Brexit L’Europa di Spinelli contro quella della Thatcher Antonio Armellini 25/02/2016 |
David Cameron ha ottenuto più o meno quello che voleva; i Ventisette hanno concesso più o meno quello che ritenevano possibile. Il risultato è un compromesso che forse eviterà la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, ma che lascia aperti molti interrogativi e fa intravvedere pericoli del cui impatto non tutti sembrano essersi resi conto.
Addio a un’Ue sempre più stretta
La cancellazione dell’impegno condiviso per una “unione sempre più stretta” è stata considerata a lungo alla stregua di una clausola di stile, o poco più, e lo stesso Cameron la aveva, almeno all’inizio, presentata così.
Man mano che ci si è avvicinati alla stretta finale del negoziato ci si è resi conto che essa è destinata a modificare l’impianto istituzionale europeo in maniera ben più dirompente.
Il mantra di un gruppo di paesi che condividono il medesimo obiettivo di dare vita ad una struttura sovranazionale comune - sia pure con tempi modalità differenziate - non ha più fondamento. Era un mantra un po’ frusto, qualcuno potrà osservare, ma era anche l’unico a costituire il tessuto politico unificante del progetto europeo.
Ora il re è nudo e nessuno può fingere di ignorarlo: per l’Ue si prospetta un futuro non già basato su geometrie variabili, velocità differenziate e quant’altro, bensì su due Europe distinte: una di Altiero Spinelli, intorno all’euro, una di Margaret Thatcher, basata sul mercato.
Due Europe separate e interconnesse - in una reinterpretazione del concetto di Europa “delle convergenze parallele” - nel quadro di una Ue più ampia - quella di Coudenhove Kalergi - basata su principi fondamentali di libertà, economia di mercato e diritti della persona, in cui si potrà far posto alla Turchia e si dovrà cercare di far ragionare gli Orban di oggi e di domani.
A volerla cogliere, l’accordo sul Brexit potrebbe fornire l’occasione per un ripensamento a fondo della natura e delle finalità dell’Ue (è quanto sostengono anche gli euroscettici inglesi, sia pure in una prospettiva diversa). Come potrà articolarsi l’Europa politicamente integrata della moneta? Quale sarà la sua governance? Quale la tempistica e le modalità di un processo unificante che dovrà partire da una unione economica e di bilancio, ma non fermarsi alla creazione di un unico ministro delle finanze? Chi ne saranno i membri?
L’Italia e la revisione dell’identità europea
Immaginare che tutti i Diciannove saranno disposti a compiere il salto di qualità verso l’unione sovranazionale che la sopravvivenza a lungo termine dell’euro richiede non è assolutamente scontato. Così come non è scontato se, e come potrà/vorrà parteciparvi un’Italia che sembra oscillare fra bordate euroscettiche e dichiarazioni d’impegno di sapore federalista (si veda l’ultimo position paper di palazzo Chigi).
Come verranno definite le relazioni fra l’Europa politica e l’Europa del mercato? Come si potrà evitare che la scomposizione del processo europeo avviata con il compromesso sul Brexit - in tema di immigrazione, welfare, rapporti finanziari - non diventi strutturale, alterandone definitivamente la natura? Come, di conseguenza, far sì che l’eccezionalissimo britannico resti tale, mentre si profilano all’orizzonte richieste del medesimo segno (Danimarca e Irlanda si agitano già)?
L’Italia ha storicamente svolto un forte ruolo propositivo nella costruzione politica dell’Europa: la debolezza francese e i condizionamenti della Merkel potrebbero consentirle di assumere la guida dell’indispensabile revisione dell’identità europea. Ci vorrebbe un forte colpo d’ala, che almeno per ora non si vede, mentre il governo Renzi resta ancorato a schemi come quello di sei fondatori che, aldilà del dato simbolico, è superato tanto dalla contingenza come dalla storia.
Brexit, campagna elettorale
La campagna per il referendum è partita in maniera diversa da come Cameron si aspettava. Sul piano razionale, vi sono pochi dubbi che per Londra uscire dall’Ue avrebbe effetti fortemente negativi; la più che probabile secessione della Scozia potrebbe decretare addirittura la fine del Regno Unito. La grande industria e la borghesia cosmopolita delle grandi città ha preso decisamente posizione per il sì, ma non è detto che basti.
Sull’esito del voto le valutazioni razionali rischieranno di cedere il passo a pulsioni che di razionale hanno poco e che sono profondamente radicate nelle zone rurali e nella vecchia cintura industriale: si tratta di un elettorato che diffida della City e che vede nell’Europa un pericoloso cavallo di troia della globalizzazione, dalla quale difendersi rivendicando l’insularismo della propria britishness. Gioca contro di ciò il tradizionale pragmatismo degli inglesi, che li porta in genere a preferire il “diavolo che si conosce” al rischio di nuove avventure.
Vittoria del Sì, ma …
Mi sentirei quindi di dire che - salvo stravolgimenti dell’ultimo momento, come una nuova crisi dei migranti o l’esplosione del caso Grecia - il sì prevarrà con un margine ristretto, simile a quello del referendum per la Scozia. Se così dovesse essere, il problema inglese non sarebbe risolto, ma continuerebbe a trascinarsi indefinitamente, con una Londra sempre più riottosa e alla ricerca di ulteriori scappatoie che allontanino il pericolo di finire contaminata dall’aborrito progetto di integrazione politica sovranazionale.
È quello su cui punta Boris Johnson, il quale si è schierato per il no ma ha poi spiegato, in un lungo articolo sul Daily Telegraph, di non volere l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ma di volersi servire del no per negoziare ulteriori concessioni con Bruxelles.
Sul piano interno il suo calcolo ha senso: se David Cameron dovesse vincere il referendum alla grande, le possibilità di Boris Johnson di soffiargli il posto alle prossime elezioni si ridurrebbero a zero mentre, nel caso di vittoria del no, le cose muterebbero a suo favore.
Sul piano comunitario però Johnson, e i molti che a Londra la pensano come lui, sottovalutano gravemente l’insofferenza degli altri partner per questa costante, querula insistenza britannica nell’accettare negando, nel negoziare ripromettendosi di cambiare idea. La pazienza degli Eurocrati potrebbe stavolta essere davvero finita.
Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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Addio a un’Ue sempre più stretta
La cancellazione dell’impegno condiviso per una “unione sempre più stretta” è stata considerata a lungo alla stregua di una clausola di stile, o poco più, e lo stesso Cameron la aveva, almeno all’inizio, presentata così.
Man mano che ci si è avvicinati alla stretta finale del negoziato ci si è resi conto che essa è destinata a modificare l’impianto istituzionale europeo in maniera ben più dirompente.
Il mantra di un gruppo di paesi che condividono il medesimo obiettivo di dare vita ad una struttura sovranazionale comune - sia pure con tempi modalità differenziate - non ha più fondamento. Era un mantra un po’ frusto, qualcuno potrà osservare, ma era anche l’unico a costituire il tessuto politico unificante del progetto europeo.
Ora il re è nudo e nessuno può fingere di ignorarlo: per l’Ue si prospetta un futuro non già basato su geometrie variabili, velocità differenziate e quant’altro, bensì su due Europe distinte: una di Altiero Spinelli, intorno all’euro, una di Margaret Thatcher, basata sul mercato.
Due Europe separate e interconnesse - in una reinterpretazione del concetto di Europa “delle convergenze parallele” - nel quadro di una Ue più ampia - quella di Coudenhove Kalergi - basata su principi fondamentali di libertà, economia di mercato e diritti della persona, in cui si potrà far posto alla Turchia e si dovrà cercare di far ragionare gli Orban di oggi e di domani.
A volerla cogliere, l’accordo sul Brexit potrebbe fornire l’occasione per un ripensamento a fondo della natura e delle finalità dell’Ue (è quanto sostengono anche gli euroscettici inglesi, sia pure in una prospettiva diversa). Come potrà articolarsi l’Europa politicamente integrata della moneta? Quale sarà la sua governance? Quale la tempistica e le modalità di un processo unificante che dovrà partire da una unione economica e di bilancio, ma non fermarsi alla creazione di un unico ministro delle finanze? Chi ne saranno i membri?
L’Italia e la revisione dell’identità europea
Immaginare che tutti i Diciannove saranno disposti a compiere il salto di qualità verso l’unione sovranazionale che la sopravvivenza a lungo termine dell’euro richiede non è assolutamente scontato. Così come non è scontato se, e come potrà/vorrà parteciparvi un’Italia che sembra oscillare fra bordate euroscettiche e dichiarazioni d’impegno di sapore federalista (si veda l’ultimo position paper di palazzo Chigi).
Come verranno definite le relazioni fra l’Europa politica e l’Europa del mercato? Come si potrà evitare che la scomposizione del processo europeo avviata con il compromesso sul Brexit - in tema di immigrazione, welfare, rapporti finanziari - non diventi strutturale, alterandone definitivamente la natura? Come, di conseguenza, far sì che l’eccezionalissimo britannico resti tale, mentre si profilano all’orizzonte richieste del medesimo segno (Danimarca e Irlanda si agitano già)?
L’Italia ha storicamente svolto un forte ruolo propositivo nella costruzione politica dell’Europa: la debolezza francese e i condizionamenti della Merkel potrebbero consentirle di assumere la guida dell’indispensabile revisione dell’identità europea. Ci vorrebbe un forte colpo d’ala, che almeno per ora non si vede, mentre il governo Renzi resta ancorato a schemi come quello di sei fondatori che, aldilà del dato simbolico, è superato tanto dalla contingenza come dalla storia.
Brexit, campagna elettorale
La campagna per il referendum è partita in maniera diversa da come Cameron si aspettava. Sul piano razionale, vi sono pochi dubbi che per Londra uscire dall’Ue avrebbe effetti fortemente negativi; la più che probabile secessione della Scozia potrebbe decretare addirittura la fine del Regno Unito. La grande industria e la borghesia cosmopolita delle grandi città ha preso decisamente posizione per il sì, ma non è detto che basti.
Sull’esito del voto le valutazioni razionali rischieranno di cedere il passo a pulsioni che di razionale hanno poco e che sono profondamente radicate nelle zone rurali e nella vecchia cintura industriale: si tratta di un elettorato che diffida della City e che vede nell’Europa un pericoloso cavallo di troia della globalizzazione, dalla quale difendersi rivendicando l’insularismo della propria britishness. Gioca contro di ciò il tradizionale pragmatismo degli inglesi, che li porta in genere a preferire il “diavolo che si conosce” al rischio di nuove avventure.
Vittoria del Sì, ma …
Mi sentirei quindi di dire che - salvo stravolgimenti dell’ultimo momento, come una nuova crisi dei migranti o l’esplosione del caso Grecia - il sì prevarrà con un margine ristretto, simile a quello del referendum per la Scozia. Se così dovesse essere, il problema inglese non sarebbe risolto, ma continuerebbe a trascinarsi indefinitamente, con una Londra sempre più riottosa e alla ricerca di ulteriori scappatoie che allontanino il pericolo di finire contaminata dall’aborrito progetto di integrazione politica sovranazionale.
È quello su cui punta Boris Johnson, il quale si è schierato per il no ma ha poi spiegato, in un lungo articolo sul Daily Telegraph, di non volere l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ma di volersi servire del no per negoziare ulteriori concessioni con Bruxelles.
Sul piano interno il suo calcolo ha senso: se David Cameron dovesse vincere il referendum alla grande, le possibilità di Boris Johnson di soffiargli il posto alle prossime elezioni si ridurrebbero a zero mentre, nel caso di vittoria del no, le cose muterebbero a suo favore.
Sul piano comunitario però Johnson, e i molti che a Londra la pensano come lui, sottovalutano gravemente l’insofferenza degli altri partner per questa costante, querula insistenza britannica nell’accettare negando, nel negoziare ripromettendosi di cambiare idea. La pazienza degli Eurocrati potrebbe stavolta essere davvero finita.
Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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