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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

lunedì 27 ottobre 2014

l'Unione Europea in movimento

Unione europea
Nuovo sguardo di Junker sul cortile di casa europeo
Maria Serra
20/10/2014
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La differenza terminologica per individuare il portafoglio dell'Unione europea (Ue) preposto al perseguimento delle politiche di allargamento - da “Allargamento e politiche europee di vicinato” a “Politiche europee di vicinato e negoziati per l'allargamento” - risponde a un chiaro cambiamento di approccio da parte della Commissione di Jean-Claude Juncker nei confronti del cortile di casa europeo.

Dietro tale orientamento risiedono considerazioni di tipo geopolitico, oltre che economico e politico, che fonderanno l'azione della nuova direzione generale innanzitutto sul potenziamento delle capacità di assorbimento e sulla preferenza della qualità - più che della velocità - del processo di integrazione europea.

Lista di attesa per l’ingresso nell’Ue
L'allarmismo creatosi intorno alla dichiarazione di Juncker circa il fatto che nei prossimi cinque anni proseguiranno solo i negoziati con i paesi che hanno già ottenuto lo status di candidato ufficiale e con i quali sono state già avviate le trattative - escludendo quindi dal raggio degli interlocutori quasi certamente i candidati potenziali (Bosnia-Erzegovina e Kosovo) - esce ridimensionato se si considerano due fattori.

Il primo è relativo al fatto che tutti i paesi attualmente candidati non hanno comunque una prospettiva di ingresso prima del 2020: in alcuni casi i negoziati sono alle prime battute (Montenegro e Serbia), in altri stanno per cominciare (Albania) o non sono mai iniziati (Macedonia), in altri ancora hanno subìto un sensibile rallentamento o sono stati congelati (Turchia e Islanda).

In secondo luogo, i meccanismi di condizionalità a cui si stanno sottoponendo questi stessi paesi sono già da tempo più stringenti rispetto a quelli a cui si sono dovuti uniformare i dieci stati - se si escludono le adesioni di Bulgaria, Romania e, da ultimo, Croazia - protagonisti dell'ingresso big bang nel 2004.

Questo per due motivi: da un lato il quinto allargamento ha evidenziato successive criticità in termini sia di sostenibilità politica sia di mantenimento di stessi standard di sviluppo politico, economico e sociale; dall’altro i paesi in lista di attesa per l’ingresso nell’Ue sono quelli reduci dall’esperienza della disgregazione jugoslava e dei conflitti balcanici.

La progressiva convergenza tra Europa occidentale ed Est tracciata a partire dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003, e di cui la crisi congiunturale del 2008/2009 ha rilevato la fragilità di alcuni equilibri, richiede dunque ora maggiori sforzi da parte dei paesi del sud-est europeo nell'adeguarsi effettivamente all'acquis communautaire.

È in ragione di ciò che nei Progress Reports pubblicati l’8 ottobre anche la Commissione europea uscente, eccezion fatta per le raccomandazioni circa l’apertura delle trattative con la Macedonia e di due nuovi capitoli negoziali con la Turchia, non ha suggerito nessun nuovo step legale con i paesi della regione balcanica.

Crisi ucraina e politica di vicinato
La crisi ucraina e il conseguente raffreddamento dei rapporti tra Bruxelles e Mosca hanno rilevato una certa impreparazione delle politiche di vicinato nella misura in cui queste ultime non hanno tenuto conto della Russia, della sua agenda politica e del soft power che essa riesce a esercitare nello spazio ex-sovietico.

Anteporre la politica europea di vicinato ai negoziati per l’allargamento, rivedendone dunque gli strumenti oltre che l’estensione (se si considera l’impegno del Ministro Federica Mogherini a prestare maggiore attenzione al vicinato europeo), significherà conferire alla nuova direzione generale un’impronta più votata alla sicurezza, in evidente connessione proprio con l’ufficio dell’Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza comune.

Così anche la precedente esperienza dell’attuale commissario responsabile della politica di vicinato Johannes Hahn al portafoglio delle politiche regionali suggerisce l’impegno a far sì che il processo di europeizzazione resti per questi paesi l'unica opzione realmente credibile.

Paesi candidati disinteressati
Lo spettro di una nuova recessione, d’altra parte, rende impensabile che l’Ue possa farsi carico nel breve periodo di oneri derivanti dal sostegno a nuovi stati membri, ma che preferisca piuttosto optare per l’approfondimento degli strumenti già in essere, per una migliore allocazione dei fondi già destinati (11 miliardi di euro fino al 2020) e per una maggiore coesione interregionale.

La stessa situazione economica e monetaria e le discussioni politiche che si stanno sviluppando su queste precedono evidentemente qualsiasi dibattito relativo a una revisione delle strutture istituzionali per adattare nuovamente il loro funzionamento e il processo decisionale a nuovi ingressi.

In questo contesto è chiaro che il rischio maggiore per l’Ue è che i paesi candidati perdano l’interesse a proseguire sul cammino europeo. Alla nuova Commissione spetterà dunque di riuscire a calibrare i giusti incentivi affinché lo slancio all’allargamento resti immutato nel tempo e che quella di integrazione dei paesi dell’Europa sud-orientale resti una politica di successo quale finora è stata.

Maria Serra, analista di relazioni internazionali, collaboratrice di Aspenia e Ispi, si occupa di Balcani, Europa centro-orientale e Servizio europeo per l'azione esterna.
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Ucraina: si crea un nuovo parlamento per un futuro accettabile

Ucraina 
Kiev al voto con l’Europa in mente
Giovanna De Maio
21/10/2014
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Le domande degli ucraini si fanno più incalzanti in vista delle elezioni del prossimo 26 ottobre, quando sceglieranno i protagonisti del nuovo parlamento.

Per il momento il governo di Kiev ha deciso di dare due risposte a colpi di leggi: la prima, la zakon pro ljustratsiju, (lustration act in inglese); la seconda, un regime speciale della durata di tre anni per alcune aree delle regioni di Donetsk e Lugansk.

Se l’obiettivo era di smorzare la tensione e predisporre una situazione di relativa calma per lo svolgimento del voto, almeno per il momento non è stato raggiunto, poiché l’adozione di entrambi i dispositivi è stata accompagnata da dure polemiche, mentre il cessate il fuoco nelle regioni orientali non sembra aver dato risultati significativi.

Lustration Act, obiettivo trasparenza
L’obiettivo del lustration Act è escludere dalla competizione elettorale coloro che “con le loro azioni o inazioni hanno preso delle decisioni tese all’usurpazione del potere da parte del presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovich”.

L'approvazione del progetto è stata molto travagliata e la stessa versione definitiva risulta molto lacunosa.

Sebbene si rivolga a tutti coloro che ricoprano o intendano ricoprire una posizione negli organi di stato centrali o locali, l'atto fa del potere esecutivo e di quello giudiziario i sorvegliati speciali, mentre esclude le cariche a elezione diretta - quindi il presidente e i parlamentari.

Sicuramente questa misura gode di un ampio sostegno popolare, in previsione dell'uscita di scena degli ex funzionari e burocrati corrotti dell’era Yanukovich, nonché degli ex membri del partito comunista e agenti segreti del Kgb.

Restano tuttavia numerosi i dubbi circa l'efficacia e la portata del lustration act, che, oltretutto, rischia di non essere adottato uniformemente a tutti i livelli a causa dell’inefficienza delle burocrazie locali.

Leggi speciali per Donetsk e Lugansk
Il parlamento ucraino ha predisposto delle leggi speciali per quelle aree delle regioni di Donetsk e Lugansk non controllate dai separatisti.

Tra le misure principali, una maggiore influenza del governo locale sull’elezione dei giudici e procuratori, la possibilità per le città di formare una propria milizia, un’espansione dell’uso del russo come lingua ufficiale e uno snellimento delle regolamentazioni sulle imprese e sugli investimenti.

Un provvedimento molto contestato - “porta Donetsk sotto il controllo russo” ha tuonato Yulia Tymoshenko - perché implica concessioni difficili da digerire per l’opinione pubblica, sensibile alla dialettica dei partiti populisti che auspicano una soluzione armata del conflitto.

Pur ribadendo con fermezza che non saranno tollerate modifiche dei confini ucraini, il presidente Petro Poroshenko intravede tuttavia nelle leggi speciali la possibilità di gestire le prossime elezioni in un modo relativamente meno problematico.

Competizione interna al fronte dei filo-europei ucraini
Più che tra l’area maggioritaria di partiti favorevoli all’integrazione europea e quella filo-russa minoritaria del blocco dell’opposizione (Ucraina forte e il Partito comunista), la competizione elettorale si gioca nel primo dei due schieramenti.

Al suo interno, infatti, si contrappone un blocco moderato che cerca il compromesso con la Russia, e uno più estremista che vorrebbe stabilizzare i confini attraverso l’intervento armato (Partito radicale, Patria di Yulia Tymoshenko, Partito nazionalista di destra Svoboda e i conservatori di Posizione civica).

Il partito delle regioni di Yanukovich si è disintegrato, mentre i deputati di Udar (del pugile Vitalij Klitschko) si sono uniti al blocco di Poroshenko che da agosto 2014 ha preso il nome di Solidarietà.

Secondo alcuni sondaggi condotti a inizio settembre, i partiti che riusciranno a superare lo sbarramento del 5% sono Solidarietà, il Partito radicale, Patria e il Fronte popolare liberal-democratico, il cui leader è il premier Arseniy Yatsenyuk.

Quest’ultimo, allontanatosi dalla Tymoshenko, ha assunto un atteggiamento più tattico e ha proposto un formale accordo di coalizione al partito del presidente, non essendo riuscito a creare una lista comune con Solidarietà.

La portata universalistica delle proteste di Kiev tuttavia, non si è tradotta nella creazione di un unico partito politico. Secondo i sondaggi, il blocco che sostiene Poroshenko sarebbe in vantaggio, ma non di molto (prenderebbe circa il 17%), pertanto si prevede che le forze filo-europee creeranno una coalizione attorno al presidente.

Tuttavia è impensabile che ci sia una maggioranza sufficiente a emendare la costituzione e dunque a riformare il sistema politico ucraino.

Molto probabilmente le forze moderate avranno la meglio alle prossime elezioni. Tuttavia davanti a loro non c’è solo un conflitto armato o una battaglia territoriale. Il paese è allo sbando: un ucraino su tre vive sotto la soglia di povertà, il debito con l’estero ammonta a 151 miliardi di dollari mentre l’inflazione è al 19%.

A chi vincerà spetta un compito che ha il sapore di una missione impossibile, con le sole forze ucraine.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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Spagna: alla vigilia del referendum non consentito

Referendum catalano
Prova di forza tra Madrid e Barcellona
Marco Calamai
15/10/2014
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A meno di un mese dalla tanto attesa e discussa consultazione del prossimo 9 novembre sul futuro della Catalogna - respinta dal governo del conservatore Mariano Rajoy e sospesa dal Tribunale costituzionale - crescono gli interrogativi sul possibile sviluppo di questo conflitto, di certo il più grave della recente storia spagnola.

Rajoy pronto a trattare
Il primo ministro spagnolo ha dichiarato di essere disposto a “negoziare per arrivare a un punto d’incontro”, precisando che tale trattativa deve avvenire nel “rispetto della legge”. Quale legge? Quella attuale della Costituzione che non consente un referendum a livello locale? Sembra un dialogo tra sordi.

Tuttavia è verosimile che dietro l’apparente unità interna, il Partito popolare in caduta libera nei sondaggi (ora criticato da ogni parte per la gestione a dir poco maldestra dei casi di ebola) nasconda fortissimi dubbi su come procedere. Da qui al 9 novembre, dunque, molte novità possono influire sulla prova di forza tra Madrid e Barcellona.

Fronte indipendentista catalano diviso
Ci sono alcuni segnali che sembrano confermare crescenti divisioni del fronte “catalanista”, indipendentista. Artur Mas, il presidente della Generalitat, l'istituzione di autogoverno della Catalogna, sarebbe orientato a consolidare la consultazione, priva di valore legale, con elezioni anticipate straordinarie (realizzabili senza problemi) il cui risultato avrebbe in ogni caso un forte impatto politico e psicologico.

Mas spera così di nascondere la prevedibile caduta elettorale della sua formazione politica, Convergència i Unió (CyU), aggravata dallo scandalo fiscale che vede coinvolto il suo storico padrino Jordi Pujol in un accordo elettorale con Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), il partito da sempre orientato all’autodeterminazione e che ora i sondaggi danno vincente.

Mas teme inoltre, a ragione, che il braccio di ferro legale in corso finisca per logorare il consenso dei catalani nei confronti del processo indipendentista. Per il momento, tuttavia, Erc si oppone alle elezioni anticipate e insiste sulla consultazione indipendentista, decisa a capitalizzare a suo vantaggio il malessere crescente della popolazione verso l’intransigenza del governo Rajoy.

Crisi dello stato-nazione spagnolo 
La secolare questione catalana è tornata a galla l’11 settembre 2012, in occasione della Diada, ricorrenza nella quale si ricorda la resa di Barcellona, nel 1714, al Borbone Filippo V. Decine di migliaia di bandiere catalane hanno colorato una manifestazione oceanica, espressione di uno stato d’animo collettivo contrario allo stato spagnolo.

Il disagio sociale provocato dalle misure di austerità di cui erano considerati colpevoli sia Madrid che Barcellona, è stato abilmente sfruttato da Mas durante il comizio verso l’obiettivo dell’indipendenza.

Sfruttare questa antica rivendicazione per oscurare il profondo malessere sociale di larghi strati della popolazione rappresenta tuttavia un’operazione che rischia di avere il respiro corto.

Come ha detto il noto scrittore Julian Marias: “Se i catalani decidono di andar via, facciano pure. Ma lo facciano bene. Si ha l’impressione che tutto sia manipolato, troppo diretto”.

Siamo dunque di fronte a complesse manovre e scelte tattiche la cui evoluzione è difficile ipotizzare. Il tema divide radicalmente la società spagnola e perfino le singole famiglie. Soprattutto, ma non solo, in Catalogna.

Per i partiti è in gioco il loro futuro di fronte a una inquietante crisi dello stato-nazione spagnolo. La destra in particolare, condizionata da antiche e tuttora radicate pulsioni centraliste e autoritarie (la vecchia ideologia nazional-cattolica) continua a esprimere un impaccio culturale di fondo di fronte ai conflitti che suscitano dinamiche emotive di lunga durata.

Lo si è visto nella gestione della riforma sull’aborto (conclusa con un clamoroso passo indietro del governo di fronte a una maggioranza di elettori conservatori che chiedevano il pieno rispetto dei diritti acquisiti).

Le difficoltà riguardano anche l’opposizione socialista. La generica proposta di nuova Costituzione federale dei socialisti non appare convincente e per ora non trascina la gente.

Tra l’indipendenza strappata ad ogni costo e la rigida difesa delle attuali strutture statali della destra al potere sembra per il momento non esserci una valida terza via. Il tutto s’intreccia con la crisi di rappresentanza dei due principali partiti, i popolari del Pp e i socialisti del Psoe, che non riescono a recuperare la verticale caduta di consenso che la crisi economica e la diffusa corruzione hanno alimentato verso le diverse elite (anche in Spagna la “casta” è sotto accusa).

Appare in definitiva chiaro che la questione catalana è legata al nuovo clima creato dal crescente conflitto tra la generazione che ha vissuto la transizione post franchista e quella che invece ritiene tale fase conclusa e ora cerca il suo superamento con formule innovative di partecipazione democratica.

Lo dimostra il successo imprevisto della formazione Podemos, espressione di una protesta non tradizionale che i sondaggi danno in continua crescita a scapito soprattutto dei socialisti.

Marco Calamai è giornalista e scrittore.
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Unione Europa: scrutiamo il futuro della sua politica estera

a nuova Alta rappresentante dell’Unione europea
Mogherini e Ashton, troviamo le differenze
Lorenzo Vai
16/10/2014
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Le quasi tre ore di audizione affrontate da Federica Mogherini, Alto rappresentante (Ar) designato per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea (Ue), davanti ai membri della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo, sono andate bene.

Nessuna domanda sembra aver colto impreparata l’attuale Ministro degli Affari Esteri italiano, che ha retto bene la “interrogazione” riuscendo a dribblare i temi più caldi (crisi in Ucraina e Vicino-Oriente su tutti), oltre a scacciare i timori che aleggiavano nei confronti della sua inesperienza. Insomma, l’ufficiale investitura tramite il voto del Parlamento europeo (Pe), previsto per mercoledì 22 ottobre, appare ormai come una formalità.

Per dovere di cronaca, bisogna dire che l’interrogazione della “studentessa” Mogherini non sembra aver incontrato un “professore” troppo severo (meglio non farlo sapere alla rimandata, in Slovenia, Alenka Bratušek).

Diverse delle questioni poste alla futura Ar hanno trovato risposte generiche, che sembrano aver tuttavia soddisfatto i membri della Commissione, rivelatisi bendisposti - dopo anni di pragmatismo “insulare” - davanti all’europeismo sfoggiato da Mogherini, e sicuramente consci delle difficoltà che l’attendono.

Difficoltà che il suo predecessore Catherine Ashton ha avuto modo di conoscere fin troppo bene negli ultimi cinque anni, pagando un prezzo in critiche forse superiore alle proprie mancanze personali (il dibattito, ormai sterile, rimane aperto).

Promesse di discontinuità
Se un confronto tra i due profili rischia di risultare prematuro, l’audizione e le prime scelte del Ministro italiano hanno però già messo in luce alcune differenze rispetto alla precedente gestione. Ad iniziare dalla decisione di spostare l’ufficio dell’Alto rappresentante dal Triangle Building, sede del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), a Palazzo Berlaymont, sede della Commissione.

Un trasloco per ora simbolico, ma teso ad affermare l’esplicita volontà di perseguire un maggior attivismo all’interno del collegio dei commissari - di cui l’AR non a caso è vicepresidente - ed una più presente azione di coordinamento delle politiche comunitarie aventi proiezioni esterna.

Una scelta che si discosta dalla maggior attenzione dedicata da Lady Ashton ai lavori del Consiglio dell’Ue riguardanti la Politica estera di sicurezza comune (Pesc), la componente di high politics intergovernativa dell’azione esterna dell’Unione.

Proprio sul fronte Pesc, un cambio di atteggiamento anticipato da Mogherini potrebbe riguardare la visione strategica della politica estera europea, una cui esplicita formulazione risulta oggi assente o non aggiornata (l’ultima revisione della Strategia europea di sicurezza risale al 2008).

L’apertura della nuova Ar verso la stesura di un simile documento d’indirizzo sembra quindi sconfessare la ritrosia mostrata dal suo predecessore nei confronti di qualsiasi strategia a medio-lungo termine.

Per quanto riguarda invece i rapporti con il Parlamento europeo, Mogherini si è dimostrata attenta a comprenderne da subito l’importanza, sia per gli equilibri istituzionali sia per il rafforzamento della legittimità democratica dell’azione esterna.

Nonostante in materia di Pesc il ruolo del Pe risulti quasi esclusivamente di consultazione o informazione, è apparso da subito chiaro l’impegno da parte della neo-Ar nel promettere un maggior numero di audizioni ed incontri, sia formali che informali.

Anche in questo caso si tratta di un cambio di rotta rispetto ad Ashton, volenterosa ma troppo spesso assente di fronte alla Commissione Affari esteri e alla plenaria del Pe.

Vecchie e nuove sfide
Sebbene la fiducia iniziale non si neghi (quasi) a nessuno, potrebbe risultare più difficile del previsto la razionalizzazione dei processi decisionali in seno agli organi adibiti a delineare ed attuare la politica estera europea, comunitaria o intergovernativa che sia. Un problema causa di molte inefficienze, del quale Mogherini si è dimostrata a conoscenza (lo aveva già sollevato Ashton nel suo riesame del Seae), ma vaga sul come risolverlo.

Tralasciando l’importante lavoro di revisione della struttura e del funzionamento del Seae (una macchina burocratica con circa 3400 dipendenti e mezzo miliardo di euro di budget annuo) che l’Ar sarà chiamata a svolgere nei prossimi mesi, o l'atteso rilancio di strumenti politici rimasti fino ad ora inutilizzati (basti pensare alla cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa), il primo banco di prova per tracciare qualche auspicabile differenza tra chi si è avvicendato alla conduzione della politica estera europea rimangono le crisi.

A Catherine Ashton toccarono le rivoluzioni arabe, e non le andò benissimo. A Federica Mogherini non sembra essere andata molto meglio. La crisi in Ucraina, con l’inverno alle porte e i venti di guerra al confine della Turchia, potrebbe trasformare il suo primo giorno di lavoro in un incubo.

Aspettando quindi di capire se l’elezione di Mogherini ad Alto rappresentante diventerà una bella notizia per l’intera Ue, più che una semplice vittoria per l’Italia, non ci resta che augurarle un sentito “in bocca al lupo”: ne avrà bisogno, chieda ad Ashton.

Articolo pubblicato su Centro studi sul federalismo.

Lorenzo Vai è è assistente di ricerca dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.
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Regno Unito: gli strascichi del referendum scozzese

Referendum scozzese
Devolution inglese, nessuna promessa da marinaio 
David Ellwood
13/10/2014
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La corsa affannosa e ritardataria dei politici di Londra verso la Scozia ha contribuito al trionfo del fronte unionista. Il Regno Unito non ha divorziato anche grazie alle promesse di concessioni fiscali e di deleghe che Londra non aveva mai pensato di fare all’inizio della campagna referendaria, quasi due anni fa.

Il fronte separatista ha alla fine raggiunto quasi tutti gli obiettivi che aveva individuato nella sua battaglia. Non ultimo, quello di aver convinto l’intera nazione a partecipare al voto. Con un’affluenza senza precedenti del 85%, nessuno ha potuto mettere in dubbio la legittimità del risultato, l’utilità della consultazione e l’urgenza delle questioni sollevate.

Ecco perché continuano le petizioni organizzate dai giornali popolari scozzesi e le manifestazioni di strada. Tutte hanno l’obiettivo di mantenere la pressione politica sui partiti locali e londinesi per onorare gli impegni di devolution espressi nella campagna referendaria.

Commissione pubblica per mantenere i patti
All’indomani del voto il premier David Cameron ha annunciato la formazione di una commissione pubblica per promuovere le azioni necessarie, mettendoci a capo il noto Lord scozzese Smith di Kelvin, tipico esponente dell’establishment britannico, uomo di affari di successo che è stato a capo di numerose istituzioni e progetti pubblici.

La commissione, che si riunirà il 14 ottobre, sarà composta dai rappresentanti di tutti i principali partiti scozzesi ai quali si sommerà qualche esperto. Smith ha ingranato bene, invitando l’elettorato a partecipare ai lavori della sua commissione, e fornendo un indirizzo di posta elettronica per facilitare le comunicazioni.

A fare da garante alla realizzazione delle promesse di devolution saranno il leader del partito liberale al governo, Nick Clegg, e il potente Ministro del tesoro, George Osborne, numero due nel governo di Westminster. Quest’ultimo ha promesso di pubblicare entro fine ottobre un documento ufficiale con le indicazioni specifiche del governo. Una bozza di proposta legislativa dovrebbe essere pronta per la fine del gennaio 2015.

Welfare inglese sotto esame
Anche se il governo di Westminster ha evitato fino all’ultimo di specificare con precisione quali poteri sarebbe disposto a cedere a Edimburgo, è chiaro che gli scozzesi vogliono ottenere qualcosa soprattutto nel campo delle politiche fiscali e di welfare.

Il Partito nazionale scozzese (Snp), grande protagonista della battagli per il ‘sì’, chiede ‘una Scozia più giusta, meno disuguale, più severa con le fonti della disuguaglianza’. In una nazione con ben noti, radicati, problemi di malessere sociale, disoccupazione e salute precaria, non c’è da stupirsi se il sistema di welfare è una priorità.

Non a caso le due zone dove questi problemi sono particolarmente sentiti - Glasgow e Dundee - sono le uniche dove il voto per il ‘sì’ è stato maggioritario. Viene osteggiata ogni forma di privatizzazione o commercializzazione dei servizi sanitari, una tendenza sempre più marcata in Inghilterra, dove il controllo del governo in questo settore è diretto.

Riforma costituzionale 
Non mancano comunque quelli che si oppongono a tutta questa attenzione dedicata agli scozzesi. Diversi deputati ed opinionisti inglesi e gallesi obiettano l’idea di trattamento di favore, chiedendo di far partire un simile progetto di devolution anche nelle loro contee.

Si chiedono quale sarà il ruolo dei 59 deputati scozzesi - di cui uno solo Tory attualmente - che continueranno a sedersi nel Parlamento di Westminster. Potranno continuare a votare sui provvedimenti legislativi che riguardano solo l’Inghilterra, mentre gli altri non possono votare sulle leggi della Scozia? Come colmare le lacune nella costituzione del Regno - un mescolanza spesso contradditoria di elementi scritti e non scritti ereditata dalla storia - per formalizzare e regolare questa nuova situazione?

Il leader laburista Ed Miliband ha proposto la convocazione di un’assemblea costituente qualora il suo partito vincesse le prossime elezioni generali previste per la primavera 2015. Quello che sembra ceto è che sembra esclusa qualsiasi forma di federalismo, se non altro perché un membro dell’eventuale federazione rappresenterebbe l’84% della popolazione totale.

Lo scenario politico inglese è insolitamente movimentato, costretto suo malgrado a muoversi su terreni non familiari, quelli della modernizzazione della più vecchia democrazia parlamentare del mondo. Fino al momento del referendum scozzese però, ogni proposta di riforma costituzionale è stata bocciata anche a causa di un forte astensionismo.

Il referendum scozzese ha però costretto la classe politica a muoversi con determinazione in un nuovo quadro. Basteranno le sue ben noti doti di pragmatismo e spregiudicatezza a neutralizzare lo spettro della dissoluzione del Regno Unito sorto dai territori a nord del vallum di Adriano ?

David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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lunedì 20 ottobre 2014

Svezia: nuovo corso sulla cultura dell'accoglienza

Elezioni svedesi
Se anche la Svezia inizia ad avere paura dell’immigrazione
Chiara Ruffa
25/09/2014
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Le recenti elezioni politiche rischiano di trasformare l’immagine positiva della Svezia. Anche se la sua economia è solida e il suo stato sociale forte, inclusivo e sostenibile, i risultati elettorali mostrano un profondo malcontento.

I Socialdemocratici, il partito all’opposizione, sono diventati la prima forza con un solido 31,2%, superando così il principale partito di centro-destra, i Moderati, del primo ministro uscente Reinfeldt. Il risultato che fa discutere è però l’exploit dei Democratici Svedesi, partito populista e xenofobo di estrema destra che ha raddoppiato i propri voti aggiudicandosi la medaglia di bronzo con il 12,9% delle preferenze.

L’exploit dei Democratici Svedesi
Questo successo mostra il profondo malcontento diffuso tra la popolazione, in particolare sulle questioni dell’immigrazione.

I democratici sembrano avere indistintamente successo in città e in campagna, soprattutto tra i giovani, afflitti da una disoccupazione che tocca il 24%. Durante la campagna elettorale, i leader politici non si sono voluti confrontare con i democratici svedesi sulle questioni di immigrazione ed integrazione e questo ha danneggiato i due maggiori schieramenti.
 Il risultato elettorale riflette molte tensioni esacerbate e taciute e suggerisce come intere fasce della popolazione si sentano marginalizzate e perdenti davanti a movimenti e partiti tradizionali che non riescono più a catturarle.

Per molti, queste elezioni non fanno che dimostrare come la Svezia non sia un paese poi così diverso dagli altri stati europei con la scalata dei partiti di estrema destra. Eppure, i Democratici Svedesi presentano dei tratti completamente nuovi. La loro retorica ed i loro programmi sono profondamente in contrasto con i valori e i principi fondanti della Svezia: il consenso, l’apertura e lo sforzo di essere al di là di tutto un grande potere normativo capace di accogliere popolazioni in difficoltà, attraverso generose politiche di protezione.

Fonte: Transatlantic Trends 2014.

Il risiko di Löven
Stefan Löven, leader del partito socialdemocratico, tenta ora di formare una coalizione di governo. L’accordo con i Verdi sembra concluso, ma porta la coalizione ad un magro 38%. Löven ha ormai anche apertamente escluso il partito di Sinistra da ogni trattativa per poter aprire negoziazioni con i piccoli partiti del centro destra, ovvero il partito Liberale e il partito di Centro. Entrambi finora hanno rifiutato di iniziare trattative e paiono intenzionati a rimanere all’opposizione.

Due sono le ipotesi principali al momento. La prima è che Löven non riesca a creare una coalizione più ampia e che quindi decida di provare a governare con un esecutivo di minoranza, una pratica diffusa in Svezia. In questo caso, lo scoglio principale sarebbe rappresentato dalla legge finanziaria. Se i socialdemocratici propongono una legge finanziaria congiuntamente ai soli Verdi il rischio è che vengano sorpassati da una proposta di legge alternativa che, anche senza il probabile sostegno esterno dei Democratici Svedesi, raggiungerebbe 142 voti (contro i 137 della coalizione di centro-sinistra).

Questo significherebbe la caduta del governo neo-incaricato e probabilmente la formazione di un governo di centro-destra. Anche nell’ipotesi fortuita in cui i Socialdemocratici insieme ai Verdi riuscissero a far passare la finanziaria, il loro percorso non sarebbe senza intoppi. Ci si troverebbe in una situazione che richiederebbe accordi temporanei su questioni specifiche.

Il secondo scenario è più ottimista, ma non meno rischioso. Se Löven riuscisse a strappare un accordo con i Liberali ed il partito di Centro, le questioni principali tuttavia rimarrebbero: ovvero la capacità di portare avanti un programma di governo con un partito (i Verdi) a favore dei tagli alla difesa, e dell’incremento delle tasse e due partiti - i liberali ed i centristi - a favore di una difesa più forte, ulteriori privatizzazioni, ma contro l’aumento delle tasse. I Socialdemocratici si troverebbero contesi tra queste forze opposte.

Se la Svezia entrasse nella Nato
Tutto ciò non fa che allontanare ulteriormente la questione dell’ingresso nella Nato. Come mostrano i dati dei Transatlantic Trends 2014. L’opinione pubblica era parsa negli ultimi anni scaldarsi tiepidamente all’idea, ma le prospettive attuali mettono in secondo piano un palesato, quanto discusso, ingresso della Svezia.

L’unica certezza al momento è che nessuna forza politica è intenzionata a confrontarsi con i Democratici Svedesi. Eppure questi ultimi hanno saputo farsi interpreti di profonde tensioni sociali che nessun altro partito è stato in grado di capire.

Il dibattito sulle questioni di immigrazione ed integrazione devono essere affrontate e discusse più apertamente. La radicata cultura del consenso e della Svezia come un’attiva forza aperta e solidale alle persone in difficoltà rende molto difficile per il pubblico e per i partiti politici di lanciarsi in discussioni aperte sul modello di integrazione, sulle questioni dell’accoglienza e sul loro impatto. Il silenzio gioca però a favore dei Democratici Svedesi, che potrebbero guadagnare ulteriore consenso.

Chiara Ruffa è Senior Lecturer presso lo Swedish National Defense College a Stoccolma. Si occupa di eserciti in operazioni di pace, relazioni civili-militari e sociologia militare.
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Spagna: minoranze e divisioni

Venti indipendentisti in Europa
Dopo la Scozia la Catalogna
Elena Marisol Brandolini
30/09/2014
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Il Tribunale Costituzionale spagnolo ha sospeso la celebrazione della consultazione popolare prevista per il prossimo 9 di novembre sul futuro assetto statuale della Catalogna, convocata da Artur Mas lo scorso sabato 27 settembre, sulla base della legge sulle consultazioni approvata dal parlamento catalano la settimana precedente.

La sospensione segue il ricorso presentato dal governo spagnolo presso l’alta Corte, considerando entrambi i provvedimenti alieni alla Costituzione spagnola.

Consultazione popolare
Il referendum popolare è uno strumento la cui competenza, secondo la Costituzione spagnola, è del solo governo dello stato. La Carta Magna prevede però la possibile devoluzione di questa prerogativa ad altri livelli istituzionali, facoltà richiesta dal parlamento catalano con una mozione presentata al Congresso ad aprile e bocciata dalla maggioranza dei deputati spagnoli.

Perciò, il governo catalano ha provveduto a dotare la consultazione del 9 novembre di un quadro legislativo proprio, attraverso questa legge sulle consultazioni approvata dal parlamento catalano con il voto di tutti i gruppi, compreso il Partit dels Socialistes de Catalunya, ad eccezione della destra d’ispirazione “spagnolista”, popolari e Ciutadans.

I quesiti sottoposti a consultazione sono quelli concordati, alla fine del 2013, da Mas, che è anche leader di Convergència i Unió, ed i rappresentanti di Esquerra Republicana de CatalunyaIniciativa per Catalunya Verds e Candidatura d'Unitat Popular.

Tutti insieme sono poco meno del 65% della camera catalana. Si tratta di domande a grappolo, per tener conto delle diverse sensibilità esistenti tra i promotori - indipendentisti, federalisti e confederalisti. Il primo interrogativo è “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?” e il secondo, nel caso di risposta affermativa al primo: “Vuole che questo Stato sia indipendente?”

La consultazione del 9 novembre ha un valore puramente consultivo, senza alcun effetto legale. Utile a conoscere l’orientamento del popolo catalano sul futuro delle relazioni tra la Catalogna e il resto della Spagna, ma con un evidente riscontro di natura politica.

Spagna accentatrice 
All’indomani della celebrazione del referendum in Scozia, la grande lezione di democrazia fornita dalle diverse istituzioni coinvolte nella gestione del processo e dalla risposta dell’elettorato scozzese, ha reso ancor più evidente l’esistenza di una questione democratica nello Stato spagnolo. In Catalogna ci si chiede: perché gli scozzesi possono votare sul proprio futuro e i catalani no?

Non è sufficiente a giustificare la difformità di comportamenti il fatto che il primo ministro inglese David Cameron considerasse l’indipendentismo un’opzione minoritaria tra la popolazione scozzese, mentre il governo spagnolo teme che l’indipendenza sia maggioranza in Catalogna.

Non è neppure solo il fatto che si tratti di destre differenti al governo. Perché è soprattutto un’idea di stato a essere diversa, con la Spagna che non si definisce come un regno unito di nazioni, quanto piuttosto come uno stato molto accentratore, figlio di una concezione borbonica che la dittatura franchista ha rafforzato facendone la propria ideologia e che la Costituzione del 1978, pur nella configurazione territoriale in Comunità autonome, ha difeso.

Una Costituzione che mostra di avere esaurito la sua capacità di rappresentare la nuova realtà politica e territoriale della Spagna, come testimonia la stessa inusuale abdicazione del vecchio monarca in favore del figlio. I socialisti spagnoli vorrebbero riformare la Costituzione in senso federalista, ma incontrano solo indisponibilità nel governo spagnolo.

Identità catalana
La Via catalana di quest’ultima diada - ricorrenza nella quale si celebra l’11 settembre e in cui si ricorda la resa di Barcellona, nel 1714, al Borbone Filippo V - è stata un nuovo successo di partecipazione democratica. Quello che lì si avvertiva, soprattutto, era la rivendicazione a poter esercitare il diritto a decidere del proprio futuro.

Il sentimento del popolo catalano si è andato modificando lungo il processo: se vi è stato un momento in cui sembrava prevalente la motivazione economica, per il ritorno insufficiente di risorse rispetto al contributo dato, oggi sembra tornato centrale l’elemento identitario.

Una identità che non ha nulla a che vedere con un principio etnico, perché catalani sono tutti quelli che vivono in Catalogna. Piuttosto con la storia e la cultura di un popolo che si sente nazione e che trova principale espressione nella sua lingua e insufficiente riconoscimento nello stato spagnolo.

Cresciuto nella crisi, tale sentimento restituisce una motivazione a scommettere sul futuro, che non è detto sia la separazione. E interroga la stessa Europa, la sua auspicabile evoluzione in senso federalista.

L’esistenza di questo sentimento diffuso nella popolazione catalana e la sua negazione da parte del governo spagnolo ha aperto un conflitto istituzionale, fino a diventare una questione di stato per la Spagna. E come tale andrebbe risolta con intelligenza politica. Quella che, in questo momento, il governo spagnolo non dimostra di avere.

Elena Marisol Brandolini è giornalista. Laureata in economia è esperta di politiche di sicurezza sociale.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Ucraina: in attesa di una soluzione

Crisi ucraina
Kiev e Mosca verso un conflitto congelato
Paolo Calzini
23/09/2014
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Il cessate il fuoco tra le forze governative di Kiev e quelle separatiste della regione del Donbass sostenute militaramente dalla Russia è stato oggetto di un generale, anche se cauto, apprezzamento da parte dei dirigenti dalle grandi potenze implicate nel conflitto.

L’interesse a spegnere un focolaio di violenze che rischiava di aggravare ulteriormente il clima di tensione prevalente a livello internazionale ha avuto la meglio sulle considerazioni di parte.

La rinuncia dell’uso delle armi è stata giudicata positivamente da parte occidentale, pur essendo evidente che la tregua era dovuta allo sconfinamento di forze russe in territorio ucraino. Forze in grado di riequilibrare l’andamento del conflitto a favore dei separatisti, bloccando l’azione di Kiev tesa a ristabilire con la forza il controllo sulla regione secessionista.

La Russia conferma la sua superiorità rispetto all’Occidente in un’area di prossimità giudicata vitale per la sua sicurezza. Una posizione di vantaggio alla quale le potenze occidentali, in primo luogo la Nato, non sono state in grado di opporsi, considerati i rapporti di forza prevalenti sul territorio, mobilitando le risorse necessarie per una linea di resistenza adeguata.

Repubbliche popolari del Donbass 
Posto, anche se non scontato, che la tregua regga, si dovrebbe aprire la difficile fase delle trattative per arrivare a un patto fra le parti. Un accordo caldeggiato sia dalla Russia che dalle potenze occidentali che riguarda in primo luogo lo status delle neo costituite “repubbliche popolari” del Donbass rimaste sul piano del diritto internazionale sotto la giurisdizione di Kiev, ma di fatto sfuggite al suo controllo.

Un punto di rilievo cruciale perché pone in discussione la configurazione istituzionale dello stato ucraino sotto il profilo dell’integrità territoriale e della composizione multi etnica sanzionata all’atto della sua indipendenza nel 1991.

Tenuto conto del clima di ostilità alimentato da una campagna di propaganda politico ideologica esasperata da ambedue le parti - sia all’interno dell’Ucraina che fra Russia e potenze occidentali - si possono ipotizzare tre diversi esiti del processo negoziale. Le elenchiamo in ordine crescente di ipotetica probabilità.

Dopo la Crimea: ancora secessione
Una prima opzione è che le repubbliche del Donbass conseguono piena indipendenza, nella prospettiva di un eventuale, ma non scontata annessione alla Russia. Per scelta obbligata il governo di Kiev subisce un’ulteriore amputazione.

Il ridimensionamento della consistenza territoriale ucraina - dopo quella già avvenuto in Crimea - potrebbe avere contraccolpi fortemente negativi in grado di influenzare le relazioni fra la Russia e le potenze occidentali.

Si tratta di una soluzione radicale, ma allo stesso tempo chiarificatrice, che sancisce la divisione dell’Ucraina in due entità distinte destinate a essere integrate, ciascuna in forme e tempi particolari, l’una nel contesto russo e l’altra in quello europeo occidentale.

Ucraina unita 
Il secondo scenario è quello secondo il quale l’unità del paese - Crimea a parte - viene confermata grazie a un accordo fra il governo di Kiev e i separatisti del Donbass sulla base di forti concessioni alle rivendicazioni di autonomia di questi ultimi.

Dal punto di vista politico si tratta di una scelta molto avanzata sotto il profilo democratico nella definizione dei rapporti fra le comunità etniche, nazionale ucraina e russa, fondata sull’adozione di una struttura federale che attribuisce ampie competenze all’entità regionali in materia culturale, linguistica, economica, riducendo i poteri delle autorità centrali.

Un riequilibrio dei poteri ispirato ai valori occidentali che costituisce il risultato più significativo dell’accordo e si accompagna a una politica di non allineamento sul piano internazionale condivisa e garantita dalle grandi potenze sostenitrici.

Conflitto congelato
Vi è poi un terzo scenario. Preso atto della contrapposizione fra gli schieramenti ucraini rivali, prevale la consapevolezza dello stallo politico militare venutasi a creare nel confronto fra le parti. Una condizione che costringe il governo di Kiev - in assenza di ogni ipotesi di accordo - ad accettare un compromesso di fatto lesivo delle propri ambizioni, rinunciando al recupero della regione del Donbass, a favore delle istanze di indipendenza dei separatisti.

Una soluzione che si può definire al ribasso, rivelatrice dell’incapacità delle parti a mediare sui temi cruciali della convivenza inter-etnica e di una collocazione equidistante fra Russia e Occidente.

Promossa allo scopo di evitare una cronicizzazione della lotta armata, questa scelta si iscrive in una prassi ricorrente dello spazio post-sovietico secondo la formula del “conflitti congelati”. Una formula transitoria e quindi precaria sul modello di quanto registrato in altri casi determinati dalle rivendicazioni secessioniste che hanno dato vita a delle entità proto-statuali pseudo indipendenti legate a Mosca non riconosciute sul piano internazionale quali Transnistria, Abchasia e Ossezia del sud.

Questo ultimo scenario appare il più probabile. La Russia non arretra nel sostenere le sue pretese di influenza sulla situazione ucraina, e più in genere nello spazio post-sovietico,evitando i costi di un’annessione e della presenza di una Ucraina unita a regime democratico.

Mentre d’altra parte Washington e Bruxelles sono in grado di confermare il proprio pieno sostegno politico economico anche se finora non strategico, garantendo a un’Ucraina ridimensionata la prospettiva di un'eventuale adesione all’Unione europea, lasciando aperta l’opzione Nato.

Paolo Calzini è Adjunct Professor di Studi europei alla Johns Hopkins University Bologna Center e Senior Adviser dell'Ispi.
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Germania e Francia, asse d'Europa?

Industria europea della difesa 
Difesa, fusione franco-tedesca alle porte
Alessandro Ungaro
19/09/2014
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Pochi giorni dopo, il 4 luglio, si sarebbe giocato il primo quarto di finale del mondiale 2014. Con una vittoria sui francesi grazie ad una rete segnata da Hummels, i tedeschi passano alle semifinali, per poi aggiudicarsi il quarto titolo mondiale nella finale contro l’Argentina.

Chissà se tre giorni prima a Parigi, Frank Haun, Amministratore delegato (Ad) della tedesca Krauss-Maffei Wegmann (Kmw) e Philippe Burtin, Ad della francese Nexter, avevano scommesso sul possibile risultato della partita quando si sono incontrati per sottoscrivere una dichiarazione d’intenti per avviare le procedure per una possibile fusione tra le due aziende.

Ancora Francia - Germania 
Entrambe industrie della difesa specializzate nel settore degli armamenti terrestri, sia la Kmw che la Nexter sono celebri per aver sviluppato rispettivamente i carri da combattimento Leopard e Leclerc.

La fusione porterebbe ora alla creazione di una holding da circa 2 miliardi di euro di turnover, un portafoglio ordini da 6.5 miliardi e circa sei mila dipendenti, il cui azionariato sarebbe diviso in modo paritetico al 50% tra i due soci.

E rappresenterebbe innanzitutto un importante passo in avanti verso una maggiore razionalizzazione dell’industria europea della difesa nel settore terrestre, da sempre caratterizzato da un elevato livello di frammentazione e duplicazione, sia dal lato della domanda che dell’offerta.

La data ultima per finalizzare l’accordo è stata fissata per gli inizi del 2015, ma le due aziende sono sottoposte a un processo di “due diligence”. I programmi futuri verrebbero gestiti in modo congiunto ma alcuni, come i veicoli blindati francesi nell’ambito del programma Scorpion, sono stati limitati alle sole aziende francesi, senza quindi passare attraverso un meccanismo competitivo attraverso l’applicazione della Direttiva 2009/81.

A questo proposito si può supporre che, con la motivazione dell’imminente avvio del processo di fusione, il governo francese abbia preferito assicurarsi che l’attività sia svolta in Francia, avvalendosi delle deroghe ex art. 346 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea a tutela degli interessi essenziali di sicurezza connessi con la produzione di armamenti o materiali, ma di fatto aggirando l’applicazione della Direttiva. Ma un’altra ragione potrebbe essere quella di aver voluto caricare il portafoglio di Nexter al fine di raggiungere l’equilibrio con Kmw.

Verso la ristrutturazione del comparto europeo?
Al di là di queste e altre criticità che si annidano soprattutto nel post-fusione, ci sono buone probabilità che si porti a compimento un processo sinergico e complementare, in grado di sfruttare pienamente l’economie di scala per rispondere alla costante riduzione in Europa delle spese per la difesa, in particolare per le attività di ricerca e sviluppo.

Secondo alcuni esperti, a favore dell’intesa vi sarebbero una serie di fattori incoraggianti. In primis, le dimensioni dell’accordo, i cui risvolti politici ed economico-finanziari sono molto meno ambiziosi rispetto a quelli relativi alla fallita fusione tra l’inglese Bae e l’allora Eads (ora Airbus Group).

In seconda battuta, l’azienda tedesca soffre di una mancata diversificazione del portafoglio e, sebbene abbia incontrato successo nei mercati internazionali, la competizione a livello globale si fa sempre più serrata mentre le politiche all’export tedesche sempre più stringenti.

Nexter, dal canto suo, vanta una maggior presenza e diversificazione nel mercato europeo, mentre la sua proiezione internazionale stenta a decollare. Inoltre, affinché il progetto vada in porto, la società francese dovrà essere completamente privatizzata con un potenziale beneficio finanziario per la casse dello Stato.

Implicazioni per Finmeccanica e Italia 
L’eventuale fusione tra le due aziende costituisce solo uno dei tasselli di un mosaico, quello dell’industria europea della difesa, ancora in fase di ristrutturazione e il cui processo, sebbene spesso macchinoso, potrebbe subire inattese accelerazioni proprio alla luce di iniziative nate e concepite all’interno della realtà industriale poi avallate e legittimate con un forte supporto politico.

Altri attori europei attivi nel settore terrestre - a partire da Rheinmetall fino a alla stessa Finmeccanica - dovranno ripensare le loro posizioni e strategie industriali nonché prendere atto che un maggior consolidamento risulta quanto mai necessario. Altri operatori si stanno muovendo in questa direzione.

Nel campo spaziale si è già cominciato a rimescolare le carte in tavola, prima con la joint-venture nel segmento dei lanciatori tra Airbus e Safran, poi con alcune dichiarazioni francesi che vedrebbero positivamente un riavvicinamento tra Thales Alenia Space e Airbus nel comparto satellitare.

Il trend sembra quindi positivo: spazi di manovra e opportunità ci sono e i tempi per una svolta appaiono più maturi rispetto al passato. Il rischio per l’Italia è quello di restare tagliata fuori da questa nuova fase del processo di consolidamento dell’industria europea della difesa.

Proprio in questi segmenti l’industria nazionale non ha le dimensioni sufficienti per poter continuare a competere sul mercato internazionale e l’immobilismo che l’ha caratterizzata negli ultimi anni rischia di relegarla ai margini del processo in corso. Ma per il sistema paese Italia è una partita che non può e non deve essere persa.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AlessandroRUnga).
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