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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

domenica 21 dicembre 2014

Sempre acque agitate nell'economia europea tra illusioni e fallimenti

Politica economica europea
Il piano d’investimenti di Juncker, cronaca di una morte annunciata
Alessandro Giovannini, Ilaria Maselli
07/12/2014
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L’incapacità dell’eurozona di uscire in modo deciso dalla crisi è confermata dai dati pubblicati questa settimana dall’Ocse. Dal 2012 a oggi, la crescita complessiva del Pil del continente è stata negativa: -0.3%, a fronte di una crescita del 6.7% negli Stati Uniti.

Le previsioni per i prossimi anni non sono necessariamente migliori: per il biennio 2015-2016 l’Ocse stima una crescita del 2.7% nella zona euro contro un 6% oltreoceano. Uno scenario ancora più desolante se si considera che in passato queste stime si siano rivelate sbagliate per eccesso di fiducia nella crescita.

Rilanciare l’economia europea
La performance deludente delle economie nostrane rende sempre più evidente l’imperfezione dell’architettura dell’eurozona: l’assenza di una politica fiscale condivisa che sappia controbilanciare in modo efficace le divergenze interne e assicurare un sentiero generale di crescita economica per l’intera unione monetaria.

Una politica economica simile alla politica monetaria della Bce, la quale ha come principale obiettivo il livello di inflazione generale dell’eurozona, non quello nei singoli paesi.

Davanti a questi dati molti governi europei hanno chiesto da un lato di allentare la morsa delle politiche restrittive per quei paesi con deficit di bilancio eccessivo, e dall’altro, un maggiore impulso economico da parte di quelle economie, come la Germania, in cui le attuali condizioni fiscali permettono una politica espansiva più decisa.

Abbastanza per rilanciare la crescita? Sicuramente no: le concessione accordate all’Italia (così come alla Francia) in termini di maggiore flessibilità di bilancio, difficilmente riusciranno a imprimere un cambiamento economico significativo.

Piccole modifiche al margine nel deficit pubblico possono al massimo evitare l’impatto negativo di ulteriori tagli, ma difficilmente porteranno una spinta economica decisiva.

Pacchetto Juncker
Un vento di novità sembra essere arrivato dalla nuova Commissione europea a guida Jean Claude Juncker: il lancio di un pacchetto che ha come obiettivo la mobilizzazione di 315 miliardi di euro in investimenti nel corso dei prossimi tre anni (pari a circa l’1% del Pil europeo ogni anno).

Senza voler ricoprire lo sfortunato ruolo di cassandre, è prevedibile che le grandi aspettative saranno probabilmente disattese.

In primo luogo perché i fondi effettivamente previsti a garanzia per il nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) sono per ora 21 miliardi (di cui solamente 13 esplicitamente individuati con certezza), su cui ci si aspetta un effetto leva di 15 volte grazie al coinvolgimento di altri fondi privati incentivati dalla presenza dell’attore pubblico nell’investimento.

Il secondo motivo per cui ci sentiamo di scrivere questa cronaca di una morte annunciata è che il meccanismo previsto assomiglia molto al pacchetto di 120 miliardi di euro per la crescita europea annunciato a giugno del 2012 dove, come oggi, la maggior parte dei finanziamenti proveniva da una riallocazione delle linee di bilancio, insieme con la speranza partecipazione dei privati.

Un pacchetto il cui impatto è difficilmente ravvisabile sull’economia europea, tanto che neanche la stessa Commissione europea ne fa più menzione.

Ruolo degli stati membri
In questo quadro piuttosto grigio, emerge però un elemento interessante che potrebbe aiutare a comprendere se davvero l’eurozona si sta muovendo verso una gestione migliore e congiunta della politica economica.

Da un lato il piano prevede che gli stati membri abbiano l'opportunità di contribuire con il proprio capitale al Feis senza infrangere le regole del Patto di stabilità.

Dall’altro prevede che la scelta di quali progetti finanziare con tale fondo seguirà una pura logica di merito, senza ipotesi di allocazioni geografiche e quote per paese. In altre parole, i fondi e le garanzie messi a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti italiana o dallo stesso governo nazionale potrebbero andare a finanziare infrastrutture in Germania o Polonia.

Un apparente controsenso, che tuttavia rappresenta quello che succede davvero quando la politica economica dell’eurozona è veramente unitaria.

Se infatti i fondi della Cassa depositi e prestiti dovessero andare a finanziare progetti di infrastrutture in Germania (perché meglio progettati e più rapidamente implementabili), questo dovrebbe anche beneficiare l'Italia attraverso una crescita per vie indirette dell’export italiano.

Se quindi gli stati membri sono davvero convinti, come spesso hanno ripetuto in questi anni, che quello che serve all’eurozona è una gestione coordinata dell’economia, dovremo aspettarci una forte partecipazione di fondi nazionali al capitale del Feis così come augurato da Juncker e una maggiore possibilità di raggiungere davvero il traguardo di 315 miliardi di investimenti.

Se invece i discorsi degli ultimi anni si dovessero rivelare solamente parole per coprire una logica di ritorno economico nazionale, allora l'incentivo a contribuire al Fondo sarebbe praticamente nullo e il rischio di fallimento del progetto complessivo ancora più alto.

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”, ripeteva Giulio Andreotti. Che il principio si applichi anche alla politica europea?

Alessandro Giovannini e Ilaria Maselli sono entrambi ricercatori della Economic Policy Unit del Centre for European Policy Studies di Bruxelles.
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mercoledì 3 dicembre 2014

Economia: alla ricerca di una formula magica

Unione europea e crescita
Il vicolo cieco della crisi economica 
Federico Losurdo
27/11/2014
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A ogni passaggio istituzionale dell’attuale crisi le misure di rigore finanziario sono accompagnate da quelle per lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, fino a evocare nei più recenti Consigli europei la ‘formula magica’ di “un consolidamento fiscale favorevole alla crescita” (“growth-friendly fiscal consolidation”).

Legittimazione asimmetrica 
A essere in discussione sono i faticosi equilibri raggiunti a Maastricht nel 1992. Mentre il governo della moneta è centralizzato nelle mani di un’istituzione indipendente - la Banca centrale europea (Bce), la cui stella polare è il controllo dell’inflazione (art. 119 Tfue) - le politiche economiche sono decentralizzate in capo ai singoli Stati membri, seppure coordinate all’interno delle istituzioni intergovernative (art. 121 Tfue).

Per rimediare a questa legittimazione asimmetrica della politica economica rispetto alla politica monetaria sono stati codificati dei vincoli alla politica fiscale per orientare il processo di bilancio degli Stati membri.

Vincoli fiscali che, ad ogni successiva tappa della crisi, sono stati resi più cogenti, fino a giungere con il Fiscal compact nel marzo 2012 a prevedere l’obbligo per gli Stati membri di codificare il principio del pareggio di bilancio con norme “preferibilmente” di rango costituzionale (art. 3, comma 2).

Austerità espansiva
L’insediamento della nuova Commissione europea, presieduta da Jean-Claude Juncker, frutto di un accordo bipartisan tra Partito popolare europeo e Partito socialista europeo, ha suscitato le attese di un deciso cambio di passo, nel senso di ri-orientare la politica economica in direzione della crescita (si pensi all’annunciato piano di 300 miliardi di euro con cui finanziare grandi progetti infrastrutturali comuni).

È, tuttavia, difficile immaginare che muti significativamente la filosofia di fondo della strategia Ue. Per un verso, la stabilità monetaria (dei prezzi) e fiscale (dei bilanci) continua ad essere la “norma fondamentale” dell’Unione, come ancora di recente ha sottolineato polemicamente il Tribunale costituzionale federale tedesco nell’ordinanza che ha contestato la legittimità del programma relativo alle “outright monetary transaction” della Bce (ordinanza del 14 gennaio 2014).

Per altro verso, nessuno ha ancora seriamente messo in discussione la ricetta di Bruxelles e Francoforte all’insegna dell’“austerità espansiva”. Una ricetta che predica il rigore dei conti e, allo stesso tempo, aspira a promuovere la crescita tramite le “riforme strutturali”: una consistente riduzione della spesa pubblica e una flessibilizzazione del mercato del lavoro che dovrebbero facilitare la creazione di nuova occupazione.

Circolo vizioso? 
Più che in una nuova fase di crescita, i paesi dell’Unione sembrano, tuttavia, essere entrati in una nuova fase della crisi. I provvedimenti finora adottati hanno ampliato il solco fra i paesi del nord Europa che non hanno intaccato il cuore delle proprie istituzioni di welfare e i paesi del sud Europa che sembrano, invece, assistere impotenti a una progressiva erosione delle conquiste sociali del passato, una strisciante deindustrializzazione.

Quest’ultimi rischiano di cadere in un vero e proprio circolo vizioso. A fronte, infatti, degli effetti recessivi determinati dalle politiche di austerità, essi sono indotti, nel tentativo di aumentare la competitiva internazionale del proprio sistema produttivo, ad adottare sempre più drastiche riforme strutturali.

Nella speranza che il calo della domanda interna venga compensato da un aumento della domanda esterna. Una concorrenza al ribasso tra gli ordinamenti europei rischia tuttavia di produrre effetti contrari a quelli auspicati.

“All’interno di una zona monetaria unica avere politiche concorrenziali non coordinate – ha osservato di recente Jean-Paul Fitoussi - è come avere un elefante in un negozio di porcellane” (Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, 2013).

Exit strategies?
Quali sono le possibili soluzioni? In primo luogo, sarebbe necessario che gli Stati in surplus incentivino la loro domanda interna, in maniera tale da sostenere le esportazioni degli Stati in deficit e stimolare una ripresa di tutta l’Eurozona.

Ed è proprio quanto è stato proposto dalla Commissione europea, nel quadro della procedura per la prevenzione e la correzione degli “squilibri macroeconomici” (disciplinata dai regolamenti Ue nn. 1174 e 1176 del 2011), che ha chiesto a diversi paesi (tra cui la Germania) di ridurre i propri avanzi commerciali.

In secondo luogo, si potrebbe consentire agli Stati europei più fragili (tra cui il nostro) uno sforamento temporaneo dei vincoli del Patto di stabilità, nella misura necessaria a implementare le riforme strutturali e a superare l’attuale fase di stagnazione.

Si tratterebbe, in fondo, di replicare quanto già accaduto nel 2005, quando, a causa della congiuntura sfavorevole, furono Germania e Francia a chiedere ed ottenere un alleggerimento dei vincoli del Patto.

In terzo luogo, e si tratta della soluzione più di lungo periodo (e per questo anche politicamente più difficile) si dovrebbero creare le condizioni per l’emissione comune di titoli di debito pubblico (i c.d. “stability bonds”).

Cosa che potrebbe risultare più accettabile, anche per le classi dirigenti dei paesi del nord Europa, se si accompagnasse con una più estesa “federalizzazione delle politiche economiche” (un’ipotesi avanzata dal “Blue Print for a deep and genuine EMU” della Commissione Barroso).

Una federalizzazione che, tuttavia, non può essere disgiunta da quelle forme di legittimazione e responsabilità democratica, che le opinioni pubbliche degli Stati membri hanno imparato a considerare elementi non negoziabili della vita politica.

Federico Losurdo è Professore a contratto di Istituzioni di diritto pubblico e assegnista di ricerca in Diritto costituzionale presso l’Uni
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Svizzera: tre risposte negative ai referendum

Referendum in Svizzera
Ecopop o Ecoflop?
Cosimo Risi
01/12/2014
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No, no, no. Così ha risposto la Svizzera ai tre quesiti referendari del 30 novembre che riguardavano rispettivamente l’aumento della riserva aurea della Banca Nazionale, la fine della fiscalità agevolata per gli stranieri residenti e il limite alla crescita della popolazione.

Dei tre quello di maggiore rilievo interno e per i profili internazionali è il cosiddetto Ecopop, dal nome dello schieramento verde che lo sosteneva. Il referendum chiedeva di limitare allo 0,2% la crescita della popolazione immigrata residente nel paese. Il quesito giustificava la richiesta del controllo dell’immigrazione per questioni quasi ambientali, ecologiche.

Controllo dell’immigrazione
Il quesito “stop alla sovrappopolazione - sì alla conservazione delle basi naturali della vita” mirava a limitare la crescita della popolazione mediante il controllo dell’immigrazione: non per xenofobia, ma in omaggio allo sviluppo sostenibile. Un eccesso di popolazione in un paese montagnoso e dal ridotto spazio sfruttabile significa, per i promotori, minacciare il modello svizzero.

La schiacciante maggioranza per il “no” è doppia: popolazione (oltre il 70% degli aventi diritto) e cantoni. La vittoria è ineccepibile. Il segnale è forte. I sondaggi prevedevano la triplice vittoria del “no”, ma in misura inferiore di quella uscita dai seggi. Molti di quanti si erano pronunciati per il “si” nelle intenzioni di voto hanno cambiato idea una volta arrivati ai seggi e gli indecisi hanno infine optato per il “no”.

Il Ticino - che a febbraio aveva determinato la vittoria con un voto larghissimo - si è ricreduto. Ancorché nel Cantone si pensasse a un testa a testa, è il “no” a prevalere.

Svizzera-Ue
È difficile misurare l’impatto del voto sullo scenario internazionale. Di certo la maggioranza della popolazione ha reagito al successo di febbraio, colpita dalle reazioni internazionali e dalle conseguenze sui rapporti con l’Ue. Che lo si voglia o no, l’Unione è il principale partner della Confederazione.

L’eventuale vittoria del referendum Ecopop avrebbe segnato un’ulteriore battuta d’arresto sulla via d’Europa. Sarebbe saltato l’accordo sulla libera circolazione delle persone e, con esso, la serie degli accordi bilaterali con l’Ue.

Non che la trama dei patti con Bruxelles sia salva col voto del 30 novembre. Resta l’ipoteca delle proposte che il Consiglio federale presenterà per applicare l’iniziativa costituzionale di febbraio. Il termine è il 2017, ma c’è tempo.

Prima ci sono le elezioni politiche generali nell’autunno 2015. Il panorama parlamentare potrebbe mutare e nel nuovo quadro potrebbe spirare aria nuova anche riguardo ai rapporti con l’Ue.

Italia e frontalieri
Il rapporto con l’Italia è una variante del binario europeo e in genere multilaterale. La libera circolazione delle persone, che implica quella dei lavoratori frontalieri, è materia eminentemente europea. Lo scambio automatico d’informazioni a fini fiscali rientra nel campo Ocse. Il ruolo italiano è di sostegno alle tesi europee.

Stiamo attenti a non duplicare i canali di comunicazione e chiarire i limiti della nostra azione negoziale. Di rilievo è la nostra strategia dell’attenzione verso le regioni italofone. Alcuni portano il tema dei frontalieri a simbolo del malessere nei confronti dell’Italia. Ora può essere rimesso nella giusta dimensione economica e sociale.

I cantoni francofoni e germanofoni hanno un numero di frontalieri che, nel caso di quelli provenienti dalla Francia, è il doppio del nostro. Eppure la Svizzera rimanda, non manifesta, particolari segni d’insofferenza. Per non parlare della Svizzera alemanna, dove la presenza tedesca penetra a tutti i livelli sociali.

Il rapporto con la Svizzera deve andare al di là di quello che in diplomazia si chiama di buon vicinato. È un rapporto d’integrazione basato sulla comunanza d’interessi e principi.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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Gran Bretagna: si affronta il tema dell'immigrazione

Regno Unito
Cameron anticipa il negoziato con l’Ue
Ferdinando Nelli Feroci
01/12/2014
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Con il suo intervento sull’immigrazione, il Primo ministro britannico David Cameron ha di fatto aperto la campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo maggio, anticipando i primi contenuti di un futuro negoziato con l’Unione europea (Ue).

Per farlo ha presentato una serie di richieste sui temi dell’immigrazione e della libera circolazione delle persone. Altre richieste, per ora evocate in termini molto generali, potrebbero essere formalizzate in un quadro più organico, dopo un suo eventuale successo elettorale.

Cameron insegue Farage
Da tempo Cameron era apparso costretto a seguire il partito euroscettico Ukip sul terreno scivoloso delle politiche europee e delle quotidiane polemiche contro Bruxelles e ridotto ad articolare la propria narrativa sul tema sensibile del rapporto con l’Ue sulla base di un’agenda che sembrava determinata solo dalla preoccupazione di non lasciare spazi alla formazione di Nigel Farage.

Con il discorso del 28 novembre, Cameron ha ripreso l’iniziativa, lanciando in contemporanea una sfida al suo rivale più temuto sul fronte interno, e all’Ue. E per lanciare questa duplice sfida ha scelto il terreno della gestione dei fenomeni migratori, sapendo di evocare una questione al tempo stesso altamente controversa, ma di grandissima sensibilità per l’opinione pubblica.

Come premessa Cameron ha dovuto constatare che, contrariamente a quanto aveva promesso all’inizio del suo mandato, i flussi migratori nel Regno Unito sono aumentati considerevolmente, soprattutto a partire dal 2004, e che il saldo netto dei flussi migratori (differenza fra emigranti e immigranti) è ugualmente aumentato.

Ha insistito sulla circostanza che l’aumento degli immigrati (di qualsiasi provenienza) pone un onere eccessivo sul bilancio pubblico per il welfare. E pone anche problemi crescenti di sostenibilità dei servizi pubblici essenziali (scuola, assistenza sanitaria, spese per la sicurezza, ecc.). Ne ha dedotto che il modello di una società eccessivamente “aperta” e destinata a incoraggiare l’immigrazione, grazie ai propri successi in termini di crescita e competitività, non è alla lunga sostenibile.

Gestione controllata dell’immigrazione
Cameron ha affrontato solo marginalmente il fenomeno dell’immigrazione proveniente da paesi extra Ue, anticipando ulteriori misure di controllo, ma concentrandosi soprattutto sull’immigrazione proveniente da paesi Ue.

In caso di rielezione, il primo ministro britannico si è impegnato a realizzare una gestione “controllata” di quell’immigrazione, possibilmente nel quadro di un accordo con i partner europei, mirato a definire un regime comune di libertà di circolazione delle persone con alcune significative limitazioni. In assenza di accordo, bisognerà definire un regime nel quadro di un negoziato esclusivo tra Regno Unito e Ue e valido solo per il primo.

Cameron ha dichiarato che non intende contestare il principio della libera circolazione delle persone - principio fondante del progetto europeo - ma ha indicato una serie di misure destinate a limitare e condizionare quella libertà:
a) riducendone gli abusi (maggior ricorso alle deportazioni e divieti di rientro per chi ha commesso reati, screening sui matrimoni di comodo ecc.);
b) riducendo gli incentivi (diminuzione drastica dei periodi consentiti di permanenza nel Regno Unito per i senza lavoro ecc.); e
c) riducendo soprattutto l’accesso ad alcune prestazioni del welfare per chi entra nel Regno Unito senza avere un lavoro o per chi rimane senza oltre un certo periodo (diminuzione o eliminazione di crediti di imposta e di altre forme di sussidi di disoccupazione, ecc.).

Brexit or not Brexit 
È stato osservato che Cameron poteva essere ancora più radicale nel suo attacco al principio della libera circolazione delle persone e che non avendo chiesto l’introduzione di quote per gli ingressi di cittadini Ue, ha lasciato una porta aperta per un negoziato con i partner europei.

È stato d’altronde anche sostenuto (da uno studio del Cer di Londra) che l’analisi dell’impatto dell’immigrazione Ue in termini di costi-benefici sul bilancio pubblico del Regno Unito è erronea e frutto di un pregiudizio di natura politica. Cameron ha però posto un problema politico. Gli altri partner Ue devono ora dare una risposta.

Un giudizio sulla praticabilità o accettabilità delle singole proposte o richieste dovrà esaminare in primis se c’è la volontà politica di assecondare il Primo ministro britannico sulla strada di un negoziato su limiti e condizioni dell’esercizio della libera circolazione delle persone. Successivamente bisognerà verificare se sia possibile operare a Trattati costanti - intervenendo eventualmente solo sulle legislazione secondaria - o se occorra intraprendere la strada molto più accidentata di una revisione dei Trattati.

Personalmente ho qualche dubbio che gli altri Paesi europei considerino l’immigrazione dai Paesi Ue il problema principale (l’attenzione prevalente è sulla immigrazione extra Ue). Osservo però che, con il suo intervento Cameron ha di fatto anticipato i tempi di un negoziato con l’Ue.

È legittimo non essere d’accordo con alcune proposte del Primo ministro britannico e alcuni paesi membri di recente adesione si sentiranno particolarmente colpiti da queste proposte. Sarebbe però un errore non prenderle in considerazione e non aprire una riflessione su di esse.

Non solo perché sono convinto che sia interesse comune garantire una permanenza del Regno Unito nell’Ue; ma anche perché i fenomeni migratori, se non gestiti correttamente, rischiano di generare dinamiche che potrebbero rapidamente condurre a derive in drammatico contrasto con i fondamentali del progetto comune europeo.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.
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Stress su 130 bilanci di banche della zona euro

Unione bancaria
Il nuovo tassello dell'architettura della zona euro
Alessandro Giovannini
19/11/2014
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Un duro lavoro, durato quasi un anno è finito. La Banca centrale europea (Bce) e l’Autorità europea bancaria hanno pubblicato i risultati degli stress test e dell’Asset Quality Review dopo aver analizzato i bilanci delle 130 banche più grandi della zona euro.

Anche se non si tratta del primo stress test per le banche europee, questo esercizio costituisce il punto di ingresso al meccanismo di vigilanza unico europeo, (Single supervisory mechanism, Ssm,) all’interno del quale la Bce ha la responsabilità di supervisione diretta per queste banche e la responsabilità indiretta per il resto delle banche della zona euro.

Meccanismi unici di supervisione e di risoluzione
La decisione di costruire un'unione bancaria è stata presa nel 2012 per rafforzare l'integrazione dei mercati finanziari nella zona euro, superando le attuali divergenze nei meccanismi di supervisione e di risoluzione delle crisi a livello nazionale.

Mentre l’Ssm è disegnato per superare il primo limite, il secondo verrà superato attraverso il meccanismo unico di risoluzione ( Single resolution mechanism, Srm) che sarà pienamente operativo nel 2015. All’interno del Srm le autorità di risoluzione nazionali verranno progressivamente coinvolte nel processo di mutualizzazione in caso di grandi risoluzioni bancarie, grazie soprattutto al Fondo unico di risoluzione europeo (Single resolution fund, Srf).

Per comprendere meglio come il sistema finanziario della zona euro dovrebbe diventare meno esposto all'instabilità regionale, basta immaginare come, in questa nuova architettura istituzionale, si sarebbe potuto gestire la recente crisi bancaria dell’Irlanda.

Nel 2009, dopo lo scoppio della crisi immobiliare locale, le banche irlandesi sarebbero comunque state in uno stato di difficoltà grave. Con gli attuali poteri, la Bce decide se consentire ad alcune banche di fallire, di essere messe in risoluzione o essere salvate, perché giudicate di importanza sistemica.

I fondi necessari per salvare le banche (o attivare una risoluzione ordinata), tuttavia, non arriverebbero dal governo nazionale irlandese, come è accaduto cinque anni fa, ma dal Srf.

Limiti del fondo unico di risoluzione
Il meccanismo appena descritto mostra bene come grazie a questa nuova architettura sia possibile rompere il diabolico anello che lega a doppio filo banche deboli e finanze pubbliche.

Un legame che è stato distruttivo durante la crisi dell'euro, come mostra il caso italiano in cui le tensioni sui titoli di stato sovrano nel periodo 2011-2012 si sono rapidamente trasmesse sui costi di finanziamento degli istituti di credito del paese e viceversa.

Questa architettura, nonostante in parte sia già operativa è lungi dall’essere perfetta. Per come è stato disegnato, l’Srf, non sarà necessariamente in grado di assicurare un’efficace gestione della crisi.

L'attuale dimensione del Srf (€55 miliardi a pieno regime) è relativamente piccola rispetto alle attività complessive del sistema bancario supervisionato dal Ssm (che ammontano a oltre € 25.000 miliardi) e anche rispetto al capitale complessivo del settore (oltre € 1.000 miliardi).

Inoltre, è ancora poco chiara la sua interazione con l'European stability mechanism (Esm o, più comunemente, il fondo europeo salva stati) per assicurare fondi adeguati a fronteggiare una crisi sistemica. Al momento il ricorso ai fondi dell’Esm (che ammontano a € 500 miliardi) è previsto solo una volta che i programmi di assistenza in corso sono terminati e sono stati rimborsati, cioè circa nel 2030.

Rompere il legame stati-banche
Questa situazione a metà del guado rischia di portare a una rottura parziale del circolo vizioso che si è creato tra le banche e il debito sovrano. Inoltre, il processo di ri-nazionalizzazione del debito sovrano massicciamente acquistato dalle banche nazionali e utilizzato come garanzia per ottenere prestiti da parte della Bce nelle sue operazioni di politica monetaria, ha ancor più rafforzato questo legame, aumentando così la difficoltà di romperlo.

Ad esempio, nel 2013 solo il 38% del debito italiano era detenuto da soggetti esteri, una percentuale notevolmente inferiore rispetto al periodo più acuto della crisi. Una considerazione analoga vale anche per la Spagna e per altri paesi periferici.

Nonostante i mercati finanziari appaiono oggi più solidi del 2012, il potere rivoluzionario dell’unione bancaria è ancora un obiettivo che va perseguito con decisione da parte dei leader europei.

Non si può escludere del tutto di un nuovo acuirsi delle tensioni finanziarie. Senza una solida architettura istituzionale pronta a rispondere a queste pressioni, si rischia una perdita di fiducia ancora più catastrofica di quella di due anni fa.

Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies.
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L'euroscetticimo ancora non fa presa

Parlamento europeo
La rivoluzione euroscettica? Molto rumore per nulla
Eleonora Poli, Chiara Rosselli
22/11/2014
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A sette mesi dai risultati delle elezioni europee e con 140 seggi su 751, i partiti euroscettici sembrano ben lontani dall’essere quella forza catalizzatrice del cambiamento in cui molti avevano sperato.

Anche se tutti questi movimenti accusano l’Unione europea (Ue) per la gestione dell'immigrazione, le difficoltà economiche e la perdita di sovranità e di identità nazionale, essi non sembrano aver ancora individuato un terreno comune d’azione politica. Il fronte anti-europeo appare infatti frammentato e diviso al suo interno.

Tra euroscettici ed euro-critici 
Al momento, il gruppo parlamentare di inclinazione euroscettica più grande è l'Europa della libertà e della democrazia diretta (Efdd), che, sostenuto dall’Ukip dell’inglese Nigel Farage (24 seggi) e dal Movimento 5 Stelle (17 seggi), annovera tra le sue file 48 euroscettici convinti.

A questo seguono la Sinistra unitaria europea / Sinistra verde nordica (Gue/Ngl, 52 seggi) e i Conservatori e Riformisti (Ecr, 70 seggi), cioè gruppi più euro-critici che euroscettici, che si collocano rispettivamente a sinistra e a destra dell’arena parlamentare.

Rimangono poi i 21 seggi detenuti da partiti di estrema destra come il Front National francese, il partito ungherese Jobbik e il greco Alba Dorata, i cui parlamentari rimangono non allineati. Efdd e Ecr hanno infatti rifiutato qualsiasi alleanza con quest’ultimi, considerati troppo radicali.

Al di là delle divisioni politiche intra-parlamentari, i membri degli stessi gruppi euroscettici sostengono spesso posizioni contrastanti tra loro.

Ad esempio, lo scorso settembre il M5S si è opposto a una proposta sostenuta da Ukip sul budget europeo che prevedeva un taglio netto di tutte quelle spese che non beneficiassero direttamente il Regno Unito.

Allo stesso modo gli euro-critici dell’Ecr, si sono recentemente divisi riguardo a una delle votazioni relative all'adozione dell'euro in Lituania, quando i parlamentari di Alternativa per la Germania hanno votato in opposizione al gruppo, sostenendo che, al fine di essere competitiva, l’ eurozona dovrebbe escludere i paesi del sud e dell'est europeo.

Europeisti serrano le fila
D’altro canto, l'ondata euroscettica sembra aver contribuito a potenziare la cooperazione tra i partiti europeisti. Il Partito popolare europeo (Ppe) di destra, l’Alleanza per liberal-democratici d'Europa (Alde) di centro destra ed i Socialisti e democratici (S&D) hanno appoggiato per l’85,5% dei casi le stesse risoluzioni parlamentari, un terzo in più delle volte rispetto allo scorso mandato, 66,5%.

I partiti tradizionali sembrano anche essere più efficaci nel coordinare i voti all’interno dei propri gruppi. Ad esempio, mentre l’Efdd ha un tasso di coesione interna pari al 45.39%, quello del Ppe è del 96%, quello di Alde è del 93% e quello di S&D è del 87,45%.

Quattro volte su cinque, questa maggiore intesa ha permesso a questi gruppi di vedere approvate le loro posizione in sede di votazione parlamentare, a dispetto dello scarso 41% registrato da Efdd e Gue-Ngl.

In particolare, Alde, Ppe e S & D insieme all’euro-critico Ecr hanno visto passare il 100% delle risoluzioni da loro votate nell’ambito degli affari economici e monetari.

Euroscettici che intralciano più che rivoluzionare 
Una maggiore fedeltà di voto e una migliore capacità di cooperazione intra-parlamentare hanno di fatto accresciuto di molto il potere reale di questi gruppi tradizionalmente eurofili, che secondo Vote Watch, supera mediamente del 2% il potere nominale derivante dal numero di seggi da loro detenuti (nel caso del Ppe è il 4,08%, per l’S & D l’1,64% e per Alde lo 0,95%).

Al contrario, Efdd, in possesso di una potere nominale di 6,37%, riesce a malapena ad esercitare un potere effettivo di poco superiore al 3%.

Il dado non è tuttavia ancora tratto. Con solo poche risoluzioni parlamentari votate, il gioco di coalizioni e negoziati politici e partitici è solo agli inizi. Lo spirito di adattamento dei partiti euroscettici sarà cruciale nel definire l'eredità che questo Parlamento lascerà in mano ai suoi successori.

Ciononostante, per il momento, gli euroscettici, seppure dirompenti nelle loro dichiarazioni, sembrano intralciare piuttosto che veramente cambiare la direzione istituzionale e politica europea.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
Chiara Rosselli è Assistente di programma dello IAI
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giovedì 27 novembre 2014

Serbia: gli Studenti incontrano l'Ambasciatrice in Italia

Italia-Serbia: dall'alleanza nell'Europa in guerra a quella nell'Europa unita


di 

Anastasia Latini*

Si è tenuto lunedì 24 Novembre il terzo appuntamento del ciclo di seminari “Osservatorio di attualità geopolitica” organizzati in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). 
L’incontro ha trattato la tematica delle relazioni tra Italia e Serbia e ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ana Hrustanovic, ambasciatrice della Repubblica di Serbia in Italia, che ha ricordato i molti vantaggi del partenariato strategico instauratosi tra i due paesi e il percorso di avvicinamento all’Ue della repubblica balcanica, ormai sempre più indirizzata verso un’integrazione più profonda. 
Si è attraversata la storia dall’inizio del primo conflitto mondiale ad oggi, la crisi degli equilibri europei e la sgretolazione degli imperi che è seguita, eventi che hanno profondamente inciso sul futuro dei due Stati, legati tra loro da intese commerciali e strategiche, come ha ricordato nel suo intervento il professor Antonello Biagini. 
L’intervento del dottor Scalea ha invece ripercorso le vicende più recenti gettando nuova luce sulle responsabilità della Serbia durante la guerra civile che l’ha vista contrapposta al Kosovo, e prima ancora durante il crollo della Jugoslavia che ha lasciato ferite ancora aperte nella memoria storica della regione.
Riallacciare il filo che storicamente lega Italia e Serbia è ad oggi considerato indispensabile per un processo che mira a rendere l’Europa una realtà geopolitica in grado di misurarsi con le molte sfide che affronta e che troverà lungo il suo percorso.

email: latini.anastasia@gmail.com
          Biografia: in www.studentiecultori.blogspot.com (in approntamento)

martedì 18 novembre 2014

Spagna. Referendum in Catalogna. Su sei milioni di catalani, votano due milioni

Referendum in Catalogna
Il divorzio mentale della società catalana 
Riccardo Pennisi
13/11/2014
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Un successo di partecipazione. Questo il risultato del referendum "informale" - senza valore legale e organizzato su basi volontarie - con il quale cittadini e residenti in Catalogna sono stati chiamati a decidere se la propria regione sia da considerare uno stato, e se sì, se debba essere indipendente.

Il doppio sì sulla scheda è stata l'opzione scelta dall'80% degli oltre due milioni di partecipanti, un terzo del corpo elettorale locale.

Il voto, più che un passo avanti verso l'indipendenza, evidenzia soprattutto due gravi mancanze del governo del premier del partito popolare (Pp), Mariano Rajoy: incapacità di comprendere appieno lo scontento della società catalana, e perdita di iniziativa politica.

Peso della corrente indipendentista
Uno dei primi dati da considerare è il peso reale della corrente indipendentista sul totale degli elettori. Una corrente molto forte, ma che non arriva alla maggioranza assoluta.

I partiti del tutto o in gran parte favorevoli al distacco della Catalogna dal resto della Spagna sono a grandi linee due: Convergència i Unió (CiU), di centrodestra, a cui appartiene il presidente della regione Artur Mas; e Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), formazione ex radicale oggi più spostata su posizioni socialdemocratiche.

In occasione delle elezioni regionali del 2012 e delle europee del 2014, in cui il tema della secessione è stato ben presente, la somma dei voti dei due partiti è restata poco sopra il 40%.

Tuttavia, la corrente indipendentista ha egemonizzato quasi completamente, negli ultimi anni, il discorso pubblico in Catalogna. Ciò è dovuto a fattori strutturali, come ad esempio le politiche culturali che nei trentacinque anni di esistenza dell'autonomia sono state orientate a costruire e rafforzare l'identità locale, o la presenza di una tv pubblica (di qualità e molto seguita) abbastanza schierata a favore degli interessi del governo regionale.

Non si vuole qui ovviamente parlare di indottrinamento, ma piuttosto della creazione di un clima sociale di fatto "propenso" alle ragioni dell'ampliamento dell'autonomia e dell'indipendenza.

Socialisti bugiardi, popolari centralisti
Ma in particolare, l'attuale divorzio mentale della società catalana - in particolare dei suoi settori più dinamici, come la piccola e media imprenditoria e i giovani, il cui ruolo è centrale nella regione che produce un quinto del Pil nazionale - da Madrid, è dovuto all'insoddisfazione nei confronti dei due grandi partiti spagnoli.

I socialisti, un tempo fortissimi, dopo gli anni del loro ultimo governo (2004-2011) ora pagano il non aver mantenuto le tante promesse fatte ai catalani in materia di federalismo e aumento delle competenze regionali: la loro forza elettorale in Catalogna si è ridotta a un terzo rispetto a dieci anni fa.

I popolari sono centralisti per definizione - benché in passato il governo nazionale di José Maria Aznar abbia siglato diversi accordi con quello regionale di Jordi Pujol; la loro reazione alle manifestazioni di massa che gli indipendentisti hanno organizzato negli ultimi anni è stata di rifiuto, se non di sdegno e ridicolizzazione.

Un rifiuto che si è esteso a qualsiasi richiesta di nuovi accordi, e che ha portato sicuramente un buon numero di "non indipendentisti" a partecipare comunque in segno di protesta.

Intransigenza di Madrid
La decisione di non permettere un referendum costituzionale è apparsa legittima ai sensi della Carta del 1978 e condivisa nel resto del paese. Ma la messa sotto accusa da parte di Madrid del governo regionale e di tutti i funzionari che hanno concesso l'uso di locali pubblici come seggi avrà delle conseguenze più pesanti.

Per quanto alcune parti del Pp e dell'amministrazione centrale possano esserne soddisfatte, allo stesso tempo l'idea di Artur Mas, cioè portare CiU e Erc a costituire alle prossime regionali una lista indipendentista comune che superi il 50% esce certamente rafforzata da tale intransigenza. Mas spera che questa lista possa poi procedere spedita verso la secessione della Catalogna.

La mancanza di lucidità del governo di Madrid è confermata dal recente ritiro di due tra i provvedimenti-simbolo: la legge che complicava il ricorso all'aborto, e la proposta di riforma elettorale.

L'esecutivo di Rajoy sembra infatti paralizzato dalla crescita di Podemos, inizialmente sottovalutata e anzi considerata una risorsa per spaccare la sinistra.

Il nuovissimo partito di Pablo Iglesias non solo corre nei sondaggi - aiutato dalle inchieste sulla corruzione che si susseguono e che toccano un po' tutti gli altri partiti - ma attira elettori da tutti gli schieramenti, compresi i votanti del Pp meno fedeli.

È una prospettiva che da Bruxelles e da Berlino viene osservata con discreto timore. La Germania e l‘Unione europea temono che un eventuale governo di Podemos possa non rispettare i vincoli di bilancio e non voglia onorare il pagamento del debito; eventualità, questa, non ritenuta ammissibile.

Se le cose resteranno così, i partner europei faranno pressione per un futuro governo di grande coalizione tra popolari e socialisti - ora non in grado di affermarsi da soli. Questi nodi si scioglieranno solo nel 2015, quando si rinnoveranno quasi tutte le amministrazioni locali, in primavera, e il parlamento, in autunno.

Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, ISPI, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia.
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Svizzera: fisco, banche, denaro più comprensibili

Svizzera
Se il fisco diventa più trasparente
Cosimo Risi
16/11/2014
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Svizzera vuol dire fisco leggero. Vuol dire banche impenetrabili fino a anni addietro e ora in procinto di aprirsi alla trasparenza.

L’opacità sta per finire grazie all’accordo Ocse sullo scambio automatico delle informazioni e con il patto Ue anti - evasione raggiunto al Consiglio Ecofin di ottobre.

La realtà ha tuttavia la testa dura e i negoziati continuano a svolgersi contemporaneamente e in varie sedi.

Trattativa Italia-Svizzera
Prendiamo la trattativa bilaterale fra Italia e Svizzera, che riceve assicurazioni ad alto livello di pronta conclusione e pur tuttavia sfora sistematicamente il calendario. Ora la fine si prevede per la primavera 2015.

Perché si negozia da due anni e passa e non si giunge all’accordo, malgrado le buone intenzioni delle parti? Qualcuno tergiversa, come lascia intendere certa stampa svizzera imputando la responsabilità all’Italia?

Su un punto l’Italia non ha potestà negoziale. La reciproca apertura dei mercati finanziari compete all’Unione europea ed è collegata al negoziato istituzionale che la stessa Unione ha in corso con la Svizzera.

I singoli stati membri possono intervenire ad adiuvandum e non in prima battuta. La proposta svizzera di negoziare l’apertura dei mercati con alcuni stati membri sul piano bilaterale, a titolo di contropartita dello scambio automatico delle informazioni, appesantisce la barca e rende difficile la manovra.

Per tornare all’essenza della trattativa, si tratta di stabilire un regime per il periodo transitorio che intercorre tra la conclusione dell’accordo bilaterale e l’entrata in vigore dello scambio automatico d’informazioni (Ocse standard). Quali e quante informazioni la nostra autorità fiscale può chiedere all’autorità svizzera?

Voluntary Discloure
La trattativa su questo punto s’intreccia con un provvedimento strettamente nazionale, che è quello in discussione al Parlamento con il nome di Voluntary disclosure (Vd).

Con la Vd, il legislatore offre la possibilità al contribuente, che abbia omesso di dichiarare le fortune depositate all’estero, di dichiararle pagando un certo ammontare e senza incorrere in sanzioni. La Vd funzionerebbe erga omnes e non sarebbe discriminatoria nei confronti dei paesi a fiscalità agevolata come la Svizzera.

Un altro legame resta in piedi a complicare il quadro: quello fra il trattamento dei dati bancari a fini fiscali e la fiscalità dei lavoratori frontalieri. Il legame risponde alla logica del pacchetto così cara alla diplomazia.

Sui frontalieri in Svizzera pesa l’applicazione dell’iniziativa costituzionale del 9 febbraio 2014 riguardo al “no all’immigrazione di massa”.

Peserebbe l’eventuale vittoria del referendum cosiddetto “Ecopop”, dal nome dell’Associazione per l’ambiente e la popolazione che lo promuove, che, analogamente, punta a limitare l’afflusso degli stranieri. La consultazione referendaria si celebrerà il 30 novembre e ha le principali forze politiche contro. Ma come insegna il precedente di febbraio, i sondaggi sono mendaci e la guardia è alta.

Futuro dei frontalieri in bilico
Di questo referendum si dice poco in Italia, ma i suoi effetti si cumulerebbero con quelli dell’iniziativa costituzionale. Il quesito recita letteralmente: “stop alla sovrappopolazione - sì alla conservazione delle basi naturali della vita”.

In omaggio allo sviluppo sostenibile, i promotori propugnano un tetto alla crescita economica e alla crescita della popolazione. Per questo vorrebbero fissare gli ingressi al limite coerente con lo sviluppo sostenibile. I frontalieri, anche se non residenti, rientrerebbero nel limite perché contribuiscono all’inquinamento e al sovraffollamento.

Molte variabili condizionano il quadro negoziale sui frontalieri al punto da renderlo poco prevedibile: applicazione dei contingenti e della preferenza nazionale ex iniziativa del 9 febbraio; limiti ex referendum del 30 novembre; modifica della fiscalità.

Ecco che i frontalieri divengono oggetto di una partita così complessa da oscurare il dato sociale. Si tratta di oltre 60mila persone, le cui vicende si riflettono sul benessere dei 400 comuni di provenienza prevalentemente lombardi. Il Ticino, per parafrasare un nostro responsabile politico, è il primo datore di lavoro della Lombardia.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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Ucraina: il dopo elezioni nelle terre contese

Crisi ucraina
Verso una grande Transnistria
Francesco Bascone
04/11/2014
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Le elezioni del 2 novembre nelle “repubbliche” di Donetsk e Lugansk non hanno aggiunto nessun nuovo elemento al risiko della crisi ucraina.

Mosca le ha considerate valide, come aveva già preannunciato mentre l'Unione europea (Ue) non poteva che negarne la validità poiché in contrasto con la costituzione dell'Ucraina.

Queste voltazioni non costituiscono però un nuovo vulnus. Definirle un’ennesima provocazione può servire solo ad accelerare lo scivolamento verso un clima da guerra fredda. Proprio quando le “attività insolite” dell'aviazione russa ai margini dello spazio aereo Nato consigliano una de-escalation.

Elezioni ucraine
I risultati delle parlamentari tenutesi la settimana prima nel resto dell' Ucraina sono stati generalmente accolti con sollievo: ha vinto lo schieramento democratico e pro-europeo, l'estrema destra non è cresciuta, il commento di Mosca è cautamente positivo.

Ci si può augurare che nel formare la coalizione di governo il presidente Pedro Poroshenko e il primo ministro Arseniy Yatsenjuk rinuncino all'apporto del partito Svoboda e che sappiano tenere a bada coloro che premono per una soluzione militare della questione del Donbass.

In Occidente come in Russia, le rispettive propagande hanno fornito immagini distorte degli sviluppi dei mesi scorsi in Ucraina, creando nelle opinioni pubbliche la confusa sensazione che l'aggressività dell'altra parte è stata rintuzzata e che se c'è del vasellame rotto la responsabilità è tutta di quella parte.

Da noi è diffusa una moderata soddisfazione: il presidente russo Vladimir Putin è stato fermato, l'economia russa soffre assai più della nostra per le sanzioni, il 95% dell'Ucraina è stato incorporato nell'orbita dell'Ue. L'Occidente avrebbe quindi vinto la partita geopolitica, nonché quella morale. Ma le cose stanno proprio così?

Armistizio sul Donbass
L'armistizio raggiunto sul fronte del Donbass ha certo evitato il peggio: la paventata conquista russa di un corridoio fra Donetsk e la Crimea. Il bilancio provvisorio del tentativo di soluzione militare deciso da Poroshenko è però pesantemente negativo per Kiev, e quello finale potrebbe essere ancora più disastroso in caso di rottura dell’imperfetta tregua.

Per Putin è stato un successo parziale su cui pesano le sanzioni. L'Europa pagherà un prezzo economico ancora più alto, perché alle conseguenze sulle nostre economie delle sanzioni e delle contromisure russe si aggiungerà l'onere di salvare dal fallimento l'Ucraina.

Inizialmente il sostegno militare russo ai ribelli non aveva preso la forma di un intervento massiccio e dichiarato, come fu quello del 2008 contro la Georgia, in una situazione analoga (in entrambi i casi lo Stato che attaccava una provincia secessionista difendeva legittimamente la propria integrità territoriale, ma sfidava la Russia), ma il 17 luglio scorso, l’abbattimento dell'aereo civile MH17 malese aveva aperto una nuova fase.

Lo sfruttamento propagandistico di quell'"incidente di percorso" da parte occidentale, il giro di vite sulle sanzioni, le bombe sulle città ribelli e soprattutto il rifiuto di Poroshenko di concedere uno status speciale alle regioni russofone e di rinunciare alla associazione alla Ue avevano spinto Putin a decidere un impiego non più dissimulato di truppe russe, alzando il tiro: non più solo rallentare l'avanzata delle forze ucraine, ma passare alla controffensiva aprendo un nuovo fronte più a Sud e minacciando la città di Mariupol.

Di fronte al rischio di amputazione di una striscia di territorio che collega il Donbass con la Crimea, e forse anche oltre, fino a Odessa e a congiungersi con la Transnistria, il presidente ucraino aveva dovuto accettare l'armistizio, cioè rinunciare alla riconquista dei territori orientali, promettendo loro un'ampia autonomia.

Al punto in cui sono giunte le cose, questa formula, più che indicare la prospettiva di una soluzione di compromesso, maschera il sostanziale distacco di quelle province.

Conflitto congelato
Nella migliore delle ipotesi, infatti, per uscire dal circolo vizioso delle sanzioni e dal piano inclinato verso una nuova guerra fredda, Mosca e l'Occidente si accorderanno per il congelamento della situazione sul terreno e l'avvio di un processo negoziale destinato a durare anni o decenni e imperniato sul mantra della "ampia autonomia" delle regioni filorusse, nel rispetto - formalmente - dell'integrità territoriale dell'Ucraina. La Crimea sarebbe un caso "sui generis".

Sia che si giunga ad un accordo su uno status di autonomia, inteso come mascheramento o anticamera della secessione, sia (come è più probabile) che una impasse negoziale consolidi di fatto la separazione, in ogni caso avremo nella regione Donetsk-Lugansk una situazione in tutto analoga a quella della "Repubblica di Transnistria" (confinante con l'Ucraina), sulla quale il governo di Chisinau non esercita da oltre due decenni alcuna autorità.

Analoga anche a quella della Abkhazia e della Sud-Ossezia prima del conflitto del 2008 quando queste due regioni (ex) georgiane hanno ottenuto dalla Russia il riconoscimento dell'indipendenza, nonché presidii militari.

Fermo restando che la Crimea è un caso speciale, l’annessione deve cioè rimanere una eccezione, Mosca appare orientata ad applicare alla "Novorossija" il modello Transnistria. Il modello Abkhazia rimarrebbe in riserva come punizione per eventuali iniziative avventate di Kiev, o come ritorsione contro mosse occidentali, o per soddisfare nuove fiammate nazionalistiche.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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lunedì 10 novembre 2014

Immigrazione: un valore da sfruttare

Immigrazione 
Se l’Europa valorizzasse la mobilità dei migranti
Enza Roberta Petrillo
26/10/2014
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Coinvolgi, attiva, responsabilizza. La via promossa dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) per valorizzazione l’immigrazione ha rappresentato il punto di riferimento dell’azione italiana in materia di migrazione e sviluppo.

Un approccio che dal 2003 ha puntato a restituire centralità al ruolo giocato dai migranti sia nei progetti di co-sviluppo e cooperazione decentrata che in quelli di investimento in attività produttive avviate nei paesi di provenienza.

Poco più di un decennio dall’avvio di quella strategia, un workshop promosso dal Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale ne ha esaminato approdi e prospettive con l’obiettivo di definire una road map per l’avvio dell’ agenda di sviluppo post-2015.

Immigrazione e sviluppo
In che modo l’immigrazione influenza i processi di sviluppo economici, sociali ed ambientali? Quali politiche sono necessarie per far sì che la mobilità crei sviluppo nei paesi di provenienza?

Questioni dibattute già da un decennio e che sono state rilette anche alla luce delle nuove dinamiche migratorie euro-africane.

Il numero crescente dei migranti forzati diretti in Europa segnala in modo netto che guardare soltanto alla dimensione economica non basta.

Per quanto decisivi, temi come la sinergia migrazione-sviluppo, la riduzione dei costi delle rimesse, la valorizzazione del ruolo delle migrazioni circolari, restano soltanto un tassello dell’azione richiesta alla comunità internazionale per fronteggiare le nuove configurazioni demografiche, sociali e geopolitiche che vanno prendendo piede.

Punto ribadito anche dal coordinamento di Organizzazioni non governative “Link 2007” che ha segnalato l’urgenza di una riflessione che tenga conto anche delle dinamiche che da qui a un trentennio prenderanno forma in Africa, il bacino d’eccellenza delle migrazioni dirette in Europa.

Crescita demografica africana 
Per il 2050 le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite prevedono una crescita della popolazione africana dal miliardo di abitanti odierno, a più di 2,4 miliardi di persone. Tendenza che potrebbe veder raddoppiare la popolazione attiva compresa tra i 14 e i 65 anni, determinando un bacino potenziale di 700 milioni di persona in età lavorativa.

La crescita economica disomogenea del continente africano, e l’instabilità di molte delle strutture istituzionali dei suoi paesi, lascia prevedere che una parte consistente di queste persone continuerà a guardare all’Europa come un orizzonte possibile in cui capitalizzare la propria esperienza.

Proiezione che tira in ballo le politiche che l’Unione europea (Ue) e le sue cancellerie intendono mettere in atto per indirizzare il fenomeno non soltanto nei paesi di provenienza, ma anche nei paesi di arrivo.

“Non è pensabile alcun contributo alla valorizzazione dei migranti per lo sviluppo (nella duplice condizione di immigrati e di emigrati) se ad essi non vengono riconosciuti rispetto, accoglienza, diritti, integrazione, lavoro dignitoso, protezione politica e umanitaria, tutele e garanzie di sicurezza sociale”. Considerazione, quella di Link 2007 che sembra marcare la vera priorità dell’azione post-2015: lo sviluppo di politiche coerenti, sia a livello Ue che a livello multilaterale.

Strabismo europeo
Dieci anni dopo il varo di strategie come quelle dei corridoi migratori tra paesi di provenienza e destinazione, volti a stimolare in un’ottica di co-sviluppo gli investimenti dei migranti e lo sviluppo di relazioni commerciali circolari, i paesi europei sembrano infatti aver soppiantato la dimensione umana della mobilità con quella economica.

Una condotta strabica basata da un lato sull’intento di promuovere le relazioni economiche tra i due continenti, dall’altro su quello di rafforzare i dispositivi di controllo in entrata, riducendo in maniera netta le possibilità di piena inclusione dei migranti nei paesi di arrivo.

Se l’Europa vorrà segnare un cambio di rotta nel dibattito multilaterale che sta precedendo il lancio dell’Agenda per lo sviluppo post- 2015 deve partire dalla valorizzazione effettiva, non solo dichiarata, della mobilità migrante e delle politiche di integrazione a essa legate. Una svolta possibile solo se si sceglierà di mettere in sinergia le politiche di cooperazione e sviluppo con quelle sull’immigrazione.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc, Università La Sapienza di Roma; esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri
(enzaroberta.petrillo@uniroma1.it)
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lunedì 27 ottobre 2014

l'Unione Europea in movimento

Unione europea
Nuovo sguardo di Junker sul cortile di casa europeo
Maria Serra
20/10/2014
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La differenza terminologica per individuare il portafoglio dell'Unione europea (Ue) preposto al perseguimento delle politiche di allargamento - da “Allargamento e politiche europee di vicinato” a “Politiche europee di vicinato e negoziati per l'allargamento” - risponde a un chiaro cambiamento di approccio da parte della Commissione di Jean-Claude Juncker nei confronti del cortile di casa europeo.

Dietro tale orientamento risiedono considerazioni di tipo geopolitico, oltre che economico e politico, che fonderanno l'azione della nuova direzione generale innanzitutto sul potenziamento delle capacità di assorbimento e sulla preferenza della qualità - più che della velocità - del processo di integrazione europea.

Lista di attesa per l’ingresso nell’Ue
L'allarmismo creatosi intorno alla dichiarazione di Juncker circa il fatto che nei prossimi cinque anni proseguiranno solo i negoziati con i paesi che hanno già ottenuto lo status di candidato ufficiale e con i quali sono state già avviate le trattative - escludendo quindi dal raggio degli interlocutori quasi certamente i candidati potenziali (Bosnia-Erzegovina e Kosovo) - esce ridimensionato se si considerano due fattori.

Il primo è relativo al fatto che tutti i paesi attualmente candidati non hanno comunque una prospettiva di ingresso prima del 2020: in alcuni casi i negoziati sono alle prime battute (Montenegro e Serbia), in altri stanno per cominciare (Albania) o non sono mai iniziati (Macedonia), in altri ancora hanno subìto un sensibile rallentamento o sono stati congelati (Turchia e Islanda).

In secondo luogo, i meccanismi di condizionalità a cui si stanno sottoponendo questi stessi paesi sono già da tempo più stringenti rispetto a quelli a cui si sono dovuti uniformare i dieci stati - se si escludono le adesioni di Bulgaria, Romania e, da ultimo, Croazia - protagonisti dell'ingresso big bang nel 2004.

Questo per due motivi: da un lato il quinto allargamento ha evidenziato successive criticità in termini sia di sostenibilità politica sia di mantenimento di stessi standard di sviluppo politico, economico e sociale; dall’altro i paesi in lista di attesa per l’ingresso nell’Ue sono quelli reduci dall’esperienza della disgregazione jugoslava e dei conflitti balcanici.

La progressiva convergenza tra Europa occidentale ed Est tracciata a partire dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003, e di cui la crisi congiunturale del 2008/2009 ha rilevato la fragilità di alcuni equilibri, richiede dunque ora maggiori sforzi da parte dei paesi del sud-est europeo nell'adeguarsi effettivamente all'acquis communautaire.

È in ragione di ciò che nei Progress Reports pubblicati l’8 ottobre anche la Commissione europea uscente, eccezion fatta per le raccomandazioni circa l’apertura delle trattative con la Macedonia e di due nuovi capitoli negoziali con la Turchia, non ha suggerito nessun nuovo step legale con i paesi della regione balcanica.

Crisi ucraina e politica di vicinato
La crisi ucraina e il conseguente raffreddamento dei rapporti tra Bruxelles e Mosca hanno rilevato una certa impreparazione delle politiche di vicinato nella misura in cui queste ultime non hanno tenuto conto della Russia, della sua agenda politica e del soft power che essa riesce a esercitare nello spazio ex-sovietico.

Anteporre la politica europea di vicinato ai negoziati per l’allargamento, rivedendone dunque gli strumenti oltre che l’estensione (se si considera l’impegno del Ministro Federica Mogherini a prestare maggiore attenzione al vicinato europeo), significherà conferire alla nuova direzione generale un’impronta più votata alla sicurezza, in evidente connessione proprio con l’ufficio dell’Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza comune.

Così anche la precedente esperienza dell’attuale commissario responsabile della politica di vicinato Johannes Hahn al portafoglio delle politiche regionali suggerisce l’impegno a far sì che il processo di europeizzazione resti per questi paesi l'unica opzione realmente credibile.

Paesi candidati disinteressati
Lo spettro di una nuova recessione, d’altra parte, rende impensabile che l’Ue possa farsi carico nel breve periodo di oneri derivanti dal sostegno a nuovi stati membri, ma che preferisca piuttosto optare per l’approfondimento degli strumenti già in essere, per una migliore allocazione dei fondi già destinati (11 miliardi di euro fino al 2020) e per una maggiore coesione interregionale.

La stessa situazione economica e monetaria e le discussioni politiche che si stanno sviluppando su queste precedono evidentemente qualsiasi dibattito relativo a una revisione delle strutture istituzionali per adattare nuovamente il loro funzionamento e il processo decisionale a nuovi ingressi.

In questo contesto è chiaro che il rischio maggiore per l’Ue è che i paesi candidati perdano l’interesse a proseguire sul cammino europeo. Alla nuova Commissione spetterà dunque di riuscire a calibrare i giusti incentivi affinché lo slancio all’allargamento resti immutato nel tempo e che quella di integrazione dei paesi dell’Europa sud-orientale resti una politica di successo quale finora è stata.

Maria Serra, analista di relazioni internazionali, collaboratrice di Aspenia e Ispi, si occupa di Balcani, Europa centro-orientale e Servizio europeo per l'azione esterna.
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Ucraina: si crea un nuovo parlamento per un futuro accettabile

Ucraina 
Kiev al voto con l’Europa in mente
Giovanna De Maio
21/10/2014
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Le domande degli ucraini si fanno più incalzanti in vista delle elezioni del prossimo 26 ottobre, quando sceglieranno i protagonisti del nuovo parlamento.

Per il momento il governo di Kiev ha deciso di dare due risposte a colpi di leggi: la prima, la zakon pro ljustratsiju, (lustration act in inglese); la seconda, un regime speciale della durata di tre anni per alcune aree delle regioni di Donetsk e Lugansk.

Se l’obiettivo era di smorzare la tensione e predisporre una situazione di relativa calma per lo svolgimento del voto, almeno per il momento non è stato raggiunto, poiché l’adozione di entrambi i dispositivi è stata accompagnata da dure polemiche, mentre il cessate il fuoco nelle regioni orientali non sembra aver dato risultati significativi.

Lustration Act, obiettivo trasparenza
L’obiettivo del lustration Act è escludere dalla competizione elettorale coloro che “con le loro azioni o inazioni hanno preso delle decisioni tese all’usurpazione del potere da parte del presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovich”.

L'approvazione del progetto è stata molto travagliata e la stessa versione definitiva risulta molto lacunosa.

Sebbene si rivolga a tutti coloro che ricoprano o intendano ricoprire una posizione negli organi di stato centrali o locali, l'atto fa del potere esecutivo e di quello giudiziario i sorvegliati speciali, mentre esclude le cariche a elezione diretta - quindi il presidente e i parlamentari.

Sicuramente questa misura gode di un ampio sostegno popolare, in previsione dell'uscita di scena degli ex funzionari e burocrati corrotti dell’era Yanukovich, nonché degli ex membri del partito comunista e agenti segreti del Kgb.

Restano tuttavia numerosi i dubbi circa l'efficacia e la portata del lustration act, che, oltretutto, rischia di non essere adottato uniformemente a tutti i livelli a causa dell’inefficienza delle burocrazie locali.

Leggi speciali per Donetsk e Lugansk
Il parlamento ucraino ha predisposto delle leggi speciali per quelle aree delle regioni di Donetsk e Lugansk non controllate dai separatisti.

Tra le misure principali, una maggiore influenza del governo locale sull’elezione dei giudici e procuratori, la possibilità per le città di formare una propria milizia, un’espansione dell’uso del russo come lingua ufficiale e uno snellimento delle regolamentazioni sulle imprese e sugli investimenti.

Un provvedimento molto contestato - “porta Donetsk sotto il controllo russo” ha tuonato Yulia Tymoshenko - perché implica concessioni difficili da digerire per l’opinione pubblica, sensibile alla dialettica dei partiti populisti che auspicano una soluzione armata del conflitto.

Pur ribadendo con fermezza che non saranno tollerate modifiche dei confini ucraini, il presidente Petro Poroshenko intravede tuttavia nelle leggi speciali la possibilità di gestire le prossime elezioni in un modo relativamente meno problematico.

Competizione interna al fronte dei filo-europei ucraini
Più che tra l’area maggioritaria di partiti favorevoli all’integrazione europea e quella filo-russa minoritaria del blocco dell’opposizione (Ucraina forte e il Partito comunista), la competizione elettorale si gioca nel primo dei due schieramenti.

Al suo interno, infatti, si contrappone un blocco moderato che cerca il compromesso con la Russia, e uno più estremista che vorrebbe stabilizzare i confini attraverso l’intervento armato (Partito radicale, Patria di Yulia Tymoshenko, Partito nazionalista di destra Svoboda e i conservatori di Posizione civica).

Il partito delle regioni di Yanukovich si è disintegrato, mentre i deputati di Udar (del pugile Vitalij Klitschko) si sono uniti al blocco di Poroshenko che da agosto 2014 ha preso il nome di Solidarietà.

Secondo alcuni sondaggi condotti a inizio settembre, i partiti che riusciranno a superare lo sbarramento del 5% sono Solidarietà, il Partito radicale, Patria e il Fronte popolare liberal-democratico, il cui leader è il premier Arseniy Yatsenyuk.

Quest’ultimo, allontanatosi dalla Tymoshenko, ha assunto un atteggiamento più tattico e ha proposto un formale accordo di coalizione al partito del presidente, non essendo riuscito a creare una lista comune con Solidarietà.

La portata universalistica delle proteste di Kiev tuttavia, non si è tradotta nella creazione di un unico partito politico. Secondo i sondaggi, il blocco che sostiene Poroshenko sarebbe in vantaggio, ma non di molto (prenderebbe circa il 17%), pertanto si prevede che le forze filo-europee creeranno una coalizione attorno al presidente.

Tuttavia è impensabile che ci sia una maggioranza sufficiente a emendare la costituzione e dunque a riformare il sistema politico ucraino.

Molto probabilmente le forze moderate avranno la meglio alle prossime elezioni. Tuttavia davanti a loro non c’è solo un conflitto armato o una battaglia territoriale. Il paese è allo sbando: un ucraino su tre vive sotto la soglia di povertà, il debito con l’estero ammonta a 151 miliardi di dollari mentre l’inflazione è al 19%.

A chi vincerà spetta un compito che ha il sapore di una missione impossibile, con le sole forze ucraine.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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Spagna: alla vigilia del referendum non consentito

Referendum catalano
Prova di forza tra Madrid e Barcellona
Marco Calamai
15/10/2014
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A meno di un mese dalla tanto attesa e discussa consultazione del prossimo 9 novembre sul futuro della Catalogna - respinta dal governo del conservatore Mariano Rajoy e sospesa dal Tribunale costituzionale - crescono gli interrogativi sul possibile sviluppo di questo conflitto, di certo il più grave della recente storia spagnola.

Rajoy pronto a trattare
Il primo ministro spagnolo ha dichiarato di essere disposto a “negoziare per arrivare a un punto d’incontro”, precisando che tale trattativa deve avvenire nel “rispetto della legge”. Quale legge? Quella attuale della Costituzione che non consente un referendum a livello locale? Sembra un dialogo tra sordi.

Tuttavia è verosimile che dietro l’apparente unità interna, il Partito popolare in caduta libera nei sondaggi (ora criticato da ogni parte per la gestione a dir poco maldestra dei casi di ebola) nasconda fortissimi dubbi su come procedere. Da qui al 9 novembre, dunque, molte novità possono influire sulla prova di forza tra Madrid e Barcellona.

Fronte indipendentista catalano diviso
Ci sono alcuni segnali che sembrano confermare crescenti divisioni del fronte “catalanista”, indipendentista. Artur Mas, il presidente della Generalitat, l'istituzione di autogoverno della Catalogna, sarebbe orientato a consolidare la consultazione, priva di valore legale, con elezioni anticipate straordinarie (realizzabili senza problemi) il cui risultato avrebbe in ogni caso un forte impatto politico e psicologico.

Mas spera così di nascondere la prevedibile caduta elettorale della sua formazione politica, Convergència i Unió (CyU), aggravata dallo scandalo fiscale che vede coinvolto il suo storico padrino Jordi Pujol in un accordo elettorale con Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), il partito da sempre orientato all’autodeterminazione e che ora i sondaggi danno vincente.

Mas teme inoltre, a ragione, che il braccio di ferro legale in corso finisca per logorare il consenso dei catalani nei confronti del processo indipendentista. Per il momento, tuttavia, Erc si oppone alle elezioni anticipate e insiste sulla consultazione indipendentista, decisa a capitalizzare a suo vantaggio il malessere crescente della popolazione verso l’intransigenza del governo Rajoy.

Crisi dello stato-nazione spagnolo 
La secolare questione catalana è tornata a galla l’11 settembre 2012, in occasione della Diada, ricorrenza nella quale si ricorda la resa di Barcellona, nel 1714, al Borbone Filippo V. Decine di migliaia di bandiere catalane hanno colorato una manifestazione oceanica, espressione di uno stato d’animo collettivo contrario allo stato spagnolo.

Il disagio sociale provocato dalle misure di austerità di cui erano considerati colpevoli sia Madrid che Barcellona, è stato abilmente sfruttato da Mas durante il comizio verso l’obiettivo dell’indipendenza.

Sfruttare questa antica rivendicazione per oscurare il profondo malessere sociale di larghi strati della popolazione rappresenta tuttavia un’operazione che rischia di avere il respiro corto.

Come ha detto il noto scrittore Julian Marias: “Se i catalani decidono di andar via, facciano pure. Ma lo facciano bene. Si ha l’impressione che tutto sia manipolato, troppo diretto”.

Siamo dunque di fronte a complesse manovre e scelte tattiche la cui evoluzione è difficile ipotizzare. Il tema divide radicalmente la società spagnola e perfino le singole famiglie. Soprattutto, ma non solo, in Catalogna.

Per i partiti è in gioco il loro futuro di fronte a una inquietante crisi dello stato-nazione spagnolo. La destra in particolare, condizionata da antiche e tuttora radicate pulsioni centraliste e autoritarie (la vecchia ideologia nazional-cattolica) continua a esprimere un impaccio culturale di fondo di fronte ai conflitti che suscitano dinamiche emotive di lunga durata.

Lo si è visto nella gestione della riforma sull’aborto (conclusa con un clamoroso passo indietro del governo di fronte a una maggioranza di elettori conservatori che chiedevano il pieno rispetto dei diritti acquisiti).

Le difficoltà riguardano anche l’opposizione socialista. La generica proposta di nuova Costituzione federale dei socialisti non appare convincente e per ora non trascina la gente.

Tra l’indipendenza strappata ad ogni costo e la rigida difesa delle attuali strutture statali della destra al potere sembra per il momento non esserci una valida terza via. Il tutto s’intreccia con la crisi di rappresentanza dei due principali partiti, i popolari del Pp e i socialisti del Psoe, che non riescono a recuperare la verticale caduta di consenso che la crisi economica e la diffusa corruzione hanno alimentato verso le diverse elite (anche in Spagna la “casta” è sotto accusa).

Appare in definitiva chiaro che la questione catalana è legata al nuovo clima creato dal crescente conflitto tra la generazione che ha vissuto la transizione post franchista e quella che invece ritiene tale fase conclusa e ora cerca il suo superamento con formule innovative di partecipazione democratica.

Lo dimostra il successo imprevisto della formazione Podemos, espressione di una protesta non tradizionale che i sondaggi danno in continua crescita a scapito soprattutto dei socialisti.

Marco Calamai è giornalista e scrittore.
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Unione Europa: scrutiamo il futuro della sua politica estera

a nuova Alta rappresentante dell’Unione europea
Mogherini e Ashton, troviamo le differenze
Lorenzo Vai
16/10/2014
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Le quasi tre ore di audizione affrontate da Federica Mogherini, Alto rappresentante (Ar) designato per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea (Ue), davanti ai membri della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo, sono andate bene.

Nessuna domanda sembra aver colto impreparata l’attuale Ministro degli Affari Esteri italiano, che ha retto bene la “interrogazione” riuscendo a dribblare i temi più caldi (crisi in Ucraina e Vicino-Oriente su tutti), oltre a scacciare i timori che aleggiavano nei confronti della sua inesperienza. Insomma, l’ufficiale investitura tramite il voto del Parlamento europeo (Pe), previsto per mercoledì 22 ottobre, appare ormai come una formalità.

Per dovere di cronaca, bisogna dire che l’interrogazione della “studentessa” Mogherini non sembra aver incontrato un “professore” troppo severo (meglio non farlo sapere alla rimandata, in Slovenia, Alenka Bratušek).

Diverse delle questioni poste alla futura Ar hanno trovato risposte generiche, che sembrano aver tuttavia soddisfatto i membri della Commissione, rivelatisi bendisposti - dopo anni di pragmatismo “insulare” - davanti all’europeismo sfoggiato da Mogherini, e sicuramente consci delle difficoltà che l’attendono.

Difficoltà che il suo predecessore Catherine Ashton ha avuto modo di conoscere fin troppo bene negli ultimi cinque anni, pagando un prezzo in critiche forse superiore alle proprie mancanze personali (il dibattito, ormai sterile, rimane aperto).

Promesse di discontinuità
Se un confronto tra i due profili rischia di risultare prematuro, l’audizione e le prime scelte del Ministro italiano hanno però già messo in luce alcune differenze rispetto alla precedente gestione. Ad iniziare dalla decisione di spostare l’ufficio dell’Alto rappresentante dal Triangle Building, sede del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), a Palazzo Berlaymont, sede della Commissione.

Un trasloco per ora simbolico, ma teso ad affermare l’esplicita volontà di perseguire un maggior attivismo all’interno del collegio dei commissari - di cui l’AR non a caso è vicepresidente - ed una più presente azione di coordinamento delle politiche comunitarie aventi proiezioni esterna.

Una scelta che si discosta dalla maggior attenzione dedicata da Lady Ashton ai lavori del Consiglio dell’Ue riguardanti la Politica estera di sicurezza comune (Pesc), la componente di high politics intergovernativa dell’azione esterna dell’Unione.

Proprio sul fronte Pesc, un cambio di atteggiamento anticipato da Mogherini potrebbe riguardare la visione strategica della politica estera europea, una cui esplicita formulazione risulta oggi assente o non aggiornata (l’ultima revisione della Strategia europea di sicurezza risale al 2008).

L’apertura della nuova Ar verso la stesura di un simile documento d’indirizzo sembra quindi sconfessare la ritrosia mostrata dal suo predecessore nei confronti di qualsiasi strategia a medio-lungo termine.

Per quanto riguarda invece i rapporti con il Parlamento europeo, Mogherini si è dimostrata attenta a comprenderne da subito l’importanza, sia per gli equilibri istituzionali sia per il rafforzamento della legittimità democratica dell’azione esterna.

Nonostante in materia di Pesc il ruolo del Pe risulti quasi esclusivamente di consultazione o informazione, è apparso da subito chiaro l’impegno da parte della neo-Ar nel promettere un maggior numero di audizioni ed incontri, sia formali che informali.

Anche in questo caso si tratta di un cambio di rotta rispetto ad Ashton, volenterosa ma troppo spesso assente di fronte alla Commissione Affari esteri e alla plenaria del Pe.

Vecchie e nuove sfide
Sebbene la fiducia iniziale non si neghi (quasi) a nessuno, potrebbe risultare più difficile del previsto la razionalizzazione dei processi decisionali in seno agli organi adibiti a delineare ed attuare la politica estera europea, comunitaria o intergovernativa che sia. Un problema causa di molte inefficienze, del quale Mogherini si è dimostrata a conoscenza (lo aveva già sollevato Ashton nel suo riesame del Seae), ma vaga sul come risolverlo.

Tralasciando l’importante lavoro di revisione della struttura e del funzionamento del Seae (una macchina burocratica con circa 3400 dipendenti e mezzo miliardo di euro di budget annuo) che l’Ar sarà chiamata a svolgere nei prossimi mesi, o l'atteso rilancio di strumenti politici rimasti fino ad ora inutilizzati (basti pensare alla cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa), il primo banco di prova per tracciare qualche auspicabile differenza tra chi si è avvicendato alla conduzione della politica estera europea rimangono le crisi.

A Catherine Ashton toccarono le rivoluzioni arabe, e non le andò benissimo. A Federica Mogherini non sembra essere andata molto meglio. La crisi in Ucraina, con l’inverno alle porte e i venti di guerra al confine della Turchia, potrebbe trasformare il suo primo giorno di lavoro in un incubo.

Aspettando quindi di capire se l’elezione di Mogherini ad Alto rappresentante diventerà una bella notizia per l’intera Ue, più che una semplice vittoria per l’Italia, non ci resta che augurarle un sentito “in bocca al lupo”: ne avrà bisogno, chieda ad Ashton.

Articolo pubblicato su Centro studi sul federalismo.

Lorenzo Vai è è assistente di ricerca dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.
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