massimo coltrinari
Conferimento Emblema Araldico a Mario Ceccaroni. Recanati 16 gennaio 2025.
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5 settimane fa
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note. Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato. Parametrazione a 100 riferito agli Stati Europei. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
Roam-like-at-home Roaming: un risultato concreto per rilanciare l’Unione Federico Palmieri 25/06/2017 |
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Ricollocazione problematica Migranti: quote, braccio di ferro tra Ue e alcuni Stati Francesco Luigi Gatta 23/06/2017 |
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Ue/Germania Morte Kohl: una lezione d’ottimismo europeo Giampiero Gramaglia 17/06/2017 |
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![]() “Il referendum è illegale e non si svolgerà”, ha subito risposto il governo centrale di Madrid, assicurando che saranno adottate tutte le misure necessarie per impedirlo. Ne è seguito uno scambio di accuse reciproco sulla mancanza di volontà di dialogo, sullo sfondo di una preoccupante incertezza su quello che effettivamente accadrà nei prossimi mesi. Come si è arrivati a questo punto Se è vero che la Catalogna - 15% della popolazione e quasi un quinto del Pil nazionale spagnolo - storicamente ha sempre avuto una propria specificità e una propria identità linguistico-culturale, il punto di flesso a partire dal quale si è innescato un rafforzamento del sentimento indipendentista (prima fisiologicamente stimabile attorno al 15-20%) si colloca nel 2010, quando una sentenza del Tribunale Costituzionale, su ricorso del Partito popolare, mutilò di ampie parti lo Statuto di autonomia catalano approvato nel 2006 con referendum regionale. Con l’arrivo al potere dei Popolari nel 2011, la situazione si è sempre più esacerbata. Da una parte, la posizione di totale chiusura del governo guidato da Mariano Rajoy verso le esigenze di maggior autonomia ha alimentato una sensazione di crescente vittimismo nella società catalana, esasperato dall’acuirsi di una crisi economica nella quale Barcellona si sarebbe vista costretta a eccessivi trasferimenti di solidarietà verso le altre Comunità autonome. Dall’altra, l’esecutivo catalano ha avuto gioco facile ad individuare nel governo centrale la causa di tutti i mali (“Madrid ci deruba”) e ha avviato un’azione di propaganda nazionalistica via via più capillare, servendosi ampiamente dei mezzi di comunicazione e del sistema educativo locale. La chiave economico-sociale, accanto a quella politico-culturale, rimane dunque fondamentale per una corretta lettura della questione catalana. Il sostegno all’indipendenza raggiunse il suo massimo - sfiorando il 50% - nel 2013, quando l’allora presidente della Generalitat Artur Mas annunciò per la fine del 2014 un referendum che poi, di fronte all’opposizione di Madrid, fu costretto a trasformare in una “consultazione partecipativa volontaria”: il 9 novembre 2014 votò solamente un terzo dei catalani, che tuttavia per l’80,76% si espresse a favore dell’indipendenza. Nelle successive elezioni regionali del settembre 2015, i partiti pro-indipendenza ottennero il 47,8% dei voti (pari però a 72 seggi su 135). L’appoggio all’autodeterminazione, dunque, non ha mai scavalcato la fatidica soglia del 50%, ma ciò non ha impedito alla Generalitat di avviare quello che a Barcellona chiamano “processo di disconnessione dallo Stato spagnolo”, ovvero la graduale costituzione di autonome strutture amministrative, a cominciare da una propria Agenzia tributaria e da una rete estera (sono già una decina le “ambasciate” catalane), nel sinora frustrato tentativo di raccogliere appoggi internazionali. A Madrid manca una strategia politica Da una parte, dunque, la Generalitat- ormai fusa in un unicum con le forze indipendentiste - continua a “vendere” il sogno demagogico di una secessione indolore come rimedio a tutti i problemi economici e sociali, anche per distogliere l’attenzione dagli scandali di corruzione che stanno travolgendo il partito di Puigdemont. Dall’altra, l’esecutivo centrale non ha saputo e non ha voluto, forse per calcolo elettorale, avanzare alcuna soluzione politica, trincerandosi piuttosto dietro una batteria di ricorsi giudiziari - amministrativi e costituzionali - contro ogni iniziativa delle autorità catalane, fino ad arrivare alla recente condanna all’interdizione dai pubblici uffici per l’ex presidente Mas. Un atteggiamento in buona parte controproducente, che ha creato “martiri”, contribuendo a fomentare l’indipendentismo. Solo il secondo governo Rajoy - entrato in carica nel novembre 2016 - ha tentato di avviare un canale di dialogo con la Generalitat su temi quali investimenti infrastrutturali, finanziamento regionale, educazione. Troppo tardi e con troppo poca convinzione. La strategia di Madrid rimane fondamentalmente attendista, affiancata da un puntuale contrasto per le vie legali, nella speranza che il progetto indipendentista imploda per le sue stesse contraddizioni e rivalità interne, aiutato in ciò dalla ripresa dell’economia nazionale. Sul tema catalano, Rajoy può del resto contare sull’appoggio non solo dell’alleato Ciudadanos, ma anche dei socialisti, principale partito di opposizione. Entrambe le forze rinfacciano tuttavia a Rajoy la sua inerzia e l’incapacità di offrire soluzioni politiche, con particolare riferimento ad una possibile riforma costituzionale che i socialisti vorrebbero in senso federale. Rischio di escalation e possibili vie d’uscita L’annuncio del referendum da parte di Barcellona è dunque solo l’ultimo di una serie di gesti provocatori del governo catalano, in un continuo gioco al rialzo che lascia intravedere il rischio (se non il deliberato disegno) di uno scontro istituzionale senza precedenti con Madrid, con possibili mobilitazioni di piazza, i cui potenziali sviluppi nessuno si azzarda a delineare. Non è chiaro fino a che punto il governo Rajoy sarà pronto a spingersi, nel caso in cui la Generalitat chiami effettivamente i catalani alle urne ed approvi la già predisposta “legge di disconnessione”, né se attiverà il sinora mai utilizzato articolo 155 della Costituzione spagnola, che permette al governo di surrogarsi nei poteri di una Comunità autonoma per garantire l’“adempimento forzoso” della legge. Per il momento, Madrid ha saggiamente optato per la moderazione, confermando che impugnerà l’eventuale convocazione del referendum, ma invitando al dialogo dentro i limiti della legalità. Secondo il governo centrale, lo scenario più probabile (o comunque più auspicabile) è quello che, di fronte all’impossibilità di svolgere il referendum, si convochino infine elezioni regionali anticipate. Ciò smorzerebbe forse temporaneamente le tensioni, ma non risolverebbe in ogni caso il problema di fondo, destinato a ripresentarsi con le sue fasi di picco cicliche. Un problema che rappresenta, insieme al superamento del bipartitismo, uno dei sintomi più evidenti di “esaurimento” dell’architettura democratica uscita dalla transizione post-franchista e del suo modello territoriale. Un modello ormai superato, poco chiaro nella ripartizione delle competenze e non sufficiente per rispondere alle domande di “specialità” da parte di alcune realtà regionali. Appare dunque necessaria una strategia proattiva, che punti a recuperare quel 20-30% di catalani convertitisi negli ultimi anni all’indipendentismo, molti dei quali tra gli elettori più giovani. Occorre approfittare della “fatigue” che la società catalana sta avvertendo rispetto ad un processo indipendentista ormai annunciato da anni, ma che sembra intrappolato in un copione che si ripete senza apparente via d’uscita. Occorre, appunto, offrire questa via d’uscita, elaborando un nuovo progetto di convivenza del Paese, che ascolti le rivendicazioni economiche catalane e consenta forme più profonde di autogoverno, pur nel rispetto del principio di solidarietà intra-regionale, e mettendo, ove necessario, mano alla Costituzione in linea con le specificità e la pluralità della realtà spagnola. Elisabetta HolsztejnTarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. | ||||||||
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![]() La May rimane capo del governo, così come sono confermati alcuni dei principali ministri del suo precedente esecutivo: Philip Hammond al tesoro, Boris Johnson agli esteri, Michael Fallon alla difesa, David Davis al ministero dedicato proprio alla Brexit. Se il nuovo governo conservatore è un segno di continuità, non lo è la sua maggioranza parlamentare. Infatti, la netta perdita di seggi da parte dei Tory fa sì che non abbiano più i 326 deputati necessari a controllare la Camera dei comuni, e debbano quindi formare un governo con l’appoggio del Democratic Unionist Party - il partito nord irlandese fedele alla corona britannica a favorevole alla Brexit. Così, l’esecutivo conterà su un’esile maggioranza di due soli seggi. Se la Brexit diventa soft La nuova situazione politica oltre Manica ha un impatto sui negoziati per la Brexit, anche se è difficile capirne l’entità. Di certo, il mandato elettorale chiesto dalla May per un braccio di ferro volto alla “hard Brexit” non è arrivato. Anzi, partiti che al referendum del 2016 si erano schierati per rimanere nell’Unione, quali i Liberal-Democratici ei Laburisti, hanno aumentato voti e seggi. Ciò rimette in discussione lo scenario di una “hard Brexit” e allontanal’ipotesi di un’uscita di Londra dall’Unione anche senza un accordo tra le parti, che la May esplicitamente contemplava quando in campagna elettorale affermava “no deal is better than a bad deal”. Sarebbe però sbagliato pensare che il risultato del referendum del giugno 2016 sia stato rimesso in discussione dal voto politico. I conservatori restano fermamente schierati per la Brexit, pur con diverse visioni su quanto essa debba essere “hard”. Una parte significativa dei deputati laburisti ha vinto in collegi che vedono una maggioranza di elettori a favore dell’uscita dall’Ue e il loro leader Jeremy Corbyn si era comunque impegnato a rispettare l’esito del referendum ed a raggiungere un accordo con l’Unione per una “soft Brexit”. Proprio la “soft Brexit” è una opzione resa possibile dall’attuale quadro politico britannico, ma non è detto che May la porterà al tavolo negoziale con Bruxelles. La premier potrebbe infatti insistere su una "hard Brexit", riguardo in primo luogo alla giurisdizione del diritto comunitario e alla libera circolazione delle persone, accompagnata però da un favorevole accordo di libero scambio con l'Ue. Bruxelles (con Berlino) ha già fatto capire che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, ossia prendere solo gli elementi convenienti per Londra del mercato unico e lasciare gli altri; e sembra pronta a tenere il punto nei prossimi negoziati. In un braccio di ferro del genere, la Gran Bretagna si trova indebolita a causa della fragilità politica e parlamentare del suo governo. L’Unione invece nel frattempo si è rafforzata con la vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi e si rafforzerà ulteriormente nel caso, probabile, di una vittoria del partito del presidente alle prossime elezioni parlamentari d’oltralpe. Brexit e cooperazione europea nella difesa Nel quadro generale della Brexit, il settore della difesa è tra i meno controversi, ma non per questo tra i meno importanti e complessi. Infatti, in meno di due anni si dovrà giungere a definire i futuri rapporti con l’Ue ed in particolare con l’Agenzia europea di Difesa (European Defence Agency - Eda), le modalità per un eventuale contributo di Londra alle missioni nell’ambito della Politica di Sicurezza e di Difesa comune (Psdc) e soprattutto l’accesso britannico al mercato europeo della difesa. Nel caso dell’Eda, una volta fuori dall’Ue, per Londra esistono potenzialmente due strade per cooperare oltre Manica. Una è la sottoscrizione di accordi simili a quelli in essere tra Eda eNorvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina. L’altra, considerando la grande importanza militare e industriale di Londra, è la definizione di un accordo ad hoc, che però potrebbe richiedere tempi maggiormente dilatati. Per quanto riguarda la partecipazioni alle missioni Psdc, uno studio della Camera dei Lord faceva riferimento alla possibilità per Londra di avere un seggio formale nel Comitato Politico e di Sicurezza dell’Ue - ipotesi discussa anche in altre capitali europee. In tal modo la Gran Bretagna potrebbe partecipare alla definizione e pianificazione delle missioni cui partecipa, mantenendo pertanto un ruolo attivo a livello sia politico che militare. Visto però l’indebolimento del governo May, non è certo che Londra avrà la forza necessaria per giungere ad un accordo di questo tipo. Piuttosto, l’Ue potrebbe insistere per utilizzare l’esistente quadro normativo europeo, che prevede la possibilità per Stati terzi di partecipare militarmente alle missioni europee senza essere parte del processo politico che decide e pianifica l’intervento. Ciò che è certo al momento è che il Regno Unito, quale membro dell’Alleanza Atlantica, continuerà a partecipare alle operazioni e attività della Nato. Pertanto, anche nel caso del mancato raggiungimento di un accordo tra Londra e Bruxelles sulle missioni Psdc, la cooperazione militare tra Regno Unito e stati Ue membri Nato continuerà nel quadro transatlantico. In materia di industria e mercato della difesa, la situazione è estremamente complessa perché dipendente dai termini dell’accesso britannico al mercato Ue, ovvero il principale nodo dei negoziati tra Londra e Bruxelles. Qui si ritorna alla scelta, da parte di un indebolito governo May, di insistere o meno su una “hard Brexit” scelta come bandiera dopo nove mesi di incertezza - tanti ce ne sono voluti tra il referendum e l’attivazione dell’articolo 50 da parte di Londra - e in un certo senso sconfessata dalle ultime elezioni. A urne chiuse, la nebbia non si dirada sulla Manica. Alessandro Marrone, Responsabile di RicercaProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Alessandro__Ma) Ester Sabatino, Junior Fellow ProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Ester_Sab1). | ||||||||
Elezioni politiche GB: la hybris della May, l’avanzata di Corbyn Lorenzo Colantoni 09/06/2017 |
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