Europe would need further investment). Many European LNG import hubs are under-used, as gas shipments have lost out to cheap coal and piped gas imports. This is not stopping some countries, conscious of their exposure to Russia, from adding capacity. Work on a new terminal in Poland designed to ship in gas from Qatar, the top LNG exporter, is due to be completed by end-2014. Estonia and Finland, both EU member states and Gazprom-dependent neighbours of Russia, last week resolved a dispute over which should build a new LNG terminal. In the end, they decided to build one each.
Gazprom wants to lift its share of European gas supplies even further, but already faces stiff regulatory headwinds from the European Commission; Russian actions in Crimea have hardly helped its cause. Europe still needs Russia’s gas, but is now more likely to step up the search for alternatives. Among Mr Putin’s few Western admirers may be LNG exporters with their eyes on long-term profits.
Source: Industry Briefing

giovedì 6 marzo 2014

Spagna: come se non ci fossero altri problemi

Spagna
Arrestare l'ex-presidente cinese? No, grazie
Marina Mancini
02/03/2014
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Fa discutere in Spagna il tentativo del Congresso dei deputati di bloccare il mandato di arresto emanato dalla magistratura spagnola contro l'ex presidente cinese Jiang Zemin per crimini contro l'umanità e genocidio, al fine di evitare un'incipiente crisi diplomatica con Pechino.

La tensione tra Cina a Spagna aveva in effetti raggiunto livelli di allarme dopo l’emanazione da parte del giudice Ismael Moreno di un mandato d’arresto internazionale nei confronti di Jiang Zemin, dell’ex primo ministro cinese Li Peng e di altri tre ex membri dell’establishment di Pechino. Così, l'11 febbraio, ad appena ventiquattro ore dal mandato, il Congresso dei deputati ha approvato un progetto di legge di riforma della giurisdizione universale presentato dal partito popolare, oggi al governo.

Legge da riformare
Il progetto di legge, ora al vaglio del Senato, modifica l’art. 23 della legge organica n. 6 del 1985 sul potere giudiziario, che recepisce nell'ordinamento spagnolo il principio dell’universalità della giurisdizione penale. Secondo questo principio, tutti gli Stati possono processare i responsabili di crimini internazionali, indipendentemente dal luogo in cui i crimini sono stati commessi, dalla nazionalità dei responsabili, da quella delle vittime e più in generale dall’esistenza di qualsiasi collegamento tra lo Stato in cui si celebra il processo e i crimini.

Fu sulla base dell’art. 23 della legge suddetta che nel 1998 il giudice Baltasar Garzon emise un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, eseguito dalla polizia di Londra dove questi si trovava per cure mediche. Pinochet non fu tuttavia mai estradato in Spagna, perché ritenuto dalle autorità britanniche non in grado di sostenere il processo a causa delle sue condizioni di salute.

Secondo l’art. 23, già riformato in senso restrittivo nel 2009, i tribunali spagnoli hanno giurisdizione su crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio commessi all’estero da spagnoli o stranieri, nel caso in cui i presunti responsabili si trovino sul territorio spagnolo oppure vi siano vittime di nazionalità spagnola o comunque sussista un “collegamento rilevante” con la Spagna e sempre che non sia stato avviato un procedimento per gli stessi crimini in un altro Stato avente giurisdizione o davanti ad un tribunale internazionale.

Secondo i promotori della riforma, questi limiti alla giurisdizione dei tribunali spagnoli sui crimini internazionali non sarebbero più sufficienti. Il progetto di legge richiede che i presunti responsabili dei crimini siano cittadini spagnoli, stranieri abitualmente residenti in Spagna oppure stranieri presenti in Spagna la cui estradizione sia stata negata dalle autorità spagnole.

È inoltre prevista la sospensione dei procedimenti già iniziati contro individui che non soddisfino nessuna di queste condizioni finché almeno una di esse non si realizzi. Il che significherebbe blocco immediato del procedimento contro Jiang Zemin, Li Peng e gli altri tre ex dirigenti cinesi.

Pressioni cinesi
L’ex presidente cinese è accusato, insieme agli altri, di genocidio e crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione della Regione Autonoma del Tibet. Il procedimento, avviato sulla base di una querela presentata nel 2008 da un’organizzazione non governativa pro Tibet e da un lama tibetano di nazionalità spagnola, ha fatto salire la tensione tra Pechino e Madrid quando a novembre scorso l’Audiencia Nacional ha ordinato al giudice Moreno di emettere un mandato d'arresto nei confronti di Jiang Zemin, Li Peng e degli altri tre.

La reazione cinese non si è fatta attendere. Le autorità cinesi sono giunte a minacciare rappresaglie economiche in caso di prosecuzione del procedimento. La Cina detiene il 20% del debito pubblico spagnolo ed è un importante partner commerciale di Madrid. Di qui la presentazione del progetto di riforma.

Corte penale internazionale
A sostegno della riforma è stata richiamata l’esistenza della Corte penale internazionale (Cpi), del cui Statuto la Spagna è parte, che renderebbe non necessaria la giurisdizione universale dei tribunali spagnoli sui crimini internazionali.

In realtà la Cpi non ha giurisdizione universale: può processare i responsabili di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio solo ove questi siano cittadini di uno Stato parte dello Statuto o di uno Stato non parte che ha accettato la sua giurisdizione oppure abbiano commesso i crimini su uno di detti Stati, tranne che vi sia un deferimento della situazione al Procuratore della Corte da parte del Consiglio di Sicurezza.

L’esistenza della Cpi quindi non rende superflua l’applicazione da parte degli Stati del principio dell’universalità della giurisdizione penale.

Se approvata definitivamente, la riforma rappresenterà un arretramento per un Paese che negli ultimi decenni si era fatto promotore di questo principio a livello mondiale.

La Spagna non è tuttavia il primo Stato a sacrificare l’interesse alla repressione dei crimini internazionali da chiunque commessi sull’altare della Realpolitik. Nel 2003 il Belgio ha abrogato la legge sulla giurisdizione universale adottata nel 1993, sostituendola con un’altra depotenziata, in seguito alle pressioni degli Stati Uniti, irritati dal procedimento aperto contro l’ex Presidente George Bush e l’ex Generale Colin Powell per presunti crimini commessi nella guerra del Golfo del 1991.

Il caso spagnolo, come quello belga, sollecita una riflessione su come assicurare l’applicazione del principio dell’universalità della giurisdizione penale a livello globale. Una convenzione internazionale in materia potrebbe essere uno strumento utile. Ma è da chiedersi quanti Stati la ratificherebbero.

Marina Mancini è docente di Diritto internazionale penale nel Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli e ricercatrice di Diritto internazionale nel Dipartimento di Giurisprudenza ed Economia dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
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Le Elezioni Europee del 2014 si avvicinano

Elezioni europee 2014
Tornado Tsipras su Bruxelles
Giampiero Gramaglia
28/02/2014
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Il Parlamento europeo dell’VIII legislatura sarà più polarizzato dell’attuale: i gruppi delle tre tradizionali maggiori famiglie politiche europee, liberali, popolari e socialisti, dovrebbero occupare i due terzi dei 751 seggi, mentre quasi tutto il terzo restante andrà a formazioni portatrici di visioni euro-critiche o euro-scettiche.

La corsa alla presidenza della Commissione europea, che vede in lizza candidati di ogni tendenza, personalizza il confronto e potrebbe contribuire a incoraggiare la partecipazione. E, in Italia, cresce il sostegno al leader greco di Syriza, Alexis Tsipras, sul cui nome convergono europeisti delusi ed euro-scettici responsabili.

In questi giorni, la campagna per le Europee del 22 e 25 maggio ha epicentro a Roma. Il congresso del Partito socialista europeo formalizza la candidatura alla presidenza della Commissione del presidente uscente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco, e l’adesione del Pd al Pse. E c’è l’atto di nascita di Green Italia, costola italiana dei Verdi europei, che devono ancora designare il loro campione tra gli eurodeputati José Bové, francese, e Ska Keller, tedesca, selezionati con primarie online.

Il prossimo fine settimana, il Partito popolare europeo sceglierà il proprio candidato: quattro gli aspiranti alla ‘nomination’, il commissario europeo al Mercato interno Michel Barnier, francese, il premier lettone Valdis Dombrovskis, l’ex premier lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker e il premier finlandese Jyrki Katainen.

A quel punto, lo schieramento ai nastri di partenza sarà completo, perché i liberali hanno già scelto l’ex premier belga e leader federalista Guy Verhofstadt, mentre gli euro-scettici di destra, conservatori britannici o l’Alleanza coagulata intorno al Front National di Marine Le Pen, cui partecipa la Lega, non intendono presentare candidati.

La sorpresa del sorpasso socialista
Poll Watch 2014, un sondaggio voluto dal sito VoteWatch, in collaborazione con Burson-Marsteller e Europe Decides, vede i socialisti in testa (217 seggi contro i 208 attuali), seguiti dai popolari (200 seggi dai 265 attuali) nel nuovo Parlamento. A seguire, i non iscritti (92 seggi, in grandissima parte euro-scettici ), i liberali (70), la sinistra di Tsipras (56), i Verdi (44), i conservatori (42), gli attuali autonomisti (30).

L'Alleanza per la libertà otterrebbe 38 seggi: la soglia per formare un gruppo politico a Strasburgo è di almeno 25 eurodeputati provenienti da almeno sette Stati.

In Italia, il sondaggio indica il prevalere degli eletti S&D su quelli che fanno riferimento al Ppe: 22 contro 20 su 73 seggi. Ma, secondo Poll Watch 2014, ben 24 eurodeputati italiani vanno nella casella ‘non iscritti’: quelli del M5S, attualmente non rappresentato a Strasburgo. I sette restanti vengono dalla Lega e dalle altre formazioni politiche.

Ricetta contro il calo dell’affluenza
La corsa alla presidenza della Commissione e i dubbi sui rapporti di forza nel nuovo Parlamento sono potenziali antidoti contro un ennesimo calo dell’affluenza alle urne, che sarebbe per l’Unione una sconfitta peggiore di una larga affermazione di euro-critici ed euro-scettici.

Secondo una ricerca ufficiale, dal 1979 la partecipazione alle Europee nell’insieme degli Stati membri è diminuita di quasi 19 punti percentuali, passando dal 62% del 1979 al 43% del 2009. Escludendo i Paesi in cui vige l’obbligo di voto, nel 2009 le affluenze più elevate si sono registrate a Malta (78,8%), in Italia (65%) e in Danimarca (59,5%).

Ma l’Italia, che partiva da affluenze alle urne altissime, è anche fra i quattro Paesi che hanno visto il maggiore decremento della partecipazione, con Grecia, Cipro e Lituania. C’è da sperare che competizione e polemiche riportino pure un briciolo di passione.

L’‘altra Europa’ di Tsipras
‘L'altra Europa con Tsipras’ è il nome scelto online da oltre 7mila elettori italiani per la lista civica che sostiene la candidatura del leader di Syriza alla presidenza della Commissione europea. Portato alla ribalta dalle ultime contrastate elezioni politiche greche, che hanno fatto del suo partito Syriza la seconda forza politica del Paese, Alexis Tsipras è un volto nuovo sulla scena europea: 40 anni, una militanza comunista, è stato scelto come candidato della Sinistra unita al congresso di Madrid, nel dicembre scorso, con oltre l’84% dei consensi.

In Italia,‘L’altra Europa con Tsipras’ nasce da un appello lanciato da Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores d'Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli e Guido Viale. Ora, la lista vaglia candidati e cerca firme per potersi presentare.

Con Tsipras, c’è pure Sinistra ecologia e libertà, sia pure con qualche distinguo: il congresso del partito punta su di lui, con una maggioranza dei due terzi, ma il presidente Nichi Vendola traccia una linea poco netta, ‘Con Tsipras, ma non contro Schulz’. E, nel partito, c’è chi preferisce il candidato socialista, forse perché c’è la consapevolezza che il leader greco può essere una bandiera, ma non può spuntarla.

L’incognita dei dibattiti televisivi
A dare una spinta alla campagna, potrebbe essere lo svolgimento di dibattiti televisivi fra i candidati alla presidenza della Commissione. Ma nessuno dei progetti finora abbozzati s’è per il momento concretizzato. Se il liberale Verhofstadt ha già accettato l’invito del Cime per un dibattito a Roma, in Campidoglio, il 25 marzo, nell’anniversario della firma nel 1957 dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee, i suoi antagonisti devono pronunciarsi.

Altre potenziali sedi di dibattiti fra i candidati dei maggiori partiti sono Atene e Maastricht. Ma l’ipotesi più forte è quella di un confronto a Bruxelles il 9 maggio, giorno della Festa dell’Europa. Con la speranza che le televisioni dei 28 non snobbino poi l’appuntamento.
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Ucraina: ritorniamo prima del 1954. La Crimea si stacca. La Malorossiya. Piccola Russia

Crisi Ucraina
Crimea, vento in poppa verso est
Giovanna De Maio
27/02/2014
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Mentre a Kiev si rimuovono le stelle a cinque punte dalle guglie dell’edificio che ospita la Rada Suprema, in Crimea si calano le bandiere ucraine e si issano quelle russe.

Ogni ora che passa il quadro sembra sempre più instabile, e il neo-premier ucraino Arseniy Yatsenyuk ha annunciato che l’Ucraina intende difendere la propria integrità territoriale e farà tutto quanto concede la legge per riportare l’ordine in Crimea. A rispondergli sembra il nuovo premier della repubblica autonoma di Crimea, Serghiei Aksionov che ha affermato di considerare il deposto presidente Viktor Ianukovich il "legittimo" capo di Stato ucraino.

All’esterno del Parlamento di questa Repubblica autonoma a fronteggiarsi sono due gruppi: i sostenitori dell’Euro-Maidan che vorrebbero il riconoscimento del nuovo governo di Kiev e quelli del “Fronte Crimea”, i filorussi che invece gridano al golpe, invocando la protezione della Russia.

Nel centro di Sebastopoli sfilano intanto due carri armati russi inviati da Mosca per proteggere sia la sua flotta nel Mar Nero nell’eventualità di un attacco, sia i cittadini russi di Crimea, da sempre considerati come connazionali all’estero da tutelare.

Il 58% dei cittadini di Crimea è infatti di etnia russa, russkie, e si differenzia dai russofoni dell’Ucraina dell’est che invece sono detti rossijanye, di cittadinanza russa. La restante parte della popolazione è per il 24% ucraina e 12% tatara, mentre il russo è considerata la lingua madre da tre quarti di essa.

Rischio seccessione
Con l’inasprirsi della crisi, non è più un tabù parlare di secessione. Questa potrebbe partire proprio dalla Crimea, la regione più russa dell’Ucraina. Per trecento anni i tatari di Crimea rimasero sotto la dominazione ottomana, poi dal 1774 la penisola divenne un vassallo dell’impero russo. Durante la rivoluzione russa, i tatari cercarono senza successo di istituire un khanato indipendente, ma nel 1944 subirono una deportazione di massa a oriente comandata da Stalin.

Ufficialmente in occasione del 300esimo anniversario del trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia, nel 1954 la Crimea fu ceduta alla repubblica socialista sovietica di Ucraina dal leader sovietico Nikita Krushev. Le ragioni tuttavia, sarebbero state connesse principalmente alla governabilità della penisola, più facilmente gestibile da Kiev che da Mosca.

In seguito al crollo dell’Urss, l’Ucraina tentò una campagna di ucrainizzazione che fomentò i malumori dei tatari ritornati in Crimea, e la faccenda si concluse con la concessione da parte ucraina dello status di repubblica autonoma.

Sebastopoli
La Crimea ha sempre rivestito un’importanza strategica. La base navale di Sebastopoli, infatti, ospita circa il 70% della flotta russa e il suo affitto è stato rinnovato fino al 2042 in cambio di condizioni più favorevoli sulle forniture di gas.

La storica ricerca da parte della Russia di uno sbocco sui mari caldi vede il Mar Nero come punto nevralgico non solo per i rapporti commerciali marittimi, ma anche per la proiezione di Mosca nel Mediterraneo e nell’Oceano indiano e per il controllo dell’area caucasica meridionale.

La marina militare russa, inoltre, svolge un ruolo di presidio per il transito dei gasdotti ed è pronta a intervenire in caso di eventuali crisi regionali che possano mettere a rischio la sfera di influenza e di sicurezza del Paese.

La situazione economica della Crimea, come del resto quella dell’Ucraina, è allo sbando: il declassamento del debito da parte di Standard & Poor's da B- a CCC+ è già un dato eloquente. Inoltre, l’élite economica è parcellizzata e si mostra meno accomodante con l’Unione europea rispetto ai colleghi ucraini che nella seconda metà degli anni ’90 hanno investito nelle località turistiche di Crimea.

Malorossiya 
Nella regione esiste effettivamente un separatismo locale che reclama l’annessione a Mosca o addirittura uno Stato federativo denominato Malorossiya, Piccola Russia, in unione con l’Ucraina centrale e sudorientale. Tuttavia, nonostante la Duma russa avesse già dichiarato nullo per incostituzionalità l’atto di cessione della penisola del ’54, la questione è rimasta finora sotto controllo per buona volontà delle parti, e l’atto non è mai stato formalmente ratificato dal presidente russo.

La recente iniziativa del consolato russo di Sebastopoli di stampare passaporti per tutti gli ucraini di lingua russa, l’elezione nella stessa città di un sindaco russo, Alexej Chalij e la visita di senatori russi nella regione, non sembrano sufficienti a sostenere un eventuale impegno di Mosca a favore di un’annessione.

Operazioni in grande stile sarebbero troppo impegnative, sia a livello finanziario che militare. Di certo Mosca farà leva sulla Crimea e sul prezzo del gas per influenzare la formazione della nuova costituzione, nell’ottica di una federalizzazione dell’Ucraina con importanti concessioni da parte della componente filo-russa del nuovo governo.

Tuttavia, il rischio che la Crimea segua la sorte di Ossezia del Sud, Abkhazia, Transnistria è tutt’altro che da sottovalutare.

Giovanna De Maio è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI (Twitter: @Giovgenius).
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Ucraina: il profilo dettato dal diritto internazionale

Crisi Ucraina
Russia in Crimea contro il diritto internazionale 
Natalino Ronzitti
04/03/2014
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Di fronte alle titubanze dell’Occidente e alle reazioni per ora solo verbali, il presidente russo Vladimir Putin è prontamente passato all’azione occupando la Crimea, dopo essersi fatto autorizzare dal parlamento russo l’azione militare.

Autorizzazione di ampia portata, poiché non è limitata alla sola Crimea, ma all’intera Ucraina, il cui nuovo governo non è riconosciuto dal Cremlino che continua invece a ritenere il deposto Viktor Yanukovich il legittimo governante. Il che complica ancora di più la questione e la possibilità di arrivare in tempi brevi a una soluzione negoziata.

Sotto il profilo giuridico, l’invasione russa è una chiara violazione del diritto internazionale, della Carta delle Nazioni Unite e dei principi di base dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che vietano la minaccia e l’uso della forza.

Rischio secessione
Le motivazioni accampate dalla Russia non reggono. È stato invocato il diritto d’intervenire a difesa dei propri connazionali che si trovano nelle basi russe in Crimea. Ma tale diritto, che un tempo era rivendicato solo dagli stati occidentali, non è stato esercitato nel caso concreto o è stato perseguito in modo abnorme. La dottrina dell’intervento a protezione dei cittadini all’estero prevede che si possa intervenire in territorio altrui quando i propri cittadini siano realmente in pericolo di vita e il sovrano territoriale non voglia o non possa difenderli. Una situazione non ricorrente in Crimea.

Inoltre, in tale tipo d’intervento si salvano i propri cittadini e si riportano in patria e l’azione militare non produce un’occupazione del territorio straniero. L’azione dei militari armati senza mostrine che hanno circondato le basi ucraine in Crimea era chiaramente imputabile alla Federazione russa e non dovuta a forze ribelli locali.

Né potrebbe essere invocata l’esimente del consenso delle autorità locali all’intervento. La Crimea non è uno stato, ma solo una provincia ucraina, sia pure dotata di ampia autonomia. Fu trasferita all’Ucraina nel 1954, un atto interno all’Unione Sovietica.

Quando l’Ucraina è diventata indipendente nel 1991, il suo territorio, come stato sovrano, comprendeva anche la Crimea, tanto è vero che la Russia ha negoziato e concluso, nel 1997, un accordo per lo stazionamento della flotta russa del Mar Nero. Quindi non si potrebbe neppure parlare di riappropriazione di un territorio appartenente alla Federazione russa, tesi che peraltro non è stata invocata.

Probabilmente si andrà verso la secessione della provincia e la costituzione di un nuovo stato, ma questo difficilmente otterrà il riconoscimento da parte della comunità internazionale, essendo la secessione fomentata dall’esterno e ottenuta con l’intervento di una potenza straniera in violazione delle più elementari regole del diritto internazionale. In questi casi il principio dell’integrità territoriale prevale.

Legittima difesa collettiva
L’Ucraina ha mobilitato le proprie forze armate. Essa ha diritto di esercitare la legittima difesa, come consentito dalla Carta delle Nazioni Unite, diritto che è connaturato all’esistenza stessa dello stato e che non richiede, per il suo esercizio, di essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Ben vengano le parole di moderazione come quelle espresse dal governo italiano, ma è assurdo non ricordare i diritti della vittima dell’aggressione e in particolare che questa può reagire con la forza armata, quantunque le forze in campo siano incommensurabili.

Alla vittima dell’attacco armato spetta non solo il diritto di legittima difesa individuale, ma anche quella collettiva: terzi stati possono intervenire a suo favore.

La Nato dispone di un meccanismo di legittima difesa collettiva a tutela dei propri membri, nel senso che se uno stato dell’alleanza è attaccato gli altri debbono intervenire a suo favore. Questo non è il caso dell’Ucraina, che non è membro della Nato.

Teoricamente però, la Nato, pur non essendovi obbligata, potrebbe intervenire a favore dell’Ucraina, con una missione decisa dal Consiglio atlantico. Teoricamente, poiché nessuno vuole morire per Kiev e infatti la Nato non è andata oltre la deplorazione dell’intervento russo e la sua stigmatizzazione come violazione del diritto internazionale.

Il Consiglio di sicurezza Onu (Cds) ha già tenuto, a porte chiuse, una riunione e il Segretario generale si è mobilitato. Le capacità d’intervento sono però limitate. La Russia è membro permanente del Consiglio e qualsiasi azione incisiva sarebbe paralizzata dal veto. Per questo motivo il Cds non potrebbe decretare delle sanzioni neppure nella forma blanda di una raccomandazione.

Quanto all’Unione Europea, non vale neppure la pena parlarne. Come dimostrano gli esempi passati, quando si tratta di passare all’azione militare i suoi membri procedono in ordine sparso. Almeno dovrebbe ribadire il diritto alla legittima difesa dell’aggredito!

Memorandum di Budapest
Il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994 è stato invocato con riferimento alla situazione ucraina, ma in termini errati. Il Memorandum fu concluso da Federazione Russa, Regno Unito, Stati Uniti e Ucraina quando l’Ucraina aderì al Trattato di non-proliferazione nucleare come stato non nucleare, dopo che l’arsenale atomico che stazionava nel suo territorio, ai tempi dell’Unione Sovietica, fu traferito alla Russia.

Il Memorandum di Budapest riguarda le garanzie di sicurezza negative e positive. I tre stati nucleari s’impegnano a non usare le armi nucleari nei confronti dell’Ucraina e, in caso di aggressione o minaccia di aggressione con armi nucleari, a portare immediatamente la questione dinanzi al Cds per ricevere adeguata assistenza. Vi è anche un obbligo di consultazione tra gli stati parti del memorandum, ma solo in caso di minaccia nucleare.

Non è il nostro caso. Però il Memorandum una rilevanza indiretta ce l’ha. Si pronuncia infatti per la conservazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina nell’ambito delle “frontiere esistenti”. Quindi viene riconosciuta, anche dalla Federazione Russa, l’appartenenza della Crimea all’Ucraina, di cui faceva parte nel 1994.

Non occorre una risoluzione del Cds per raccomandare o decidere sanzioni obbligatorie, quando uno stato si sia reso responsabile di violazioni gravi del diritto internazionale. Le sanzioni possono comprendere il congelamento delle risorse finanziarie, il divieto di import/export ed anche sanzioni individuali che includono il congelamento di beni e la limitazione dell’ingresso nei territori degli stati partecipanti.

Gli Stati Uniti si sono già mossi. Per l’Italia e l’Unione europea in genere una politica sanzionatoria solleva problemi politici ed economici di non poco momento. C’è da giurare che saranno avanzati dubbi sulla loro efficacia.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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Ucraina. Prove di Guerra Civile


Prove di guerra civile a Kiev
Dal nostro inviato a Kiev Eliseo Bertolasi

Com’era prevedibile la situazone a Kiev è nuovamente peggiorata. La nuova scintilla: il tentativo, martedì 18 febbraio, di bloccare una colonna di manifestanti che stava per irrompere in una seduta alla Rada. A prescindere dalla causa scatenante, era solo questione di tempo: la tensione tra i manifestanti e le forze dell’ordine (che ovviamente personificano il governo) era talmente tangibile che prima o poi un qualsiasi pretesto avrebbe scatenato questo incendio.
Nelle ultime settimane i manifestanti avevano addirittura guadagnato terreno spostando in avanti la linea difensiva delle barricate. Ne avevano costruite delle nuove in posizione più avanzata, come ad esempio quelle su via Grushevskava, teatro dei duri scontri con la polizia di qualche settimana fa. Osservo che i manifestanti, ora, sono molto più organizzati rispetto ai primi momenti, e quando parlo di manifestanti non intendo le migliaia di persone che di domenica arrivano in piazza per sostenere la protesta, ma intendo coloro che in piazza, ormai, ci vivono stabilmente da dicembre.
È innegabile constatare che da semplici manifestanti si sono ormai trasformati in una specie di “miliziani”: vestono mimetiche tedesche o Nato, spesso indossano buffetteria militare, protezioni, portano caschi, elmetti, maschere antigas, sono armati di mazze, manganelli, si proteggono dietro veri e propri scudi metallici. La polizia, nella giornata di martedì, scendendo dall’altura del Hotel Ucraina ha respinto indietro i manifestanti fin nel centro della piazza. Lì si trova ora il “fronte” di Piazza Maidan.
Piazza Maidan, il cuore della capitale, per chi ci è stato una delle più belle piazze del mondo, è ora trasformata in un campo di battaglia: da una parte le truppe antisommossa dall’altra i manifestanti protetti da una barricata che hanno eretto trasversalmente alla piazza, dietro la quale parte il lancio di una continua e nutrita sassaiola contro la polizia. In mezzo ai due schieramenti: il fuoco, che viene costantemente alimentato con pneumatici e legname per creare una cortina fumogena contro la polizia. 
In base alla mia testimonianza diretta, in piazza non ho mai visto manifestanti armati di armi da fuoco. Contro la polizia lanciano pietre e molotov. Il selciato della piazza è stato totalmente divelto, i mattoni vengono poi frantumati in piccole pietre per essere lanciate contro le forze dell’ordine. Dietro la barricata i manifestanti sono ben organizzati, la prima linea è costantemente rifornita di pietre che arrivano con dei lunghi passamano dai punti di frantumazione posti nelle retrovie in piazza, o fino dalla via Kreshatik; anche il cibo è abbondante, viene offerto gratuitamente e distribuito a tutti da tanti punti di ristoro e da ragazze che con i vassoi in mano girano tra la gente in piazza. Supporre che tutta questa organizzazione, questa logistica, sia frutto di una semplice autogestione mi sembra piuttosto arduo. È impossibile non intravvedere una regia o almeno un’organizzazione alle spalle.
La notte tra mercoledì e giovedì la situazione sembrava surreale, un incubo, se non per il fatto che si trattava di realtà; realtà nella quale ero completamente immerso. Il buio della notte squarciato dal fuoco delle barricate e degli incendi, dai lampi delle granate, con i potenti fari della polizia che puntavano sulla piazza. Le grida dei manifestanti, il rumore assordante delle granate antisommossa, sparate dalla polizia, e in sottofondo, dagli altoparlanti del palco, le continue preghiere recitate dai preti che benedicono la rivolta. Tra i manifestanti si aggirano, infatti, molti preti sia cattolici sia della chiesa uniata arrivati dalle regioni occidentali, oltre che preti della chiesa ortodossa utocefala ucraina.
Un’evidente incongruenza perché, come ben sappiamo, la protesta aspira ad integrare l’Ucraina nell’Unione Europea, mentre, al contario, l’Unione Europea ha rifiutato d’inscrivere nella suo atto costitutivo le radici cristiane.
Inno nazionale ucraino e preghiere, “nazionalismo e religione”, un miscela potentissima quando si vogliono creare i presupposti per una guerra civile.
Ormai si parla di oltre venti morti sia tra le truppe antisommossa che tra i manifestanti, e di centinaia di feriti.
Nel pomeriggio di mercoledì la situazione si presentava stazionaria: incendi, continua sassaiola contro la polizia da parte dei manifestanti con le loro mimetiche e i loro visi ormai neri dalla fuliggine, e la polizia immobile sullo sfondo, che presidia tutto un lato della piazza, in attesa di un ordine di attacco che per il momento non arriva. Arriverà? Quando arriverà? O forse non arriverà! In piazza è palpabile questa specie di “sospensione”, questa tensione di costante attesa. 
Nel frattempo Kiev è paralizzata, da martedì la metropolitana è chiusa con dei pesantissimi disagi per la popolazione che, seppur esausta dal perdurare di questa situazione, cerca comunque di dare una parvenza di normalità alla propria routine quotidiana. Contemporaneamente, sollevazioni popolari con attacchi alle varie sedi delle Amministrazioni regionali si stanno propagando a macchia d’olio un po’ in tutta l’Ucraina occidentale e centrale. Auspico che governo e opposizione possano ancora trovare spazi di negoziazione. Nelle mie interviste in piazza nessuno mi dice che vuole la divisione dell’Ucraina, e, forse, per ora, non si arriverà a una frattura tra l’Ucraina orientale e sud orientale e l’Ucraina occidentale e centrale. Tuttavia queste prove di “guerra civile” porranno un’ombra, un precedente, purtroppo sanguinoso, sul futuro del Paese. L’Ucraina non sarà più la stessa. 
Maidan 19 feb 1 © Eliseo Bertolasi
Maidan 19 feb 2  © Eliseo Bertolasi
Maidan 19 feb 3 © Eliseo Bertolasi
Maidan 19 feb 4 © Eliseo Bertolasi
Maidan 19 feb 5 © Eliseo Bertolasi
Maidan 19 feb 6 © Eliseo Bertolasi
Maidan notte 18 feb 1 © Eliseo Bertolasi
Maidan notte 18 feb 2 © Eliseo Bertolasi
Maidan notte 18 feb 3 © Eliseo Bertolasi
Maidan notte 18 feb 4 © Eliseo Bertolasi
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